Renal Damage and Obesity: a Silent Pairing

Abstract

Obesity is recognized as a true chronic disease and an independent risk factor for kidney disease. In particular, a correlation was observed between obesity and the development of focal segmental glomerulosclerosis. The clinical consequences of obesity on the kidney can include albuminuria, nephrotic syndrome, nephrolithiasis, and increased risk of development and progression of renal failure. Conventional therapy, which includes low-calorie diet, exercise, lifestyle changes, and drug therapy, including GLP1-RA, phentermine, phentermine/topiramate, bupropion/naltrexone, orlistat, is not always able to achieve the desired results and above all does not guarantee stabilization of body weight over time. On the other hand, bariatric surgery is giving excellent results in terms of efficacy and duration. Bariatric surgery techniques that are generally divided into restrictive, malabsorptive, and mixed are not free from possible metabolic complications such as anemia, vitamin deficiency, and stones. However, they are able to ensure a good maintenance of weight loss obtained with disappearance or reduction of the incidence and severity of comorbidities related to obesity.

Keywords: obesity, renal failure, bariatric surgery, sleeve gastrectomy

Sorry, this entry is only available in Italian.

Introduzione

L’obesità è ormai riconosciuta una vera malattia e un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di malattia renale cronica [1]. Si stima che al mondo ci siano circa 600 milioni di persone affette da obesità [2]. Secondo il Rapporto Osservasalute del 2016 che fa riferimento ai risultati dell’Indagine Multiscopo dell’Istat “Aspetti della vita quotidiana” emerge che nel 2015, in Italia, più di un terzo della popolazione era in sovrappeso (35,3%) e una persona su dieci era obesa (9,8%). Complessivamente il 45,1% dei soggetti di età superiore ai 18 anni era in eccesso ponderale [3].

In epoca più recente, il 9° Rapporto sull’obesità in Italia [4], curato dall’Istituto Auxologico Italiano, ha evidenziato come, secondo una stima provvisoria per il 2020, su 10 uomini adulti 6 sono in sovrappeso, su 10 donne invece 4 sono in sovrappeso. In entrambi i sessi la prevalenza è maggiore nella fascia d’età compresa tra i 65 e i 74 anni. Anche per quanto riguarda l’obesità, come per il sovrappeso, la popolazione maggiormente colpita è quella maschile: l’11,7% tra gli uomini e il 10,3% tra le donne. Se invece si considera la grave obesità (caratterizzata da un BMI superiore a 35) dal rapporto si evince che ne risultano colpite in Italia oltre un milione di persone, pari al 2,3% degli adulti e in questi casi le donne sono maggiormente interessate [4].

Il gradiente geografico è chiaramente a sfavore delle regioni meridionali. Complessivamente, nel Nord-ovest e nel Centro Italia la prevalenza dell’obesità si attesta al 10% mentre nel Nord-est e nelle isole il valore raggiunge l’11,4%; al Sud sale al 12,4%. Le percentuali non sono migliori quando spostiamo l’attenzione dagli adulti ai bambini e agli adolescenti. In Italia tra i giovani la prevalenza di obesità è del 18% nei bambini e del 19% negli adolescenti. Anche in questo caso c’è una grossa differenza tra nord e sud. Al Sud il 34,1% della popolazione 3-17 anni è obesa, al Nord-ovest il 20,0%; il 22,4% al Nord-est, il 23,9% al Centro e il 28,4% nelle isole. Le percentuali maggiori riguardano la Campania (37,8%), il Molise (33,5%), la Basilicata (32,4%), Abruzzo e Puglia (31,2%) [4].

L’obesità è ormai riconosciuta come un fattore di rischio indipendente di malattia renale cronica e di progressione verso l’End-Stage Renal Disease (ESRD). In particolare, è stata osservata una correlazione tra obesità e sviluppo di glomerulosclerosi focale segmentale (GSFS). Le conseguenze cliniche dell’obesità sul rene possono includere albuminuria, sindrome nefrosica, nefrolitiasi, aumentato rischio di sviluppo e di progressione dell’insufficienza renale.

La terapia convenzionale dell’obesità, che include dieta ipocalorica, esercizio fisico, modifiche dello stile di vita e terapia farmacologica, non è sempre in grado di ottenere i risultati sperati e soprattutto non garantisce una stabilizzazione del peso corporeo a distanza di tempo. La chirurgia bariatrica sta dando, invece, risultati ottimi in termini di efficacia e durata.

 

Misurazione dell’obesità: il concetto di “obesity paradox”

In medicina la definizione di obesità è sempre stata in evoluzione: molto spesso è stato necessario ricorrere a strumenti di misurazione indiretta per definire un paziente obeso o misurare il suo grado di obesità.

Dal punto di vista metabolico e soprattutto in correlazione con il rischio cardiovascolare, è molto importante classificare l’obesità in funzione della distribuzione del grasso (Tabella 1).

Tipo Obesità Localizzazione
Obesità viscerale Omento – Mesenteri -Retroperitoneo
Obesità centrale – addominale (androide) Omento – Mesenteri – Retroperitoneo e sottocutaneo addominale
Obesità periferica sottocutanea (ginoide) Fianchi – Cosce
Obesità generalizzata
Tabella 1: Classificazione dell’obesità in funzione della distribuzione del grasso.

Esistono diversi strumenti che possono essere impiegati per la misurazione indiretta dell’obesità o meglio della massa grassa di un soggetto:

  • il Body Mass Index (o BMI)
  • la plicometria
  • la bio-impedenziometria (o BIA)
  • la circonferenza addominale
  • il rapporto vita-fianchi

Body Mass Index

In base al Body Mass Index (BMI), indice rappresentato dal rapporto tra il peso del soggetto (kg) e il quadrato dell’altezza (m), l’OMS classifica l’obesità in tre gradi: obesità di I° grado (BMI tra 30 e 34,9 kg/m2), obesità di II° grado (BMI tra 35 e 39,9 kg/m2) e obesità di III° grado (BMI maggiore di 40 kg/m2). Il BMI è un dato biometrico ottenuto dalla deduzione del matematico e statistico belga Adolphe Quetelet. Egli condusse studi antropometrici sulla crescita umana ottenendo come conclusione dei suoi dati che il peso cresce con il quadrato dell’altezza, denominando il rapporto tra questi come indice di Quetelet [5], sostituito poi nel 1972 dal Body Mass Index introdotto dal fisiologo Ancel Keys.

Plicometria

La plicometria permette di stimare attraverso validate equazioni la densità corporea, la massa grassa e la massa magra grazie all’uso di un plicometro che consente di rilevare lo spessore delle pliche sottocutanee: le pliche interessate nella metodica sono quella tricipitale, sottoscapolare, sovrailiaca, pettorale, ascellare, addominale, quadricipitale [6].

Bioimpedenziometria

La bioimpedenziometria è una metodica utilizzata per studiare la composizione corporea, misurando l’impedenza del corpo al passaggio della corrente elettrica a bassa potenza e ad alta frequenza: essa viene impiegata anche per lo studio del paziente in emodialisi per valutare la TBW (Total body water) e la quota di ECW (extracellular-water) in eccesso.

Circonferenza addominale

La circonferenza della vita o circonferenza addominale invece è un parametro che correla indirettamente con l’obesità: i valori normali devono essere inferiori a 94 cm negli uomini e 80 cm nelle donne e viene misurata appena sopra l’ombelico (precisamente appena al di sopra della porzione superiore del bordo laterale della cresta iliaca). Una circonferenza superiore ad 88 cm nelle donne e 102 cm negli uomini viene definita obesità viscerale.  La circonferenza addominale riflette l’accumulo del grasso totale e addominale e rispecchia prevalentemente la presenza del grasso sottocutaneo addominale e non proprio il grasso viscerale.

Rapporto vita-fianchi

Il rapporto tra la circonferenza della vita e la circonferenza dei fianchi (o delle anche) definito anche WHR (waist/hip ratio) è il metodo maggiormente utilizzato per la valutazione della distribuzione del grasso corporeo negli studi epidemiologici. Quando il rapporto è maggiore di 0,92 nell’uomo e 0,82 nella donna si parla di obesità centrale: tali valori corrispondono all’85° percentile della distribuzione di tale indice nella popolazione generale.

Negli studi sull’obesità il parametro più impiegato è quello del BMI. Tuttavia, in alcuni trial sull’obesità i risultati talvolta possono essere inattesi o addirittura non previsti: in tali casi si parla di “paradigma del paradosso dell’obesità (Obesity Paradox)”, un fenomeno del tutto inaspettato osservato in alcune patologie. L’obesity paradox si osserva in tutti quei trial che si sono conclusi indentificando il BMI o l’obesità come fattori protettivi per la popolazione. È ovvio che tali risultati contrastino parecchio con i dati oggettivi e con i dati di rischio di mortalità dell’obesità nella popolazione generale in tutta la letteratura scientifica (concetto di “reverse epidemiology”): tale fenomeno tuttora non ha trovato una valutazione conclusiva che ne possa spiegare l’insorgenza.  Questo paradosso, secondo il quale sovrappeso e obesità migliorano la prognosi di alcune patologie di cui favoriscono l’insorgenza, è stato ampiamente documentato in corso di malattie cardiovascolari, insufficienza renale cronica, neoplasie, diabete e in altre patologie. Mentre secondo alcuni il fenomeno, sebbene non ancora chiaramente spiegato, esprime una realtà biologica, secondo altri esso è il risultato statistico di bias di selezione, di diversi fattori interferenti e principalmente dell’impiego del BMI come misura del grado di adiposità (BMI paradox).

Le ipotesi biologiche in merito al fenomeno dell’Obesity Paradox, vengono delineate in questa Review di Donini et al. [7] e sono influenzate da:

  • Struttura corporea e composizione corporea: l’aumento del peso corporeo e della massa grassa può alterare le conseguenze metaboliche delle malattie nei pazienti obesi e delle cure, a causa dell’aumento della massa muscolare e adiposa;
  • Metabolismo lipidico: alti livelli di colesterolo e lipoproteine possono migliorare l’effetto scavenging delle endotossine a differenza di quelli con livelli molto più bassi di colesterolo (più inclini all’endotossinemia) e alle sue conseguenze infiammatorie;
  • Rilascio di NT-proBNP dai cardiomiociti (per aumentata tensione di parete) dopo infarto del miocardio, è significativamente più basso nei pazienti obesi rispetto alla popolazione generale.
  • Produzione di fattori protrombotici (Trombossano B. et al.) che sono correlati negativamente con BMI e leptina: il rilascio di questi mediatori è mediato dall’endotelio e paradossalmente questi valori risultano nella norma nei soggetti con obesità rispetto ai non obesi proprio per un miglioramento paradossale della funzione endoteliale;
  • Aumentata sintesi di ghrelina (o grelina): ha un meccanismo compensatorio nell’ostacolare l’evoluzione dello scompenso cardiaco. La sintesi di ghrelina è aumentata nei pazienti obesi in quanto riduce il senso di sazietà e aumenta la fame e l’assunzione di cibo, favorendo l’insorgenza di obesità.
  • Produzione di citochine: il rischio cardiovascolare è incrementato dall’aumentata produzione di citochine infiammatorie come il TNF-alfa che si lega a recettori solubili del TNF-alfa tipo I e II che sono prodotti proprio dal grasso corporeo. Nei pazienti con scompenso cardiaco si osserva un’abnorme produzione di queste molecole infiammatorie che risulta altresì inferiore ai pazienti con obesità: l’elevata concentrazione di queste citochine dovrebbe determinare effetti negativi sul miocardio, che non si hanno nei pazienti con obesità [8]. Inoltre diverse adipochine (es: adiponectina, leptina, omentina, etc.) prodotte dal tessuto adiposo hanno dimostrato effetti protettivi sul rischio cardiovascolare, nonostante questo sia un paradosso [9].
  • Aspetti endoteliali e vascolari: una maggiore mobilizzazione delle cellule progenitrici endoteliali può proteggere i pazienti con obesità dall’aterogenesi attraverso la promozione di processi di rigenerazione del miocardio danneggiato e la neoangiogenesi. Questi processi favoriscono la riduzione delle resistenze del post-carico (dilatazione flusso-mediata e riduzione spessore medio-intima dei vasi) e al potenziamento della funzione contrattile del miocardio e dei processi metabolici dei cardiomiociti, alla riduzione dell’apoptosi e della fibrosi del miocardio. Pertanto si assiste ad un paradossale mantenimento della fisiologica struttura vascolare, cosa che in realtà non avviene [10].

Ad esempio, mentre nello studio di Clark et al. [11] l’elevato BMI sia un fattore riconosciuto per HF (Heart Failure), in parecchi altri trial l’analisi di coorte ha evidenziato come il BMI elevato risulterebbe un fattore protettivo contro lo scompenso cardiaco. Anche per ciò che concerne la coorte di pazienti con malattia renale o in emodialisi nello studio di Johansen et al. si è osservato come sia un effetto protettivo l’eccesso ponderale sulla sopravvivenza [12] mentre nello studio di Postorino et al. condotto su 537 pazienti in cui è stata utilizzata la misura della circonferenza della vita invece del BMI si è osservato che l’obesità rappresenta un fattore di rischio importante [13]. Il fenomeno dell’obesity paradox nei pazienti in emodialisi può essere spiegato sia per il fatto che l’obesità riduce in questi l’incidenza dello stato catabolico sia sulla maggiore incidenza di ipotensioni intradialitiche.

 

Meccanismi fisiopatologici di danno renale correlati all’obesità

Nel 1974 Weisinger descrisse per la prima volta l’associazione tra obesità e sindrome nefrosica, con remissione di quest’ultima in seguito a perdita di peso e recidiva dopo nuovo incremento ponderale [14]. Istologicamente si trattava di una glomerulosclerosi focale segmentale, dando origine al termine glomerulonefrite obesità-relata per indicare le forme di GSFS secondarie ad obesità. Oltre alla GSFS, istologicamente possono riscontrarsi ingrandimento glomerulare dovuto alla ialinosi e alla fibrosi, depositi di lipidi nelle cellule tubulari e mesangiali e adesione alla capsula di Bowman [15, 16]. L’accumulo di lipidi nel rene induce alterazioni strutturali e funzionali delle cellule mesangiali, dei podociti e delle cellule tubulari prossimali [17]. L’obesità aumenta, inoltre, la massa renale e il diametro glomerulare.

I meccanismi fisiopatologici alla base del danno renale secondario ad obesità sono diversi e complessi. Schematicamente distinguiamo alterazioni emodinamiche, attivazione del sistema renina-angiotensina, iperinsulinemia e resistenza all’insulina, infiammazione (effetti di adipochine).

Alterazioni emodinamiche

In caso di obesità aumentano il filtrato glomerulare, il flusso plasmatico renale, la frazione di filtrazione e il riassorbimento tubulare del sodio [18]. Diversi studi hanno evidenziato una chiara correlazione tra i diversi marker di obesità (BMI, circonferenza addominale e rapporto vita-fianchi) e il filtrato glomerulare [19, 20]. La vasodilatazione dell’arteriola afferente è la principale causa di aumentato flusso plasmatico renale.

L’iperfiltrazione glomerulare probabilmente provoca un danno podocitario con conseguente sviluppo della glomerulosclerosi spesso osservata in questi pazienti [21, 22]; inoltre, aumenta il riassorbimento tubulare del sodio come effetto dell’attivazione di trasportatori del sodio. La conseguente ridotta concentrazione di sodio nel tubulo distale attiva il feedback tubulo glomerulare e stimola la secrezione di renina da parte dell’apparato iuxtaglomerulare, con un meccanismo simile a quello dell’iperfiltrazione presente nella nefropatia diabetica [23, 24]. In seguito all’ipertensione intraglomerulare si verifica un aumentato stress meccanico sulla parete capillare sia circonferenziale che assiale che si trasmette ai podociti danneggiandoli [25]. Sono stati ritrovati nelle urine di adulti obesi con normoalbuminuria elevati livelli di mRNA associato ai podociti, tra cui nefrina, alfa-actina-4, alfa3beta1 integrina, TGF-beta suggerendo in questi soggetti un precoce danno podocitario [26].

Attivazione del sistema Renina-Angiotensina (RAA)

L’angiotensinogeno, normalmente prodotto dal fegato ma anche da altri tessuti tra cui il grasso viscerale, è aumentato nei soggetti obesi [27]. Il tessuto adiposo è anche in grado di convertire l’angiotensinogeno in angiotensina II (ATII) potenziando l’attivazione del sistema RAA [28]. Gli elevati livelli di ATII e l’aumentata espressione del suo recettore AT1 causano vasocostrizione arteriolare e aumento della filtrazione glomerulare contribuendo alla ritenzione di sodio e allo sviluppo di ipertensione [29].

Iperinsulinemia ed insulino-resistenza

Diverse evidenze suggeriscono che la resistenza insulinica, caratteristica dell’obesità, contribuisce al danno renale in quanto induce iperfiltrazione glomerulare, disfunzione endoteliale, aumentata permeabilità vascolare, angiogenesi [30]. L’insulina agisce direttamente sui podociti: studi in vitro hanno dimostrato che in seguito allo stimolo insulinico i podociti raddoppiano il trasporto di glucosio attraverso la trasposizione dei trasportatori GLUT1 e GLUT2 dai vacuoli intracellulari alla superficie di membrana podocitaria. I substrati 1 e 2 del recettore dell’insulina (IRS1/2) sono espressi sulle cellule epiteliali renali [31, 32]. Il legame a IRS 1/2 stimola la produzione di ossido nitrico [33]. Inoltre, l’insulina agisce sulle cellule tubulari prossimali promuovendo la formazione di TGF-b e collagene di tipo IV che contribuiscono alla fibrosi tubulointerstiziale.

Infiammazione

Alterati livelli di adipochine, citochine prodotte e rilasciate dal tessuto adiposo tra cui si annoverano leptina, adiponectina, resistina, visfatin, sono associati con lo sviluppo di GN correlate all’obesità. In particolare, la leptina aumenta l’espressione della metalloproteinasi-2 (MMP-2) nelle cellule renali mesangiali [34], stimola la produzione di TGF-b1 da parte dell’endotelio e causa ipertrofia mesangiale. A livello mesangiale agirebbe anche per via paracrina stimolando la produzione di collagene di tipo IV e la proliferazione delle cellule endoteliali glomerulari innescando la glomerulosclerosi [35, 36]. In aggiunta, la leptina aumenta lo stress ossidativo e la secrezione di citochine pro-infiammatorie come l’MPC-1 [37].

L’adiponectina, invece, è presente a livelli ridotti nei soggetti obesi. Bassi livelli di adiponectina sono correlati ad insulino-resistenza e allo sviluppo di malattia renale [38]. Nei ratti adiponectina-knockout è stata riscontrata albuminuria che regredisce con la somministrazione di adiponectina esogena [39].

Aumentati livelli di leptina e bassi livelli di adiponectina sono responsabili, nei soggetti obesi, anche dell’attivazione del sistema nervoso simpatico [40], contribuendo ulteriormente alla ritenzione di sodio [41].

 

Obesità e calcolosi

Nel 2005 Taylor et al. [42] hanno studiato l’associazione tra obesità e aumento di peso con il rischio di nefrolitiasi e la formazione di calcoli renali e del tratto urinario, osservando tre grandi coorti per un tempo di quarantasei anni e dimostrando che è la stessa condizione di obesità e di aumento del peso a predisporre a un aumentato rischio di nefrolitiasi. Il rischio risulta più alto nelle donne rispetto agli uomini. Un altro importante studio condotto da Powell et al. [43] ha usato dati di 5942 pazienti da un laboratorio di calcolosi renale valutando le differenze nell’escrezione urinaria delle 24 ore di metaboliti nei soggetti obesi. Hanno osservato che l’escrezione di calcio, ossalato e acido urico era essenzialmente aumentata nelle 24 ore. Inoltre, all’esame chimico fisico delle urine il pH era sempre su valori acidi, favorendo la precipitazione urinaria dei metaboliti urinari. Questa condizione ovviamente era più frequente nei soggetti obesi in cui non si osservavano elevati livelli di citrato urinario e alto flusso urinario, che contrastano la precipitazione urinaria. Inoltre si osservavano nei pazienti obesi elevati valori di solfato e sodio urinario, direttamente correlati all’elevato intake di sodio alimentare ma soprattutto di proteine di origine animale. Un ruolo significativo nei soggetti obesi è inoltre determinato dall’assunzione di cibi e bibite ricche di fruttosio: il fruttosio oltre a favorire l’aumento del peso corporeo, determina resistenza alla leptina, un ormone che da sempre influenza in maniera preponderante il rischio di obesità. Lo stesso fruttosio ad elevate concentrazioni nei pazienti obesi favorisce non solo l’aumentata escrezione urinaria di calcio, ma anche l’aumentata produzione di acido urico sierico favorendo quindi la cristallizzazione urinaria con calcolosi uratica e calcolosi ossalatica [44]. L’aumentato rischio di nefrolitiasi, associato all’ormai già noto rischio cardiovascolare, può accelerare o peggiorare il rischio di peggioramento della funzionalità renale.

 

Obesità e albuminuria

L’obesità quindi è un fattore riconosciuto che determina un danno renale: l’aumento della massa corporea induce iperfiltrazione glomerulare con modifiche della struttura glomerulare e tubulare, a causa dell’alterato riassorbimento di sodio; inoltre il rimodellamento del nefrone a causa del rilascio di citochine e adiponectine con rilascio di TGF beta ed attivazione di MMP con formazione di collageno, può sensibilmente peggiorare la prognosi dei pazienti obesi [45]. La concomitante diagnosi di diabete e ipertensione nei pazienti obesi aumenta largamente il rischio di albuminuria e proteinuria, ma i pazienti obesi presentano una prevalenza maggiore di proteinuria/albuminuria rispetto alla popolazione generale, anche in assenza di diabete mellito ed ipertensione, come valutato dal report di Chang [46]. In questo trial di reclutamento di pazienti obesi (n=218) da sottoporre a chirurgia bariatrica è stato osservato come la prevalenza dell’albuminuria e della proteinuria fosse sensibilmente maggiore rispetto alla popolazione generale nei pazienti con diabete mellito ed ipertensione (proteinuria 33,3% negli obesi e 22,6% negli ipertesi; albuminuria 41,5% nei diabetici, 17,7% negli ipertesi) mentre nei pazienti obesi in assenza di ipertensione e diabete mellito, sussisteva una prevalenza di proteinuria del 13,3% e di albuminuria dell’11% [47]. Nei pazienti obesi si è osservato che oltre alla perdita di peso e alla restrizione dell’introito di sale, la terapia anti-proteinurica con ACE-i /ARBs, riduce la pressione intraglomerulare, rallentando la progressione del danno renale [48]. La proteinuria nei pazienti obesi tendenzialmente si presenta in assenza di anomalie del sedimento urinario e soprattutto quasi sempre inferiore a 300 mg/die: in alcune eccezioni è possibile un riscontro di proteinuria in range nefrosico (talvolta associato anche a cilindri ialini-granulosi e lipidici) [19]. Nei soggetti obesi con sindrome nefrosica, talvolta potrebbe non presentarsi una condizione di ipoalbuminemia con edema tale da far pensare ad una sindrome nefrosica, pertanto l’esame delle urine risulta dirimente: una proteinuria in range nefrosico deve sempre far sospettare una sottostante nefropatia glomerulare [49].

 

Terapia non chirurgica dell’obesità

Nel 2013 una revisione sistematica di letteratura ad opera di Bolignano e Zoccali [50] ha incluso sei RCT che prevedevano modifiche dello stile di vita, un RCT sull’impiego di strategie farmacologiche e 24 studi osservazionali per esaminare gli effetti di queste strategie terapeutiche sui parametri renali nei pazienti obesi con alterata funzione renale. Negli RCT selezionati, le modifiche dello stile di vita prevedevano almeno una delle seguenti modifiche dietetiche combinate con l’esercizio fisico: dieta vegana ipocalorica, dieta ipocalorica (1000-1400 Kcal/die), dieta a basso contenuto di carne, dieta a restrizione di carboidrati; in questi gruppi si è dimostrato rispetto al gruppo controllo una riduzione del 31% della proteinuria ed un declino del filtrato glomerulare nel follow-up più lento. Nel Trial Look ARG [51] che è stato condotto successivamente al Trial Look AHEAD per valutare l’effetto delle modifiche dello stile di vita nella popolazione con obesità e diabete, si osservava come nel braccio dello studio comprendente le modifiche intensive dello stile di vita (i cui obiettivi erano: perdita di peso maggiore del 7%, dieta di 1200-1800 Kcal/die; riduzione della quota di grassi del 30%/die e aumento del 15%/die di proteine; oltre 175 minuti a settimana di esercizio fisico moderato) l’incidenza cumulativa a dieci anni per il rischio di peggioramento della funzionalità renale risultava sensibilmente minore del 31%. A sostegno di questo studio, l’analisi di Ibrahim e Weber [52] approfondiva proprio come nei pazienti obesi, la perdita di peso associata a strategie farmacologiche (tra cui ARBs e ACEi) favoriva non solo la stabilizzazione della perdita del filtrato glomerulare ma riduceva l’albuminuria (intesa come parametro ACR<300 mg/g/die).

Per quanto concerne la prima strategia farmacologica, ossia l’approccio dietetico, l’analisi di Tirosh et al. [53] ci è sembrata suggestiva: un RCT randomizzato di 322 pazienti obesi (99 con CKD stadio III, 23 con ACR > 30 mg/g) seguiti per un periodo di due anni inclusi in uno dei tre regimi dietetici associati (dieta low-fat, dieta mediterranea, dieta low-carb) in cui si è osservato che la dieta mediterranea e quella low-carb favorivano una perdita di peso maggiore (oltre i 4 kg in media) rispetto a quella low-fat (<3 kg in media). In un’analisi post hoc è stato appunto osservato che in tutti e tre i regimi dietetici associati si osservava un’incremento dell’eGFR rispetto al basale del 7,1% e una riduzione dell’ACR di circa 25 mg/g rispetto al basale. Ovviamente nell’analisi post-hoc non sono stati inclusi i pazienti in trattamento emodialitico cronico [54].

In aggiunta al cambiamento dello stile di vita alimentare e all’aumento dell’esercizio fisico settimanale, l’impiego di alcuni farmaci potrebbe sensibilmente favorire la perdita di peso: tra questi ricordiamo i GLP1-RA, fentermina, fentermina/topiramato, bupropione-naltrexone, orlistat. Nella Tabella 2 è possibile osservarne le caratteristiche e la prescrivibilità in base al filtrato glomerulare.

Farmaco Meccanismo di azione Effetti collaterali Effetti Renali Dosaggio
LIRAGLUTIDE

 

0,6 mg; 1,2 mg; 1,8 mg; 2,4mg; 3 mg.

Agonista recettoriale GLP-1: stimola secrezione insulina e inibisce glucagone. Regola appetito ed intake calorico. Ipoglicemia, aumento lipasi, nausea, vomito, diarrea. Escrezione 60% renale (metaboliti). Nessun aggiustamento di dosaggio. Dati limitati per l’uso in dialisi.
NALTREXONE/

BUPROPRIONE

 

8mg/90mg fino a 32mg/360mg die

Anoressizzante (esatto meccanismo non conosciuto).

Bupropione: inbitore reuptake dopamina e norepinefrina;

Naltrexone: antagonista oppioide.

Vertigini, nausea, mal di testa, secchezza delle fauci. Ipertensione e palpitazione. Incremento creatinina (inibizione OCT2). Escrezione urinaria: 87% buproprione, 79% naltrexone.

8mg/90mg fino a 32mg/360mg.

In caso di peggioramento della funzione ridurre dosaggio.

ORLISTAT

 

60 mg; 120 mg

Inibitore delle lipasi pancreatiche (azione nello stomaco e nel tenue). Perdita di feci dal retto, incontinenza fecale, flatulenza. Ridotto assorbimento delle vitamine liposolubili. Calcolosi ossalatica. Escrezione fecale (<2% nelle urine).

Somministrare Ciclosporina 3 ore dopo Orlistat.

Nessun aggiustamento di dose.

60 mg/die dose iniziale, fino a 120 mg/die

FENTERMINA

 

15 mg; 30 mg; 37,5 mg

Anoressizzante simpaticomimentico (esatto meccanismo non conosciuto). Palpitazioni, vertigini, turbe della libido, insonnia, secchezza delle fauci, nausea, vomito. Ipertensione, aumenta la pressione glomerulare.

 

Escrezione urinaria: controllare pH urinario.

Nessun aggiustamento di dose con eGFR > 30 ml/min (15-30 mg/die);

eGFR 15-29 ml/min: 15 mg/die.

Non consentito in dialisi.

FENTERMINA/

TOPIRAMATO

 

3,75/23 mg

7,5/46 mg

11,25/69 mg

15/92 mg

Anoressizzante,

modulatore GABA-r con effetto sipaticomimetico.

Parestesie, disgeusia, secchezza delle fauci, insonnia, costipazione. Tachicardia e palpitazioni. Acidosi metabolica. Nefrolitiasi. Incremento creatininemia, ipokalemia. Teratogenicità.

Nessun aggiustamento di dose fino ad

eGFR < 50 ml/min: dosaggio max 7,5/46mg/die.

Non raccomandato in dialisi.

Tabella 2: Farmaci prescrivibili per il trattamento dell’obesità ed effetti renali correlati [55].

Tra questi l’impiego del GLP-1 RA ha dimostrato effetti cardioprotettivi e nefroprotettivi come descritto in parecchi trial: nel RCT LEADER del 2018 l’impiego della liraglutide nei pazienti con DM II ha dimostrato una riduzione del rischio per eventi compositi renali e cardiovascolari (riduzione albuminuria e raddoppiamento della creatinemia) rispetto al placebo [56]. Anche il trial di Le Roux pubblicato nel 2017 su Lancet [57] ha preso in considerazione l’impiego del liraglutide per favorire la riduzione del peso corporeo nei pazienti in pre-diabete con BMI > 30 kg/m2 oppure < 27 kg/m2 ma con comorbidità: il trial ha avuto una durata di 3 anni (160 settimane) con un numero di 2254 partecipanti, ma solo 1128 hanno terminato lo studio e hanno preso in considerazione la somministrazione giornaliera di 3 mg rispetto al placebo dimostrando che si otteneva una perdita di peso di circa il 6% rispetto al placebo (1,9%), riducendo sensibilmente il rischio cardiovascolare e migliorando la tolleranza glucidica periferica, rallentando l’incidenza di diabete e in maniera correlata il rischio di obesità.

Per quanto concerne l’impiego del bupropione-naltrexone, un trial che indagava sugli effetti cardio-vascolari a lungo termine nei pazienti obesi che assumevano quest’associazione di farmaci e che ha selezionato in maniera randomizzata una coorte di pazienti in sovrappeso o obesi per valutare la probabilità di comparsa di MACE (Major Adverse Cardiovascular Events) a lungo termine, è stato interrotto prima del termine e prima di ottenere dati significativi [58]. Viene riportato sui dati forniti dalla FDA che la terapia a base di bupropione-naltrexone in un RCT non citato, riportava un incremento della creatinina sierica rispetto al follow-up e un rischio dello 0,6% di raddoppiamento della creatinina rispetto al gruppo placebo (0,1%) dopo un anno. L’incremento della creatinina sierica sembrerebbe dovuto al rilascio di metaboliti che interferiscono con la proteina OCT 2 (organic cationic transporter type 2): pertanto nessuno studio ne supporta l’impiego in CKD [59].

L’impiego dell’orlistat come farmaco anti-obesità è inusuale: inibitore delle lipasi gastriche e pancreatiche, che determina un malassorbimento nel tratto intestinale, causando una perdita di peso e riducendo il senso della fame. Non richiede aggiustamento di dose per malattia renale cronica, ma sono stati riportati alcuni casi di calcolosi ossalatica secondaria [60]. Altri dettagli in Tabella 2.

 

Tecniche di chirurgia bariatrica

Nel 2004 Christou [61] ha pubblicato i risultati al lungo termine della chirurgia bariatrica, mettendo a confronto pazienti operati e non. I pazienti operati presentavano una minore incidenza di cancro (2,0 vs 8,49%), una minore incidenza di accidenti cardiovascolari (4,73 vs 26,69%) ed una minore incidenza di disturbi endocrinologici (9.47 vs 27.25%), muscoloscheletrici (4,83 vs 11,90%), psichiatrici (4,35 vs 8,20%) e respiratori (2,71 vs 11,36%). La mortalità registrata nel corso dell’osservazione è stata dello 0,68% nel gruppo dei pazienti operati e del 6,17% nel gruppo dei pazienti non operati.

Numerosi altri lavori successivi [62, 63] hanno riportato analoghi risultati.

Le tecniche di chirurgia bariatrica vengono generalmente distinte in: restrittive, malassorbitive e miste.

Le procedure restrittive, che si basano sulla riduzione del volume gastrico, sono il bendaggio gastrico (o pallone gastrico), la gastroplastica verticale, la sleeve gastrectomy e la Bariclip.

L’idea di usare un pallone endogastrico (BIB: Bioenterics Intragastric Ballon) per il trattamento dell’obesità nacque dall’osservazione dei pazienti psichiatrici portatori di bezoari gastrici [64]. Si tratta di un dispositivo espansibile in silicone di forma sferica posizionato per via endoscopica. Una volta introdotto nel lume gastrico, il BIB viene riempito con soluzione fisiologica sterile (circa 500-600 ml) oppure con aria; in tal modo si riempie parzialmente lo stomaco inducendo un prematuro senso di sazietà. Il meccanismo d’azione è multifattoriale, includendo sia fattori fisiologici che neurormonali. Si tratta di un dispositivo temporaneo che può essere tenuto per sei mesi e che preserva l’anatomia dello stomaco. È indicato nei pazienti che presentano controindicazioni all’intervento o che rifiutano la chirurgia [65].

La sleeve gastrectomy è l’intervento maggiormente eseguito in Italia. Consiste in una gastrectomia verticale subtotale con conservazione del piloro e tubulizzazione dello stomaco residuo [66]. Quindi, a differenza della tecnica precedente, questo è un intervento irreverisibile che altera la normale anatomia dello stomaco. Si ottiene generalmente una perdita di circa il 60% del peso corporeo [67]. Presenta un minore tasso di mortalità rispetto al bypass gastrico e in generale un minor numero di complicanze post-operatorie [68]. La plicatura gastrica è un’evoluzione meno invasiva della sleeve gastrectomy in cui la riduzione di volume dello stomaco si ottiene ripiegandolo su se stesso e suturandone una parte.

La Bariclip, o gastroplastica con clip, consiste in una gastroplastica verticale ottenuta mediante una clip realizzata in titanio e rivestita in silicone che viene posizionata parallelamente alla piccola curvatura dello stomaco in modo da dividerlo in due parti: la parte più grande è esclusa [69].

Le procedure malassorbitive sono più invasive di quelle restrittive ma presentano maggiori probabilità di calo ponderale. Appartengono a questa categoria la diversione biliopancreatica secondo Scopinaro e Duodenal Switch, la diversione biliopancreatica con conservazione dello stomaco e il mini bypass gastrico.

La diversione biliopancreatica si ottiene eseguendo prima una gastrectomia subtotale e una resezione dell’ileo a 250 cm dalla valvola ileo-cecale; successivamente si connette il tratto distale al moncone gastrico mentre il tratto prossimale viene riconnesso a 50 cm dalla valvola ileocecale [70].

Il mini bypass gastrico consiste, invece, nella creazione di una tasca gastrica verticale di circa 60 ml che viene poi anastomizzata con un’ansa digiunale, bypassando in tal modo circa 180-250 cm di duodeno. In confronto al bypass gastrico Roux-en-Y, il mini bypass è una procedura tecnicamente più semplice e reversibile [71].

Tecnica mista è appunto il bypass gastrico, in cui si crea una piccola tasca nella parte superiore dello stomaco che viene collegata direttamente all’intestino tenue mediante un’ansa digiunale a forma di Y.

Nella Tabella 3 sono riassunte le caratteristiche delle principali tecniche chirurgiche.

Nel 2017 un trial pubblicato sul New England Journal of Medicine ha confrontato pazienti diabetici con BMI compreso tra 27 e 43 kg/m2 randomizzati a ricevere per il trattamento dell’obesità terapia medica intensiva, terapia medica intensiva combinata a bypass gastrico Roux-en-Y o sleeve gastrectomy: sono stati arruolati 150 pazienti per un follow-up di 5 anni in cui si è osservato che i pazienti arruolati nel braccio che comprendeva l’approccio terapeutico con terapia medica e chirurgia bariatrica presentavano un cambiamento nella percentuale di riduzione del BMI e un miglioramento dell’emoglobina glicata maggiore rispetto al braccio con solo terapia medica; inoltre i dati inerenti l’impiego della Roux-en-Y o della sleeve gastrectomy sul BMI erano sovrapponibili [72].

BENDAGGIO GASTRICO REGOLABILE SLEEVE    GASTRECTOMY BYPASS GASTRICO DIVERSIONE BILIOPANCREATICA
Calo ponderale 45% 55% 60% 65%
Rischio di recupero peso +++ ++ ++ +
Mortalità operatoria 0,1% 0,15% 0,54% 0,8%
Complicanze perioperatorie 1,9% 8,3% 14,2% 12,4%
Complicanze tardive 10,3% 3,7% 2,9% 6%
Complicanza metabolico-nutritive + ++ +++
% di reinterventi 7,6% 5,3% 3,3% 5,8%
% di miglioramento DM 50% 70% 84% 99%
Tabella 3: Caratteristiche delle principali tecniche chirurgiche (tratta da LG di Chirurgia Bariatrica della SICOB).

 

Effetti benefici della chirurgia bariatrica sulla funzione renale e sulla proteinuria

Diversi autori hanno riferito di effetti benefici della riduzione di peso ottenuta con la chirurgia bariatrica sulla funzione renale e sull’albuminuria.

Nel 2014 Chang et al. hanno riportato i risultati di uno studio condotto su 3134 soggetti sottoposti a chirurgia bariatrica e seguiti per una media di 2,4 anni. Ad un anno dall’intervento si osservava un aumento del GFR; in media ogni perdita di 5 kg era associata ad un aumento di 0,5 ml/min/1,73 m2 di filtrato glomerulare. In un sottogruppo di 108 pazienti si otteneva anche una significativa riduzione della proteinuria [73].

Buoni risultati sono stati riportati anche dal S.O.S. Study (Swedish Obesity Subject Study), uno studio svedese condotto da Carlsson per valutare gli effetti a lungo tempo della chirurgia bariatrica rispetto alla terapia non chirurgica sull’incidenza dell’albuminuria e che ha evidenziato una effettiva riduzione nel gruppo operato del 50% rispetto al gruppo controllo (non operato) [74].

Nel 2017 Neff et al hanno condotto uno studio prospettico su 190 pazienti sottoposti a bypass gastrico e 271 pazienti sottoposti a bendaggio gastrico regolabile laparoscopico, valutando la funzione renale, la pressione arteriosa e la glicemia in condizioni basali, a 1 anno e a 5 anni dall’intervento. Il GFR risultava aumentato a 5 anni dall’intervento sia nei pazienti sottoposti a bypass gastrico (GFR da 94 ± 2 a 102 ± 22 ml/min/1,73 m2) sia in quelli sottoposti a bendaggio (GFR da 88 ± 1 a 93 ± 22 ml/min/1,73 m2). Nei pazienti già affetti da insufficienza renale si riscontrava comunque un miglioramento del filtrato glomerulare a 5 anni (da 52 ± 2 a 68 ± 7 ml/min/1,73 m2). Migliori livelli pressori venivano raggiunti con il bypass (23 vs 11 % a 5 anni) [75].

Sheetz et al. nel 2020 hanno pubblicato i risultati di uno studio retrospettico condotto su 1597 pazienti sottoposti tra il 2006 e il 2015 a chirurgia bariatrica e confrontati con 4750 pazienti obesi trattati con terapia medica e non chirurgica. Nei soggetti operati si osservava una riduzione dei tassi di mortalità complessiva rispetto alle controparti non operate. Il follow-up dei pazienti è stato seguito per oltre sette anni dove è stato posto come outcome primario la mortalità per qualsiasi causa a cinque anni dall’intervento chirurgico, mentre come outcome secondario la mortalità per cause specifiche stratificate per: cardiovascolari, infezioni, sopravvivenza lontano dalla dialisi, altre cause. La curva di Kaplan-Meyer, per la stima dell’incidenza cumulativa degli outcome primario e secondario, ha dimostrato che durante il follow-up il rischio di morte per tutte le cause e per cause cardiovascolari risultava sensibilmente maggiore rispetto ai pazienti non trattati con chirurgia bariatrica. Nei pazienti portatori di trapianto renale, l’impiego della chirurgia bariatrica si associa a una maggiore sopravvivenza del graft a 5 anni [76].

Anche Canney ha dimostrato su 105 pazienti diabetici sottoposti a bypass gastrico una significativa riduzione della proteinuria, con completa remissione (ACR < 30 mg/g) in ben 82 pazienti [77].

Tutti questi studi sono dunque concordi, insieme a molti altri, nel riconoscere gli effetti benefici della chirurgia bariatrica sia sulla funzionalità renale che sulla proteinuria, indipendentemente dalla possibile lesione istologica sottesa. L’effetto sulla proteinuria potrebbe essere dovuto al miglioramento di vari fattori di rischio (tra cui diabete, ipertensione, sindrome metabolica), alla diversa alimentazione (drastica riduzione dell’assunzione di cibo dopo la chirurgia bariatrica), ad effetti diretti sui podociti. Futuri studi potranno sicuramente approfondire gli effetti renoprotettivi della chirurgia bariatrica in pazienti con insufficienza renale e proteinuria per meglio definire il rapporto rischi/benefici per ogni paziente.

 

Complicanze metaboliche e renali della chirurgia bariatrica

I benefici che si ottengono dalla chirurgia bariatrica sono notevoli, ma ovviamente essa non esclude alcune possibili complicanze metaboliche. In un RCT di Cohen [78] et al. si è indagato sugli effetti della chirurgia bariatrica e delle complicanze post-operatorie a trenta giorni, selezionando una coorte affetta da CKD e ESRD e si è evidenziato che i pazienti in ESRD hanno un alto rischio post-operatorio (sia di re-operazione che di ri-ospedalizzazione) a trenta giorni rispetto alla popolazione in CKD. Non è da trascurare i deficit nutrizionali determinati dalla sindrome da malassorbimento secondaria alla chirurgia: deficit di vitamine del gruppo B (tiamina, acido folico, cobalamina), vitamina D, vitamina A, calcio, rame, zinco e ferro favorendo soprattutto l’insorgenza di anemia sia ipo- che ipercromica, fratture ossee, ipoprotidemia. La nefrolitiasi associata a chirurgia bariatrica è stata approfondita nel trial di Lieske [79] et al. dove sono stati selezionati 759 pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica (RYGB, very-very long RYGB, altre procedure chirurgiche restrittive come bendaggio gastrico o sleeve gastrectomy) confrontati con gruppo controllo di 759 pazienti con caratteristiche di base similari (ipertensione, obesità, diabete, osteoartrite, apnea del sonno) e con incindenza di CKD e di nefrolitiasi similare nei due gruppi, all’inizio dello studio (10,4 % vs 8,7%). Al follow-up (in media a sei anni) si è osservato un’incidenza di nuovi casi di nefrolitiasi nei pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica rispetto al controllo (11,1% rispetto al 4,3%): precisamente l’incidenza risulta significativa nei primi due anni dopo l’intervento chirurgico. L’analisi dei calcoli espulsi ha dimostrato che erano prevalenti i calcoli di ossalato di calcio, in minima parte quelli di idrossiapatite, rari quelli di struvite e acido urico. Inoltre il rischio di nefrolitiasi era correlato anche alla tipologia di chirurgia bariatrica a cui i pazienti si erano sottoposti: il rischio risultava più alto nelle procedure malassorbitive e RYGB rispetto alle procedure restrittive (sleeve gastrectomy).

L’iperossaluria enterica associata a procedure chirurgiche malassorbitive si presenta a causa del malassorbimento degli acidi grassi. Questa condizione è frequente nei disordini gastrointestinali che colpiscono la mucosa del tratto ileale (resezione o bypass o sindrome dell’intestino corto) oppure in associazione ad insufficienza pancreatica. Il meccanismo con cui la RYGB e VLLRYGB (very-long-limb RYGB) lo scatenano non è ancora ben chiarito ma il malassorbimento degli acidi grassi e la steatorrea, conseguente alle suddette procedure di chirurgia bariatrica possono determinare la comparsa di calcoli renali da ossalato di calcio, causando o peggiorando una condizione di malattia renale cronica [80]. Non tutti i pazienti con malassorbimento degli acidi grassi, come osservato nei precedenti trial, sviluppano calcolosi renale. Uno studio osservazionale retrospettivo [81] su 51 pazienti ha osservato come la formazione di calcoli di ossalato di calcio risulta significativamente maggiore quando sussistono le seguenti condizioni rispetto al gruppo controllo: aumentata escrezione urinaria di ossalato (0,66 vs 0,38 mmol/die) con riduzione delle concentrazioni di citrato urinario (309 vs 607 mg/die) e sovrasaturazione dell’ossalato di calcio urinario per ridotto volume urinario. La meta-analisi condotta da Thongprayoon C. ha preso in considerazione quattro studi (un RCT, tre studi di coorte) [82] per un totale di 11 348 pazienti, incentrandosi sul rischio di calcolosi renale dopo RYGB, dopo procedure restrittive (bendaggio gastrico e sleeve gastrectomy) e dopo procedure malassorbitive includendo VLLRYGB e diversione bilio-pancreatica con switch duodenale. I risultati hanno dimostrato che le procedure malassorbitive favoriscono più facilmente l’incidenza di calcolosi per l’iperossaluria determinata (soprattutto con VLLRYGB e meno frequente con RYGB); mentre le procedure restrittive, che favoriscono comunque una significativa perdita di peso, spesso non si associano a comparsa di iperossalaturia (ma talvolta il ridotto introito idrico può favorire una ridotta diuresi, favorendo la cristalizzazione elettrolitica).

 

Conclusioni

La principale manifestazione clinica del danno renale nei pazienti obesi è rappresentata dalla proteinuria, nel 30% dei casi in range nefrosico [83].

La terapia dell’ORG si basa fondamentalmente sulla perdita di peso e sull’utilizzo di farmaci come GLP1-RA, fentermina, fentermina/topiramato, bupropione-naltrexone, orlistat. Quando però non si ottengono risultati con la terapia medica, ci si può avvalere della chirurgia bariatrica. Questa, senza dubbi non è priva di complicanze anche a lungo termine come l’anemia, i deficit vitaminici, la calcolosi. È però in grado di garantire un buon mantenimento del calo ponderale ottenuto con scomparsa o riduzione dell’incidenza e della gravità delle comorbilità legate all’obesità. La prevenzione del danno renale nel paziente obeso risulta importante ai fini della sua sopravvivenza: l’aumento del BMI si associa oltre al peggioramento della funzione renale e alla comparsa di nefropatie secondarie, ad un aumentato rischio cardiovascolare con aumento del tasso di mortalità rispetto alla popolazione generale.

 

Bibliografia

  1. Lakkis JI, Weir MR. “Obesity and kidney disease”, Prog Cardiovasc Dis (2018) 61:157-67. https://doi.org/10.1016/j.pcad.2018.07.005.
  2. Wells JCK “The diabesity epidemic in the light of evolution: insights from the capacity-load model”, Diabetologia (2019) 62:1740-50. https://doi.org/10.1007/s00125-019-4944-8.
  3. Istituto Superiore di Sanità – Sezione di Igiene “Rapporto Osservasalute 2016”. https://osservatoriosullasalute.it/osservasalute/rapporto-osservasalute-2016.
  4. Istituto Auxologico Italiano. “9° Rapporto sull’obesità in Italia”, Il Pensiero Scientifico Editore.
  5. Khosla T, Lowe CR. Indices of obesity derived from body weight and height. Br J Prev Soc Med 1967;21:122-128. https://doi.org/10.1136/jech.21.3.122.
  6. Brett S. Nickerson, Michael V. Fedewa e Zackary Cicone, The relative accuracy of skinfolds compared to four-compartment estimates of body composition, in Clinical Nutrition, vol. 39, n. 4, 2020-04, pp. 1112–1116, https://doi.org/10.1016/j.clnu.2019.04.018.
  7. Lorenzo Maria Donini, Alessandro Pinto  Anna Maria Giusti , Andrea Lenzi , Eleonora Poggiogallo, Obesity or BMI Paradox? Beneath the Tip of the Iceberg. Front Nutr. 2020 May 7;7:53. https://doi.org/10.3389/fnut.2020.00053.
  8. Hainer V, Aldhoon-Hainerová I. Obesity paradox does exist. Diabetes Care. (2013) 36(Suppl. 2):S276–81. https://doi.org/10.2337/dcS13-2023.
  9. Mattu HS, Randeva HS. Role of adipokines in cardiovascular disease. J Endocrinol. (2013) 216:T17–36. https://doi.org/10.1530/JOE-12-0232.
  10. Biasucci LM, Graziani F, Rizzello V, Liuzzo G, Guidone C, De Caterina AR, et al. Paradoxical preservation of vascular function in severe obesity. Am J Med. (2010) 123:727–34. https://doi.org/10.1016/j.amjmed.2010.02.016.
  11. Clark AL, Fonarow GC, Horwich TB (2014) Obesity and the obesity paradox in heart failure. Prog Cardiovasc Dis 56 (4):409-414. https://doi.org/10.1016/j.pcad.2013.10.004.
  12. Johansen KL, Young B, Kaysen GA, Chertow GM (2004) Association of body size with outcomes among patients beginning dialysis. Am J Clin Nutr 80(2):324-332. https://doi.org/10.1093/ajcn/80.2.324.
  13. Postorino M, Marino C, Tripepi G, Zoccali C; CREDIT (Calabria Registry of Dialysis and Transplantation) Working Group (2009) Abdominal obesity and all-cause and cardiovascular mortality in end-stage renal disease. J Am Coll Cardiol 53(15):1265-1272. https://doi.org/10.1016/j.jacc.2008.12.040.
  14. Weisinger JR, Kempson RL, Eldridge FL, Swenson RS “The nephrotic syndrome: a complication of massive obesity”, Ann Intern Med (1974) 81: 440-47 https://doi.org/10.7326/0003-4819-81-4-440.
  15. Kambham N, Markowitz GS, Valeri AM, LinJ, D’Agati VD “Obesity-related glomerulopathy: an emerging epidemic”, Kidney Int (2001) 59:1498-1509 https://doi.org/10.1046/j.1523-1755.2001.0590041498.x.
  16. Deji N, Kume S, Araki SI, Soumura M, Sugumoto T, Isshiki K, Chin-Hanasaki M, Sakaguchi M, Koya D, Hanesa M et al “Structural and functional changes in the kidneys of high-fat-diet-induced obese mice”, Am J Physiol Renal Physiol (2009) 296:F118-F126 https://doi.org/10.1152/ajprenal.00110.2008.
  17. Win Hlaing Than, Gordon Chun-Kau Chan, Jack Kit-Chung Ng, Cheuk-Chun Szeto “The role of obesity on chronic kidney disease development, progression, and cardiovascular complications”, Advances in Biomarker Sciences and Technology” (2020) 2:24-34. https://doi.org/10.1016/j.abst.2020.09.001.
  18. D’Agati V, Chagnac A, de Vries A et al. “Obesity-related glomerulopathy: clinical and pathologic characteristic and pathogenesis”, Nat Rev Nephrol (2016) 12:453-471 https://doi.org/10.1038/nrneph.2016.75.
  19. Praga M, Morales E. “The Fatty kidney: Obesity and Renal Disease”, Nephron (2017) 136:273-276. https://doi.org/10.1159/000447674.
  20. Bosma RJm van der Heide JJm Oosterop EI, de Jong PE, Navis G “Body mass index is associated with altered renal hemodynamics in non-obese healthy subjects”, Kindney Int (2004) 54:259-256. https://doi.org/10.1111/j.1523-1755.2004.00351.x.
  21. Chagnac A, Weinstein T, Koezets A, Ramadan E, Hirsch J, Gafter U. “Glomerular hemodynamics in severe obesity”, Am J Physiol Renal Physiol (2000) 278(5):F817-F822 https://doi.org/10.1152/ajprenal.2000.278.5.F817.
  22. Brenner BM, Lawler EV, Mackenzie HS “The hyperfiltration theory: a paradigm shift in nephrology”, Kidney Int (1996) 49:1774-1777. https://doi.org/10.1038/ki.1996.265.
  23. Zhang X, Lerman LO. “Obesity and renovascular disease”, Am J Physiol Ren Physiol (2015) 309:F273-F279. https://doi.org/10.1152/ajprenal.00547.2014.
  24. Camara NOS, Iseki K, Kramer H, LIU ZH, Sharma K. “Kidney disease and obesity: epidemiology, mechanisms and treatment”, Nat Rev Nephrol (2017) 13:181-190. https://doi.org/10.1038/nrneph.2016.191.
  25. Tobar A, Ori Y, Benchetrit S et al “Proximal tubular hypertrophy and enlarged glomerular and proximal tubular urinary space in obese subjects with proteinuria”, PloS One (2013) 8(9), e75547. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0075547.
  26. Pereira SV, Dos Santos M, Rodrigues PG et al. “Increased urine podocyte-associated messenger RNAs in severe obesity are evidence of podocyte injury”, Obesity (2015) 23(8):1643-1649. https://doi.org/10.1002/oby.21156.
  27. Hajer GR, van Haeften TW, Visseren FL “Adipose tissue dysfunction in obesity, diabetes, and vascular diseases”, Eur Heart J (2008) 29(24):2959-2971. https://doi.org/10.1093/eurheartj/ehn387.
  28. Harte A, McTernan P, Chetty R et al. “Insulin-mediated upregulation of the renin angiotensin system in human subcutaneous system in human subcutaneous adipocytes is reduced by rosiglitazone” Circulation (2005) 111:1954-1961 https://doi.org/10.1161/01.cir.0000161954.17870.5d.
  29. Kennedy CR, Burns KD “Angiotensin II as a mediatord of renal tubular transport”, Contrib Nephrol (2001); 135:47-62. https://doi.org/10.1159/000060156.
  30. Groop PH, Forsblom C, Thomas MC “Mechanisms of disease: pathway-selective insulin resistance and microvascular complications of diabetes”, Nat Clin Pract Endocrinol Metab (2005) 1:110-110. https://doi.org/10.1038/ncpendmet0046.
  31. Mima A, Ohshiro Y, Kitada M, Matsumoto M, Geraldes P, Li C, Li, Q, White G S, Cahill C, Rask-Madsen C, L King G. “Glomerular-specific protein kinase C-b-induced insulin receptor substrate-1 dysfunction and insulin resistance in rat models of diabetes and obesity”, Kidney Int (2001) 79(8):883-896. https://doi.org/10.1038/ki.2010.526.
  32. Hookham MB, O’Donovan HC, Church RH, Mercier-Zuber A et al “Insulin receptor substrate-2 is expressed in kidney epithelium and up-regulated in diabetic nephropathy”, FEBS J (2013); 280(14):3232-3243 https://doi.org/10.1111/febs.12305.
  33. Manrique C, Lastra G, Sowers JR “New insights into insulin action and resistance in the vasculature”, Ann N Y Acad Sci (2014); 1311:138-150 https://doi.org/10.1111/nyas.12395.
  34. Lee MP, Madani S, Sekula D, Sweeney G “Leptin increases expression and activity of matrix metalloptoteinase-2 and does not alter collagen production in rat glomerular mesangial cells”, Endocr Res (2005); 31:27-27 https://doi.org/10.1080/07435800500229011.
  35. Wolf G, Chen S, Han DC et al “Leptin and renal disease”, Am J Kidney Dis (2002); 39:1-11 https://doi.org/10.1053/ajkd.2002.29865.
  36. Wolf G, Hamann A, Han DC et al “Leptin stimulates proliferation and TGF-beta expression in renal glomerular endothelial cells: potential role in glomerulosclerosis”, Kidney Int (1999); 56:860-872 https://doi.org/10.1046/j.1523-1755.1999.00626.x.
  37. Yamagishi SI, Edelstein D, Du XI, Kaneda Y, Guzman M, Brownlee M “Leptin induces mithocondrial superoxide production and monocyte  chemoattractant protein-1 expression in aortic endothelial cells by increasing fatty acid  oxidation via protein kinase A” J Biol Chem (2001); 276:25096-25100 https://doi.org/10.1074/jbc.m007383200.
  38. Hall JE, do Carmo JM, da Silva AA, Wang Z, Hall ME “Obesity, kidney dysfunction and hypertension: mechanistic links”, Nat Rev Nephrol (2019); 15:367-385 https://doi.org/10.1038/s41581-019-0145-4.
  39. Sharma K, Ramachandra Rao S, Qiu G, Usui HK, Zhu Y, Dubb SR et al “Adiponectin regulates albuminuria and podocyte function in mice”, J Clin Invest (2008); 118:1645-1656 https://doi.org/10.1172/jci32691.
  40. Hall JE, do Carmo JM, da Silva AA et al “Obesity-induced hypertension: role of sympathetic nervous system, leptin, and melanocortins”, J Biol Chem (2010); 285(23):17271-17276 https://doi.org/10.1074/jbc.r110.113175.
  41. Esler M, Straznichy N, Eikelis N, Masuo K, Lambert G, Lamberty E “Mechanisms of sympathetic activation in obesity-related hypertension”, Hypertension (2006); 48(5):787-796 https://doi.org/10.1161/01.hyp.0000242642.42177.49.
  42. Taylor EN, Stampfer MJ, Curhan GC “Obesity, weight gain, and the risk of kidney stones”, JAMA (2005) Jan 26;293(4):455-62 https://doi.org/10.1001/jama.293.4.455.
  43. Powell CR, Stoller ML, Schwartz BF et al. “Impact of body weight on urinary electrolytes in urinary stone formers”, Urology (2000) 55: 825-830 https://doi.org/10.1016/s0090-4295(99)00617-2.
  44. Taylor EN, Curhan GC “Fructose consumption and the risk of kidney stones”, Kidney Int. (2008); 73: 207-212 https://doi.org/10.1038/sj.ki.5002588.
  45. Chagnac A, Weinstein T, Korzets A, Ramadan E, Hirsch J, Gafter U, “Glomerular hemodynamics in severe obesity”, Am J Physiol Renal Physiol (2000) 278(5):F817–22 https://doi.org/10.1152/ajprenal.2000.278.5.f817.
  46. Chang Y, Ryu S, Choi Y, Zhang Y, Cho J, Kwon MJ, et al. “Metabolically healthy obesity and development of chronic kidney disease”, Ann Intern Med (2016) 164(5):305–12 https://doi.org/10.7326/m15-1323.
  47. Rosenstock JL, Pommier M, Stoffels G, Patel S, Michelis MF “Prevalence of Proteinuria and Albuminuria in an Obese Population and Associated Risk Factors”, Front Med (Lausanne). 2018 Apr 30;5:122 https://doi.org/10.3389/fmed.2018.00122.
  48. Praga M, Morales E “Obesity, proteinuria and progression of renal failure” Curr Opin Nephrol Hypertens. 2006 Sep;15(5):481-6 https://doi.org/10.1097/01.mnh.0000242172.06459.7c.
  49. Praga M, Hernández E, Morales E, Campos AP, Valero MA, Martínez MA, León M: “Clinical features and long-term outcome of obesity-associated focal segmental glomerulosclerosis”, Nephrol Dial Transplant (2001);16:1790-1798 https://doi.org/10.1093/ndt/16.9.1790.
  50. Bolignano D, Zoccali C “Effects of weight loss on renal function in obese CKD patients: a systematic review”, Nephrol Dial Transplant (2013) 28 Suppl 4:iv82–98 https://doi.org/10.1093/ndt/gft302.
  51. Look AHEAD Research Group “Effect of a long-term behavioural weight loss intervention on nephropathy in overweight or obese adults with type 2 diabetes: a secondary analysis of the Look AHEAD randomised clinical trial”, Lancet Diabetes Endocrinol (2014) Oct;2(10):801-9 https://doi.org/10.1016/s2213-8587(14)70156-1.
  52. Ibrahim HN, Weber ML “Weight loss: a neglected intervention in the management of chronic kidney disease”, Current Opinion in Nephrology and Hypertension. 2010;19:534–538 https://doi.org/10.1097/mnh.0b013e32833f13de.
  53. Tirosh A, Golan R, Harman-Boehm I, Henkin Y, Schwarzfuchs D, Rudich A et al. “Renal function following three distinct weight loss dietary strategies during 2 years of a randomized controlled trial”, Diabetes Care. 2013;36(8):2225–32 https://doi.org/10.2337/dc12-1846.
  54. Kramer H, Jimenez EY, Brommage D, Vassalotti J, Montgomery E, Steiber A et al. “Medical Nutrition Therapy for Patients with Non-Dialysis-Dependent Chronic Kidney Disease: Barriers and Solutions”, J Acad Nutr Diet. 2018;118(10):1958–65 https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/30076072/.
  55. Khera R, Murad MH, Chandar AK, Dulai PS, Wang Z, Prokop LJ et al. “Association of Pharmacological Treatments for Obesity With Weight Loss and Adverse Events: A Systematic Review and Meta-analysis”, Jama. 2016;315(22):2424–34 https://doi.org/10.1001/jama.2016.7602.
  56. Marso SP, Daniels GH, Brown-Frandsen K, Kristensen P, Mann JF, Nauck MA, et al. “Liraglutide and Cardiovascular Outcomes in Type 2 Diabetes”, N Engl J Med. 2016;375(4):311–22. https://doi.org/10.1056/nejmoa1603827.
  57. le Roux CW, Astrup A, Fujioka K, Greenway F, Lau DCW, Van Gaal L, et al. “3 years of liraglutide versus placebo for type 2 diabetes risk reduction and weight management in individuals with prediabetes: a randomised, double-blind trial”, Lancet. 2017;389(10077):1399–409. https://doi.org/10.1016/s0140-6736(17)30069-7.
  58. Nissen SE, Wolski KE, Prcela L, Wadden T, Buse JB, Bakris G, et al. “Effect of Naltrexone-Bupropion on Major Adverse Cardiovascular Events in Overweight and Obese Patients With Cardiovascular Risk Factors: A Randomized Clinical Trial”, Jama. 2016;315(10):990–1004 https://doi.org/10.1001/jama.2016.1558.
  59. Chintam K, Chang AR: “Strategies to Treat Obesity in Patients With CKD”, Am J Kidney Dis. 2021 March ; 77(3): 427–439 https://doi.org/10.1053/j.ajkd.2020.08.016.
  60. Lumlertgul N, Siribamrungwong M, Jaber BL, Susantitaphong P: “Secondary Oxalate Nephropathy: A Systematic Review”, Kidney Int Rep. 2018;3(6):1363–72 https://doi.org/10.1016/j.ekir.2018.07.020.
  61. Christou NV, Sampalis JS, Liberman M, Look D, Auger S, McLean A, MacLean LD “Surgery decreases long-term mortality, morbidity, and health care use in morbidly obese patients”, Ann Surg (2004); 240(3):416-424 https://dx.doi.org/10.1097%2F01.sla.0000137343.63376.19.
  62. Sjöström L, Lindroos AK, Peltonen M, Torgerson J, Bouchard C, Carlsson B, Dahlgren S, Larsson B, Narbro K, Sjöström CD, Sullivan M, Wedel H; Swedish Obese Subjects Study Scientific Group “Lifestyle, diabetes, and cardiovascular risk factors 10 years after bariatric surgery”, N Eng J Med (2004); 351(26):2683-2693 https://doi.org/10.1056/nejmoa035622.
  63. Buchwald H, Avidor Y, Braunwald E, Jensen MD, Pories W, Fahrbach K, Schoelles K “Bariatric surgery: a systematic review and meta-analysis”, Jama (2004); 292(14):1724-1737 https://doi.org/10.1001/jama.292.14.1724.
  64. Swidnicka-Siergiejko A, Wróblewski E, Andrzej D: “Endoscopic treatment of obesity”, Can J Gastroenterol. 2011 Nov;25(11):627-33 https://doi.org/10.1155/2011/174163.
  65. Tottè E, Hendrickx L, Pawels M, Van Heeh: “Weight reduction by means of intragastric device: Experience with the bioenterics intragastric ballon”, Obes Surg. 2001 Aug;11(4):519-23 https://doi.org/10.1381/096089201321209459.
  66. Felsenreich DM, Bichler C, Langer FB, Gachabayov M, Prager G: “Sleeve Gastrectomy: Surgical Technique, Outcomes, and Complications”, Surg Technol Int. 2020 May 28;36:63-69. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32359172/.
  67. Rosen DJ, Dakin GF, Pomp A: “Sleeve gastrectomy”, Minerva Chir 2009 Jun; 64(3):285-95. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/19536054/.
  68. Climaco K, Ahnfeldt E: “Laparoscopic vertical sleeve gastrectomy”, Surg Clin North Am. 2021 Apr;101(2):177-188 https://doi.org/10.1016/j.suc.2020.12.015.
  69. Rahman R, Azagury DE: “Novel techniques in bariatric surgery”, Minerva Chir.”017 Apr;72(2):125-139 https://doi.org/10.23736/s0026-4733.16.07265-5.
  70. Scopinaro N, Adami GF, Marinari GM, Gianetta E, Traverso E, Friedman D, Camerini G, Baschieri G, Simonelli A: “Biliopancreatic diversion” World J Surg. 1998 Sep;22(9):936-46. https://doi.org/10.1007/s002689900497.
  71. Wang FG, Yan WM, Yan M, Song MM: “Outcomes of mini vs Roux-en-Y gastric bypass: a meta-analysis and systematic review”, Int J Surg. 2018 Aug;56:7-14 https://doi.org/10.1016/j.ijsu.2018.05.009.
  72. Schauer PR, Bhatt DL, Kirwan JP, Wolski K, Aminian A, Brethauer SA, Navaneethan SD, Singh RP, Pothier CE, Nissen SE, Kashyap SR; STAMPEDE Investigators “Bariatric Surgery versus Intensive Medical Therapy for Diabetes – 5-Year Outcomes”, N Engl J Med. 2017;376(7):641–51 https://doi.org/10.1056/nejmoa1600869.
  73. Chang SH, Stoll CR, Song J, Varela JE, Eagon CJ, Colditz GA: “The effectiveness and risks of bariatric surgery: an updated systematic review and meta-analysis, 2003-2012”, Jama Surg 2014 Mar;149(3):275-87. https://doi.org/10.1001/jamasurg.2013.3654.
  74. Carlsson LM, Romeo S, Jacobson P et al “The incidence of albuminuria after bariatric surgery and usual care in Swedish Obese Subjects (SOS): a prospective controlled intervention trial”, Int J Obes (2015); 39(1):169-175 https://doi.org/10.1038/ijo.2014.72.
  75. Neff KJ, Baud G, Raverdy V, Caiazzo R, Verkindt H, Noel C, le Roux CW, Pattou F “Renal function and remission of hypertension after bariatric surgery: a 5-years prospective cohort study”, Obes Surg (2017); 27(3):613-619 https://doi.org/10.1007/s11695-016-2333-7.
  76. Sheetz KH, Gerhardinger L, Dimick JB, Waits SA “Bariatric surgery and long-term survival in patients with obesity and end-stage kidney disease”, Jama Surg (2020); 155(7):581-588 https://doi.org/10.1001/jamasurg.2020.0829.
  77. Canney Al, Cohen RV, Elliot JA, Aboud CM, Martin WP, Docherty MG, le Roux CW “Improvements in diabetic albuminuric and podocyte differentiation following Roux-en-Y gastric bypass surgery”, Diab Vasc Dis Res (2020); 17(1):1-5 https://doi.org/10.1177/1479164119879039.
  78. Cohen JB, Tewksbury CM, Torres Landa S, Williams NN, Dumon KR “National Postoperative Bariatric Surgery Outcomes in Patients with Chronic Kidney Disease and End-Stage Kidney Disease”, Obes Surg. 2019;29(3):975–82 https://doi.org/10.1007/s11695-018-3604-2.
  79. Lieske JC, Mehta RA, Milliner DS, Rule AD, Bergstralh EJ, Sarr MG “Kidney stones are common after bariatric surgery”, Kidney international (2015);87(4):839–45 https://doi.org/10.1038/ki.2014.352.
  80. Nasr SH, D’Agati VD, Said SM, et al “Oxalate nephropathy complicating Roux-en-Y Gastric Bypass: an underrecognized cause of irreversible renal failure”, Clin J Am Soc Nephrol. (2008);3:1676–1683 https://doi.org/10.2215/cjn.02940608.
  81. Siener R, Petzold J, Bitterlich N, et al “Determinants of urolithiasis in patients with intestinal fat malabsorption”, Urology. 2013;81:17–24 https://doi.org/10.1016/j.urology.2012.07.107.
  82. Kambham N, Markowitz GS, Valeri AM, Lin J, D’Agati VD: “Obesity-related glomerulopathy: an emerging epidemic”, Kidney Int 2001; 59:1498-1509 https://doi.org/10.1046/j.1523-1755.2001.0590041498.x.
  83. Thongprayoon C, Cheungpasitporn W, Vijayvargiya P, Anthanont P, Erickson SB “The risk of kidney stones following bariatric surgery: a systematic review and meta-analysis”, Ren Fail. 2016;38(3):424-30. https://doi.org/10.3109/0886022X.2015.1137186.

 

Sodium balance and peritoneal ultrafiltration in refractory heart failure

Abstract

About 5% of patients with heart failure (HF) reach the end-stage of disease, becoming refractory to therapy. The clinical course of end-stage HF is characterized by repeated hospitalizations, severe symptoms, and poor quality of life. Peritoneal ultrafiltration (PUF), removing water and sodium (Na+), can benefit patients with end-stage HF. However, effects on fluid and electrolyte removal have not been fully characterized.

In this pilot study in patients with chronic HF and moderate chronic renal failure, we evaluated the effects of water and sodium removal through PUF on ventricular remodeling, re-hospitalization, and quality of life.

Patients with end-stage HF (NYHA class IV, ≥3 HF hospitalization/year despite optimal therapy), not eligible for heart transplantation underwent peritoneal catheter positioning and began a single-day exchange with icodextrin at night (n=6), or 1-2 daily exchanges with hypertonic solution (3.86%) for 2 hours with 1.5-2 L fill volume (n=3).

At baseline, average ultrafiltration was 500±200 ml with icodextrin, and 700±100 ml with hypertonic solution. Peritoneal excretion of Na+ was greater with icodextrin (68±4 mEq/exchange) compared to hypertonic solution (45±19 mEq/exchange).

After a median 12-month follow-up, rehospitalizations decreased, while NYHA class and quality of life (by Minnesota Living with HF questionnaire), improved.

In end-stage HF patients, PUF reduced re-hospitalization and improved quality of life. It can be an additional treatment to control volume and sodium balance.

Keywords: Peritoneal ultrafiltration, heart failure, sodium balance, renal failure

Sorry, this entry is only available in Italian.

Introduzione

Lo scompenso cardiaco ha una elevata prevalenza nel mondo, colpendo 26 milioni di persone [1], con tassi in aumento con l’invecchiamento della popolazione [2]. L’insufficienza cardiaca cronica è caratterizzata da un progressivo deterioramento clinico, con ricoveri ripetuti e un’elevata mortalità [3], oltre a scarsa qualità della vita [46].

La progressione dell’insufficienza cardiaca, nonostante la terapia ottimale, può condurre allo stadio terminale della malattia, caratterizzato da sintomi gravi (New York Health Association – NYHA classe III-IV), evidenza di importante disfunzione sistolica e/o diastolica, ritenzione idrica e/o ipoperfusione periferica, riduzione della capacità funzionale, frequenti ricoveri per SC [7]. Inoltre, molti di questi pazienti non sono idonei per procedure invasive, quali l’impianto di devices o il trapianto di cuore, a causa dell’età o delle comorbidità.

La ridotta gittata cardiaca porta a una ridotta perfusione renale, con conseguente attivazione del sistema nervoso simpatico e dell’asse renina-angiotensina-aldosterone; a lungo termine, il conseguente riassorbimento a livello renale di acqua e sodio, atto a preservare la velocità di filtrazione glomerulare (GFR), può essere dannoso sia a livello cardiaco sia a livello renale [89].

In questo stadio dell’insufficienza cardiaca, le condizioni cliniche possono essere ulteriormente aggravate da episodi di sovraccarico di fluidi non responsive alla terapia diuretica. Le metodiche di ultrafiltrazione attuabili durante la degenza ospedaliera (emodialisi, emodiafiltrazione, SLED, CRRT) si sono dimostrate efficaci in questo contesto [10]. È interessante notare che l’ultrafiltrazione peritoneale (PUF), a differenza di questi trattamenti, può essere eseguita anche a casa e può essere una valida opzione per i pazienti con SC cronico e sovraccarico di volume refrattario [11]. La PUF si basa sull’utilizzo di soluzioni specifiche per la dialisi peritoneale, in grado di indurre ultrafiltrazione transperitoneale, rimuovendo così acqua e sodio ed ottenendo una efficace riduzione dalla congestione refrattaria [1118]. Gli studi eseguiti in precedenza avevano come limite quello di non avere studiato la quantità di acqua e sodio rimossi con le diverse soluzioni di dialisi peritoneale (icodestrina e soluzione ipertonica). Nel nostro lavoro, abbiamo inoltre studiato come si modificavano nel tempo, dopo l’inizio del trattamento con la PUF, la funzione cardiaca, il rimodellamento del ventricolo sinistro e le riospedalizzazioni, aspetti valutati anche in studi precedenti. Inoltre, abbiamo osservato come è cambiata la qualità della vita, utilizzando il questionario semplificato Minnesota Living with Heart Failure, aspetto che, a nostro avviso, non era stato studiato in precedenza.

Lo scopo di questo studio era pertanto di valutare gli effetti della PUF sul rimodellamento ventricolare, sui ricoveri e sulla qualità della vita, in pazienti con SC cronico senza malattia renale allo stadio terminale (ESRD). In particolare, si è voluto valutare la quantità di acqua e sodio rimossi attraverso l’ultrafiltrazione peritoneale, un aspetto importante per un migliore controllo dei volumi.

 

Metodi

Tra il gennaio 2016 e l’agosto 2018 è stato condotto uno studio esplorativo pilota monocentrico, durante il quale sono stati arruolati pazienti con SC cronico (classe NYHA IV) trattati con ultrafiltrazione peritoneale.

I criteri di inclusione dello studio erano:

  • SC grave (classe NYHA IV) refrattario alla terapia ottimale (terapia farmacologica massimale, dispositivi impiantabili – ICD o CRT– quando indicato, rivascolarizzazione in caso di malattia coronarica, correzione chirurgica della cardiopatia valvolare);
  • non idoneità al trapianto cardiaco;
  • almeno tre ricoveri all’anno per SC negli ultimi due anni;
  • ridotta funzionalità renale (sono stati inclusi i pazienti con insufficienza renale allo stadio IV; sono stati esclusi i pazienti con insufficienza renale allo stadio V che richiedevano una terapia renale sostitutiva).

I criteri di esclusione erano: rifiuto del paziente al posizionamento del catetere peritoneale, presenza di endocardite infettiva o tumore maligno avanzato.

Tutti i pazienti hanno dato il consenso informato scritto a partecipare allo studio. Il protocollo è stato approvato dal Comitato Etico locale della nostra struttura (IRCCS Multimedica).

Durante il ricovero in ospedale, il compenso cardiocircolatorio veniva ripristinato mediante terapia diuretica e vasodilatatori. I pazienti idonei alla PUF sono stati sottoposti ad un’accurata valutazione clinica, che includeva la registrazione del ​​numero di ricoveri per SC avvenuti nell’anno precedente e le caratteristiche cliniche di base (inclusa la terapia farmacologica in corso). È stato eseguito anche un ecocardiogramma 2D standard.

Protocollo PUF

Dopo aver ottenuto il consenso informato del paziente, è stato posizionato chirurgicamente un catetere peritoneale di Tenckhoff a doppia cuffia. Dopo un adeguato periodo di addestramento, i pazienti hanno avviato il trattamento con PUF mediante un monoscambio giornaliero con icodestrina notturna (Extraneal 7,5%, Baxter, USA); i pazienti resistenti all’icodestrina, o che presentavano una grave iponatriemia, venivano sottoposti a uno/due scambi giornalieri con soluzione ipertonica (Pysioneal 3,86%, Baxter, USA) per due ore, con un volume di carico di 1500-2000 ml; la composizione della soluzione ipertonica era: glucosio 38 g/L, Na+ 132 mmol/L, K+ 0 mmol/L, HCO3- 25 mmol/L, lattato 15 mmol/L, pH 7,4, Ca++ 1,25 mmol/L.

L’icodestrina veniva utilizzata come prima scelta per la sua capacità di ultrafiltrazione più lenta e fisiologica rispetto alla soluzione ipertonica. Per questo motivo, abbiamo utilizzato lo scambio con soluzione ipertonica nei pazienti resistenti all’icodestrina e che avevano una grave iponatriemia.

I pazienti sono stati dimessi pochi giorni dopo il posizionamento del catetere peritoneale in uno stato di buon compenso cardiocircolatorio. I pazienti e/o i caregiver sono stati addestrati nelle settimane successive.

I pazienti venivano quindi valutati mensilmente attraverso una visita cardio-nefrologica presso la nostra clinica, durante la quale venivano valutati peso corporeo, pressione sanguigna (BP), frequenza cardiaca (FC), diuresi e ultrafiltrazione peritoneale media (misurata dal paziente o dal caregiver). Mensilmente venivano controllati i seguenti esami di laboratorio: emocromo completo, urea, creatinina, elettroliti sierici, sodio e potassio urinari, urea e creatinina urinarie, velocità di filtrazione glomerulare misurata (GFR), sodio (Na+) e potassio (K+) sul liquido di scarico peritoneale. Inoltre, ogni tre mesi venivano controllati albumina sierica, proteine ​​totali e BNP. La funzione renale residua e l’escrezione di sodio urinario sono state valutate mediante raccolta urine delle 24 ore. L’escrezione di sodio peritoneale è stata valutata sottraendo la quantità IN alla quantità OUT di sodio nel liquido peritoneale. Il sodio peritoneale OUT è stato calcolato moltiplicando il valore di sodio (mEq/L) misurato nel liquido di scarico peritoneale per il volume di ultrafiltrato peritoneale.

Inoltre, dopo 6 e 12 mesi dall’inizio della PUF, sono stati valutati la classe NYHA, i giorni di ricovero e gli eventi avversi correlati al trattamento. L’ecocardiogramma è stato ripetuto dopo 12 mesi. L’imaging ecocardiografico bidimensionale M-mode, pulsed-wave Doppler e tissue Doppler è stato ottenuto nelle posizioni precordiali standard e seguendo le raccomandazioni per le misurazioni M-mode standard.

Al basale e dopo 12 mesi dall’inizio della PUF, la qualità della vita è stata valutata mediante il questionario Minnesota Living with Heart Failure.

Dopo l’inizio della PUF, i pazienti hanno seguito una dieta a basso contenuto di sodio (massimo 2 g di sodio al giorno).

Analisi Statistica

Tutti i dati sono presentati come media ± deviazione standard e percentuali, a seconda dei casi. I tassi di ospedalizzazione sono stati calcolati in giorni all’anno.

Le variabili continue sono riassunte come media e deviazione standard e confrontate tra il basale e dopo 12 mesi mediante Wilcoxon signed rank test non parametrico per dati appaiati. Le variabili categoriche sono presentate come frequenze e percentuali e confrontate tra i gruppi mediante il Fisher exact test.

La significatività statistica è definita come p-value <0,05. Le analisi statistiche sono state eseguite utilizzando il software SAS (SAS versione 9.4).

 

Risultati

Nella Tabella 1 sono riportate le caratteristiche cliniche dei pazienti arruolati. Tra il gennaio 2016 e l’agosto 2018, abbiamo reclutato 9 pazienti (5 uomini, 4 donne); l’età media era di 70±8 anni. La causa più frequente di cardiopatia era rappresentata dalla cardiopatia ischemica (55,6%). Durante il follow-up non sono state evidenziate differenze nella terapia farmacologica, in particolare per quanto riguarda agenti inotropi, beta-bloccanti, ACE-inibitori o ARB. Dopo sei mesi di follow-up si è assistito al decesso di un paziente per ictus.

Uomini 5 pazienti, 55.5%
Donne 4 pazienti, 45.5%
Età (media ± deviazione standard) 70 ± 8 anni
Diabete 5 pazienti, 55.5%
Tipo di cardiopatia
Ischemica 5 pazienti, 55.6%
Valvolare 4 pazienti, 44.4
ICD o CRTD 7 pazienti, 77.8%
Tabella 1: Caratteristiche della popolazione in esame.

Nella Tabella 2 sono riportati gli esami ematochimici e urinari al basale e dopo 12 mesi di follow-up. Durante il follow-up il peso corporeo dei pazienti tendeva a rimanere stabile, mentre il GFR e l’escrezione urinaria di sodio tendevano a diminuire; la posologia della terapia diuretica con furosemide aumentava progressivamente, come atteso.

Baseline

(media ± SD)

T12 mesi

(media ± SD)

P
Peso corporeo (Kg) 66.3 ± 9.3 67 ± 8.1 0.78
Diuresi (ml/24 h) 1406 ± 448 1408 ± 580 1
Urea (mg/dl) 76 ± 40 82 ± 23 0.35
Creatinina (mg/dl) 1.73 ± 0.8 1.94 ± 0.95 0.78
GFR (ml/min) 26 ± 12 21.9 ± 15.3 0.59
Hb (g/dl) 11.6 ± 1.7 12.9 ± 1.7 0.26
Na+ (mmol/L) 135 ± 5 140 ± 4 0.10
K+ (mmol/L) 4.5 ± 0.3 4.46 ± 0.4 0.84
HCO3- (mmol/L) 25.6 ± 2.8 29 ± 1.3 0.023
Na+ urinario (mEq/24h) 122 ± 67 76 ± 45 0.28
K+ urinario (mEq/24h) 43 ± 24 21 ± 14 0.17
Albumina (g/dl) 3.76 ± 0.38 3.53 ± 0.4 0.44
Glicemia (mg/dl) 129 ± 42 141 ± 31 0.60
BNP (pg/ml) 686 ± 627 4448± 959 0.74
Tabella 2: Esami ematochimici ed urinari.

La Tabella 3 mostra la quantità di acqua e sodio rimossi mediante l’ultrafiltrazione peritoneale al basale, considerando separatamente i pazienti trattati con icodestrina e soluzione ipertonica. Al basale 6 pazienti erano trattati con uno scambio giornaliero con icodestrina notturna e 3 pazienti con uno/due scambi giornalieri con soluzione ipertonica. L’escrezione di sodio peritoneale era maggiore con l’icodestrina; il volume di ultrafiltrazione peritoneale invece era maggiore con la soluzione ipertonica.

La Tabella 4 mostra i parametri ecocardiografici al basale e dopo 12 mesi di follow-up. Non sono emerse differenze significative sui parametri di rimodellamento ventricolare; in particolare non vi erano differenze nel volume sistolico e diastolico del ventricolo sinistro. Anche la frazione di eiezione non è cambiata in modo significativo durante il follow-up. Il BNP tendeva a diminuire dopo 12 mesi.

Icodestrina

(media)

Soluzione ipertonica 3.86%

(media)

Pazienti (n°, %) 6, 67 3, 33
Volume out (ml) 533 600
Na+ escreto con la PUF (mEq) 68 45
Na+ urinario (mEq/24h) 102 162
Tabella 3: Caratteristiche del trattamento di ultrafiltrazione peritoneale al basale.

Al basale, tutti i pazienti tranne uno erano in classe NYHA IV (Tabella 4); a 12 mesi di follow-up, abbiamo osservato una riduzione della classe NYHA. Durante il follow-up si è anche registrata una riduzione dei giorni di ricovero, da 49 ± 24 giorni/anno prima dell’arruolamento, a 13 ± 11 giorni/anno. Anche la qualità della vita è migliorata, da 74 ± 12 al basale, a 41 ± 23 alla fine del follow-up. La qualità della vita è stata valutata dal questionario Minnesota Living with Heart Failure che esplora diversi domini valutando la presenza di dispnea, edema, ortopnea e considerando come lo scompenso cardiaco influenzi le attività quotidiane come l’igiene personale, l’attività lavorativa, le relazioni personali.

Durante il follow-up non sono stati registrati eventi avversi correlati al trattamento con ultrafiltrazione peritoneale.

Baseline

(media±SD)

T12 mesi

(media±SD)

P
Ecocardiogramma
FE (%) 30 ± 13 29 ± 7 0.86
PAPS (mmHg) 57 ± 13 59 ± 17 0.83
End diastolic diameter (mm) 66 ± 11 46 ± 28 0.59
Setto interventricolare (mm) 11 ± 1 9 ± 1 0.07
PW (media mm ± SD) 9 ± 1 10 ± 1 0.26
Volume diastolico VS (ml) 182 ± 66 147 ± 42 0.47
Volume sistolico VS (ml) 124 ± 86 106 ± 41 1.0
Diametro atrio sinistro (mm) 57 ± 8 48 ± 1 0.04
Terapia farmacologica
Agenti inotropi 1 paziente, 11,1% 1 paziente, 11,1% 1.00
Beta bloccanti 7 pazienti, 77,8% 4 pazienti, 44,4% 1.00
ACE-I / ARBs 2 pazienti, 22,2% 0 0.48
Furosemide (mg/die) 168 ± 120 204 ± 95 0.50
Antialdosteronici mg/die 75 ± 58 46 ± 29

 

0.30
Classe NYHA 4 ± 0 3.2 ± 0.4 0.01
Giorni di ospedalizzazione (n°/anno) 49 ± 24 13 ± 11 0.007
Qualità della vita (MLHF) 74 ± 12 41 ± 23 0.02
Tabella 4: Parametri ecocardiografici, terapia farmacologica, classe NYHA, giorni di ospedalizzazione e qualità della vita.

 

Discussione

Diversi studi [12, 13] hanno precedentemente riportato i benefici dell’ultrafiltrazione peritoneale nello scompenso cardiaco refrattario come trattamento aggiuntivo per il controllo dei volumi e del bilancio di sodio. In questo studio, abbiamo voluto concentrarci sugli effetti delle diverse soluzioni di dialisi peritoneale sull’ultrafiltrazione e sull’escrezione del sodio, quindi esplorare i possibili benefici a lungo termine di questa terapia.

Nei nostri pazienti abbiamo utilizzato due diverse soluzioni per dialisi peritoneale: icodestrina (Extraneal 7,5%, Baxter, USA) e ipertonica (Pysioneal 3,86%, Baxter, USA).

Come noto dalla fisiopatologia [20, 21], l’icodestrina è un polimero del glucosio che agisce attraverso un meccanismo colloido-osmotico; i pori coinvolti sulla membrana peritoneale sono i piccoli pori con il passaggio di acqua e sodio. L’icodestrina ha un meccanismo più lento che richiede un tempo di sosta più lungo. La soluzione ipertonica utilizza invece un meccanismo di ultrafiltrazione cristalloido-osmotico che utilizza i pori ultrapiccoli con passaggio di acqua priva di soluti, attraverso un tempo di sosta più breve.

Nella nostra esperienza, analizzando la capacità ultrafiltrativa delle due soluzioni e l’escrezione peritoneale di sodio, è stato confermato il maggiore potere di ultrafiltrazione della soluzione ipertonica, con una minore escrezione di sodio rispetto all’icodestrina. Abbiamo considerato solo l’aspetto ultrafiltrativo del singolo scambio giornaliero, non quello depurativo, in presenza di pazienti con malattia renale cronica stadio III-IV secondo le linee guida KDOQI [22].

L’icodestrina dovrebbe essere utilizzata preferibilmente in quanto ha una capacità di ultrafiltrazione più lenta e fisiologica [21]. Abbiamo utilizzato il monoscambio giornaliero con soluzione ipertonica nei pazienti resistenti all’icodestrina e che avevano una grave iponatriemia diluizionale. La soluzione ipertonica è infatti meno fisiologica e crea un danno osmotico sulla membrana peritoneale a causa delle sue elevate concentrazioni di glucosio.

Durante il follow-up abbiamo osservato un notevole miglioramento della classe NYHA, dallo stadio IV allo stadio III a 12 mesi in tutti i pazienti, confermando il miglioramento della sintomatologia cardiaca dopo l’inizio del trattamento con PUF, come riportato in diversi altri lavori [1416].

La riduzione del BNP osservata nel nostro studio appare non significativa ma in linea con i dati riportati in precedenti analisi [15].

Abbiamo osservato una riduzione dei giorni di degenza all’anno, confermando i dati riportati in letteratura [1618]. Inoltre, è stato osservato un miglioramento della qualità della vita valutato dal questionario Minnesota Living with Heart Failure. Questo questionario è ampiamente utilizzato nei pazienti con SC per valutare la riserva funzionale cardiaca e l’impatto dei sintomi sulle attività quotidiane [19].

Per quanto riguarda il rimodellamento ventricolare, non ci sono state variazioni nei volumi e nello spessore del ventricolo sinistro, né nella frazione di eiezione. L’unico parametro che è cambiato, considerando sempre l’esiguo numero di pazienti, è stato il diametro dell’atrio sinistro, che potrebbe essere un marker del volume intravascolare.

Durante il follow-up un paziente è deceduto per complicanze cardiovascolari, nessuno per complicanze legate alla PUF.

Il nostro studio si basa sulla nostra esperienza su un piccolo numero di pazienti considerando la difficoltà di reclutamento e la difficoltà di stabilire un approccio multidisciplinare.

Nella nostra esperienza, la PUF è associata ad un miglioramento della qualità della vita e ad una riduzione dei giorni di ricovero. È preferibile utilizzare l’icodestrina in quanto determina una ultrafiltrazione più lenta e fisiologica. Nei casi resistenti o in presenza di iponatriemia grave è preferibile ricorrere ad un monoscambio giornaliero rapido con soluzione ipertonica. L’ultrafiltrazione peritoneale nell’insufficienza cardiaca può essere un trattamento aggiuntivo nel controllo dei volumi e nel bilancio del sodio.

Abbiamo voluto segnalare l’esperienza positiva del nostro centro nell’uso dell’ultrafiltrazione peritoneale nel controllo dei volumi nello scompenso cardiaco grave. Il maggiore limite dello studio è il ridotto numero di pazienti reclutati. La nostra esperienza vuole quindi essere uno spunto per studi futuri su un target di pazienti più ampio che ci permetta di validare quanto osservato, ovvero il miglioramento della qualità della vita, la riduzione dei giorni di ricovero e il miglioramento della classe NHYA. Inoltre, l’analisi degli effetti delle diverse soluzioni per dialisi peritoneale disponibili per il monoscambio giornaliero nelle cardiopatie gravi, ci danno importanti suggerimenti fisiopatologici per guidarci nella terapia più corretta.

 

Bibliografia

  1. Savarese G, Lund LH. Global Public Health Burden of Heart Failure. Card Fail Rev. 2017;3:7-11. https://doi.org/10.15420/cfr.2016:25:2.
  2. Buja A, Solinas G, Visca M, et al. Prevalence of heart failure and adherence to process indicators: which sociodemographic determinants are involved? Int J Environ Res Public Health. 2016;13:238. https://doi.org/10.3390/ijerph13020238.
  3. Rathore SS, Masoudi FA, Wang Y, et al. Socioeconomic status, treatment, and outcomes among elderly patients hospitalized with heart failure: findings from the National Heart Failure Project. Am Heart J. 2006;152:371-78. https://doi.org/10.1016/j.ahj.2005.12.002.
  4. Dickstein K, Cohen-Solal A, Filippatos G, et al. ESC guidelines for the diagnosis and treatment of acute and chronic heart failure 2008: the Task Force for the diagnosis and treatment of acute and chronic heart failure 2008 of the European Society of Cardiology. Developed in collaboration with the Heart Failure Association of the ESC (HFA) and endorsed by the European Society of Intensive Care Medicine (ESICM). Eur J Heart Fail. 2008;10:933-89. https://doi.org/10.1016/j.ejheart.2008.08.005.
  5. Jessup M, Abraham WT, Casey DE, et al. 2009 focused update: ACCF/AHA Guidelines for the Diagnosis and Management of Heart Failure in Adults: a report of the American College of Cardiology Foundation/American Heart Association Task Force on Practice Guidelines: developed in collaboration with the International Society for Heart and Lung Transplantation. Circulation. 2009;119:1977-2016. https://doi.org/10.1161/CIRCULATIONAHA.109.192064.
  6. Damman K, Jaarsma T, Voors AA, et al. Both in- and out-hospital worsening of renal function predict outcome in patients with heart failure: results from the Coordinating Study Evaluating Outcome of Advising and Counseling in Heart Failure (COACH). Eur J Heart Fail. 2009;11:847-54. https://doi.org/10.1093/eurjhf/hfp108.
  7. Metra M, Ponikowski P, Dickstein K, et al. Advanced chronic heart failure: A position statement from the Study Group on Advanced Heart Failure of the Heart Failure Association of the European Society of Cardiology. Eur J Heart Fail. 2007;9:684-94. https://doi.org/10.1016/j.ejheart.2007.04.003.
  8. Mullens W, Abrahams Z, Francis GS, et al. Importance of venous congestion for worsening of renal function in advanced decompensated heart failure. J Am Coll Cardiol. 2009;53:589-96. https://doi.org/10.1016/j.jacc.2008.05.068.
  9. Kazory A. Ultrafiltration Therapy for Heart Failure: Balancing Likely Benefits against Possible Risks. Clin J Am Soc Nephrol. 2016;11:1463-71. https://doi.org/10.2215/CJN.13461215.
  10. Iadarola GM, Lusardi P, La Milia V, et al. Peritoneal ultrafiltration in patients with advanced decompensated heart failure. J Nephrol. 2013;26 Suppl 21:159-76. https://doi.org/10.5301/JN.2013.11639.
  11. Kazory A. Fluid overload as a major target in management of cardiorenal syndrome: Implications for the practice of peritoneal dialysis. World J Nephrol. 2017;6:168-75. https://doi.org/10.5527/wjn.v6.i4.168.
  12. Viglino G, Neri L, Feola M. Peritoneal ultrafiltration in congestive heart failure-findings reported from its application in clinical practice: a systematic review. J Nephrol. 2015;28:29-38. https://doi.org/10.1007/s40620-014-0166-9.
  13. Lu R, Muciño-Bermejo MJ, Ribeiro LC, et al. Peritoneal dialysis in patients with refractory congestive heart failure: a systematic review. Cardiorenal Med. 2015;5:145-56. https://doi.org/10.1159/000380915.
  14. Grossekettler L, Schmack B, Meyer K, et al. Peritoneal dialysis as therapeutic option in heart failure patients. ESC Heart Fail. 2019;6:271-9. https://doi.org/10.1002/ehf2.12411.
  15. Shao Q, Xia Y, Zhao M, et al. Effectiveness and Safety of Peritoneal Dialysis Treatment in Patients with Refractory Congestive Heart Failure due to Chronic Cardiorenal Syndrome. Biomed Res Int. 2018:6529283. https://doi.org/10.1155/2018/6529283.
  16. Bertoli SV, Musetti C, Ciurlino D, et al. Peritoneal ultrafiltration in refractory heart failure: a cohort study. Perit Dial Int. 2014;34:64-70. https://doi.org/10.3747/pdi.2012.00290.
  17. Wojtaszek E, Grzejszczak A, Niemczyk S, et al. Peritoneal Ultrafiltration in the Long-Term Treatment of Chronic Heart Failure Refractory to Pharmacological Therapy. Front Physiol. 2019;10:310. https://doi.org/10.3389/fphys.2019.00310.
  18. Courivaud C, Kazory A, Crépin T, et al. Peritoneal dialysis reduces the number of hospitalization days in heart failure patients refractory to diuretics. Perit Dial Int. 2014;34:100-8. https://doi.org/10.3747/pdi.2012.00149.
  19. Rector TS, Cohn JN. Assessment of patient outcome with the Minnesota Living with Heart Failure questionnaire: reliability and validity during a randomized, double-blind, placebo-controlled trial of pimobendan. Pimobendan Multicenter Research Group. Am Heart J. 1992;124:1017-25. https://doi.org/10.1016/0002-8703(92)90986-6.
  20. Khanna R. Solute and Water Transport in Peritoneal Dialysis: A Case-Based Primer. Am J Kidney Dis. 2017;69:461-72. https://doi.org/10.1053/j.ajkd.2016.11.007.
  21. Morelle J, Sow A, Fustin CA, et al. Mechanisms of Crystalloid versus Colloid Osmosis across the Peritoneal Membrane. J Am Soc Nephrol. 2018;29:1875-86. https://doi.org/10.1681/ASN.2017080828.
  22. National Kidney Foundation. K/DOQI clinical practice guidelines for chronic kidney disease: evaluation, classification, and stratification. Am J Kidney Dis. 2002;39: S1–S266. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/11904577/

Finerenone for the treatment of patients with chronic kidney disease

Abstract

Chronic kidney disease (CKD) is a clinical condition associated with a high risk of cardiovascular (CV) events, mortality and progression to most severe stage of the disease, also known as kidney failure (KF). CKD is characterized by a wide variability of progression, which depends, in part, on the variability of individual response to nephroprotective treatments. Thus, a consistent proportion of patients have an elevated residual risk both CV and renal events, confirmed by the evidence that about 70% of CKD patients followed by the nephrologist have residual proteinuria. Among the new therapeutic strategies, which have been developed precisely with the aim of minimizing this residual risk, a class of particular interest is represented by the new non-steroidal mineralocorticoid receptor antagonists (non-steroidal MRA). These drugs exert an important anti-fibrotic and anti-proteinuric effect and, unlike steroid MRAs, are associated with a much lower incidence of adverse effects. The non-steroidal MRA molecule for which the most data is available, which is finerenone, is potent and extremely selective, and this partly explains the differences in efficacy and safety compared to steroid MRAs. In clinical trials, finerenone has been shown to significantly reduce the risk of progression to KF. Furthermore, there is also evidence that the combination of non-steroidal MRAs together with SGLT2 inhibitors may represent a valid alternative to reduce the residual risk in CKD patients. Given this evidence, non-steroidal MRAs are gaining momentum in the care, and particularly in individualized care, of CKD patients.

Keywords: CKD, epidemiology, aldosterone, iperkalaemia, kidney failure, cardiovascular risk

Sorry, this entry is only available in Italian.

Introduzione

La malattia renale cronica (nota su larga scala come Chronic Kidney Disease, CKD) è una condizione clinica definita da una o più delle seguenti alterazioni confermate e persistenti per almeno 3 mesi: una riduzione del tasso di filtrazione glomerulare stimato (eGFR) <60 mL/min/1.73m2, un livello anomalo di albuminuria (o proteinuria) > 30 mg/die alla raccolta delle urine delle 24 ore (30 mg/g se misurata attraverso il rapporto albuminuria-creatininuria o ACR, sulle urine del mattino in estemporanea), una anomalia di funzione o struttura dei reni diagnosticata con esami strumentali o clinici [1, 2]. L’eGFR e la albuminuria sono cruciali nella definizione e quindi nella diagnosi della CKD e sono anche conosciute, data la loro importanza prognostica come “kidney measures” o “fattori di rischio non tradizionali” per distinguerle da altri fattori di rischio cardiovascolare tradizionale quali possono essere l’età, il fumo di sigaretta o i livelli di pressione arteriosa sistolica [3]. La presenza di CKD espone il paziente ad una prognosi sfavorevole, intesa come un aumento significativo del rischio di incidenza di eventi cardiovascolari (CV) fatali e non fatali (infarto del miocardio, ictus, scompenso cardiaco, vasculopatia periferica), rapida progressione del danno renale verso la kidney failure (KF) che viene definita come lo stadio più avanzato della CKD con ricorso alla terapia sostitutiva, e la mortalità da ogni causa [4, 5]. Tali eventi sono complessivamente considerati “eventi maggiori”, sia nella pratica che nella ricerca clinica, in quanto condizionano in modo sostanziale la qualità della vita. I pochi dati fin qui riportati acquistano ancora maggiore enfasi se si considera che la CKD ha una prevalenza in netto aumento nella popolazione generale a livello globale [6]. Per arginare tale fenomeno, il cui trend in ascesa è già da tempo evidente, un grande sforzo è stato rivolto all’individuazione di trattamenti farmacologici in grado di minimizzare il rischio sia di progressione renale che di eventi CV. I primi trattamenti che hanno portato ad una riduzione della progressione della CKD sono stati gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAASi), in particolare gli ACE inibitori ed i sartani [7]. Tuttavia, circa il 40% dei pazienti con CKD non risponde a questi farmaci, rimanendo ad un rischio elevato di eventi futuri sfavorevoli cardiovascolari e renali [8, 9].

Tra il 2010 e il 2020, sono stati condotti altri studi clinici randomizzati che hanno testato nuovi trattamenti farmacologici come gli inibitori degli SGLT2 (es. dapagliflozin, canagliflozin), gli antagonisti recettoriali delle endoteline (ERA es. atrasentan), e i nuovi antagonisti non steroidei dei recettori dei mineralocorticoidi (MRA, es. finerenone). I rispettivi studi di intervento hanno dimostrato un effetto additivo significativo di questi farmaci se combinati con i RAASi, che ad oggi sono considerati lo standard-of-care nel rallentare la progressione della CKD sia in presenza che in assenza di diabete. In questa Review prendiamo in esame i nuovi MRA. Sulla base delle evidenze scientifiche disponibili, presenteremo il razionale di utilizzo degli MRA,378982 l’entità dell’effetto nefro- e cardio-protettivo nel contesto della complessità del paziente con CKD.

 

Epidemiologia e prognosi della CKD

La CKD ha acquisito nelle ultime decadi le caratteristiche di un problema di Sanità Pubblica globale [10]. Sulla base dei Registri disponibili, la prevalenza della CKD nella popolazione generale varia tra il 7% e il 13%, corrispondente ad una frequenza che spesso supera quella del diabete tipo 2 [11]. Inoltre, osservando i dati del Global Burden of Disease (GBD), che riporta il trend epidemiologico tra il 1990 e il 2016, la prevalenza e l’incidenza della CKD sono aumentate globalmente dell’87% e 89%, rispettivamente, in questo arco temporale, con un tasso di mortalità da cause renali quasi raddoppiato [6]. Inoltre, la CKD è, tra le malattie non trasmissibili, quella a più rapido incremento di incidenza. Il trend epidemiologico della CKD è in parte spiegato dalle modifiche epidemiologiche globali. Da una parte si è osservato, negli ultimi anni, una riduzione della mortalità generale da cause CV. Considerando il 1940 come anno di riferimento, la mortalità annua per infarto del miocardio e ictus si è ridotta del 56% e del 70% alla fine degli anni ‘90 [12]. Tale riduzione del rischio di morte da cause CV è stata attribuita all’introduzione di terapie preventive come le statine e ad un migliore controllo dei fattori di rischio tradizionali come il fumo di sigaretta e la pressione arteriosa. Parimenti, la mortalità associata a malattie infettive si è ridotta con il miglioramento delle terapie antibiotiche e dei vaccini, garantendo un incremento medio della durata della vita media di circa 20 anni [13]. La diffusione, quasi pandemica, della CKD è anche in linea con l’incremento della dimensione globale del diabete tipo 2. Nel 2019, circa 463 milioni di persone (9.3 % della popolazione globale) era affetto da diabete, di cui il 90% era rappresentato dal diabete tipo 2. È stato stimato che circa 2 pazienti su 5 affetti da diabete tipo 2 siano allo stesso tempo affetti da CKD [14]. L’incidenza di CKD associata al diabete (anche nota come ‘diabetic kidney disease’ DKD) è aumentata negli ultimi 30 anni in tutte le fasce di età [15]. Tale evidenza è ancora più allarmante se si considera che il diabete tipo 2, per il coinvolgimento di specifici meccanismi eziopatogenetici, è la principale cause di CKD e di KF, complessivamente. Di per sé, l’incidenza di KF, a differenza del positivo trend di morte CV, non si è ridotta negli ultimi anni, restando una condizione che espone il paziente ad alto rischio di morte. Ciò è vero in particolare per i pazienti affetti da diabete tipo 2, dei quali meno del 50% sopravvive a distanza di 5 anni dall’inizio del trattamento emodialitico sostitutivo [16].

La CKD è riconosciuta come un fattore di rischio indipendente di mortalità ed eventi CV oltre che di progressione verso la KF. Il termine indipendente fa riferimento in particolare, a fattori come l’età, il sesso e la presenza di altre comorbidità [17, 18].  È stato ampiamente dimostrato che la presenza di albuminuria, è associata indipendentemente allo sviluppo di eventi CV e progressione della CKD nel tempo [19]. Ancora più intrigante è l’osservazione che non vi sia un vero e proprio cut-off di albuminuria al di sopra del quale il rischio di progressione della CKD (ed anche il rischio CV) aumenti. In una meta-analisi del CKD-Prognosis Consortium, che includeva i dati di quasi 1.000.000 di soggetti di popolazione generale o ad alto rischio CV, il rischio di progressione della CKD verso la KF era già 5 volte aumentato per un livello di ACR di 30 mg/g, ed aumentava di oltre 13 volte per un livello di ACR di 300 mg/g [20]. Degno di nota è che i livelli di 30 e 300 mg/g sono considerati i limiti, inferiore e superiore, della categoria di proteinuria definita come moderatamente aumentata dalle linee guida KDIGO [1]. In uno studio osservazionale che includeva 3.957 pazienti con CKD seguiti dallo specialista Nefrologo in Italia, il rischio di KF aumentava di 2-3 volte passando da un livello di proteinuria 0.5 a 1.0 g/24h, con un rischio leggermente più alto nello stadio G3 rispetto al G4 [21]. Una simile associazione è stata osservata tra la proteinuria e gli eventi CV fatali e non fatali [22]. Il eGFR è per definizione la somma dei tassi di filtrazione di tutti i nefroni funzionanti e rappresenta il principale marcatore di funzione renale [23]. Negli studi prognostici, il eGFR rappresenta il più robusto predittore di progressione renale ed eventi CV. Infatti, al ridursi dei livelli di eGFR < 75 mL/min/1.73m2, il rischio di KF è di circa 30 volte più alto per livelli di 45 mL/min/1.73m2, e di circa 400 volte aumentato per livelli di 15 mL/min/1.73m2 [20]. L’associazione tra eGFR ed eventi CV ha un andamento simile seppure con una minore forza di associazione [22]. Albuminuria e eGFR sono considerati due parametri fondamentali sia per la stratificazione del rischio dei pazienti con CKD che per monitorare la risposta ai trattamenti. Una riduzione della albuminuria a 6 mesi di tempo, di circa il 30% rispetto al livello basale, si associa ad una riduzione del rischio di poco meno del 30% di progressione della CKD [24]. La riduzione del eGFR del 40% e quella del 50% sono considerati due surrogati di KF sia negli studi osservazionali che di intervento [25]. Nonostante la robustezza e affidabilità delle ‘kidney measures’, altri fattori di rischio tengono conto della scarsa prognosi dei pazienti con CKD.

È noto che la CKD è una condizione patologica multifattoriale dove più fattori di rischio rendono conto dell’outcome cardiorenale del paziente. Tra questi, accanto a eGFR e albuminuria, ipertensione arteriosa, iperpotassiemia, alterazioni del metabolismo calcio-fosforo, anemia, acidosi metabolica e dislipidemia sono quelli più noti [26].

 

Variabilità prognostica nella CKD: il problema del rischio residuo

Una delle caratteristiche principali della CKD risiede nella sua variabilità, concetto discusso già in varie pubblicazioni [8, 2730]. La variabilità, nel contesto della CKD, ha un duplice significato: prognostico e predittivo. Per variabilità prognostica si intende che pazienti con lo stesso grado di severità della malattia (ad es. livelli basali di proteinuria e eGFR) hanno una progressione ed un rischio CV completamente diversi. Questo concetto è insito nella eterogeneità della patogenesi del danno renale. In alcuni pazienti l’insorgenza di diabete tipo 2 è di per sé sufficiente, dopo un certo intervallo di tempo dalla sua comparsa, a generare un danno renale progressivo e severo. In questo caso il diabete è una causa sufficiente della CKD. In alcuni pazienti, la presenza del diabete tipo 2 incide meno sullo sviluppo della CKD che, se presente, si manifesta in genere in forma più lieve ed è secondaria perlopiù al danno da nefroangiosclerosi [2]. In questo caso, il diabete tipo 2 è una causa componente (ma non sufficiente) per lo sviluppo del danno renale cronico. Dunque, il peso di un fattore di rischio non è lo stesso in soggetti diversi. Per variabilità predittiva si intende che non tutti i pazienti rispondono ugualmente agli stessi farmaci. Nell’ambito della CKD è stato già dimostrato che una proporzione notevole di soggetti (circa il 30-40%) non risponde ai RAASi [31, 32].  Una variabilità di risposta tra pazienti è presente verso gli SGLT2i, in termini di riduzione della emoglobina glicosilata, peso corporeo, pressione arteriosa e proteinuria con circa la metà dei pazienti che non mostra una riduzione di almeno il 30% della proteinuria nei primi mesi di trattamento [33]. Similmente, ci sono evidenze di variabilità di risposta interindividuale anche verso gli ERA, in particolare atrasentan, dipendendo questa da fattori come la biodisponibilità del farmaco che è variabile e dal profilo di rischio CV del paziente [34]. Questo vuol dire che una quota significativa di pazienti continua ad avere proteinuria nel tempo e di conseguenza un alto rischio residuo di eventi CV e renali.

I dati sul rischio residuo sono attualmente allarmanti. In uno studio di coorte che ha arruolato 2.174 pazienti CKD seguiti negli ambulatori di Nefrologia in Italia, e tutti in terapia con RAASi al massimo dosaggio tollerato, Minutolo et al. hanno dimostrato che il 70% dei pazienti aveva una proteinuria >0.150 g/die, rimanendo ad elevato rischio sia CV (tasso di incidenza: 4.86 per 100 pazienti/anno) che di progressione verso la KF (tasso di incidenza: 5.26 per 100 pazienti/anno) (Figura 1) [35]. Questo dato è più che allarmante se si considera che i pazienti riferiti al nefrologo sono in generale quelli più intensivamente trattatati (e con dimostrato beneficio) per le complicanze e la progressione della CKD [2, 36]. Il dato del rischio residuo emerge anche dagli studi randomizzati più recenti. Nello studio SONAR, che ha testato l’efficacia dell’ERA atrasentan, in aggiunta al trattamento con RAASi, nei pazienti con CKD e diabete tipo 2, il tasso di incidenza di eventi cardiorenali (composito di KF, raddoppio della creatinina, morte CV, infarto del miocardio e ictus), era di 5.2 per 100 pazienti/anno nel gruppo atrasentan e di 6.1 per 100 pazienti/anno del gruppo placebo [37]. A discapito della significatività dell’effetto del trattamento, è evidente che anche nel gruppo trattato con il farmaco sperimentale il rischio assoluto di eventi resta molto alto. Similmente, nello studio DAPA-CKD, il tasso di incidenza dell’outcome primario (declino del 50% di eGFR, KF, morte da cause renali o CV) era di 4.6 per 100 pazienti/anno, molto lontano dal considerarsi minimo o abolito. Complessivamente, nonostante l’effetto significativo sulla prognosi renale, gli SGLT2i lasciano il 61% di rischio residuo sugli endpoint renali [38]. Questo dato collima con una analisi post-hoc del CREDENCE, la quale evidenziava che il 60% dei pazienti nel braccio trattato con canaglifozin non mostrava una riduzione di almeno il 30% della albuminuria nei primi 6 mesi del trial, e maggiore era la albuminuria al mese 6 maggiore era il rischio renale [39].

L’impressione collettiva è che si è raggiunto un buon successo in termini di rallentamento della progressione della CKD e del rischio CV ad essa associato, ma che allo stesso tempo questo alto rischio residuo sia la spia del fatto che non si sta accuratamente trattando la malattia di base con il farmaco più appropriato e indicato possibile [7]. Come fase successiva della ricerca, ci si è quindi concentrati da una parte sulla individuazione di nuovi trattamenti, e dall’altra sulla possibilità di individuare su base scientifica rigorosa, quale sia il farmaco giusto per ogni singolo paziente data l’ampia, già descritta, variabilità.

Figura 1: Meccanismi fisiopatologici associati all’iperattivazione del recettore dei mineralocorticoidi.
Figura 1: Meccanismi fisiopatologici associati all’iperattivazione del recettore dei mineralocorticoidi. Il pathway che coinvolge la serum glucocorticoid kinase-1 (Sgk1) conduce alla regolazione della ritenzione di sodio e dell’efflusso di potassio dalle cellule tubulari renali. La regolazione genica alterata in risposta ad eccessivi livelli di aldosterone conduce alla generazione di stimoli pro-infiammatiori e pro-fibrotici.

 

I nuovi antagonisti recettoriali dei mineralocorticoidi

Una classe di farmaci che ha suscitato interesse nell’effetto di rallentamento della progressione della CKD è rappresentata dagli MRA. Questi farmaci agiscono antagonizzando essenzialmente l’azione dell’aldosterone, ormone sintetizzato dalla zona glomerulosa del corticosurrene che promuove, dopo stimolazione diretta da parte dell’angiotensina II, la ritenzione di sodio e la perdita di potassio e magnesio [40]. Il trasporto del sodio attraverso le cellule epiteliali nella porzione distale del nefrone è il principale meccanismo in cui è coinvolto l’aldosterone attraverso il recettore dei mineralocorticoidi (MR) e la cascata di fattori ad esso associati. Il recettore dei MR appartiene alla sottofamiglia dei recettori nucleari che agiscono sia come recettori intranucleari che come fattori di trascrizione dopo traslocazione nel nucleo cellulare [41]. L’attivazione del MR porta alla espressione di geni target, tra cui quello chiave è serum glucocorticoid kinase (Sgk1). Sgk1 fosforila ed inattiva la ubiquitin ligasi Nedd4-2 che regola a sua volta la degradazione dei canali ENaC tramite il sistema dei proteasomi. In presenza dell’aldosterone, l’attività di Nedd4-2 è bloccata da Sgk1 che quindi porta ad una aumentata espressione e funzione degli ENaC sulla membrana dalle cellule tubulari renali. Quando invece i livelli plasmatici di aldosterone sono ridotti (fisiologicamente o per blocco farmacologico), la degradazione degli ENaC è aumentata. Oltre al trasporto del sodio, il MR regola anche l’escrezione di potassio e idrogeno sia tramite un meccanismo passivo di cariche elettron-neutre associato al trasporto del sodio sia attraverso stimolazione diretta della N+/K+ ATPasi e i canali renal outer medullary potassium channel (ROMK) [42]. Oltre al suo ruolo fisiologico, è stato dimostrato che l’attivazione anomala del MR sia associata ad una serie di meccanismi fisiopatologici che interessano vari organi tra cui il rene (Figura 1).

Livelli incrementati di aldosterone, infatti, promuovono il generarsi di fibrosi a livello del cuore, dei vasi sanguigni e del rene. La scoperta dell’effetto pro-fibrotico degli ormoni mineralocorticoidi risale alla dimostrazione, nel 1943, che la somministrazione di desossicorticosterone acetato nel topo, in combinazione con un altro introito di sale nella dieta, conduceva allo sviluppo clinico di ipertensione maligna e alla comparsa di nefroangiosclerosi e ipertrofia cardiaca [43]. Inoltre, successivi studi hanno dimostrato che l’iperaldosteronismo associato all’ipertensione arteriosa era in grado di promuovere ipertrofia cardiaca con coinvolgimento dei fibroblasti cardiaci [44]. Riguardo ai meccanismi molecolari che conducono alla fibrosi, sembra che l’aldosterone sia in grado di promuovere la sintesi di citochine pro-infiammatorie, come ad esempio l’osteopontina 1, l’espressione macrofagica di TGF-β1 ed il PAI-1 (prothrombotic protein plasminogen activator inhibitor-1), essendo quest’ultimo coinvolto direttamente nella deposizione di collagene nella matrice extracellulare e nell’iniziare la fibrosi interstiziale [45]. Tali meccanismi assumono un’importanza fondamentale se si considera che i fattori scatenanti l’infiammazione e la fibrosi sono i principali target delle terapie di rallentamento della progressione della CKD, nel futuro [46]. Inoltre, ancora da un punto di vista fisiopatologico, è noto che nonostante il blocco del RAAS attraverso l’utilizzo degli ACE e ARB, non tutta l’attività dell’aldosterone è abolita (fenomeno di “escape” dell’aldosterone), fattore che perpetua l’effetto pro-infiammatorio e pro-fibrotico di questo ormone [47].

Sulla base di questi meccanismi, l’antagonismo farmacologico dei MR rappresenta di per sé un importante bersaglio farmacologico. La prima molecola appartenente alla classe MRA, sviluppata nel 1957, fu lo spironolattone. Successivamente, fu sviluppato l’eplerenone. Sia eplerenone che spironolattone vengono classificati, in base alla loro struttura molecolare, come MRA steroidei. I primi studi clinici randomizzati, il RALES con l’aldosterone e poi l’EPHESUS e l’EMPHASIS-HF con eplerenone, avevano dimostrato che questi due MRA conferivano una protezione dal rischio di morte nei pazienti affetti da scompenso cardiaco o cardiopatia ischemica [4850]. Studi meno corposi, in termini di numerosità campionaria, condotti su pazienti CKD avevano mostrato che lo spironolattone riduceva i livelli di proteinuria e pressione arteriosa nei pazienti affetti da CKD [51]. Tuttavia, gli MRA steroidei sono associati ad una serie di effetti collaterali potenzialmente gravi come l’iperpotassiemia, la ginecomastia e l’impotenza. Il rischio di iperpotassiemia associato all’uso di MRA è raddoppiato nei pazienti in CKD non in dialisi ed aumenta di ben tre volte nei pazienti in trattamento dialitico [52]. Questo ha spinto la ricerca e l’industria farmaceutica allo sviluppo di MRA potenti ma più selettivi, quindi con un miglior profilo di ‘safety’. Le nuove tecnologie di biologia molecolare hanno, in particolare, reso possibile lo sviluppo di una nuova classe di MRA, gli MRA non steroidei. Due molecole appartenenti a questa nuova classe di farmaci sono l’esaxerenone, introdotto in Giappone per la cura dell’ipertensione arteriosa, ed il finerenone, del quale sono disponibili le più ampie evidenze sia sperimentali che cliniche. Il finerenone blocca il MR in modo potente e selettivo a differenza degli MRA steroidei come spironolattone (blocco potente ma non selettivo) ed eplerenone (blocco meno potente ma più selettivo di eplerenone) (Figura 2) [52].

Figura 2: Meccanismo d’azione specifico degli MRA non-steroidei.
Figura 2: Meccanismo d’azione specifico degli MRA non-steroidei. L’interazione ligando-recettore porta alla protrusione dell’a-elica 12 (H12) del MR e questo ne determina la sua destabilizzazione e degradazione. L’interazione ligando-recettore coinvolge la formazione di legami idrogeno con residui specifici del MR come Ala773 e Ser810.

Questa differenza nel meccanismo molecolare di antagonismo, insieme ad altre differenze nella distribuzione tissutale e nella farmacocinetica, spiegano la differente risposta clinica tra gli MRA steroidei e non. Le differenze dettagliate tra le due classi sono riportate in Tabella 1.

MRA steroidei MRA non steroidei
Meccanismo molecolare di antagonismo del recettore mineralcorticoide (MR)

Spironolattone

(prima generazione)

Non selettivo e potente

Passivo

Eplerenone

(seconda generazione)

Meno selettivo e potente dello spironolattone

Finerenone

Selettivo e potente

Passivo e ingombrante

Distribuzione tissutale in modelli animali

 

Spironolattone

Rene > cuore

Eplerenone

Rene > cuore

Finerenone

Rene = cuore

Farmacocinetica

Spironolattone

Profarmaco di numerosi metaboliti attivi;

lunga emivita

Eplerenone

No metaboliti attivi;

emivita 4-6 ore

Finerenone

No metaboliti attivi;

breve emivita

Effetto in vitro sul reclutamento del cofattore in assenza di aldosterone

Spironolattone ed eplerenone

Agonisti parziali nel reclutamento del cofattore

Finrenonene

Agonista inverso

 

Effetto in vitro sul reclutamento del cofattore in presenza di aldosterone

Spironolattone ed eplerenone

Inibiscono il reclutamento del cofattore

Finerenone

Più potente ed efficace dell’eplerenone nel bloccare il legame con il cofattore del MR e indurre il legame con il corepressore.

 

Effetto sulla mutazione (S810L) del MR in vitro

Spironolattone ed eplerenone

Agonisti

 

Finerenone

Antagonista

Effetto sull’infiammazione e sulla fibrosi in modelli di cuore murino

 

Eplerenone

Effetto poco significativo sull’infiammazione e sulla fibrosi

Finerenone

Inibisce significativamente l’infiammazione e la fibrosi

Effetto sull’infiammazione e sulla fibrosi renale nel modello murino “salt-deoxycorticosterone acetate” con malattia renale cronica

 

Eplerenone

Significativa riduzione della pressione arteriosa; meno efficace nella riduzione della proteinuria e del danno renale

Finerenone

Significativa riduzione della pressione arteriosa solo ad alte dosi; significativa riduzione dell’espressione di fattori profibrotici, proinfiammatori e del danno renale.

Tabella 1: Principali differenze tra MRA steroidei e non steroidei.

Esperimenti in modelli animali hanno mostrato come il finerenone si distribuisca, a livello tissutale, equamente tra cuore e rene, a differenza di eplerenone e spironolattone che invece hanno una maggiore concentrazione a livello del rene comportando un maggiore effetto sul bilancio di sodio e potassio [53, 54]. Inoltre, il finerenone confrontato con gli MRA steroidei ha una breve emivita e non ha metaboliti attivi [55]. Lo spironolattone invece è pro-farmaco di metaboliti attivi, tra cui il canrenone, che possono essere individuati nelle urine fino a 4 settimane dopo la sospensione del trattamento ed essere attivi farmacologicamente fino a circa 2 settimana dopo la sospensione. Ciò spiegherebbe in parte la persistenza dell’effetto iperpotassiemico dopo interruzione dello spironolattone, con un profilo di maneggevolezza decisamente a favore di finerenone. È interessante osservare come ci siano delle differenze anche nella farmacodinamica tra MRA steroidei e non. Il finerenone, a differenza degli MRA steroidei, inibisce il reclutamento di cofattori ai vari domini del MR (che in genere dipende dai livelli di aldosterone) ed in questo modo riduce l’espressione di geni pro-infiammatori e pro-fibrotici [56]. Quindi la cascata di segnali a valle del recettore evocata da MRA steroidei e non steroidei è differente. Confrontato con eplerenone, il finerenone a parità di dose ha un maggiore effetto anti-fibrotico ed ha azione antifibrotica anche a dosaggi non ancora sufficienti a ridurre la pressione arteriosa [53]. Il finerenone è di fatto l’unico farmaco tra gli MRA che combina una eccezionale potenza e selettività. La IC50, cioè la concentrazione di farmaco richiesta per inibire del 50% l’attivazione del recettore, è pari a 17.8 per finerenone, ed è più bassa sia rispetto a spironolattone (24) che eplerenone (990). Peraltro, lo spironolattone ha una IC50 bassa anche per il legame con il recettore degli androgeni (77 vs > 10.000 di finerenone) e i glucocorticoidi (2410 vs >10.000 di finerenone). Invece la EC50, cioè la concentrazione di farmaco richiesta per attivare il 50% del recettore del progesterone, è pericolosamente più bassa per lo spironolattone (740 vs >10.000 di finerenone). Questi parametri spiegano, nell’insieme, come mai lo spironolattone sia un farmaco molto potente ma poco selettivo [57, 58].

 

Il finerenone nella realtà clinica del paziente con CKD

Gli MRA non steroidei hanno compiuto ampia strada nell’ambito della ricerca clinica raggiungendo la fase III della sperimentazione con gli studi Finerenone in Reducing Kidney Failure and Disease Progression in Diabetic Kidney Disease (FIDELIO-DKD) e Finerenone in Reducing Cardiovascular Mortality and Morbidity in Diabetic Kidney Disease (FIGARO-DKD) [59, 60]. Nel FIDELIO-DKD, sono stati arruolati pazienti affetti da DKD albuminurici e già in trattamento con RAASi.  Lo studio ha dimostrato per la prima volta nella storia degli MRA una diminuzione del 18% dell’endpoint composito primario (KF, riduzione persistente di almeno il 40% del GFR, morte da causa renale) nel corso dei 2.6 anni di follow up, e con un basso number-needed-to-treat, associata ad un marcato e persistente effetto antialbuminurico associato al trattamento (31% di riduzione rispetto al placebo dopo 4 mesi di terapia). Dal punto di vista nefrologico il trial risponde al principale “medical need” nella DKD, ossia come ridurre la progressione della nefropatia, e ha arruolato popolazione tipicamente presente negli ambulatori di Nefrologia, con l’86% di pazienti con eGFR compreso tra 60 e 25 mL/min/1.73m2 e albuminuria già in terapia con RAASi. Inoltre, lo studio è long-term consentendo pertanto una maggiore affidabilità sulla analisi della “effectiveness”.  Va notato inoltre che il trial è stato dimensionato sulla nefroprotezione; pertanto, si è definita una dimensione campionaria sufficiente per ottenere il 90% di potenza nella discriminazione del rischio dell’endpoint primario (progressione malattia renale). Ciò nonostante, è risultata significativa anche la riduzione del 14% nel rischio dell’endpoint secondario cardiovascolare (composito di eventi cardiovascolari fatali e non-fatali e ospedalizzazione per scompenso cardiaco). I dati di ‘safety’ testimoniano una buona tollerabilità del finerenone con una simile incidenza di eventi avversi nonostante la popolazione in esame sia per definizione fragile e ad alto rischio. D’altra parte, è stata registrata una maggiore incidenza di uscita dal trial a causa dell’iperkalemia, seppure bassa in assoluto, nel braccio finerenone (2.3% vs 0.9%).  Il maggiore rischio di iperkalemia con finerenone, seppure inferiore rispetto agli MRA steroidei, era quindi un dato atteso.

Un ulteriore dato di interesse per la comunità Nefrologica deriva dall’analisi post-hoc dei 254 pazienti dello studio che ricevevano finerenone “on top” non solo di anti-Angiotensina II ma anche di inibitori di SGLT2 [61]. Tale analisi, seppure limitata dal basso numero di pazienti, suggerisce un effetto nefroprotettivo nel lungo termine simile tra pazienti trattati e non trattati con inibitori di SGLT2 (p dell’effetto di interazione: 0.21). Altrettanto rilevante è il dato sulla risposta antiproteinurica, anch’essa simile tra i due gruppi (p dell’effetto di interazione: 0.31). Una ulteriore analisi pooled degli studi FIGARO-DKD e FIDELIO-DKD (FIDELITY in più di 13.000 pazienti con malattia renale diabetica), ha confermato l’efficacia del finerenone, indipendente dall’uso di inibitori di SGLT2 [62]. Il FIGARO-DKD ha testato l’efficacia del finerenone in aggiunta a trattamento con RAASi nel ridurre il rischio di eventi CV, essendo l’endpoint primario misurato il composito di morte CV, infarto del miocardio non fatale, ictus non fatale e ospedalizzazione per scompenso cardiaco. Il trial ha dimostrato, in un follow-up di 3.4 anni, una riduzione del rischio significativa, del 13%, dell’endpoint primario nel gruppo finerenone rispetto al placebo. L’incidenza di iperpotassiemia era maggiore nel gruppo finerenone che nel gruppo placebo (10.8 vs. 5.3%).

 

I nuovi MRA e la nefrologia di precisione

L’interesse verso i nuovi MRA non-steroidei sta progressivamente aumentando visti i risultati dei primi studi clinici randomizzati. Al contempo, lo sviluppo clinico degli MRA è stato anche portato nell’ambito degli studi di ‘medicina di precisione’. La medicina di precisione (o nefrologia di precisione nel caso specifico) è una branca relativamente recente della ricerca che mira ad elaborare dei disegni di studio che forniscano stime, sia prognostiche che di risposta alle terapie, individualizzabili al singolo paziente [8]. Ciò non deve essere confuso con lo studio del singolo individuo. Gli studi di medicina di precisione sono comunque svolti su una moltitudine di soggetti, partendo dal concetto statistico che le stime frequentiste (quelle quindi fornite insieme ad un intervallo di confidenza e ad un parametro di variabilità) sono il risultato della sommatoria di tante singole stime individuali. Nel campo nefrologico, gli avanzamenti più recenti, da questo punto di vista, sono essenzialmente due: il miglioramento dei disegni degli studi clinici randomizzati, ad esempio attraverso l’inclusione di pazienti più omogenei e/o la randomizzazione di coloro che rispondono efficacemente al trattamento sperimentale (es. i disegni di studio adattivi) [37]; l’acquisizione, anche da altre branche della medicina, degli studi cross-over: questi particolari disegni di studio consistono nell’esporre uno stesso paziente a più sequenze di trattamento intervallate da sequenze libere dal farmaco (wash-out) [26]. È stato di recente completato uno studio cross-over in pazienti affetti da CKD, diabetica e non, che ha incluso l’MRA eplerenone, lo studio ROTATE-3 [63]. Nel ROTATE-3 sono stati arruolati con eGFR compreso tra 30 e 90 mL/min, albuminuria ≥ 100 mg/24h, ed in trattamento con RAASi. I pazienti sono stati randomizzati, dopo un breve periodo di run-in mirato a confermare la stabilità della albuminuria, a ricevere in tre successivi periodi di trattamento delle durate di quattro settimane ciascuno (intervallati da quattro settimane di wash-out) eplerenone 50 mg/die, dapagliflozin 10 mg/die oppure la combinazione di eplerenone 50 mg/die + dapagliflozin 10 mg/die. L’endpoint primario dello studio è stato quello di valutare l’entità di risposta in termini di riduzione della albuminuria in base al tipo di farmaco somministrato, ed inoltre comprendere se i pazienti rispondessero similmente ai farmaci somministrati. Lo studio ha mostrato che la albuminuria si riduceva in media del 20% in seguito alla somministrazione di dapagliflozin, del 34% in seguito a eplerenone e di ben il 53% in seguito alla combinazione dei due trattamenti. Questa osservazione è stata importante in quanto per la prima volta si è compreso l’entità della risposta antialbuminurica di un MRA in associazione ad un inibitore di SGLT2, entrambi in aggiunta allo standard of care (RAASi). Inoltre, altro risultato importante dello studio è stata l’assenza di correlazione significativa tra le risposte alle tre fasi di trattamento. Questo dimostra che gli stessi pazienti non rispondono contemporaneamente al MRA ed al SGLT2 che hanno un meccanismo di azione differente e, ancora più importante, che coloro che non rispondono ad un farmaco, possono rispondere all’altro. L’assenza di correlazione spiega quindi la maggiore efficacia antialbuminurica quando usati in contemporanea.

Il ROTATE-3 si inserisce negli studi di combinazione farmacologica, studi sempre più evocati nel setting della CKD vista, come detto nelle precedenti sezioni, la necessità di modificare più target di trattamento contemporaneamente. Le combinazioni di più farmaci con diverso meccanismo di azione hanno un razionale scientifico robusto in CKD [64]. Gli MRA, sia steroidei che non, hanno un effetto opposto sulla potassiemia rispetto agli inibitori di SGLT2, i primi associandosi ad un incremento dei livelli mentre i secondi ad una riduzione per inibizione del riassorbimento tubulare. Nello studio ROTATE-3 il trattamento di combinazione eplerenone+dapagliflozin era associato ad un numero di episodio di iperpotassiemia significativamente inferiore rispetto al trattamento con eplerenone da solo (p=0.003), portando quindi non solo ad un aumento dell’efficacia antialbmunirica ma anche ad una riduzione dell’incidenza di uno dei più temibili effetti avversi. Inoltre MRA e SGLT2i hanno effetti sinergici di nefroprotezione riducendo entrambi la glomerulosclerosi e la progressione del danno renale. Simili effetti sinergici sono presenti tra MRA e ERA e tra ERA e SGLT2i (Tabella 2).

Classe del farmaco Meccanismo di azione Reazioni avverse Effetto sinergico con ERA
 

ERA (agonisti selettivi del recettore dell’endotelina tipo A)

 

Aumentano il flusso renale, riducono le alterazioni dei podociti, lo stress ossidativo, la sclerosi glomerulare e l’infiammazione.

 

 

Ritenzione di liquidi o ipervolemia e anemia.

RAASi (inibitori del sistema renina angiotensina aldosterone)

Riducono la pressione intraglomerulare tramite la vasodilatazione delle arteriole efferenti e l’incremento della produzione di prostaglandine.

Riducono la glomerulosclerosi, la proliferazione cellulare, la fibrosi tubulo-interstiziale e l’infiammazione.

Aumento dei livelli creatinina sierica, iperkaliemia, anemia e tosse.

Sia l’ATII che l’endotelina

(ET) -1 causano un aumento della produzione della matrice extracellualare e della fibrosi tubulo interstiziale.

L’ATII e l’aldosterone stimolano la produzione di ET-1 nei dotti collettori.

Aldosterone e ET-1 hanno un effetto opposto a livello dell’Enac.

Negli studi di fase due il trattamento combinato con ERA e RAASi ha dimostrato una migliore efficacia nel controllo della proteinuria rispetto al trattamento con solo RAASi.

 

SGLT2i (inibitori del cotrasporto sodio glucosio)

Riducono il riassorbimento di sodio e glucosio nel tratto prossimale del tubulo renale.

Aumentano l’apporto di sodio alla macula densa con conseguente normalizzazione del feedback tubulo glomerulare e riduzione dell’iperfiltrazione.

Infezioni del tratto genito-urinario, amputazione degli arti inferiori, cheto acidosi e insufficienza renale acuta.

La natriuresi indotta dagli SGLT2i può controbilanciare la ritenzione di fluidi (effetto avverso frequente del trattamento con ERA).

Sia gli ERA che gli SGLT2i riducono la rigidità vascolare, la disfunzione endoteliale, la sclerosi glomerulare, lo stress ossidativo e l’infiammazione.

 

Antagonisti del recettore mineralcorticoide (MRA) non steroidei Presentano una maggiore selettività e affinità per il recettore mineralcorticoide rispetto agli MRA steroiodei. Promuovono la degradazione e l’inattivazione dell’ENac con conseguente natriuresi. Iperkaliemia.

Gli MRA non steroidei e gli ERA causano rispettivamente un incremento e una riduzione dell’attività dell’ENac. La somministrazione sinergica potrebbe quindi ridurre la probabile ritenzione di fluidi conseguente al trattamento con ERA.

Sia gli ERA che gli MRA non steroidei determinano una riduzione della fibrosi e dell’infiammazione renale.

Tabella 2: Meccanismo di azione e potenziale effetto sinergico degli ERA in associazione con RAASi, SGLT2i e MRA non steroidei.

L’implementazione degli studi di associazione farmacologica in pazienti CKD sarà nel prossimo futuro una tappa importante per la ricerca clinica.  Relativamente ai nuovi MRA, è già in corso uno studio, il COmbinatioN effect of FInerenone anD EmpaglifloziN in participants with chronic kidney disease and type 2 diabetes using an UACR Endpoint study (CONFIDENCE), che valuterà l’efficacia antiproteinurica della combinazione finerenone+empagliflozin rispetto ai singoli trattamenti, in pazienti con CKD nelle fasi iniziali di malattia [65].

 

Conclusioni

La progressione verso la KF è uno dei principali “unmet clinical need” nella CKD, anche rispetto al rischio cardiovascolare che, negli ultimi anni, ha mostrato una progressiva diminuzione secondaria alla introduzione di terapie cardiovascolari più efficaci.

Il mancato miglioramento della prognosi renale dei pazienti con CKD è da attribuirsi in larga parte alla assenza in questi anni di nuovi farmaci nefroprotettivi.  Il rischio residuo nei pazienti trattati con la terapia standard, cioè i RAASi, resta infatti molto alto.  Ai RAASi, di recente, si sono aggiunti gli inibitori di SGLT2. Tuttavia, anche dopo uso combinato di queste due diverse classi di farmaci, il rischio di progressione della nefropatia verso la fase dialitica permane ancora significativo.

Il finerenone rappresenta un importante avanzamento nella storia della nefroprotezione in quanto va a riempire il vuoto della terapia mirata in primis a ridurre l’infiammazione e la fibrosi nella CKD con la minimizzazione degli eventi avversi tipici dei MRA steroidei, in particolare l’iperpotassiemia. I dati del FIDELIO-DKD dimostrano l’efficacia di finerenone sulla nefroprotezione a lungo termine in pazienti diabetici e con CKD ad alto rischio di progressione verso la fase dialitica anche se trattati con RAASi e inibitori di SGLT2.

 

Bibliografia

  1. Kidney Disease Improving Global Outcomes Work Group (2013). Chapter 4: other complications of CKD:  CVD, medication dosage, patient safety, infections, hospitalizations, and caveats for investigating complications of CKD. Kidney Int. Suppl. 3, 91–111. https://doi.org/10.1038/kisup.2012.67
  2. De Nicola L, Provenzano M, Chiodini P, Borrelli S, Garofalo C, Pacilio M, Liberti ME, Sagliocca A, Conte G, Minutolo R. Independent Role of Underlying Kidney Disease on Renal Prognosis of Patients with Chronic Kidney Disease under Nephrology Care. PLoS One. 2015 May 20;10(5):e0127071. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0127071
  3. Ballew SH, Matsushita K. Cardiovascular Risk Prediction in CKD. Semin Nephrol. 2018 May;38(3):208-216. https://doi.org/10.1016/j.semnephrol.2018.02.002
  4. Kalantar-Zadeh K, Jafar TH, Nitsch D, Neuen BL, Perkovic V. Chronic kidney disease. Lancet. 2021 Aug 28;398(10302):786-802. https://doi.org/10.1016/S0140-6736(21)00519-5.
  5. Provenzano M, Coppolino G, De Nicola L, Serra R, Garofalo C, Andreucci M, Bolignano D. Unraveling Cardiovascular Risk in Renal Patients: A New Take on Old Tale. Front Cell Dev Biol. 2019 Dec 3;7:314. https://doi.org/10.3389/fcell.2019.00314.
  6. Xie Y., Bowe B., Mokdad A. H., Xian H., Yan Y., Li T. et al. (2018). Analysis of the global burden of disease study highlights the global, regional, and national trends of chronic kidney disease epidemiology, https://doi.org/10.1016/j.kint.2018.04.011.
  7. De Zeeuw D, Heerspink HJL. Time for clinical decision support systems tailoring individual patient therapy to improve renal and cardiovascular outcomes in diabetes and nephropathy. Nephrol Dial Transplant. 2020 Mar 1;35(Suppl 2):ii38-ii42. https://doi.org/10.1093/ndt/gfaa013.
  8. Provenzano M, De Nicola L, Pena MJ, Capitoli G, Garofalo C, Borrelli S, Gagliardi I, Antolini L, Andreucci M. Precision Nephrology Is a Non-Negligible State of Mind in Clinical Research: Remember the Past to Face the Future. Nephron. 2020;144(10):463-478. https://doi.org/10.1159/000508983.
  9. Mayer G. Editorial: precision medicine in nephrology. Nephrol Dial Transplant. 2021 Jun 22;36(Suppl 2):1-2. https://doi.org/10.1093/ndt/gfaa366.
  10. Webster AC, Nagler EV, Morton RL, Masson P. Chronic Kidney Disease. Lancet. 2017 Mar 25;389(10075):1238-1252. https://doi.org/10.1016/S0140-6736(16)32064-5.
  11. Provenzano M, Mancuso C, Garofalo C, De Nicola L, Andreucci M. [Temporal variation of Chronic Kidney Disease’s epidemiology]. G Ital Nefrol. 2019 Apr;36(2):2019-vol2. Italian. PMID: 30983174. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/30983174/
  12. Lozano, R., Naghavi, M., Foreman, K., Lim, S., Shibuya, K., Aboyans, V., et al. (2012). Global and regional mortality from 235 causes of death for 20 age groups in 1990 and 2010: a systematic analysis for the Global Burden of disease study 2010. Lancet 380, 2095–2128. https://doi.org/10.1016/S0140-6736(12)61728-0.
  13. Murray C. J., and Lopez A. D. (2013). Measuring the global burden of disease. N. Engl. J. Med. 369, 448–457. https://doi.org/10.1056/NEJMra1201534
  14. International Diabetes Federation 2019. IDF Diabetes Atlas, 9th edn. https://diabetesatlas.org/en/  [accessed 18 May 2020]; 2. Wu B, et al. BMJ Open Diabetes Res Care 2016;4:e000154
  15. Deng Y, Li N, Wu Y, et al. Global, Regional, and National Burden of Diabetes-Related Chronic Kidney Disease From 1990 to 2019. Front Endocrinol (Lausanne). 2021 Jul 1;12:672350. https://doi.org/10.3389/fendo.2021.672350.
  16. ERA-EDTA Registry: ERA-EDTA Registry Annual Report 2019. Amsterdam UMC, location AMC, Department of Medical Informatics, Amsterdam, the Netherlands, 2021. https://www.era-online.org/en/registry/publications/annual-reports/
  17. Nitsch D, Grams M, Sang Y, Black C, Chronic Kidney Disease Prognosis Consortium et al. Associations of estimated glomerular filtration rate and albuminuria with mortality and renal failure by sex: a meta-analysis. BMJ. 2013 Jan 29;346:f324. https://doi.org/10.1136/bmj.f324.
  18. Chronic Kidney Disease Prognosis Consortium, Astor BC, Matsushita K, Gansevoort RT, van der Velde M. et al. Lower estimated glomerular filtration rate and higher albuminuria are associated with mortality and end-stage renal disease. A collaborative meta-analysis of kidney disease population cohorts. Kidney Int. 2011 Jun;79(12):1331-40. https://doi.org/10.1038/ki.2010.550.
  19. Provenzano M, Garofalo C, Chiodini P, Mancuso C, Barbato E, De Nicola L, Andreucci M. Ruolo della proteinuria nella ricerca clinica: per ogni vecchia risposta, una nuova domanda [Role of proteinuria in clinical research: for each old-answer, a new key-question.]. Recenti Prog Med. 2020 Feb;111(2):74-81. Italian. https://doi.org/10.1701/3309.32797.
  20. Gansevoort RT, Matsushita K, van der Velde M, Astor BC, Woodward M, Levey AS, de Jong PE, Coresh J; Chronic Kidney Disease Prognosis Consortium. Lower estimated GFR and higher albuminuria are associated with adverse kidney outcomes. A collaborative meta-analysis of general and high-risk population cohorts. Kidney Int. 2011 Jul;80(1):93-104. https://doi.org/10.1038/ki.2010.531.
  21. Provenzano M, Chiodini P, Minutolo R, Zoccali C, Bellizzi V, Conte G, Locatelli F, Tripepi G, Del Vecchio L, Mallamaci F, Di Micco L, Russo D, Heerspink HJL, De Nicola L. Reclassification of chronic kidney disease patients for end-stage renal disease risk by proteinuria indexed to estimated glomerular filtration rate: multicentre prospective study in nephrology clinics. Nephrol Dial Transplant. 2020 Jan 1;35(1):138-147. https://doi.org/10.1093/ndt/gfy217.
  22. Matsushita K, Coresh J, et al. Estimated glomerular filtration rate and albuminuria for prediction of cardiovascular outcomes: a collaborative meta-analysis of individual participant data. Lancet Diabetes Endocrinol. 2015 Jul;3(7):514-25. https://doi.org/10.1016/S2213-8587(15)00040-6.
  23. Waijer SW, de Vries ST, Busch R, Xie D et al. Large Between-Patient Variability in eGFR Decline before Clinical Trial Enrollment and Impact on Atrasentan’s Efficacy: A Post Hoc Analysis from the SONAR Trial. J Am Soc Nephrol. 2021 Nov;32(11):2731-2734. https://doi.org/10.1681/ASN.2021040498.
  24. Heerspink HJL, Greene T, Tighiouart H, Gansevoort RT, Coresh J, Simon AL, Chan TM, Hou FF, Lewis JB, Locatelli F, Praga M, Schena FP, Levey AS, Inker LA; Chronic Kidney Disease Epidemiology Collaboration. Change in albuminuria as a surrogate endpoint for progression of kidney disease: a meta-analysis of treatment effects in randomised clinical trials. Lancet Diabetes Endocrinol. 2019 Feb;7(2):128-139. https://doi.org/10.1016/S2213-8587(18)30314-0.
  25. Lambers Heerspink HJ, Weldegiorgis M, Inker LA, Gansevoort R, Parving HH, Dwyer JP, Mondal H, Coresh J, Greene T, Levey AS, de Zeeuw D. Estimated GFR decline as a surrogate end point for kidney failure: a post hoc analysis from the Reduction of End Points in Non-Insulin-Dependent Diabetes With the Angiotensin II Antagonist Losartan (RENAAL) study and Irbesartan Diabetic Nephropathy Trial (IDNT). Am J Kidney Dis. 2014 Feb;63(2):244-50. https://doi.org/10.1053/j.ajkd.2013.09.016.
  26. Provenzano M, Rotundo S, Chiodini P, Gagliardi I, Michael A, Angotti E, Borrelli S, Serra R, Foti D, De Sarro G, Andreucci M. Contribution of Predictive and Prognostic Biomarkers to Clinical Research on Chronic Kidney Disease. Int J Mol Sci. 2020 Aug 14;21(16):5846. https://doi.org/10.3390/ijms21165846.
  27. Perco P, Pena M, Heerspink HJL, Mayer G. Multimarker panels in diabetic kidney disease:  the way to improved clinical trial design and clinical practice?. Kidney Int Rep. 2018 Dec; 4(2): 212–21. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/30775618/
  28. Mayer G, Heerspink HJ, Aschauer C, Heinzel A, Heinze G, Kainz A, et al. Systems biology-derived biomarkers to predict progression of renal function decline in type 2 diabetes. Diabetes Care. 2017; 40(3): 391–7. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/28077457/
  29. De Vries JK, Levin A, Loud F, Adler A, Mayer G, Pena MJ. Implementing personalized medicine in diabetic kidney disease: stakeholders’ perspectives. Diabetes Obes Metab. 2018; 20(Suppl 3): 24–9, https://doi.org/10.1111/dom.13412.
  30. Pena MJ, Stenvinkel P, Kretzler M, Adu D, Agarwal SK, Coresh J, et al. Strategies to improve monitoring disease progression, assessing cardiovascular risk, and defining prognostic biomarkers in chronic kidney disease. Kidney Int. 2017 Oct; 7(2): 107–13. https://doi.org/10.1016/j.kisu.2017.07.005.
  31. Schievink B, de Zeeuw D, Parving H, Rossing P, Lambers Heerspink HJ. The renal protective effect of Angiotensin Receptor Blockers depends on intra- individual response variation in multiple risk markers. Br J Clin Pharmacol 2015:n/a-n/a. https://doi.org/10.1111/bcp.12655.
  32. Petrykiv SI, de Zeeuw D, Persson F, Rossing P, Gansevoort RT, Laverman GD, Heerspink HJL. Variability in response to albuminuria-lowering drugs: true or random? Br J Clin Pharmacol. 2017 Jun;83(6):1197-1204 https://doi.org/10.1111/bcp.13217.
  33. Provenzano M, Maritati F, Abenavoli C, Bini C, Corradetti V, La Manna G, Comai G. Precision Nephrology in Patients with Diabetes and Chronic Kidney Disease. Int J Mol Sci. 2022 May 20;23(10):5719. https://doi.org/10.3390/ijms23105719.
  34. Koomen JV, Stevens J, Bakris G, Correa-Rotter R, Hou FF, Kitzman DW, Kohan D, Makino H, McMurray JJV, Parving HH, Perkovic V, Tobe SW, de Zeeuw D, Heerspink HJL. Inter-individual variability in atrasentan exposure partly explains variability in kidney protection and fluid retention responses: A post hoc analysis of the SONAR trial. Diabetes Obes Metab. 2021 Feb;23(2):561-568. https://doi.org/10.1111/dom.14252.
  35. Minutolo R, Gabbai FB, Provenzano M, Chiodini P, Borrelli S, Garofalo C, Sasso FC, Santoro D, Bellizzi V, Conte G, De Nicola L. Cardiorenal prognosis by residual proteinuria level in diabetic chronic kidney disease: pooled analysis of four cohort studies. Nephrol Dial Transplant. 2018 Nov 1;33(11):1942-1949. https://doi.org/10.1093/ndt/gfy032.
  36. Minutolo R, Lapi F, Chiodini P, Simonetti M, Bianchini E, Pecchioli S, Cricelli I, Cricelli C, Piccinocchi G, Conte G, De Nicola L. Risk of ESRD and death in patients with CKD not referred to a nephrologist: a 7-year prospective study. Clin J Am Soc Nephrol. 2014 Sep 5;9(9):1586-93. https://doi.org/10.2215/CJN.10481013.
  37. Heerspink HJL, Parving HH, Andress DL, Bakris G et al. Atrasentan and renal events in patients with type 2 diabetes and chronic kidney disease (SONAR): a double-blind, randomised, placebo-controlled trial. Lancet. 2019 May 11;393(10184):1937-1947. https://doi.org/10.1016/S0140-6736(19)30772-X.
  38. Giugliano D, Maiorino MI, Bellastella G, Esposito K. The residual cardiorenal risk in type 2 diabetes. Cardiovasc Diabetol. 2021 Feb 5;20(1):36. https://doi.org/10.1186/s12933-021-01229-2.
  39. Oshima M, Neuen BL, Li J, Perkovic V et al. Early Change in Albuminuria with Canagliflozin Predicts Kidney and Cardiovascular Outcomes: A PostHoc Analysis from the CREDENCE Trial. J Am Soc Nephrol. 2020 Dec;31(12):2925-2936. https://doi.org/10.1681/ASN.2020050723.
  40. Kolkhof P, Jaisser F, Kim SY, Filippatos G, Nowack C, Pitt B. Steroidal and Novel Non-steroidal Mineralocorticoid Receptor Antagonists in Heart Failure and Cardiorenal Diseases: Comparison at Bench and Bedside. Handb Exp Pharma-col. 2017;243:271-305. https://doi.org/10.1007/164_2016_76.
  41. Gomez-Sanchez E, Gomez-Sanchez CE. The multifaceted mineralocorticoid receptor. Compr Physiol 2014;4:965–994. https://doi.org/10.1002/cphy.c130044.
  42. Rogerson FM, Fuller PJ. Mineralocorticoid action. Steroids. 2000 Feb;65(2):61-73. https://doi.org/10.1016/s0039-128x(99)00087-2.
  43. Selye H, Hall CE, Rowley EM. Malignant Hypertension Produced by Treatment with Desoxycorticosterone Acetate and Sodium Chloride. Can Med Assoc J. 1943 Aug;49(2):88-92. PMID: 20322846; PMCID: PMC1827836. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/20322846/
  44. Weber KT, Brilla CG. Pathological hypertrophy and cardiac interstitium. Fibrosis and renin-angiotensin-aldosterone system. Circulation. 1991 Jun;83(6):1849-65. https://doi.org/10.1161/01.cir.83.6.1849.
  45. Chun TY, Pratt JH (2005) Aldosterone increases plasminogen activator inhibitor-1 synthesis in rat cardiomyocytes. Mol Cell Endocrinol 239:55–61. https://doi.org/10.1016/j.mce.2005.03.016.
  46. Provenzano M, Andreucci M, Garofalo C, Faga T, Michael A, Ielapi N, Grande R, Sapienza P, Franciscis S, Mastroroberto P, Serra R. The Association of Matrix Metalloproteinases with Chronic Kidney Disease and Peripheral Vascular Disease: A Light at the End of the Tunnel? Biomolecules. 2020 Jan 17;10(1):154. https://doi.org/10.3390/biom10010154.
  47. Staessen J, Lijnen P, Fagard R, Verschueren LJ, Amery A. Rise in plasma concentration of aldosterone during long-term angiotensin II suppression. J Endocrinol. 1981 Dec;91(3):457-65. https://doi.org/10.1677/joe.0.0910457.
  48. Wei L, Struthers AD, Fahey T, Watson AD, Macdonald TM. Spironolactone use and renal toxicity: population based longitudinal analysis. BMJ 2010;340: c1768–c1768, https://doi.org/10.1136/bmj.c1768.
  49. Pitt B, Remme W, Zannad F, Neaton J, Martinez F, Roniker B, Bittman R, Hurley S, Kleiman J, Gatlin M. Eplerenone, a selective aldosterone blocker, in patients with left ventricular dysfunction after myocardial infarction. N Engl J Med 2003; 348:1309–1321. https://doi.org/10.1056/NEJMoa030207.
  50. Zannad F, McMurray JJ, Krum H, van Veldhuisen DJ, Swedberg K, Shi H, Vincent J, Pocock SJ, Pitt B. Eplerenone in patients with systolic heart failure and mild symptoms. N Engl J Med 2011;364:11–21. https://doi.org/10.1056/NEJMoa1009492.
  51. Charytan DM, Himmelfarb J, Ikizler TA, Raj DS et al. Safety and cardiovascular efficacy of spironolactone in dialysis-dependent ESRD (SPin-D): a randomized, placebocontrolled, multiple dosage trial. Kidney Int 2019;95:973–982. https://doi.org/10.1016/j.kint.2018.08.034.
  52. Agarwal R, Kolkhof P, Bakris G, Bauersachs J, Haller H, Wada T, Zannad F. Steroidal and non-steroidal mineralocorticoid receptor antagonists in cardiorenal medicine. Eur Heart J. 2021 Jan 7;42(2):152-161. https://doi.org/10.1093/eurheartj/ehaa736.
  53. Kolkhof P, Delbeck M, Kretschmer A, Steinke W, Hartmann E, Ba¨rfacker L, Eitner F, Albrecht-Ku¨pper B, Scha¨fer S. Finerenone, a novel selective nonsteroidal mineralocorticoid receptor antagonist protects from rat cardiorenal injury. J Cardiovasc Pharmacol 2014;64:69–78. https://doi.org/10.1097/FJC.0000000000000091.
  54. Platt D, Pauli H. Studies on organ- and subcellular distribution of 3H-spironolactone in animals. Arzneimittelforschung 1972;22:1801–1802. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/4677078/
  55. Heinig R, Kimmeskamp-Kirschbaum N, Halabi A, Lentini S. Pharmacokinetics of the Novel Nonsteroidal Mineralocorticoid Receptor Antagonist Finerenone (BAY 94-8862) in Individuals With Renal Impairment. Clin Pharmacol Drug Dev. 2016 Nov;5(6):488-501. https://doi.org/10.1002/cpdd.263.
  56. Grune J, Beyhoff N, Smeir E, Chudek R, Blumrich A, Ban Z, Brix S, Betz IR, Schupp M, Foryst-Ludwig A, Klopfleisch R, Stawowy P, Houtman R, Kolkhof P, Kintscher U. Selective mineralocorticoid receptor cofactor modulation as molecular basis for finerenone’s antifibrotic activity. Hypertension 2018;71:599–608. https://doi.org/10.1161/HYPERTENSIONAHA.117.10360.
  57. Bärfacker L, Kuhl A, Hillisch A, Grosser R, Figueroa-Pérez S, Heckroth H, Nitsche A, Ergüden JK, Gielen-Haertwig H, Schlemmer KH, Mittendorf J, Paulsen H, Platzek J, Kolkhof P. Discovery of BAY 94-8862: a nonsteroidal antagonist of the mineralocorticoid receptor for the treatment of cardiorenal diseases. ChemMedChem. 2012 Aug;7(8):1385-403. https://doi.org/10.1002/cmdc.201200081.
  58. Fagart J, Hillisch A, Huyet J, Bärfacker L, Fay M, Pleiss U, Pook E, Schäfer S, Rafestin-Oblin ME, Kolkhof P. A new mode of mineralocorticoid receptor antagonism by a potent and selective nonsteroidal molecule. J Biol Chem. 2010 Sep 24;285(39):29932-40. https://doi.org/10.1074/jbc.M110.131342.
  59. Bakris GL, Agarwal R, Anker SD, Pitt B, Ruilope LM, Rossing P, Kolkhof P, Nowack C, Schloemer P, Joseph A, Filippatos G; FIDELIO-DKD Investigators. Effect of Finerenone on Chronic Kidney Disease Outcomes in Type 2 Diabetes. N Engl J Med. 2020 Dec 3;383(23):2219-2229. https://doi.org/10.1056/NEJMoa2025845.
  60. Pitt B, Filippatos G, Agarwal R, Anker SD, Bakris GL, Rossing P, Joseph A, Kolkhof P, Nowack C, Schloemer P, Ruilope LM; FIGARO-DKD Investigators. Cardiovascular Events with Finerenone in Kidney Disease and Type 2 Diabetes. N Engl J Med. 2021 Dec 9;385(24):2252-2263. https://doi.org/10.1056/NEJMoa2110956.
  61. Rossing P, Filippatos G, Agarwal R, et al.; FIDELIO-DKD Investigators. Finerenone in Predominantly Advanced CKD and Type 2 Diabetes With or Without Sodium-Glucose Cotransporter-2 Inhibitor Therapy. Kidney Int Rep. 2021 Oct 14;7(1):36-45, https://doi.org/10.1016/j.ekir.2021.10.008.
  62. Rossing P, Anker SD, Filippatos G, Pitt B, Ruilope LM, Birkenfeld AL, McGill JB, Rosas SE, Joseph A, Gebel M, Roberts L, Scheerer MF, Bakris GL, Agarwal R. Finerenone in Patients With Chronic Kidney Disease and Type 2 Diabetes by Sodium-Glucose Cotransporter 2 Inhibitor Treatment: The FIDELITY Analysis. Diabetes Care. 2022 Aug 15:dc220294. https://doi.org/10.2337/dc22-0294.
  63. Provenzano M, Puchades MJ, Garofalo C, Jongs N, D’Marco L, Andreucci M, De Nicola L, Gorriz JL, Heerspink HJL; ROTATE-3 study group; ROTATE-3 study group members. Albuminuria-Lowering Effect of Dapagliflozin, Eplerenone, and Their Combination in Patients with Chronic Kidney Disease: A Randomized Crossover Clinical Trial. J Am Soc Nephrol. 2022 Aug;33(8):1569-1580. https://doi.org/10.1681/ASN.2022020207.
  64. Provenzano M, Andreucci M, Garofalo C, Minutolo R, Serra R, De Nicola L. Selective endothelin A receptor antagonism in patients with proteinuric chronic kidney disease. Expert Opin Investig Drugs. 2021 Mar;30(3):253-262. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33356648/.
  65. Green JB, Mottl AK, Bakris G, Heerspink HJL, Mann JFE, McGill JB, Nangaku M, Rossing P, Scott C, Gay A, Agarwal R. Design of the COmbinatioN effect of FInerenone anD EmpaglifloziN in participants with chronic kidney disease and type 2 diabetes using an UACR Endpoint study (CONFIDENCE). Nephrol Dial Transplant. 2022 Jun 14:gfac198. https://doi.org/10.1093/ndt/gfac198.

Hyperphosphatemic pseudotumoral calcinosis due to FGF23 mutation with secondary amyloidosis

Abstract

A 44 years old man was admitted for nephrotic syndrome and rapidly progressive renal failure. Two firm, tumour-like masses were localized around the left shoulder and the right hip joint. Since the age of 8 years old, the patient had a history of metastatic calcification of the soft tissues suggesting hyperphosphatemic pseudotumoral calcinosis. Despite treatment for a long time with phosphate binders the metastatic calcinosis had to be removed with several surgeries. The patient had also a history of recurrent fever associated with pain localized toward the two masses and underwent multiple antibiotic courses. Laboratory findings at admission confirmed nephrotic syndrome. S-creatinine was 2.8 mg/dl. Calcium was 8.4 mg/dl, Phosphorus 8.2 mg/dl, PTH 80 pg/ml, 25 (OH)VitD 8 ng/ml. Serum amyloid A was slightly increased. We performed renal biopsy and we found AA amyloid deposits involving the mesangium and the tubules. The bone marrow biopsy revealed the presence of AA amyloid in the vascular walls. During the next two months renal failure rapidly progressed and the patient started hemodialysis treatment. We performed genetic analysis that confirmed homozygous mutation of the FGF23 gene. After 14 months on hemodialysis, the patient’s lesions are remarkably and significantly reduced in dimension. The current phosphate binder therapy is based on sevelamer and lanthanum carbonate. Serum amyloid A is persistently slightly increased as well as C reactive protein. Proteinuria is in the nephrotic range without nephrotic syndrome.

Keywords: pseudotumoral calcinosis, tumoral calcinosis, FGF23, AA amyloid, renal failure, dialysis

Sorry, this entry is only available in Italian.

Introduzione

La calcinosi pseudotumorale iperfosfatemica è una rara condizione dovuta a deficit o resistenza all’azione del fibroblast growth factor 23 (FGF23). Dal punto di vista genetico, essa è associata a varianti patogenetiche a trasmissione autosomica recessiva, nei geni codificanti per FGF23 [21] e GALNT3. Quest’ultimo, a sua volta, codifica per una proteina responsabile della glicosilazione di FGF 23 [2123] e KL, regolatrici di KLOTHO, noto co-recettore fondamentale per la trasmissione intracellulare di FGF23 [3]. Ricordiamo che l’azione di FGF23 (Klotho-dipendente) si manifesta in modo simile a quella del paratormone (PTH) a livello del tubulo prossimale, dove inibisce i cotrasportatori sodio-fosforo IIa e IIc, con conseguente effetto fosfaturico. Sull’attivazione della Vit D3, invece, l’azione è opposta a quella del PTH, infatti FGF23 inibisce l’attività della 1-alfa idrossilasi e, quindi, causa una riduzione della 1-25 (OH) Vit D con conseguente inibizione, regolata dal cotrasportatore sodio-fosforo IIb, dell’assorbimento intestinale sia di calcio che di fosforo. In corso di calcinosi pesudotumorale iperfosfatemica, dunque, le mutazioni portano alla perdita della funzione fosfaturica dell’FGF23 con incremento del riassorbimento tubulare del fosforo e dell’1,25 diidrossi Vitamina D; il calcio di solito è normale-elevato e i livelli di PTH sono di solito normali o bassi. 

La visualizzazione dell’intero documento è riservata a Soci attivi, devi essere registrato e aver eseguito la Login con utente e password.

A case of AL amyloidosis with fulminant evolution

Abstract

Amyloidosis represents a heterogeneous group of pathologies characterized by the deposit, in the form of fibrils, in the various organs and tissues of the body, of abnormal proteins; the deposits made up of these fibrils are called amyloid or amyloid substance. AL amyloidosis, also called “light chains”, is a primary form characterized by deposits of light chains of monoclonal immunoglobulins, proteins that are produced by the bone marrow with the aim of protecting the body from pathological processes; for unknown reasons, these immunoglobulins, once fulfilled their function, do not dissolve but, on the contrary, they transform into amyloid fibrils and accumulate progressively, transported by the bloodstream, in the various organs and tissues. Below we report the case of a 77-year-old Caucasian male patient hospitalized at our Operative Unit for nephrotic syndrome and creatinine increase in the last couple of months, compared to previous normal tests. The patient underwent a renal biopsy and a bone marrow smear with evidence of AL amyloidosis (or primary amyloidosis) and of the presence, at serum immunofixation, of small IgG multiple myeloma k. Treated with bortezomib (1 mg/m2) and soldesam (10 mg) first and with lenalidomid after, the patient had a clinical course burdened by symptomatic hypotension, due to severe dysautonomia. He had to start replacement treatment with haemodiafiltration for terminal kidney disease two months after the onset of illness. He died 4 months after the first hospitalization for nephrotic syndrome.

 

Keywords: AL amyloidosis, multiple myeloma, renal failure, haemodiafiltration

Sorry, this entry is only available in Italian.

Introduzione

L’amiloidosi è una patologia caratterizzata dal deposito di una proteina con ripiegamento beta-shift. Attualmente si conoscono circa 30 tipologie di amiloidosi, ereditarie o meno, classificate in base ai segni clinici ed alle caratteristiche biochimiche della sostanza amiloide coinvolta [1]. Alcune delle forme più frequenti sono l’amiloidosi AL (amiloidosi da immunoglobuline/catene leggere), l’amiloidosi AA (infiammatoria/reattiva) e l’amiloidosi ATTR (da accumulo di transtiretina).

L’amiloidosi AL (o amiloidosi primaria) è la forma più comune, con un’incidenza di circa 0,8 casi ogni 100.000 abitanti per anno, ed anche quella con la prognosi peggiore. In questa variante della malattia, il cosiddetto “clone amiloidogeno” è rappresentato da frammenti delle catene leggere delle immunoglobuline (anticorpi dalle plasmacellule midollari, cellule linfoidi giunte a maturazione in grado di sintetizzare immunoglobuline) che formano fibrille le quali si depositano nei tessuti. In questo caso, l’amiloidosi rientra nelle “discrasie plasmacellulari” ed è una patologia che si può manifestare con una grande varietà di segni e sintomi che dipendono dagli organi colpiti [2]. Può presentarsi come patologia isolata o in associazione con il mieloma multiplo. Gli organi più frequentemente coinvolti dal deposito delle fibrille sono il cuore (nel 75% dei pazienti), i reni (nel 65% dei casi), l’apparato gastrointestinale, il fegato (20%), la cute, i nervi periferici che trasmettono la sensibilità dai piedi e dalle mani e quelli che regolano la pressione arteriosa (20%) e gli occhi.

Molto utile alla determinazione della sopravvivenza dei pazienti affetti da amiloidosi AL può risultare la misurazione di biomarkers di danno cardiaco quali i peptidi natriuretici, ovvero la porzione amino-terminale del peptide natriuretico di tipo B (NT-proBNP) e delle troponine cardiache (cTn) [34].

I sintomi che possono far sospettare un’amiloidosi sono numerosi ed alcuni sono tipici della malattia: una proteinuria fino alla sindrome nefrosica, disturbi del ritmo cardiaco per infiltrazione del sistema di conduzione, ipertrofia del ventricolo sinistro con ispessimento ed irrigidimento delle pareti ventricolari e del setto interatriale, ipotensione ortostatica, sincope, vertigini, epatomegalia senza cause apparenti, polineuropatia, sindrome del tunnel carpale, porpora periorbitale (per fragilità capillare dovuta a deposito vascolare di amiloide), macroglossia. La comparsa di stanchezza e dimagramento inspiegabili è un sintomo frequente nel paziente con amiloidosi [59].

Le terapie impiegate nell’amiloidosi AL sono atte a contrastare le plasmacellule che producono la paraproteina e si basano su combinazioni di diversi farmaci [10].  

Per i pazienti giovani, con condizioni generali buone è possibile eseguire l’autotrapianto di cellule staminali, una procedura che si avvale di chemioterapia ad alta dose, che elimina tutte le cellule del midollo osseo, che viene poi ricostituito grazie alle cellule staminali del paziente, prelevate in precedenza e crioconservate [11].

Tra i farmaci usati nel trattamento dell’amiloidosi AL spicca l’azione di due classi: l’inibitore del proteasoma, bortezomib e gli immunomodulatori, derivati dalla talidomide, lenalidomide e pomalidomide.

Negli ultimi anni si è affermato anche il ruolo dell’immunoterapia con anticorpi monoclonali antiCD-38, diretti contro le plamascellule, come il Daratumumab.

Il proteasoma è un complesso multiproteico presente in tutte le cellule dell’organismo, con il ruolo di degradare i polipeptidi all’interno della cellula. La sua inibizione porta ad un arresto del ciclo cellulare ed alla morte per apoptosi. Tra gli effetti collaterali degli inibitori del proteasoma vi è la riattivazione dell’Herpes Zoster, la neuropatia periferica, la leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML), l’ipotensione ortostatica, l’insufficienza cardiaca [1216].

 

Caso clinico

Riportiamo un caso di un paziente 77enne, di razza caucasica, con una storia anamnestica di cardiopatia ischemica all’età di 62aa e di TIA nel 2010, iperteso in terapia con amlodipina 5 mg, ramipril 5 mg ed amiloride/idroclorotiazide 2.5/25 mg. Nel luglio 2012 tumore corde vocali trattato con radioterapia.

Nel dicembre 2018 si ricovera per alcuni giorni, dal 22 al 31, presso la nostra unità di Nefrologia per inquadramento clinico-diagnostico in funzione di una proteinuria significativa allo spot urinario (2.6 g/l), edemi declivi, ipertensione; all’ingresso si mette in evidenza un aumento della creatinina (1.4 mg/dl) che fino ad allora era sempre stata nella norma (creatinina di 1 mg/dl all’ultimo controllo del novembre 2018). Un’ecocardiogramma di fine dicembre 2018 mostrava un ventricolo sx di normali dimensioni, con lieve ipertrofia settale ed acinesia inferiore basale; funzione contrattile globale discretamente conservata (FE 55%). Nel corso della degenza è emersa una sindrome nefrosica (9.7 gr/24h), associata a disprotidemia (proteine totali 50 g/L) e si confermava un deterioramento della funzione renale (creatininemia stabile a 1.4 mg/dl). Abbiamo sottoposto il paziente ad una serie di controlli ematochimici, anche in funzione di una valutazione per eventuale biopsia renale, quali il dosaggio dei markers tumorali per escludere sindromi paraneoplastiche con riscontro di rilevante aumento del Ca125 (641 KU/L) e minimo del Ca 15-3 (33 KU/L), e la batteria autoimmunitaria, in cui emergeva esclusivamente un minimo aumento non rilevante del C3 (2.190 g/l) e C4 (0.550 g/l); anche i markers virali risultavano negativi. Era stato dimesso a fine dicembre 2018 con l’intenzione di approfondire a breve il quadro clinico e con una creatininemia sempre intorno a 1.4 mg/dl e GFR stimato (con formula MDRD) di 52 ml/min.

Dal 14 gennaio al 15 febbraio nuovo ricovero in Nefrologia con una creatininemia all’ingresso di 2.36 mg/dl. Visto l’aumento dei markers tumorali e l’anamnesi positiva per pregressa neoplasia, è stato sottoposto, dopo pochi giorni dall’ingresso e previa premedicazione, a Tac stadiante con mdc con riscontro di “multiple formazioni linfonodali sovra e sottodiaframmatiche nel mediastino superiore, anteriormente alla trachea, in sede ilare bilateralmente, nel retroperitoneo superiore, all’altezza dell’origine del tripode celiaco, con diametro massimo 22 mm. Reni in sede, con spessore parenchimale modestamente assottigliato ed effetto parenchimografico simmetrico. Aumentate di dimensioni due alterazioni ossee osteoaddensanti all’ala sacrale di destra ed all’altezza del II metamero sacrale”. Dal punto di vista laboratoristico, un’immunofissazione sierica evidenziava componente monoclonale IgG kappa <1 g/l.

Il 4 febbraio 2019 veniva sottoposto a biopsia renale con diagnosi di amiloidosi AL (colorazione rosso Congo positiva) (Fig. 1); il frustolo di parenchima renale comprendeva 19 glomeruli di cui 2 scleroialini. Tutti i glomeruli erano caratterizzati da espansione della matrice mesangiale con ispessimento della membrana basale capillare per deposizione di materiale debolmente PAS positivo che in alcuni glomeruli assumeva un aspetto nodulare; nell’interstizio erano presenti foci di infiltrato infiammatorio di tipo linfocitario e plasmacellulare e materiale debolmente PAS positivo con focali aree di atrofia tubulare. Il lume dei tubuli era occupato da voluminosi cilindri ed i vasi di medio e piccolo calibro erano ispessiti per la presenza del materiale debolmente PAS positivo”. L’amiloide non è stata tipizzata con l’immunogold o altro.

 

Fig. 1: A) (Rosso Congo; 40x) La colorazione rosso Congo mette in evidenza depositi di amiloide attorno ai vasi ed all’interno dei glomeruli (frecce). Questi depositi hanno mostrato dicroismo alla luce polarizzata; B) (Colorazione tricromica; 200x) Amiloide (depositi blu) all’interno del glomerulo (asterisco); C) (PAS; 200x) Amiloide (deposito rosa) all’interno del glomerulo (freccia); D: Amiloide (deposito rosa) attorno ai vasi (freccia).

Era stato anche eseguito uno striscio su sangue midollare con presenza di infiltrato plasmacellulare pari al 10% della cellularità totale, in quadro compatibile con mieloma multiplo ed amiloidosi renale (catene Kappa libere: 379 mg/l; catene lambda libere: 32.90 mg/l; rapporto K/L libere di 11.520 ratio; BJ: 210 mg/l). In quell’occasione la creatinina era aumentata a 2.7 mg/dl, NT-proBNP era 5923 pg/ml e la troponina T di 43.41 ng/l; a fine febbraio 2019 veniva ripetuto un’ecocardiogramma che mostrava un ventricolo sinistro lievemente ipertrofico con pareti isoecogene e contrattilita’ globale normale (FE 55%) e dilatazione biatriale.

Dal punto di vista clinico, durante la degenza si è instaurato un quadro di ipotensione ortostatica ingravescente che ha reso necessaria la sospensione della terapia antipertensiva e la prescrizione di midodrina (30 gtt tre volte al giorno).

Dopo confronto multidisciplinare con oncologo ed ematologo del nostro nosocomio e con il centro di riferimento dell’amiloidosi di Pavia, non sono stati presi in considerazione ulteriori accertamenti strumentali (RMN cardiaca, PET-TAC, biopsia linfonodale) e si è deciso di iniziare, dall’11 febbraio 2019, terapia farmacologica di prima linea, secondo lo schema Vel-Dex: bortezomib (1 mg/m2 sottocute settimanale) e desametasone 10 mg per 2 giorni settimanali, con un ciclo completo eseguito nell’arco di quattro settimane. A questi farmaci abbiamo associato anche l’aciclovir 200 mg due volte al giorno per il noto rischio di riattivazione di herpes zooster. Alla dimissione la funzione renale era ulteriormente peggiorata con una creatininemia di 5.3 mg/dl.

Nel corso del terzo ricovero in Nefrologia, dal 20 febbraio al 29 marzo 2019, si iniziava trattamento emodialitico sostitutivo con emodiafiltrazione [1718] per ulteriore peggioramento della funzione renale (azotemia 160 mg/dl, creatininemia 6.9 mg/dl) ed oligoanuria.

A fine marzo 2019, dopo il primo ciclo di trattamento con Vel/Dex, si assisteva ad un significativo aumento dell’NT-proBNP (2176 pg/ml); peggiorava anche il profilo delle FLC con catene Kappa libere: 627 mg/l; catene lambda libere: 48.40 mg/l; rapporto K/L libere di 12.960 ratio.

Era ancora molto evidente, inoltre, il quadro di ipotensione ortostatica, ulteriormente aggravato dalla terapia con bortezomib, il cui dosaggio, anche in accordo con il centro di riferimento di Pavia, veniva ridotto a 0.7 mg/m2.

Dal punto di vista laboratoristico si manifestava aumento dei valori delle FLC con catene Kappa libere di 771 mg/l, catene lambda libere di 81.8 mg/l ed un rapporto K/L libere di 14.210 ratio.

Durante tutto il decorso della malattia non si sono registrati miglioramenti nei livelli dei biomarkers misurati (pro-BNP, troponina T, catene leggere libere circolanti) (Tabella 1).

 

  GENNAIO 2019 MARZO 2019 APRILE 2019
pro-BNP (v.n. <100 pg/ml) 5923 21176 20267
S-Kappa lib. (v.n. 3,30 – 19,40 mg/l) 379 627 771
S-Lambda lib. (v.n. 5,71 – 26,30 mg/l) 32.9 48.4 81.8
S-rapporto K/L lib. (v.n. 0,300 – 1,200 ratio) 11.520 12.960 14.200
S-TnT (v.n. 0,00 – 14,00 ng/l) 43.41 80 190
Tabella 1: Andamento temporale livelli ematici biomarcatori di Amiloidosi AL

Concluso il primo ciclo di Vel/Dex, su indicazione dello specialista ematologo, si sospendeva il trattamento con bortezomib, già a dosi ridotte, e si intraprendeva trattamento con lenalidomide 5 mg/die, associato al desametasone. Dopo una settimana dall’inizio della terapia con lenalidomide il paziente è deceduto per arresto cardio-circolatorio, a distanza di quattro mesi dall’esordio di malattia.

 

Discussione

L’amiloidosi AL fa parte di un gruppo eterogeneo di patologie caratterizzate dall’accumulo di materiale proteico fibrillare, definito amiloide. È una malattia rara e difficile da diagnosticare perché spesso si presenta con sintomi aspecifici e, a differenza del mieloma multiplo, del quale condivide alcuni schemi terapeutici, non è solo una neoplasia ematologica ma può presentare un danno funzionale multiorgano che espone i pazienti ad una maggiore tossicità delle terapie farmacologiche [1921].

L’obiettivo principale della terapia dell’amiloidosi AL è quello di rallentare o arrestare la produzione della proteina che causa il danno degli organi coinvolti; sulla prognosi della malattia incide non soltanto il tipo di terapia utilizzata ma anche il monitoraggio di biomarcatori (proBNP, FLC, cTn) che possano rendere il più precoce possibile la diagnosi e contribuire positivamente all’outcome stesso.

La terapia farmacologica dell’amiloidosi AL si avvale di varie strategie che tengono conto anche della stratificazione dei pazienti affetti da amiloidosi a seconda del basso, medio ed alto rischio (Tabella 2) [22]; il trapianto autologo di cellule staminali periferiche, associato ad alte dosi di melphalan, è considerato il trattamento più efficace nei pazienti a basso rischio, con età inferiore a 65 anni, con normale troponina cardiaca, frazione di eiezione ventricolare > 45%, PAS >90 mmHg, clearance della creatinina > 50 ml/min [23].

 

Tabella 2: Stratificazione del rischio clinico nei pazienti con amiloidosi AL (relative al centro di riferimento nazionale delle amiloidosi di Pavia) [20]

L’associazione di melphalan e desametasone (MDex) o la combinazione di ciclofosfamide, thalidomide e desametasone (CTD) ha mostrato gli stessi risultati del protocollo precedente ma con una tossicità minore.

I pazienti con malattia avanzata, e ad alto rischio, possono giovarsi di un trattamento di prima scelta definito dalla combinazione dell’inibitore del proteosoma, bortezomib, con il  desametasone (Vel/Dex), protocollo che migliora la sopravvivenza dei pazienti con insufficienza cardiaca sintomatica [2426], come confermato da una metanalisi del 2019, in cui veniva posto l’accento sull’efficacia, tra le varie associazioni di terapie, del protocollo Vel/Dex sulla remissione completa [27].

I farmaci appartenenti alla categoria degli IMiDs (immunomodulatori) hanno trovato un loro spazio come rescue therapy nell’amiloidosi AL. A questa categoria appartengono la thalidomide, lenalidomide e pomalidomide; essi vengono riservati ai pazienti con recidiva di malattia e che non possono essere nuovamente sottoposti a terapie di primo livello. Questi farmaci sono in grado di superare le resistenze agli alchilanti ed all’inibitore del proteasoma e garantiscono, a seconda degli studi, una risposta ematologica tra il 40 ed il 60% [2829].

 

Conclusioni

L’amiloidosi AL rappresenta una patologia che può ancora oggi avere un’evoluzione clinica verso l’exitus. Nella prognosi gioca un ruolo importante sia la diagnosi precoce che l’eventuale interessamento multiorgano.

Nel caso clinico in questione il paziente ha presentato già all’esordio sintomi di interessamento multiorgano (sindrome nefrosica ed insufficienza renale) con successiva insufficienza renale ingravescente richiedente trattamento dialitico; i livelli aumentati di NT- ProBNP, patognomonici di interessamento cardiaco da amilodosi, non correlavano con il dato ecocardiografico e sono rimasti stabilmente elevati anche durante la chemioterapia. L’inizio della terapia con bortezomib e desametasone (schema Vel-Dex) non ha sortito gli effetti sperati ma ha complicato sintomi clinici già presenti, come l’ipotensione ortostatica ingravescente, ed il profilo delle FLC all’immunofissazione sierica è progressivamente peggiorato. L’evoluzione verso l’exitus è stata quasi fulminante, considerando che, in quattro mesi dall’esordio della sindrome, il decesso è arrivato dopo la conclusione del primo ciclo di Vel-Dex e l’inizio della terapia alternativa con lenalidomide.

 

 

Bibliografia

  1. Comenzo RL. Current and emerging views and treatments of systemic immunoglobulin light-chain (Al) amyloidosis. Contrib Nephrol 2007; 153:195-210.
  2.  Li G, Han D, Wei S, Wang H, Chen L. Multiorgan involvement by amyloid light chain amyloidosis. J Int Med Res 2019 Apr; 47(4):1778-86. https://doi.org/10.1177/0300060518814337
  3. Palladini G, Hegenbart U, Milani P, et al. A staging system for renal outcome and early markers of renal response to chemotherapyin AL amyloidosis. Blood 2014; 124:2325-32.
  4. Kumar S, Dispenzieri A, Lacy MQ, et al. Revised prognostic staging system for light chain amyloidosis incorporating cardiac bio and serum free light chains measurements markers. J Clin Oncol 2012; 30(9):989-95.
  5. Adams D, Suhr OB, Hund E, et al. First European consensus for diagnosis, management, and treatment of transthyretin familial amyloid polyneuropathy. Curr Opin Neurol 2016; 29(S1):S14-S26.
  6. Adams D, Théaudin M, Cauquil C, et al. FAP neuropathy and emerging treatments. Curr Neurol Neurosci Rep 2014; 14(3):435.
  7. Lalande S, Johnson BD. Diastolic dysfunction: a link between hypertension and heart failure. Drugs Today (Barc) 2008; 44(7):503-13.
  8. Rapezzi C, Longhi S, Milandri A, et al. Cardiac involvement in hereditary-transthyretin related amyloidosis. Amyloid 2012; 19(S1):16-21.
  9. Szigeti K, Lupski JR. Charcot-Marie-Tooth disease. Eur J Hum Genet 2009; 17(6):703-10.
  10. Varga C, Titus SE, Toskic D, Comenzo RL. Use of novel therapies in the treatment of light chain amyloidosis. Blood Rev 2019; 37. https://doi.org/10.1016/j.blre.2019.05.005
  11. Miyazaki K, Suzuki K. Autologous Hematopoietic Cell Transplantation Versus Chemotherapy Alone for Immunoglobulin Light Chain Amyloidosis: A Retrospective Study. Clin Lymphoma Myeloma Leuk 2019 Jul; 19(7):413-22. https://doi.org/10.1016/j.clml.2019.02.009
  12. Kastritis E, Wechalekar AD, Dimopoulos MA, Merlini G, Hawkins PN, Perfetti V, et al. Bortezomib with or without dexamethasone in primary systemic (light chain) amyloidosis. J Clin Oncol 2010; 28:1031-37.
  13. Palladini G, Milani P, Foli A, et al. Melphalan and dexamethasone with or without bortezomib in newly diagnosed AL amyloidosis: a matched case-control study on 174 patients. Leukemia 2014; 28:2311-16.
  14. Reece DE, Hegenbart U, Sanchorawala V, et al. Efficacy and safety of once-weekly and twice-weekly bortezomib in patients with relapsed systemic AL amyloidosis: results of a phase 1/2 study. Blood 2011; 118:865-73.
  15. Venner CP, Gillmore JD, Sachchithanantham S, et al. A matched comparison of cyclophosphamide, bortezomib and dexamethasone (CVD) versus risk-adapted cyclophosphamide, thalidomide and dexamethasone (CTD) in AL amyloidosis. Leukemia 2014; 28:2304-10.
  16. Kastritis E, Gavriatopoulou M, Roussou M, et al. Addition of cyclophosphamide and higher doses of dexamethasone do not improve outcomes of patients with AL amyloidosis treated with bortezomib. Blood Cancer J 2017; 7:e570.
  17.  Hutchison CA, Cockwell P, Moroz V, Bradwell AR, Fifer L, et al. High cutoff versus high-flux haemodialysis for myeloma cast nephropathy in patients receiving bortezomib-based chemotherapy (EuLITE): a phase 2 randomised controlled trial. Lancet Haematol 2019 Apr; 6(4):e217-e228. https://doi.org/10.1016/S2352-3026(19)30014-6
  18. Machiguchi T, Tamura T, Yoshida H. Efficacy of haemodiafiltration treatment with PEPA dialysis membranes in plasma free light chain removal in a patient with primary amyloidosis. Nephrol Dial Transplant 2002 Sep; 17(9):1689-91.
  19. Palladini G, Merlini G. Current treatment of AL amyloidosis. Haematologica 2009; 94:1044-48.
  20. Merlini G, Seldin DC, Gertz MA. Amyloidosis: pathogenesis and new therapeutic options. J Clin Oncol 2011; 29:1924-33.
  21. Merlini G, Palladini G. Amyloidosis: is a cure possible? Ann Oncol 2008;19(S4):iv63-6.
  22. Palladini G, Merlini G. What in new in the diagnosis and management of light chain amyloidosis? Blood 2016; 128:159-67.
  23. Sanchorawala V, Sun F, Quillen K, et al. Long-term outcome of patients with AL amyloidosis treated with high-dose melphalan and stem cell transplantation: 20-year experience. Blood 2015; 126:2345-47. https://doi.org/10.1182/blood-2015-08-662726
  24. Brett Sperry, et al. Efficacy of Chemotherapy for Light-Chain Amyloidosis in Patients Presenting With Symptomatic Heart Failure. Am Coll Cardiol 2016; 67(25):2941-48.
  25. Kastritis E, Wechalekar AD, Dimopoulos MA, Merlini G, Hawkins PN, Perfetti V, et al. Bortezomib with or without dexamethasone in primary sistemi (light chain) amyloidosis. J Clin Oncol 2010; 28:1031-37.
  26. Jiang F, Chen J, Liu H, Li L, Lu W, Fu R. The effect and safety of bortezomib in the treatment of AL amyloidosis: a systematic review and meta-analysis. Indian J Hematol Blood Transfus 2018; 34:216-26.
  27. Yuwen Cai, Shizhang Xu, Na Li, Song Li, and Gaosi Xu. Efficacy of Chemotherapies and stem cell transplantation for systemic AL amyloidosis: a network meta-analysis. Front Pharmacol 2019; 10:1601.
  28. Dispenzieri A, Lacy M, Zeldenrust S, et al. The activity of lenalidomide with or without dexamethasone in patients with primary systemic amyloidosis. Blood 2007; 109:465-70.
  29. Kastritis E, Gavriatopoulou M, Roussou M, Bagratuni T, Migkou M, et al. Efficacy of lenalidomide as salvage therapy for patients with AL amyloidosis. Amyloid 2018 Dec; 25(4):234-41. https://doi.org/10.1080/13506129.2018.1540410

Nephrologists’ role in a changing climate

Abstract

Human-induced climate changes represent an increasing concern in recent years. Among the medical specialties, Nephrology is the most interested in the negative effects of climate changes on human health. Kidneys in fact play a crucial role in blood volume regulation as well as in the extra- and intracellular osmolality that allow normal metabolism. Furthermore, urinary concentration minimizes fluid losses, while also insuring the excretion of nitrogenous wastes. The harmful effects of heat can lead to both acute and chronic kidney diseases, electrolyte abnormalities, kidney stone formation and urinary tract infections. As global warming increases, major efforts are required worldwide to assure adequate hydration and prevent overheating in vulnerable populations. While our activities make us responsible agents, there are also several opportunities to change the game, both individually and as a scientific society. This call to action intends to raise awareness on environmentally sustainable practices and encourage the nephrology community in Italy to participate in this important discussion.

Keywords: kidney injury, kidney disease, nephropathy, climate change, global heating

Sorry, this entry is only available in Italian.

Introduzione

Negli ultimi decenni il nostro pianeta ha subito importanti cambiamenti climatici, in gran parte dovuti alle attività umane che coprono ormai più dell’80% della sua superficie [1]. Gli elevati livelli di gas serra causati dall’uso dei combustibili fossili, il conseguente aumento delle temperature, l’innalzamento del livello dei mari e le condizioni climatiche estreme, stanno avendo un profondo impatto sulla salute dell’uomo [2]. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 2012 vi sono stati 12.6 milioni di morti riconducibili a rischi ambientali, molti dei quali influenzati da fattori climatici [3]. I mutamenti climatici globali, unitamente alle alterazioni degli ecosistemi, minacciano intere popolazioni e richiedono da parte della classe medica una nuova etica, che vada ben oltre quella strettamente basata sul rapporto medico, paziente e società [4]. Com’è noto, l’interesse della medicina per l’ambiente risale all’antichità. Già Ippocrate, nel V-IV secolo a.C., invitava i medici nel suo trattato “Arie Acque Luoghi” a considerare tutti i fattori ambientali, come la qualità del suolo, delle acque e dell’aria, che potessero causare l’insorgenza di malattie [4]. Il trattato è forse l’archetipo di quella investigazione medica che guarda l’ammalato nel suo contesto ambientale e ragiona sulle cause della malattia, stabilendo una relazione tra l’ambiente e la salute dell’uomo. Ancora, nel periodo delle grandi esplorazioni, numerosi erano i consigli medici rivolti a chi doveva navigare in climi tropicali caldo-umidi e doveva proteggersi dalle possibili fatali conseguenze di quei climi [5,6]. Dopo i numerosi allarmi lanciati da esperti del clima, l’accumularsi di evidenze e i dibattiti sulle maggiori riviste scientifiche, la classe medica ha finalmente sviluppato una nuova consapevolezza sui temi ambientali, oggi più che mai al centro di un ampio dibattito politico-economico. Nel 1992 la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo ha prodotto un accordo quadro, ulteriormente sviluppato poi nella conferenza di Kyoto e di Parigi, con lo scopo di impegnare i paesi firmatari ad adottare efficaci politiche di tutela ambientale ed evitare le conseguenze dei cambiamenti climatici [7]. Secondo una stima dell’OMS, più di 100 milioni di persone potrebbero ritrovarsi in condizioni di estrema povertà entro il 2030 a causa di questi fenomeni [8]. Se la temperatura globale è aumentata mediamente di 1° Centigrado, uno degli effetti più devastanti dei mutamenti climatici è tuttavia rappresentato dalle cosiddette ondate di calore associate ad aumento dell’umidità. Si definisce ondata di calore una variazione climatica con temperatura superiore di 5° rispetto alla media delle temperature massime in un dato giorno, della durata di almeno cinque giorni [9].

 

La visualizzazione dell’intero documento è riservata a Soci attivi, devi essere registrato e aver eseguito la Login con utente e password.

Economic impact of kidney patients with sepsis in hospital setting

Abstract

Introduction: Over the last decades, sepsis has become a real medical emergency, with a high mortality rate and often requiring admission to an intensive care unit. An increasing number of CKD patients contracts sepsis due to several clinical risk factors (use of catheters, immunosuppressive therapy, comorbidity, etc.) and is treated in Nephrology wards, generating additional costs that are not covered by hospital Diagnosis Related Groups (DRG) reimbursement. The aim of the study is to evaluate the costs of sepsis in one Nephrology Unit and to detect the mortality rate of CKD patients with sepsis.

Methods: We conducted a retrospective study on a cohort of CKD patients admitted into one Nephrology Unit in 2017. CKD inpatients were divided in two groups: patients with sepsis (SP) and without (control group). Socio-demographic, clinical and therapeutic data, as well as routine biochemistry, were collected through a “sepsis form”. SP were identified thanks to hospital discharge records (HDR). The hospital-related costs of a SP were obtained by summing up: (1) the average cost of an inpatient day of care for the average length of stay in the Nephrology Unit; (2) the average cost of the antimicrobial therapy, as recorded on the clinical folder.

Results: Among the 408 CKD inpatients, 61 were septic. The overall average cost of a SP was 23.087,57 €; the average cost of the hospital stay and of the antimicrobial therapy was 19.364,98 € and 3.722,60 € respectively. The average length of stay in the Nephrology Unit was 16.7 days. The in-hospital mortality rate was 41.7%, with a 312% additional mortality rate.

Conclusions: SP had an overall average cost three times higher than CKD inpatients without sepsis (9.290,79 €). This additional cost was due to a longer hospital stay (8.7 days more on average) and a higher cost of antimicrobial therapy per case (€ 221,24). A national multi-centre study is needed to confirm our data and to promote an adjustment of reimbursement tariff for DRG-sepsis, which is now applicable only to an ICU setting. 

Keywords: sepsis, costs, kidney disease, hospital discharge register

Sorry, this entry is only available in Italian.

Introduzione

La sepsi rappresenta una condizione clinica frequente di difficile gestione.  È associata a una mortalità molto elevata quando si accompagna a insufficienza d’organo (20-25%) o a uno stato di shock settico (40-70%), ed è pertanto definita un’emergenza medica [1].

La Consensus Conference della Society of Critical Care Medicine (SCCM) nel 2003, ha elaborato le definizioni di sepsi, sepsi grave e shock settico con lo scopo di rendere omogenea la terminologia utilizzata in questo ambito [2,3]. Recentemente, nuove definizioni sono state messe a punto nella Terza Consensus Conference della SCCM nel 2016 [4], che non hanno modificato nessun aspetto nell’identificazione e nel trattamento di questa patologia, ma hanno reso ridondante il termine “sepsi grave” che è stato sostituito da “sepsi” (Fig.1).

Gli studi epidemiologici riguardo la sepsi, attualmente disponibili, sono estremamente eterogenei e comprendono valutazioni retrospettive, incentrate sulle diagnosi di dimissione ospedaliera, e valutazioni prospettiche, basate su indagini osservazionali [5,6].

 

La visualizzazione dell’intero documento è riservata a Soci attivi, devi essere registrato e aver eseguito la Login con utente e password.

Renal failure in the medicolegal evaluation of civil invalidity and social security disability (INPS)

Abstract

After a quick description of the anatomopathology and physiopathology of renal failure, the Authors delve into the problem of assessing its medicolegal aspects in the fields of civil invalidity and social security.

In Italy, civil invalidity involves protecting the psychological and physical welfare of the disabled, as sanctioned by law 118 of 1971; this law protects all citizens with a debilitating condition, including those who do not work or are not of working age. A disabled person is someone who, if of working age (between 18 and retirement) has a reduction of more than ⅓ (34%) of their general work capacity; if under or over the retirement age, they have a persistent difficulty in carrying out age-appropriate functions and tasks. In support of an application for being awarded civil invalidity, people can also refer to law no. 104 of 1992, which assesses social, relational and work disadvantages of a disabled person.

INPS (Italian Social Security Institute) protection, on the other hand, is a social security protection based on health requirements (having a capacity for work which is reduced by more than ⅓, as established by law no. 222 of 1984), as well as on the following administrative requirement: having paid, as a worker, at least 260 weekly contributions, equivalent to five years of contribution and insurance, of which 156, equal to three years of contribution and insurance, were made in the five-year period preceding the date of submitting the application. If this is the case, the protected person, thus insured, can enjoy protection for their illness by virtue of the stipulations for social security.

 

Keywords: Renal failure, civil invalidity, social security disability, Italian Social Security Institute (INPS)

Sorry, this entry is only available in Italian.

Introduzione

L’insufficienza renale può definirsi come la ridotta capacità del rene di mantenere il bilancio tra introduzione ed escrezione di acqua e minerali nell’organismo con il conseguente accumulo di vari prodotti terminali del metabolismo [1]. L’insufficienza renale può presentarsi clinicamente in forma acuta (IRA) con una manifestazione rapida, sovente reversibile. Si parla, invece, di insufficienza renale cronica (IRC) quando la perdita della funzionalità renale si palesa in maniera progressiva e sovente irreversibile in quanto costituisce lo stadio terminale di numerose patologie non emendabili del rene. 

La visualizzazione dell’intero documento è riservata a Soci attivi, devi essere registrato e aver eseguito la Login con utente e password.

Practical approach to patient therapy affected by Autosomal Dominant Autosomic Polycystic Kidney Disease

Abstract

The Autosomal Dominant Polycystic Kidney Disease(ADPKD) is the most frequent renal genetic condition and involves 7 to 10% of subjects undergoing renal replacement therapy. It is estimated that between 24,000 and 34,000 subjects in Italy are affected by this condition. For an illness that has long been neglected due to a lack of treatment options, an attractive treatment possibility is now available: tolvaptan has shown clinical efficacy regarding disease progression in two clinical trials (ADPKD patients with mild renal failure and ADPKD patients with advanced renal failure). The possible liver toxicity expressed in about 4% of the subjects exposed to the drug and an important aquaretic effect suggest prudence and attention in the use of this new molecule. Based on these critical points, some clinicians with direct experience in the use of the drug have briefly collected in the pages to follow the main clinical recommendations for the treatment of ADPKD patients. The recommendations concern the general approach to the patient affected by ADPKD but with particular attention to the aspects related to the new treatment. The delicate task of introducing the opportunities and limitations of the offered therapy to the patient will be deepened. Finally, the document wants to suggest how best to organize a clinic dedicated to this condition.

Keywords: Autosomal Dominant Polycystic Kidney Disease, Renal failure, Cyst, Aneurysm, tolvaptan

Sorry, this entry is only available in Italian.

INTRODUZIONE

Riccardo Magistroni

 

Il Rene Policistico Autosomico Dominante (ADPKD) è la più frequente patologia genetica di interesse nefrologico e coinvolge dal 7 al 10% dei soggetti in trattamento sostitutivo renale (13).

 

La visualizzazione dell’intero documento è riservata a Soci attivi, devi essere registrato e aver eseguito la Login con utente e password.

Renal Infarction: multicentric cases in Piedmont

Abstract

We describe factors associated to renal infarction, clinical, instrumental and laboratoristic features, and therapeutic strategies too.

This is an observational, review and polycentric study of cases in Nephrologic Units in Piedmont during 2013-2015, with diagnosis of renal infarction by Computed Tomography Angiography (CTA).

We collected 48 cases (25 M, age 57±16i; 23 F age 70±18, p = 0.007), subdivided in 3 groups based on etiology: group 1: cardio-embolic (n=19) ; group 2: coagulation abnormalities (n= 9); group 3: other causes or idiopathic (n=20).

Median time from symptoms to diagnosis, known only in 38 cases, was 2 days (range 2 hours- 8 days). Symptoms of clinical presentation were: fever (67%), arterial hypertension (58%), abdominal o lumbar pain (54%), nausea/vomiting (58%), neurological symptoms (12%), gross hematuria (10%).

LDH were increased (>530 UI/ml) in 96% of cases (45 cases out of 47), PCR (>0.5 mg/dl) in 94% of cases (45 out of 48), and eGFR <60 ml/min in 56% of cases (27 out of 48). Comparison of the various characteristics of the three groups shows: significantly older age (p=0.0001) in group 1 (76±12 years) vs group 2 (54±17 years) and group 3 (56±17 years); significantly more frequent cigarette smoking (p = 0.01) in group 2 (67%; 5 cases out of 9) and group 3 (60%; 12 cases out of 20) than group 1 (17%). No case has been subjected to endovascular thrombolysis. In 40 out of 48 cases, anticoagulant therapy was performed after diagnosis: in 12 (32%) cases no treatment, in 12 cases (30%) heparin, in 8 cases (20%) low molecular weight heparin, in 4 cases (10%) oral anticoagulants, in 3 cases fondaparinux (7%), in 1 case (2%) dermatan sulfate. Conclusions: Although some characteristics may guide the diagnosis, latency between onset and diagnosis is still moderately high and is likely to affect timely therapy. Keywords: renal infarction, kidney failure, atrial fibrillation, coagulopathy

Sorry, this entry is only available in Italian.

Introduzione

L’infarto renale è una patologia rara, caratterizzata dalla brusca interruzione del flusso nell’arteria renale o in uno dei suoi rami, con ischemia e necrosi del parenchima. La sua prevalenza è stata stimata nell’1.4% in uno studio autoptico molto datato (1), mentre due studi più recenti basati sulle diagnosi di ammissione in Dipartimenti di Emergenza hanno riscontrato un’incidenza rispettivamente del 0.004% e del 0.007% (2, 3). E’ possibile che la reale frequenza dell’infarto renale sia più elevata, in quanto si tratta di una patologia di difficile diagnosi a causa della possibile confusione con altre condizioni come la colica renale, la pielonefrite acuta e l’addome acuto. Inoltre, per questi motivi, la latenza tra esordio e diagnosi è spesso elevata (4), compromettendo le possibilità terapeutiche e condizionando la prognosi. 

La visualizzazione dell’intero documento è riservata a Soci attivi, devi essere registrato e aver eseguito la Login con utente e password.