Renal Damage and Obesity: a Silent Pairing

Abstract

Obesity is recognized as a true chronic disease and an independent risk factor for kidney disease. In particular, a correlation was observed between obesity and the development of focal segmental glomerulosclerosis. The clinical consequences of obesity on the kidney can include albuminuria, nephrotic syndrome, nephrolithiasis, and increased risk of development and progression of renal failure. Conventional therapy, which includes low-calorie diet, exercise, lifestyle changes, and drug therapy, including GLP1-RA, phentermine, phentermine/topiramate, bupropion/naltrexone, orlistat, is not always able to achieve the desired results and above all does not guarantee stabilization of body weight over time. On the other hand, bariatric surgery is giving excellent results in terms of efficacy and duration. Bariatric surgery techniques that are generally divided into restrictive, malabsorptive, and mixed are not free from possible metabolic complications such as anemia, vitamin deficiency, and stones. However, they are able to ensure a good maintenance of weight loss obtained with disappearance or reduction of the incidence and severity of comorbidities related to obesity.

Keywords: obesity, renal failure, bariatric surgery, sleeve gastrectomy

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Introduzione

L’obesità è ormai riconosciuta una vera malattia e un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di malattia renale cronica [1]. Si stima che al mondo ci siano circa 600 milioni di persone affette da obesità [2]. Secondo il Rapporto Osservasalute del 2016 che fa riferimento ai risultati dell’Indagine Multiscopo dell’Istat “Aspetti della vita quotidiana” emerge che nel 2015, in Italia, più di un terzo della popolazione era in sovrappeso (35,3%) e una persona su dieci era obesa (9,8%). Complessivamente il 45,1% dei soggetti di età superiore ai 18 anni era in eccesso ponderale [3].

In epoca più recente, il 9° Rapporto sull’obesità in Italia [4], curato dall’Istituto Auxologico Italiano, ha evidenziato come, secondo una stima provvisoria per il 2020, su 10 uomini adulti 6 sono in sovrappeso, su 10 donne invece 4 sono in sovrappeso. In entrambi i sessi la prevalenza è maggiore nella fascia d’età compresa tra i 65 e i 74 anni. Anche per quanto riguarda l’obesità, come per il sovrappeso, la popolazione maggiormente colpita è quella maschile: l’11,7% tra gli uomini e il 10,3% tra le donne. Se invece si considera la grave obesità (caratterizzata da un BMI superiore a 35) dal rapporto si evince che ne risultano colpite in Italia oltre un milione di persone, pari al 2,3% degli adulti e in questi casi le donne sono maggiormente interessate [4].

Il gradiente geografico è chiaramente a sfavore delle regioni meridionali. Complessivamente, nel Nord-ovest e nel Centro Italia la prevalenza dell’obesità si attesta al 10% mentre nel Nord-est e nelle isole il valore raggiunge l’11,4%; al Sud sale al 12,4%. Le percentuali non sono migliori quando spostiamo l’attenzione dagli adulti ai bambini e agli adolescenti. In Italia tra i giovani la prevalenza di obesità è del 18% nei bambini e del 19% negli adolescenti. Anche in questo caso c’è una grossa differenza tra nord e sud. Al Sud il 34,1% della popolazione 3-17 anni è obesa, al Nord-ovest il 20,0%; il 22,4% al Nord-est, il 23,9% al Centro e il 28,4% nelle isole. Le percentuali maggiori riguardano la Campania (37,8%), il Molise (33,5%), la Basilicata (32,4%), Abruzzo e Puglia (31,2%) [4].

L’obesità è ormai riconosciuta come un fattore di rischio indipendente di malattia renale cronica e di progressione verso l’End-Stage Renal Disease (ESRD). In particolare, è stata osservata una correlazione tra obesità e sviluppo di glomerulosclerosi focale segmentale (GSFS). Le conseguenze cliniche dell’obesità sul rene possono includere albuminuria, sindrome nefrosica, nefrolitiasi, aumentato rischio di sviluppo e di progressione dell’insufficienza renale.

La terapia convenzionale dell’obesità, che include dieta ipocalorica, esercizio fisico, modifiche dello stile di vita e terapia farmacologica, non è sempre in grado di ottenere i risultati sperati e soprattutto non garantisce una stabilizzazione del peso corporeo a distanza di tempo. La chirurgia bariatrica sta dando, invece, risultati ottimi in termini di efficacia e durata.

 

Misurazione dell’obesità: il concetto di “obesity paradox”

In medicina la definizione di obesità è sempre stata in evoluzione: molto spesso è stato necessario ricorrere a strumenti di misurazione indiretta per definire un paziente obeso o misurare il suo grado di obesità.

Dal punto di vista metabolico e soprattutto in correlazione con il rischio cardiovascolare, è molto importante classificare l’obesità in funzione della distribuzione del grasso (Tabella 1).

Tipo Obesità Localizzazione
Obesità viscerale Omento – Mesenteri -Retroperitoneo
Obesità centrale – addominale (androide) Omento – Mesenteri – Retroperitoneo e sottocutaneo addominale
Obesità periferica sottocutanea (ginoide) Fianchi – Cosce
Obesità generalizzata
Tabella 1: Classificazione dell’obesità in funzione della distribuzione del grasso.

Esistono diversi strumenti che possono essere impiegati per la misurazione indiretta dell’obesità o meglio della massa grassa di un soggetto:

  • il Body Mass Index (o BMI)
  • la plicometria
  • la bio-impedenziometria (o BIA)
  • la circonferenza addominale
  • il rapporto vita-fianchi

Body Mass Index

In base al Body Mass Index (BMI), indice rappresentato dal rapporto tra il peso del soggetto (kg) e il quadrato dell’altezza (m), l’OMS classifica l’obesità in tre gradi: obesità di I° grado (BMI tra 30 e 34,9 kg/m2), obesità di II° grado (BMI tra 35 e 39,9 kg/m2) e obesità di III° grado (BMI maggiore di 40 kg/m2). Il BMI è un dato biometrico ottenuto dalla deduzione del matematico e statistico belga Adolphe Quetelet. Egli condusse studi antropometrici sulla crescita umana ottenendo come conclusione dei suoi dati che il peso cresce con il quadrato dell’altezza, denominando il rapporto tra questi come indice di Quetelet [5], sostituito poi nel 1972 dal Body Mass Index introdotto dal fisiologo Ancel Keys.

Plicometria

La plicometria permette di stimare attraverso validate equazioni la densità corporea, la massa grassa e la massa magra grazie all’uso di un plicometro che consente di rilevare lo spessore delle pliche sottocutanee: le pliche interessate nella metodica sono quella tricipitale, sottoscapolare, sovrailiaca, pettorale, ascellare, addominale, quadricipitale [6].

Bioimpedenziometria

La bioimpedenziometria è una metodica utilizzata per studiare la composizione corporea, misurando l’impedenza del corpo al passaggio della corrente elettrica a bassa potenza e ad alta frequenza: essa viene impiegata anche per lo studio del paziente in emodialisi per valutare la TBW (Total body water) e la quota di ECW (extracellular-water) in eccesso.

Circonferenza addominale

La circonferenza della vita o circonferenza addominale invece è un parametro che correla indirettamente con l’obesità: i valori normali devono essere inferiori a 94 cm negli uomini e 80 cm nelle donne e viene misurata appena sopra l’ombelico (precisamente appena al di sopra della porzione superiore del bordo laterale della cresta iliaca). Una circonferenza superiore ad 88 cm nelle donne e 102 cm negli uomini viene definita obesità viscerale.  La circonferenza addominale riflette l’accumulo del grasso totale e addominale e rispecchia prevalentemente la presenza del grasso sottocutaneo addominale e non proprio il grasso viscerale.

Rapporto vita-fianchi

Il rapporto tra la circonferenza della vita e la circonferenza dei fianchi (o delle anche) definito anche WHR (waist/hip ratio) è il metodo maggiormente utilizzato per la valutazione della distribuzione del grasso corporeo negli studi epidemiologici. Quando il rapporto è maggiore di 0,92 nell’uomo e 0,82 nella donna si parla di obesità centrale: tali valori corrispondono all’85° percentile della distribuzione di tale indice nella popolazione generale.

Negli studi sull’obesità il parametro più impiegato è quello del BMI. Tuttavia, in alcuni trial sull’obesità i risultati talvolta possono essere inattesi o addirittura non previsti: in tali casi si parla di “paradigma del paradosso dell’obesità (Obesity Paradox)”, un fenomeno del tutto inaspettato osservato in alcune patologie. L’obesity paradox si osserva in tutti quei trial che si sono conclusi indentificando il BMI o l’obesità come fattori protettivi per la popolazione. È ovvio che tali risultati contrastino parecchio con i dati oggettivi e con i dati di rischio di mortalità dell’obesità nella popolazione generale in tutta la letteratura scientifica (concetto di “reverse epidemiology”): tale fenomeno tuttora non ha trovato una valutazione conclusiva che ne possa spiegare l’insorgenza.  Questo paradosso, secondo il quale sovrappeso e obesità migliorano la prognosi di alcune patologie di cui favoriscono l’insorgenza, è stato ampiamente documentato in corso di malattie cardiovascolari, insufficienza renale cronica, neoplasie, diabete e in altre patologie. Mentre secondo alcuni il fenomeno, sebbene non ancora chiaramente spiegato, esprime una realtà biologica, secondo altri esso è il risultato statistico di bias di selezione, di diversi fattori interferenti e principalmente dell’impiego del BMI come misura del grado di adiposità (BMI paradox).

Le ipotesi biologiche in merito al fenomeno dell’Obesity Paradox, vengono delineate in questa Review di Donini et al. [7] e sono influenzate da:

  • Struttura corporea e composizione corporea: l’aumento del peso corporeo e della massa grassa può alterare le conseguenze metaboliche delle malattie nei pazienti obesi e delle cure, a causa dell’aumento della massa muscolare e adiposa;
  • Metabolismo lipidico: alti livelli di colesterolo e lipoproteine possono migliorare l’effetto scavenging delle endotossine a differenza di quelli con livelli molto più bassi di colesterolo (più inclini all’endotossinemia) e alle sue conseguenze infiammatorie;
  • Rilascio di NT-proBNP dai cardiomiociti (per aumentata tensione di parete) dopo infarto del miocardio, è significativamente più basso nei pazienti obesi rispetto alla popolazione generale.
  • Produzione di fattori protrombotici (Trombossano B. et al.) che sono correlati negativamente con BMI e leptina: il rilascio di questi mediatori è mediato dall’endotelio e paradossalmente questi valori risultano nella norma nei soggetti con obesità rispetto ai non obesi proprio per un miglioramento paradossale della funzione endoteliale;
  • Aumentata sintesi di ghrelina (o grelina): ha un meccanismo compensatorio nell’ostacolare l’evoluzione dello scompenso cardiaco. La sintesi di ghrelina è aumentata nei pazienti obesi in quanto riduce il senso di sazietà e aumenta la fame e l’assunzione di cibo, favorendo l’insorgenza di obesità.
  • Produzione di citochine: il rischio cardiovascolare è incrementato dall’aumentata produzione di citochine infiammatorie come il TNF-alfa che si lega a recettori solubili del TNF-alfa tipo I e II che sono prodotti proprio dal grasso corporeo. Nei pazienti con scompenso cardiaco si osserva un’abnorme produzione di queste molecole infiammatorie che risulta altresì inferiore ai pazienti con obesità: l’elevata concentrazione di queste citochine dovrebbe determinare effetti negativi sul miocardio, che non si hanno nei pazienti con obesità [8]. Inoltre diverse adipochine (es: adiponectina, leptina, omentina, etc.) prodotte dal tessuto adiposo hanno dimostrato effetti protettivi sul rischio cardiovascolare, nonostante questo sia un paradosso [9].
  • Aspetti endoteliali e vascolari: una maggiore mobilizzazione delle cellule progenitrici endoteliali può proteggere i pazienti con obesità dall’aterogenesi attraverso la promozione di processi di rigenerazione del miocardio danneggiato e la neoangiogenesi. Questi processi favoriscono la riduzione delle resistenze del post-carico (dilatazione flusso-mediata e riduzione spessore medio-intima dei vasi) e al potenziamento della funzione contrattile del miocardio e dei processi metabolici dei cardiomiociti, alla riduzione dell’apoptosi e della fibrosi del miocardio. Pertanto si assiste ad un paradossale mantenimento della fisiologica struttura vascolare, cosa che in realtà non avviene [10].

Ad esempio, mentre nello studio di Clark et al. [11] l’elevato BMI sia un fattore riconosciuto per HF (Heart Failure), in parecchi altri trial l’analisi di coorte ha evidenziato come il BMI elevato risulterebbe un fattore protettivo contro lo scompenso cardiaco. Anche per ciò che concerne la coorte di pazienti con malattia renale o in emodialisi nello studio di Johansen et al. si è osservato come sia un effetto protettivo l’eccesso ponderale sulla sopravvivenza [12] mentre nello studio di Postorino et al. condotto su 537 pazienti in cui è stata utilizzata la misura della circonferenza della vita invece del BMI si è osservato che l’obesità rappresenta un fattore di rischio importante [13]. Il fenomeno dell’obesity paradox nei pazienti in emodialisi può essere spiegato sia per il fatto che l’obesità riduce in questi l’incidenza dello stato catabolico sia sulla maggiore incidenza di ipotensioni intradialitiche.

 

Meccanismi fisiopatologici di danno renale correlati all’obesità

Nel 1974 Weisinger descrisse per la prima volta l’associazione tra obesità e sindrome nefrosica, con remissione di quest’ultima in seguito a perdita di peso e recidiva dopo nuovo incremento ponderale [14]. Istologicamente si trattava di una glomerulosclerosi focale segmentale, dando origine al termine glomerulonefrite obesità-relata per indicare le forme di GSFS secondarie ad obesità. Oltre alla GSFS, istologicamente possono riscontrarsi ingrandimento glomerulare dovuto alla ialinosi e alla fibrosi, depositi di lipidi nelle cellule tubulari e mesangiali e adesione alla capsula di Bowman [15, 16]. L’accumulo di lipidi nel rene induce alterazioni strutturali e funzionali delle cellule mesangiali, dei podociti e delle cellule tubulari prossimali [17]. L’obesità aumenta, inoltre, la massa renale e il diametro glomerulare.

I meccanismi fisiopatologici alla base del danno renale secondario ad obesità sono diversi e complessi. Schematicamente distinguiamo alterazioni emodinamiche, attivazione del sistema renina-angiotensina, iperinsulinemia e resistenza all’insulina, infiammazione (effetti di adipochine).

Alterazioni emodinamiche

In caso di obesità aumentano il filtrato glomerulare, il flusso plasmatico renale, la frazione di filtrazione e il riassorbimento tubulare del sodio [18]. Diversi studi hanno evidenziato una chiara correlazione tra i diversi marker di obesità (BMI, circonferenza addominale e rapporto vita-fianchi) e il filtrato glomerulare [19, 20]. La vasodilatazione dell’arteriola afferente è la principale causa di aumentato flusso plasmatico renale.

L’iperfiltrazione glomerulare probabilmente provoca un danno podocitario con conseguente sviluppo della glomerulosclerosi spesso osservata in questi pazienti [21, 22]; inoltre, aumenta il riassorbimento tubulare del sodio come effetto dell’attivazione di trasportatori del sodio. La conseguente ridotta concentrazione di sodio nel tubulo distale attiva il feedback tubulo glomerulare e stimola la secrezione di renina da parte dell’apparato iuxtaglomerulare, con un meccanismo simile a quello dell’iperfiltrazione presente nella nefropatia diabetica [23, 24]. In seguito all’ipertensione intraglomerulare si verifica un aumentato stress meccanico sulla parete capillare sia circonferenziale che assiale che si trasmette ai podociti danneggiandoli [25]. Sono stati ritrovati nelle urine di adulti obesi con normoalbuminuria elevati livelli di mRNA associato ai podociti, tra cui nefrina, alfa-actina-4, alfa3beta1 integrina, TGF-beta suggerendo in questi soggetti un precoce danno podocitario [26].

Attivazione del sistema Renina-Angiotensina (RAA)

L’angiotensinogeno, normalmente prodotto dal fegato ma anche da altri tessuti tra cui il grasso viscerale, è aumentato nei soggetti obesi [27]. Il tessuto adiposo è anche in grado di convertire l’angiotensinogeno in angiotensina II (ATII) potenziando l’attivazione del sistema RAA [28]. Gli elevati livelli di ATII e l’aumentata espressione del suo recettore AT1 causano vasocostrizione arteriolare e aumento della filtrazione glomerulare contribuendo alla ritenzione di sodio e allo sviluppo di ipertensione [29].

Iperinsulinemia ed insulino-resistenza

Diverse evidenze suggeriscono che la resistenza insulinica, caratteristica dell’obesità, contribuisce al danno renale in quanto induce iperfiltrazione glomerulare, disfunzione endoteliale, aumentata permeabilità vascolare, angiogenesi [30]. L’insulina agisce direttamente sui podociti: studi in vitro hanno dimostrato che in seguito allo stimolo insulinico i podociti raddoppiano il trasporto di glucosio attraverso la trasposizione dei trasportatori GLUT1 e GLUT2 dai vacuoli intracellulari alla superficie di membrana podocitaria. I substrati 1 e 2 del recettore dell’insulina (IRS1/2) sono espressi sulle cellule epiteliali renali [31, 32]. Il legame a IRS 1/2 stimola la produzione di ossido nitrico [33]. Inoltre, l’insulina agisce sulle cellule tubulari prossimali promuovendo la formazione di TGF-b e collagene di tipo IV che contribuiscono alla fibrosi tubulointerstiziale.

Infiammazione

Alterati livelli di adipochine, citochine prodotte e rilasciate dal tessuto adiposo tra cui si annoverano leptina, adiponectina, resistina, visfatin, sono associati con lo sviluppo di GN correlate all’obesità. In particolare, la leptina aumenta l’espressione della metalloproteinasi-2 (MMP-2) nelle cellule renali mesangiali [34], stimola la produzione di TGF-b1 da parte dell’endotelio e causa ipertrofia mesangiale. A livello mesangiale agirebbe anche per via paracrina stimolando la produzione di collagene di tipo IV e la proliferazione delle cellule endoteliali glomerulari innescando la glomerulosclerosi [35, 36]. In aggiunta, la leptina aumenta lo stress ossidativo e la secrezione di citochine pro-infiammatorie come l’MPC-1 [37].

L’adiponectina, invece, è presente a livelli ridotti nei soggetti obesi. Bassi livelli di adiponectina sono correlati ad insulino-resistenza e allo sviluppo di malattia renale [38]. Nei ratti adiponectina-knockout è stata riscontrata albuminuria che regredisce con la somministrazione di adiponectina esogena [39].

Aumentati livelli di leptina e bassi livelli di adiponectina sono responsabili, nei soggetti obesi, anche dell’attivazione del sistema nervoso simpatico [40], contribuendo ulteriormente alla ritenzione di sodio [41].

 

Obesità e calcolosi

Nel 2005 Taylor et al. [42] hanno studiato l’associazione tra obesità e aumento di peso con il rischio di nefrolitiasi e la formazione di calcoli renali e del tratto urinario, osservando tre grandi coorti per un tempo di quarantasei anni e dimostrando che è la stessa condizione di obesità e di aumento del peso a predisporre a un aumentato rischio di nefrolitiasi. Il rischio risulta più alto nelle donne rispetto agli uomini. Un altro importante studio condotto da Powell et al. [43] ha usato dati di 5942 pazienti da un laboratorio di calcolosi renale valutando le differenze nell’escrezione urinaria delle 24 ore di metaboliti nei soggetti obesi. Hanno osservato che l’escrezione di calcio, ossalato e acido urico era essenzialmente aumentata nelle 24 ore. Inoltre, all’esame chimico fisico delle urine il pH era sempre su valori acidi, favorendo la precipitazione urinaria dei metaboliti urinari. Questa condizione ovviamente era più frequente nei soggetti obesi in cui non si osservavano elevati livelli di citrato urinario e alto flusso urinario, che contrastano la precipitazione urinaria. Inoltre si osservavano nei pazienti obesi elevati valori di solfato e sodio urinario, direttamente correlati all’elevato intake di sodio alimentare ma soprattutto di proteine di origine animale. Un ruolo significativo nei soggetti obesi è inoltre determinato dall’assunzione di cibi e bibite ricche di fruttosio: il fruttosio oltre a favorire l’aumento del peso corporeo, determina resistenza alla leptina, un ormone che da sempre influenza in maniera preponderante il rischio di obesità. Lo stesso fruttosio ad elevate concentrazioni nei pazienti obesi favorisce non solo l’aumentata escrezione urinaria di calcio, ma anche l’aumentata produzione di acido urico sierico favorendo quindi la cristallizzazione urinaria con calcolosi uratica e calcolosi ossalatica [44]. L’aumentato rischio di nefrolitiasi, associato all’ormai già noto rischio cardiovascolare, può accelerare o peggiorare il rischio di peggioramento della funzionalità renale.

 

Obesità e albuminuria

L’obesità quindi è un fattore riconosciuto che determina un danno renale: l’aumento della massa corporea induce iperfiltrazione glomerulare con modifiche della struttura glomerulare e tubulare, a causa dell’alterato riassorbimento di sodio; inoltre il rimodellamento del nefrone a causa del rilascio di citochine e adiponectine con rilascio di TGF beta ed attivazione di MMP con formazione di collageno, può sensibilmente peggiorare la prognosi dei pazienti obesi [45]. La concomitante diagnosi di diabete e ipertensione nei pazienti obesi aumenta largamente il rischio di albuminuria e proteinuria, ma i pazienti obesi presentano una prevalenza maggiore di proteinuria/albuminuria rispetto alla popolazione generale, anche in assenza di diabete mellito ed ipertensione, come valutato dal report di Chang [46]. In questo trial di reclutamento di pazienti obesi (n=218) da sottoporre a chirurgia bariatrica è stato osservato come la prevalenza dell’albuminuria e della proteinuria fosse sensibilmente maggiore rispetto alla popolazione generale nei pazienti con diabete mellito ed ipertensione (proteinuria 33,3% negli obesi e 22,6% negli ipertesi; albuminuria 41,5% nei diabetici, 17,7% negli ipertesi) mentre nei pazienti obesi in assenza di ipertensione e diabete mellito, sussisteva una prevalenza di proteinuria del 13,3% e di albuminuria dell’11% [47]. Nei pazienti obesi si è osservato che oltre alla perdita di peso e alla restrizione dell’introito di sale, la terapia anti-proteinurica con ACE-i /ARBs, riduce la pressione intraglomerulare, rallentando la progressione del danno renale [48]. La proteinuria nei pazienti obesi tendenzialmente si presenta in assenza di anomalie del sedimento urinario e soprattutto quasi sempre inferiore a 300 mg/die: in alcune eccezioni è possibile un riscontro di proteinuria in range nefrosico (talvolta associato anche a cilindri ialini-granulosi e lipidici) [19]. Nei soggetti obesi con sindrome nefrosica, talvolta potrebbe non presentarsi una condizione di ipoalbuminemia con edema tale da far pensare ad una sindrome nefrosica, pertanto l’esame delle urine risulta dirimente: una proteinuria in range nefrosico deve sempre far sospettare una sottostante nefropatia glomerulare [49].

 

Terapia non chirurgica dell’obesità

Nel 2013 una revisione sistematica di letteratura ad opera di Bolignano e Zoccali [50] ha incluso sei RCT che prevedevano modifiche dello stile di vita, un RCT sull’impiego di strategie farmacologiche e 24 studi osservazionali per esaminare gli effetti di queste strategie terapeutiche sui parametri renali nei pazienti obesi con alterata funzione renale. Negli RCT selezionati, le modifiche dello stile di vita prevedevano almeno una delle seguenti modifiche dietetiche combinate con l’esercizio fisico: dieta vegana ipocalorica, dieta ipocalorica (1000-1400 Kcal/die), dieta a basso contenuto di carne, dieta a restrizione di carboidrati; in questi gruppi si è dimostrato rispetto al gruppo controllo una riduzione del 31% della proteinuria ed un declino del filtrato glomerulare nel follow-up più lento. Nel Trial Look ARG [51] che è stato condotto successivamente al Trial Look AHEAD per valutare l’effetto delle modifiche dello stile di vita nella popolazione con obesità e diabete, si osservava come nel braccio dello studio comprendente le modifiche intensive dello stile di vita (i cui obiettivi erano: perdita di peso maggiore del 7%, dieta di 1200-1800 Kcal/die; riduzione della quota di grassi del 30%/die e aumento del 15%/die di proteine; oltre 175 minuti a settimana di esercizio fisico moderato) l’incidenza cumulativa a dieci anni per il rischio di peggioramento della funzionalità renale risultava sensibilmente minore del 31%. A sostegno di questo studio, l’analisi di Ibrahim e Weber [52] approfondiva proprio come nei pazienti obesi, la perdita di peso associata a strategie farmacologiche (tra cui ARBs e ACEi) favoriva non solo la stabilizzazione della perdita del filtrato glomerulare ma riduceva l’albuminuria (intesa come parametro ACR<300 mg/g/die).

Per quanto concerne la prima strategia farmacologica, ossia l’approccio dietetico, l’analisi di Tirosh et al. [53] ci è sembrata suggestiva: un RCT randomizzato di 322 pazienti obesi (99 con CKD stadio III, 23 con ACR > 30 mg/g) seguiti per un periodo di due anni inclusi in uno dei tre regimi dietetici associati (dieta low-fat, dieta mediterranea, dieta low-carb) in cui si è osservato che la dieta mediterranea e quella low-carb favorivano una perdita di peso maggiore (oltre i 4 kg in media) rispetto a quella low-fat (<3 kg in media). In un’analisi post hoc è stato appunto osservato che in tutti e tre i regimi dietetici associati si osservava un’incremento dell’eGFR rispetto al basale del 7,1% e una riduzione dell’ACR di circa 25 mg/g rispetto al basale. Ovviamente nell’analisi post-hoc non sono stati inclusi i pazienti in trattamento emodialitico cronico [54].

In aggiunta al cambiamento dello stile di vita alimentare e all’aumento dell’esercizio fisico settimanale, l’impiego di alcuni farmaci potrebbe sensibilmente favorire la perdita di peso: tra questi ricordiamo i GLP1-RA, fentermina, fentermina/topiramato, bupropione-naltrexone, orlistat. Nella Tabella 2 è possibile osservarne le caratteristiche e la prescrivibilità in base al filtrato glomerulare.

Farmaco Meccanismo di azione Effetti collaterali Effetti Renali Dosaggio
LIRAGLUTIDE

 

0,6 mg; 1,2 mg; 1,8 mg; 2,4mg; 3 mg.

Agonista recettoriale GLP-1: stimola secrezione insulina e inibisce glucagone. Regola appetito ed intake calorico. Ipoglicemia, aumento lipasi, nausea, vomito, diarrea. Escrezione 60% renale (metaboliti). Nessun aggiustamento di dosaggio. Dati limitati per l’uso in dialisi.
NALTREXONE/

BUPROPRIONE

 

8mg/90mg fino a 32mg/360mg die

Anoressizzante (esatto meccanismo non conosciuto).

Bupropione: inbitore reuptake dopamina e norepinefrina;

Naltrexone: antagonista oppioide.

Vertigini, nausea, mal di testa, secchezza delle fauci. Ipertensione e palpitazione. Incremento creatinina (inibizione OCT2). Escrezione urinaria: 87% buproprione, 79% naltrexone.

8mg/90mg fino a 32mg/360mg.

In caso di peggioramento della funzione ridurre dosaggio.

ORLISTAT

 

60 mg; 120 mg

Inibitore delle lipasi pancreatiche (azione nello stomaco e nel tenue). Perdita di feci dal retto, incontinenza fecale, flatulenza. Ridotto assorbimento delle vitamine liposolubili. Calcolosi ossalatica. Escrezione fecale (<2% nelle urine).

Somministrare Ciclosporina 3 ore dopo Orlistat.

Nessun aggiustamento di dose.

60 mg/die dose iniziale, fino a 120 mg/die

FENTERMINA

 

15 mg; 30 mg; 37,5 mg

Anoressizzante simpaticomimentico (esatto meccanismo non conosciuto). Palpitazioni, vertigini, turbe della libido, insonnia, secchezza delle fauci, nausea, vomito. Ipertensione, aumenta la pressione glomerulare.

 

Escrezione urinaria: controllare pH urinario.

Nessun aggiustamento di dose con eGFR > 30 ml/min (15-30 mg/die);

eGFR 15-29 ml/min: 15 mg/die.

Non consentito in dialisi.

FENTERMINA/

TOPIRAMATO

 

3,75/23 mg

7,5/46 mg

11,25/69 mg

15/92 mg

Anoressizzante,

modulatore GABA-r con effetto sipaticomimetico.

Parestesie, disgeusia, secchezza delle fauci, insonnia, costipazione. Tachicardia e palpitazioni. Acidosi metabolica. Nefrolitiasi. Incremento creatininemia, ipokalemia. Teratogenicità.

Nessun aggiustamento di dose fino ad

eGFR < 50 ml/min: dosaggio max 7,5/46mg/die.

Non raccomandato in dialisi.

Tabella 2: Farmaci prescrivibili per il trattamento dell’obesità ed effetti renali correlati [55].

Tra questi l’impiego del GLP-1 RA ha dimostrato effetti cardioprotettivi e nefroprotettivi come descritto in parecchi trial: nel RCT LEADER del 2018 l’impiego della liraglutide nei pazienti con DM II ha dimostrato una riduzione del rischio per eventi compositi renali e cardiovascolari (riduzione albuminuria e raddoppiamento della creatinemia) rispetto al placebo [56]. Anche il trial di Le Roux pubblicato nel 2017 su Lancet [57] ha preso in considerazione l’impiego del liraglutide per favorire la riduzione del peso corporeo nei pazienti in pre-diabete con BMI > 30 kg/m2 oppure < 27 kg/m2 ma con comorbidità: il trial ha avuto una durata di 3 anni (160 settimane) con un numero di 2254 partecipanti, ma solo 1128 hanno terminato lo studio e hanno preso in considerazione la somministrazione giornaliera di 3 mg rispetto al placebo dimostrando che si otteneva una perdita di peso di circa il 6% rispetto al placebo (1,9%), riducendo sensibilmente il rischio cardiovascolare e migliorando la tolleranza glucidica periferica, rallentando l’incidenza di diabete e in maniera correlata il rischio di obesità.

Per quanto concerne l’impiego del bupropione-naltrexone, un trial che indagava sugli effetti cardio-vascolari a lungo termine nei pazienti obesi che assumevano quest’associazione di farmaci e che ha selezionato in maniera randomizzata una coorte di pazienti in sovrappeso o obesi per valutare la probabilità di comparsa di MACE (Major Adverse Cardiovascular Events) a lungo termine, è stato interrotto prima del termine e prima di ottenere dati significativi [58]. Viene riportato sui dati forniti dalla FDA che la terapia a base di bupropione-naltrexone in un RCT non citato, riportava un incremento della creatinina sierica rispetto al follow-up e un rischio dello 0,6% di raddoppiamento della creatinina rispetto al gruppo placebo (0,1%) dopo un anno. L’incremento della creatinina sierica sembrerebbe dovuto al rilascio di metaboliti che interferiscono con la proteina OCT 2 (organic cationic transporter type 2): pertanto nessuno studio ne supporta l’impiego in CKD [59].

L’impiego dell’orlistat come farmaco anti-obesità è inusuale: inibitore delle lipasi gastriche e pancreatiche, che determina un malassorbimento nel tratto intestinale, causando una perdita di peso e riducendo il senso della fame. Non richiede aggiustamento di dose per malattia renale cronica, ma sono stati riportati alcuni casi di calcolosi ossalatica secondaria [60]. Altri dettagli in Tabella 2.

 

Tecniche di chirurgia bariatrica

Nel 2004 Christou [61] ha pubblicato i risultati al lungo termine della chirurgia bariatrica, mettendo a confronto pazienti operati e non. I pazienti operati presentavano una minore incidenza di cancro (2,0 vs 8,49%), una minore incidenza di accidenti cardiovascolari (4,73 vs 26,69%) ed una minore incidenza di disturbi endocrinologici (9.47 vs 27.25%), muscoloscheletrici (4,83 vs 11,90%), psichiatrici (4,35 vs 8,20%) e respiratori (2,71 vs 11,36%). La mortalità registrata nel corso dell’osservazione è stata dello 0,68% nel gruppo dei pazienti operati e del 6,17% nel gruppo dei pazienti non operati.

Numerosi altri lavori successivi [62, 63] hanno riportato analoghi risultati.

Le tecniche di chirurgia bariatrica vengono generalmente distinte in: restrittive, malassorbitive e miste.

Le procedure restrittive, che si basano sulla riduzione del volume gastrico, sono il bendaggio gastrico (o pallone gastrico), la gastroplastica verticale, la sleeve gastrectomy e la Bariclip.

L’idea di usare un pallone endogastrico (BIB: Bioenterics Intragastric Ballon) per il trattamento dell’obesità nacque dall’osservazione dei pazienti psichiatrici portatori di bezoari gastrici [64]. Si tratta di un dispositivo espansibile in silicone di forma sferica posizionato per via endoscopica. Una volta introdotto nel lume gastrico, il BIB viene riempito con soluzione fisiologica sterile (circa 500-600 ml) oppure con aria; in tal modo si riempie parzialmente lo stomaco inducendo un prematuro senso di sazietà. Il meccanismo d’azione è multifattoriale, includendo sia fattori fisiologici che neurormonali. Si tratta di un dispositivo temporaneo che può essere tenuto per sei mesi e che preserva l’anatomia dello stomaco. È indicato nei pazienti che presentano controindicazioni all’intervento o che rifiutano la chirurgia [65].

La sleeve gastrectomy è l’intervento maggiormente eseguito in Italia. Consiste in una gastrectomia verticale subtotale con conservazione del piloro e tubulizzazione dello stomaco residuo [66]. Quindi, a differenza della tecnica precedente, questo è un intervento irreverisibile che altera la normale anatomia dello stomaco. Si ottiene generalmente una perdita di circa il 60% del peso corporeo [67]. Presenta un minore tasso di mortalità rispetto al bypass gastrico e in generale un minor numero di complicanze post-operatorie [68]. La plicatura gastrica è un’evoluzione meno invasiva della sleeve gastrectomy in cui la riduzione di volume dello stomaco si ottiene ripiegandolo su se stesso e suturandone una parte.

La Bariclip, o gastroplastica con clip, consiste in una gastroplastica verticale ottenuta mediante una clip realizzata in titanio e rivestita in silicone che viene posizionata parallelamente alla piccola curvatura dello stomaco in modo da dividerlo in due parti: la parte più grande è esclusa [69].

Le procedure malassorbitive sono più invasive di quelle restrittive ma presentano maggiori probabilità di calo ponderale. Appartengono a questa categoria la diversione biliopancreatica secondo Scopinaro e Duodenal Switch, la diversione biliopancreatica con conservazione dello stomaco e il mini bypass gastrico.

La diversione biliopancreatica si ottiene eseguendo prima una gastrectomia subtotale e una resezione dell’ileo a 250 cm dalla valvola ileo-cecale; successivamente si connette il tratto distale al moncone gastrico mentre il tratto prossimale viene riconnesso a 50 cm dalla valvola ileocecale [70].

Il mini bypass gastrico consiste, invece, nella creazione di una tasca gastrica verticale di circa 60 ml che viene poi anastomizzata con un’ansa digiunale, bypassando in tal modo circa 180-250 cm di duodeno. In confronto al bypass gastrico Roux-en-Y, il mini bypass è una procedura tecnicamente più semplice e reversibile [71].

Tecnica mista è appunto il bypass gastrico, in cui si crea una piccola tasca nella parte superiore dello stomaco che viene collegata direttamente all’intestino tenue mediante un’ansa digiunale a forma di Y.

Nella Tabella 3 sono riassunte le caratteristiche delle principali tecniche chirurgiche.

Nel 2017 un trial pubblicato sul New England Journal of Medicine ha confrontato pazienti diabetici con BMI compreso tra 27 e 43 kg/m2 randomizzati a ricevere per il trattamento dell’obesità terapia medica intensiva, terapia medica intensiva combinata a bypass gastrico Roux-en-Y o sleeve gastrectomy: sono stati arruolati 150 pazienti per un follow-up di 5 anni in cui si è osservato che i pazienti arruolati nel braccio che comprendeva l’approccio terapeutico con terapia medica e chirurgia bariatrica presentavano un cambiamento nella percentuale di riduzione del BMI e un miglioramento dell’emoglobina glicata maggiore rispetto al braccio con solo terapia medica; inoltre i dati inerenti l’impiego della Roux-en-Y o della sleeve gastrectomy sul BMI erano sovrapponibili [72].

BENDAGGIO GASTRICO REGOLABILE SLEEVE    GASTRECTOMY BYPASS GASTRICO DIVERSIONE BILIOPANCREATICA
Calo ponderale 45% 55% 60% 65%
Rischio di recupero peso +++ ++ ++ +
Mortalità operatoria 0,1% 0,15% 0,54% 0,8%
Complicanze perioperatorie 1,9% 8,3% 14,2% 12,4%
Complicanze tardive 10,3% 3,7% 2,9% 6%
Complicanza metabolico-nutritive + ++ +++
% di reinterventi 7,6% 5,3% 3,3% 5,8%
% di miglioramento DM 50% 70% 84% 99%
Tabella 3: Caratteristiche delle principali tecniche chirurgiche (tratta da LG di Chirurgia Bariatrica della SICOB).

 

Effetti benefici della chirurgia bariatrica sulla funzione renale e sulla proteinuria

Diversi autori hanno riferito di effetti benefici della riduzione di peso ottenuta con la chirurgia bariatrica sulla funzione renale e sull’albuminuria.

Nel 2014 Chang et al. hanno riportato i risultati di uno studio condotto su 3134 soggetti sottoposti a chirurgia bariatrica e seguiti per una media di 2,4 anni. Ad un anno dall’intervento si osservava un aumento del GFR; in media ogni perdita di 5 kg era associata ad un aumento di 0,5 ml/min/1,73 m2 di filtrato glomerulare. In un sottogruppo di 108 pazienti si otteneva anche una significativa riduzione della proteinuria [73].

Buoni risultati sono stati riportati anche dal S.O.S. Study (Swedish Obesity Subject Study), uno studio svedese condotto da Carlsson per valutare gli effetti a lungo tempo della chirurgia bariatrica rispetto alla terapia non chirurgica sull’incidenza dell’albuminuria e che ha evidenziato una effettiva riduzione nel gruppo operato del 50% rispetto al gruppo controllo (non operato) [74].

Nel 2017 Neff et al hanno condotto uno studio prospettico su 190 pazienti sottoposti a bypass gastrico e 271 pazienti sottoposti a bendaggio gastrico regolabile laparoscopico, valutando la funzione renale, la pressione arteriosa e la glicemia in condizioni basali, a 1 anno e a 5 anni dall’intervento. Il GFR risultava aumentato a 5 anni dall’intervento sia nei pazienti sottoposti a bypass gastrico (GFR da 94 ± 2 a 102 ± 22 ml/min/1,73 m2) sia in quelli sottoposti a bendaggio (GFR da 88 ± 1 a 93 ± 22 ml/min/1,73 m2). Nei pazienti già affetti da insufficienza renale si riscontrava comunque un miglioramento del filtrato glomerulare a 5 anni (da 52 ± 2 a 68 ± 7 ml/min/1,73 m2). Migliori livelli pressori venivano raggiunti con il bypass (23 vs 11 % a 5 anni) [75].

Sheetz et al. nel 2020 hanno pubblicato i risultati di uno studio retrospettico condotto su 1597 pazienti sottoposti tra il 2006 e il 2015 a chirurgia bariatrica e confrontati con 4750 pazienti obesi trattati con terapia medica e non chirurgica. Nei soggetti operati si osservava una riduzione dei tassi di mortalità complessiva rispetto alle controparti non operate. Il follow-up dei pazienti è stato seguito per oltre sette anni dove è stato posto come outcome primario la mortalità per qualsiasi causa a cinque anni dall’intervento chirurgico, mentre come outcome secondario la mortalità per cause specifiche stratificate per: cardiovascolari, infezioni, sopravvivenza lontano dalla dialisi, altre cause. La curva di Kaplan-Meyer, per la stima dell’incidenza cumulativa degli outcome primario e secondario, ha dimostrato che durante il follow-up il rischio di morte per tutte le cause e per cause cardiovascolari risultava sensibilmente maggiore rispetto ai pazienti non trattati con chirurgia bariatrica. Nei pazienti portatori di trapianto renale, l’impiego della chirurgia bariatrica si associa a una maggiore sopravvivenza del graft a 5 anni [76].

Anche Canney ha dimostrato su 105 pazienti diabetici sottoposti a bypass gastrico una significativa riduzione della proteinuria, con completa remissione (ACR < 30 mg/g) in ben 82 pazienti [77].

Tutti questi studi sono dunque concordi, insieme a molti altri, nel riconoscere gli effetti benefici della chirurgia bariatrica sia sulla funzionalità renale che sulla proteinuria, indipendentemente dalla possibile lesione istologica sottesa. L’effetto sulla proteinuria potrebbe essere dovuto al miglioramento di vari fattori di rischio (tra cui diabete, ipertensione, sindrome metabolica), alla diversa alimentazione (drastica riduzione dell’assunzione di cibo dopo la chirurgia bariatrica), ad effetti diretti sui podociti. Futuri studi potranno sicuramente approfondire gli effetti renoprotettivi della chirurgia bariatrica in pazienti con insufficienza renale e proteinuria per meglio definire il rapporto rischi/benefici per ogni paziente.

 

Complicanze metaboliche e renali della chirurgia bariatrica

I benefici che si ottengono dalla chirurgia bariatrica sono notevoli, ma ovviamente essa non esclude alcune possibili complicanze metaboliche. In un RCT di Cohen [78] et al. si è indagato sugli effetti della chirurgia bariatrica e delle complicanze post-operatorie a trenta giorni, selezionando una coorte affetta da CKD e ESRD e si è evidenziato che i pazienti in ESRD hanno un alto rischio post-operatorio (sia di re-operazione che di ri-ospedalizzazione) a trenta giorni rispetto alla popolazione in CKD. Non è da trascurare i deficit nutrizionali determinati dalla sindrome da malassorbimento secondaria alla chirurgia: deficit di vitamine del gruppo B (tiamina, acido folico, cobalamina), vitamina D, vitamina A, calcio, rame, zinco e ferro favorendo soprattutto l’insorgenza di anemia sia ipo- che ipercromica, fratture ossee, ipoprotidemia. La nefrolitiasi associata a chirurgia bariatrica è stata approfondita nel trial di Lieske [79] et al. dove sono stati selezionati 759 pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica (RYGB, very-very long RYGB, altre procedure chirurgiche restrittive come bendaggio gastrico o sleeve gastrectomy) confrontati con gruppo controllo di 759 pazienti con caratteristiche di base similari (ipertensione, obesità, diabete, osteoartrite, apnea del sonno) e con incindenza di CKD e di nefrolitiasi similare nei due gruppi, all’inizio dello studio (10,4 % vs 8,7%). Al follow-up (in media a sei anni) si è osservato un’incidenza di nuovi casi di nefrolitiasi nei pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica rispetto al controllo (11,1% rispetto al 4,3%): precisamente l’incidenza risulta significativa nei primi due anni dopo l’intervento chirurgico. L’analisi dei calcoli espulsi ha dimostrato che erano prevalenti i calcoli di ossalato di calcio, in minima parte quelli di idrossiapatite, rari quelli di struvite e acido urico. Inoltre il rischio di nefrolitiasi era correlato anche alla tipologia di chirurgia bariatrica a cui i pazienti si erano sottoposti: il rischio risultava più alto nelle procedure malassorbitive e RYGB rispetto alle procedure restrittive (sleeve gastrectomy).

L’iperossaluria enterica associata a procedure chirurgiche malassorbitive si presenta a causa del malassorbimento degli acidi grassi. Questa condizione è frequente nei disordini gastrointestinali che colpiscono la mucosa del tratto ileale (resezione o bypass o sindrome dell’intestino corto) oppure in associazione ad insufficienza pancreatica. Il meccanismo con cui la RYGB e VLLRYGB (very-long-limb RYGB) lo scatenano non è ancora ben chiarito ma il malassorbimento degli acidi grassi e la steatorrea, conseguente alle suddette procedure di chirurgia bariatrica possono determinare la comparsa di calcoli renali da ossalato di calcio, causando o peggiorando una condizione di malattia renale cronica [80]. Non tutti i pazienti con malassorbimento degli acidi grassi, come osservato nei precedenti trial, sviluppano calcolosi renale. Uno studio osservazionale retrospettivo [81] su 51 pazienti ha osservato come la formazione di calcoli di ossalato di calcio risulta significativamente maggiore quando sussistono le seguenti condizioni rispetto al gruppo controllo: aumentata escrezione urinaria di ossalato (0,66 vs 0,38 mmol/die) con riduzione delle concentrazioni di citrato urinario (309 vs 607 mg/die) e sovrasaturazione dell’ossalato di calcio urinario per ridotto volume urinario. La meta-analisi condotta da Thongprayoon C. ha preso in considerazione quattro studi (un RCT, tre studi di coorte) [82] per un totale di 11 348 pazienti, incentrandosi sul rischio di calcolosi renale dopo RYGB, dopo procedure restrittive (bendaggio gastrico e sleeve gastrectomy) e dopo procedure malassorbitive includendo VLLRYGB e diversione bilio-pancreatica con switch duodenale. I risultati hanno dimostrato che le procedure malassorbitive favoriscono più facilmente l’incidenza di calcolosi per l’iperossaluria determinata (soprattutto con VLLRYGB e meno frequente con RYGB); mentre le procedure restrittive, che favoriscono comunque una significativa perdita di peso, spesso non si associano a comparsa di iperossalaturia (ma talvolta il ridotto introito idrico può favorire una ridotta diuresi, favorendo la cristalizzazione elettrolitica).

 

Conclusioni

La principale manifestazione clinica del danno renale nei pazienti obesi è rappresentata dalla proteinuria, nel 30% dei casi in range nefrosico [83].

La terapia dell’ORG si basa fondamentalmente sulla perdita di peso e sull’utilizzo di farmaci come GLP1-RA, fentermina, fentermina/topiramato, bupropione-naltrexone, orlistat. Quando però non si ottengono risultati con la terapia medica, ci si può avvalere della chirurgia bariatrica. Questa, senza dubbi non è priva di complicanze anche a lungo termine come l’anemia, i deficit vitaminici, la calcolosi. È però in grado di garantire un buon mantenimento del calo ponderale ottenuto con scomparsa o riduzione dell’incidenza e della gravità delle comorbilità legate all’obesità. La prevenzione del danno renale nel paziente obeso risulta importante ai fini della sua sopravvivenza: l’aumento del BMI si associa oltre al peggioramento della funzione renale e alla comparsa di nefropatie secondarie, ad un aumentato rischio cardiovascolare con aumento del tasso di mortalità rispetto alla popolazione generale.

 

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Sodium balance and peritoneal ultrafiltration in refractory heart failure

Abstract

About 5% of patients with heart failure (HF) reach the end-stage of disease, becoming refractory to therapy. The clinical course of end-stage HF is characterized by repeated hospitalizations, severe symptoms, and poor quality of life. Peritoneal ultrafiltration (PUF), removing water and sodium (Na+), can benefit patients with end-stage HF. However, effects on fluid and electrolyte removal have not been fully characterized.

In this pilot study in patients with chronic HF and moderate chronic renal failure, we evaluated the effects of water and sodium removal through PUF on ventricular remodeling, re-hospitalization, and quality of life.

Patients with end-stage HF (NYHA class IV, ≥3 HF hospitalization/year despite optimal therapy), not eligible for heart transplantation underwent peritoneal catheter positioning and began a single-day exchange with icodextrin at night (n=6), or 1-2 daily exchanges with hypertonic solution (3.86%) for 2 hours with 1.5-2 L fill volume (n=3).

At baseline, average ultrafiltration was 500±200 ml with icodextrin, and 700±100 ml with hypertonic solution. Peritoneal excretion of Na+ was greater with icodextrin (68±4 mEq/exchange) compared to hypertonic solution (45±19 mEq/exchange).

After a median 12-month follow-up, rehospitalizations decreased, while NYHA class and quality of life (by Minnesota Living with HF questionnaire), improved.

In end-stage HF patients, PUF reduced re-hospitalization and improved quality of life. It can be an additional treatment to control volume and sodium balance.

Keywords: Peritoneal ultrafiltration, heart failure, sodium balance, renal failure

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Introduzione

Lo scompenso cardiaco ha una elevata prevalenza nel mondo, colpendo 26 milioni di persone [1], con tassi in aumento con l’invecchiamento della popolazione [2]. L’insufficienza cardiaca cronica è caratterizzata da un progressivo deterioramento clinico, con ricoveri ripetuti e un’elevata mortalità [3], oltre a scarsa qualità della vita [46].

La progressione dell’insufficienza cardiaca, nonostante la terapia ottimale, può condurre allo stadio terminale della malattia, caratterizzato da sintomi gravi (New York Health Association – NYHA classe III-IV), evidenza di importante disfunzione sistolica e/o diastolica, ritenzione idrica e/o ipoperfusione periferica, riduzione della capacità funzionale, frequenti ricoveri per SC [7]. Inoltre, molti di questi pazienti non sono idonei per procedure invasive, quali l’impianto di devices o il trapianto di cuore, a causa dell’età o delle comorbidità.

La ridotta gittata cardiaca porta a una ridotta perfusione renale, con conseguente attivazione del sistema nervoso simpatico e dell’asse renina-angiotensina-aldosterone; a lungo termine, il conseguente riassorbimento a livello renale di acqua e sodio, atto a preservare la velocità di filtrazione glomerulare (GFR), può essere dannoso sia a livello cardiaco sia a livello renale [89].

In questo stadio dell’insufficienza cardiaca, le condizioni cliniche possono essere ulteriormente aggravate da episodi di sovraccarico di fluidi non responsive alla terapia diuretica. Le metodiche di ultrafiltrazione attuabili durante la degenza ospedaliera (emodialisi, emodiafiltrazione, SLED, CRRT) si sono dimostrate efficaci in questo contesto [10]. È interessante notare che l’ultrafiltrazione peritoneale (PUF), a differenza di questi trattamenti, può essere eseguita anche a casa e può essere una valida opzione per i pazienti con SC cronico e sovraccarico di volume refrattario [11]. La PUF si basa sull’utilizzo di soluzioni specifiche per la dialisi peritoneale, in grado di indurre ultrafiltrazione transperitoneale, rimuovendo così acqua e sodio ed ottenendo una efficace riduzione dalla congestione refrattaria [1118]. Gli studi eseguiti in precedenza avevano come limite quello di non avere studiato la quantità di acqua e sodio rimossi con le diverse soluzioni di dialisi peritoneale (icodestrina e soluzione ipertonica). Nel nostro lavoro, abbiamo inoltre studiato come si modificavano nel tempo, dopo l’inizio del trattamento con la PUF, la funzione cardiaca, il rimodellamento del ventricolo sinistro e le riospedalizzazioni, aspetti valutati anche in studi precedenti. Inoltre, abbiamo osservato come è cambiata la qualità della vita, utilizzando il questionario semplificato Minnesota Living with Heart Failure, aspetto che, a nostro avviso, non era stato studiato in precedenza.

Lo scopo di questo studio era pertanto di valutare gli effetti della PUF sul rimodellamento ventricolare, sui ricoveri e sulla qualità della vita, in pazienti con SC cronico senza malattia renale allo stadio terminale (ESRD). In particolare, si è voluto valutare la quantità di acqua e sodio rimossi attraverso l’ultrafiltrazione peritoneale, un aspetto importante per un migliore controllo dei volumi.

 

Metodi

Tra il gennaio 2016 e l’agosto 2018 è stato condotto uno studio esplorativo pilota monocentrico, durante il quale sono stati arruolati pazienti con SC cronico (classe NYHA IV) trattati con ultrafiltrazione peritoneale.

I criteri di inclusione dello studio erano:

  • SC grave (classe NYHA IV) refrattario alla terapia ottimale (terapia farmacologica massimale, dispositivi impiantabili – ICD o CRT– quando indicato, rivascolarizzazione in caso di malattia coronarica, correzione chirurgica della cardiopatia valvolare);
  • non idoneità al trapianto cardiaco;
  • almeno tre ricoveri all’anno per SC negli ultimi due anni;
  • ridotta funzionalità renale (sono stati inclusi i pazienti con insufficienza renale allo stadio IV; sono stati esclusi i pazienti con insufficienza renale allo stadio V che richiedevano una terapia renale sostitutiva).

I criteri di esclusione erano: rifiuto del paziente al posizionamento del catetere peritoneale, presenza di endocardite infettiva o tumore maligno avanzato.

Tutti i pazienti hanno dato il consenso informato scritto a partecipare allo studio. Il protocollo è stato approvato dal Comitato Etico locale della nostra struttura (IRCCS Multimedica).

Durante il ricovero in ospedale, il compenso cardiocircolatorio veniva ripristinato mediante terapia diuretica e vasodilatatori. I pazienti idonei alla PUF sono stati sottoposti ad un’accurata valutazione clinica, che includeva la registrazione del ​​numero di ricoveri per SC avvenuti nell’anno precedente e le caratteristiche cliniche di base (inclusa la terapia farmacologica in corso). È stato eseguito anche un ecocardiogramma 2D standard.

Protocollo PUF

Dopo aver ottenuto il consenso informato del paziente, è stato posizionato chirurgicamente un catetere peritoneale di Tenckhoff a doppia cuffia. Dopo un adeguato periodo di addestramento, i pazienti hanno avviato il trattamento con PUF mediante un monoscambio giornaliero con icodestrina notturna (Extraneal 7,5%, Baxter, USA); i pazienti resistenti all’icodestrina, o che presentavano una grave iponatriemia, venivano sottoposti a uno/due scambi giornalieri con soluzione ipertonica (Pysioneal 3,86%, Baxter, USA) per due ore, con un volume di carico di 1500-2000 ml; la composizione della soluzione ipertonica era: glucosio 38 g/L, Na+ 132 mmol/L, K+ 0 mmol/L, HCO3- 25 mmol/L, lattato 15 mmol/L, pH 7,4, Ca++ 1,25 mmol/L.

L’icodestrina veniva utilizzata come prima scelta per la sua capacità di ultrafiltrazione più lenta e fisiologica rispetto alla soluzione ipertonica. Per questo motivo, abbiamo utilizzato lo scambio con soluzione ipertonica nei pazienti resistenti all’icodestrina e che avevano una grave iponatriemia.

I pazienti sono stati dimessi pochi giorni dopo il posizionamento del catetere peritoneale in uno stato di buon compenso cardiocircolatorio. I pazienti e/o i caregiver sono stati addestrati nelle settimane successive.

I pazienti venivano quindi valutati mensilmente attraverso una visita cardio-nefrologica presso la nostra clinica, durante la quale venivano valutati peso corporeo, pressione sanguigna (BP), frequenza cardiaca (FC), diuresi e ultrafiltrazione peritoneale media (misurata dal paziente o dal caregiver). Mensilmente venivano controllati i seguenti esami di laboratorio: emocromo completo, urea, creatinina, elettroliti sierici, sodio e potassio urinari, urea e creatinina urinarie, velocità di filtrazione glomerulare misurata (GFR), sodio (Na+) e potassio (K+) sul liquido di scarico peritoneale. Inoltre, ogni tre mesi venivano controllati albumina sierica, proteine ​​totali e BNP. La funzione renale residua e l’escrezione di sodio urinario sono state valutate mediante raccolta urine delle 24 ore. L’escrezione di sodio peritoneale è stata valutata sottraendo la quantità IN alla quantità OUT di sodio nel liquido peritoneale. Il sodio peritoneale OUT è stato calcolato moltiplicando il valore di sodio (mEq/L) misurato nel liquido di scarico peritoneale per il volume di ultrafiltrato peritoneale.

Inoltre, dopo 6 e 12 mesi dall’inizio della PUF, sono stati valutati la classe NYHA, i giorni di ricovero e gli eventi avversi correlati al trattamento. L’ecocardiogramma è stato ripetuto dopo 12 mesi. L’imaging ecocardiografico bidimensionale M-mode, pulsed-wave Doppler e tissue Doppler è stato ottenuto nelle posizioni precordiali standard e seguendo le raccomandazioni per le misurazioni M-mode standard.

Al basale e dopo 12 mesi dall’inizio della PUF, la qualità della vita è stata valutata mediante il questionario Minnesota Living with Heart Failure.

Dopo l’inizio della PUF, i pazienti hanno seguito una dieta a basso contenuto di sodio (massimo 2 g di sodio al giorno).

Analisi Statistica

Tutti i dati sono presentati come media ± deviazione standard e percentuali, a seconda dei casi. I tassi di ospedalizzazione sono stati calcolati in giorni all’anno.

Le variabili continue sono riassunte come media e deviazione standard e confrontate tra il basale e dopo 12 mesi mediante Wilcoxon signed rank test non parametrico per dati appaiati. Le variabili categoriche sono presentate come frequenze e percentuali e confrontate tra i gruppi mediante il Fisher exact test.

La significatività statistica è definita come p-value <0,05. Le analisi statistiche sono state eseguite utilizzando il software SAS (SAS versione 9.4).

 

Risultati

Nella Tabella 1 sono riportate le caratteristiche cliniche dei pazienti arruolati. Tra il gennaio 2016 e l’agosto 2018, abbiamo reclutato 9 pazienti (5 uomini, 4 donne); l’età media era di 70±8 anni. La causa più frequente di cardiopatia era rappresentata dalla cardiopatia ischemica (55,6%). Durante il follow-up non sono state evidenziate differenze nella terapia farmacologica, in particolare per quanto riguarda agenti inotropi, beta-bloccanti, ACE-inibitori o ARB. Dopo sei mesi di follow-up si è assistito al decesso di un paziente per ictus.

Uomini 5 pazienti, 55.5%
Donne 4 pazienti, 45.5%
Età (media ± deviazione standard) 70 ± 8 anni
Diabete 5 pazienti, 55.5%
Tipo di cardiopatia
Ischemica 5 pazienti, 55.6%
Valvolare 4 pazienti, 44.4
ICD o CRTD 7 pazienti, 77.8%
Tabella 1: Caratteristiche della popolazione in esame.

Nella Tabella 2 sono riportati gli esami ematochimici e urinari al basale e dopo 12 mesi di follow-up. Durante il follow-up il peso corporeo dei pazienti tendeva a rimanere stabile, mentre il GFR e l’escrezione urinaria di sodio tendevano a diminuire; la posologia della terapia diuretica con furosemide aumentava progressivamente, come atteso.

Baseline

(media ± SD)

T12 mesi

(media ± SD)

P
Peso corporeo (Kg) 66.3 ± 9.3 67 ± 8.1 0.78
Diuresi (ml/24 h) 1406 ± 448 1408 ± 580 1
Urea (mg/dl) 76 ± 40 82 ± 23 0.35
Creatinina (mg/dl) 1.73 ± 0.8 1.94 ± 0.95 0.78
GFR (ml/min) 26 ± 12 21.9 ± 15.3 0.59
Hb (g/dl) 11.6 ± 1.7 12.9 ± 1.7 0.26
Na+ (mmol/L) 135 ± 5 140 ± 4 0.10
K+ (mmol/L) 4.5 ± 0.3 4.46 ± 0.4 0.84
HCO3- (mmol/L) 25.6 ± 2.8 29 ± 1.3 0.023
Na+ urinario (mEq/24h) 122 ± 67 76 ± 45 0.28
K+ urinario (mEq/24h) 43 ± 24 21 ± 14 0.17
Albumina (g/dl) 3.76 ± 0.38 3.53 ± 0.4 0.44
Glicemia (mg/dl) 129 ± 42 141 ± 31 0.60
BNP (pg/ml) 686 ± 627 4448± 959 0.74
Tabella 2: Esami ematochimici ed urinari.

La Tabella 3 mostra la quantità di acqua e sodio rimossi mediante l’ultrafiltrazione peritoneale al basale, considerando separatamente i pazienti trattati con icodestrina e soluzione ipertonica. Al basale 6 pazienti erano trattati con uno scambio giornaliero con icodestrina notturna e 3 pazienti con uno/due scambi giornalieri con soluzione ipertonica. L’escrezione di sodio peritoneale era maggiore con l’icodestrina; il volume di ultrafiltrazione peritoneale invece era maggiore con la soluzione ipertonica.

La Tabella 4 mostra i parametri ecocardiografici al basale e dopo 12 mesi di follow-up. Non sono emerse differenze significative sui parametri di rimodellamento ventricolare; in particolare non vi erano differenze nel volume sistolico e diastolico del ventricolo sinistro. Anche la frazione di eiezione non è cambiata in modo significativo durante il follow-up. Il BNP tendeva a diminuire dopo 12 mesi.

Icodestrina

(media)

Soluzione ipertonica 3.86%

(media)

Pazienti (n°, %) 6, 67 3, 33
Volume out (ml) 533 600
Na+ escreto con la PUF (mEq) 68 45
Na+ urinario (mEq/24h) 102 162
Tabella 3: Caratteristiche del trattamento di ultrafiltrazione peritoneale al basale.

Al basale, tutti i pazienti tranne uno erano in classe NYHA IV (Tabella 4); a 12 mesi di follow-up, abbiamo osservato una riduzione della classe NYHA. Durante il follow-up si è anche registrata una riduzione dei giorni di ricovero, da 49 ± 24 giorni/anno prima dell’arruolamento, a 13 ± 11 giorni/anno. Anche la qualità della vita è migliorata, da 74 ± 12 al basale, a 41 ± 23 alla fine del follow-up. La qualità della vita è stata valutata dal questionario Minnesota Living with Heart Failure che esplora diversi domini valutando la presenza di dispnea, edema, ortopnea e considerando come lo scompenso cardiaco influenzi le attività quotidiane come l’igiene personale, l’attività lavorativa, le relazioni personali.

Durante il follow-up non sono stati registrati eventi avversi correlati al trattamento con ultrafiltrazione peritoneale.

Baseline

(media±SD)

T12 mesi

(media±SD)

P
Ecocardiogramma
FE (%) 30 ± 13 29 ± 7 0.86
PAPS (mmHg) 57 ± 13 59 ± 17 0.83
End diastolic diameter (mm) 66 ± 11 46 ± 28 0.59
Setto interventricolare (mm) 11 ± 1 9 ± 1 0.07
PW (media mm ± SD) 9 ± 1 10 ± 1 0.26
Volume diastolico VS (ml) 182 ± 66 147 ± 42 0.47
Volume sistolico VS (ml) 124 ± 86 106 ± 41 1.0
Diametro atrio sinistro (mm) 57 ± 8 48 ± 1 0.04
Terapia farmacologica
Agenti inotropi 1 paziente, 11,1% 1 paziente, 11,1% 1.00
Beta bloccanti 7 pazienti, 77,8% 4 pazienti, 44,4% 1.00
ACE-I / ARBs 2 pazienti, 22,2% 0 0.48
Furosemide (mg/die) 168 ± 120 204 ± 95 0.50
Antialdosteronici mg/die 75 ± 58 46 ± 29

 

0.30
Classe NYHA 4 ± 0 3.2 ± 0.4 0.01
Giorni di ospedalizzazione (n°/anno) 49 ± 24 13 ± 11 0.007
Qualità della vita (MLHF) 74 ± 12 41 ± 23 0.02
Tabella 4: Parametri ecocardiografici, terapia farmacologica, classe NYHA, giorni di ospedalizzazione e qualità della vita.

 

Discussione

Diversi studi [12, 13] hanno precedentemente riportato i benefici dell’ultrafiltrazione peritoneale nello scompenso cardiaco refrattario come trattamento aggiuntivo per il controllo dei volumi e del bilancio di sodio. In questo studio, abbiamo voluto concentrarci sugli effetti delle diverse soluzioni di dialisi peritoneale sull’ultrafiltrazione e sull’escrezione del sodio, quindi esplorare i possibili benefici a lungo termine di questa terapia.

Nei nostri pazienti abbiamo utilizzato due diverse soluzioni per dialisi peritoneale: icodestrina (Extraneal 7,5%, Baxter, USA) e ipertonica (Pysioneal 3,86%, Baxter, USA).

Come noto dalla fisiopatologia [20, 21], l’icodestrina è un polimero del glucosio che agisce attraverso un meccanismo colloido-osmotico; i pori coinvolti sulla membrana peritoneale sono i piccoli pori con il passaggio di acqua e sodio. L’icodestrina ha un meccanismo più lento che richiede un tempo di sosta più lungo. La soluzione ipertonica utilizza invece un meccanismo di ultrafiltrazione cristalloido-osmotico che utilizza i pori ultrapiccoli con passaggio di acqua priva di soluti, attraverso un tempo di sosta più breve.

Nella nostra esperienza, analizzando la capacità ultrafiltrativa delle due soluzioni e l’escrezione peritoneale di sodio, è stato confermato il maggiore potere di ultrafiltrazione della soluzione ipertonica, con una minore escrezione di sodio rispetto all’icodestrina. Abbiamo considerato solo l’aspetto ultrafiltrativo del singolo scambio giornaliero, non quello depurativo, in presenza di pazienti con malattia renale cronica stadio III-IV secondo le linee guida KDOQI [22].

L’icodestrina dovrebbe essere utilizzata preferibilmente in quanto ha una capacità di ultrafiltrazione più lenta e fisiologica [21]. Abbiamo utilizzato il monoscambio giornaliero con soluzione ipertonica nei pazienti resistenti all’icodestrina e che avevano una grave iponatriemia diluizionale. La soluzione ipertonica è infatti meno fisiologica e crea un danno osmotico sulla membrana peritoneale a causa delle sue elevate concentrazioni di glucosio.

Durante il follow-up abbiamo osservato un notevole miglioramento della classe NYHA, dallo stadio IV allo stadio III a 12 mesi in tutti i pazienti, confermando il miglioramento della sintomatologia cardiaca dopo l’inizio del trattamento con PUF, come riportato in diversi altri lavori [1416].

La riduzione del BNP osservata nel nostro studio appare non significativa ma in linea con i dati riportati in precedenti analisi [15].

Abbiamo osservato una riduzione dei giorni di degenza all’anno, confermando i dati riportati in letteratura [1618]. Inoltre, è stato osservato un miglioramento della qualità della vita valutato dal questionario Minnesota Living with Heart Failure. Questo questionario è ampiamente utilizzato nei pazienti con SC per valutare la riserva funzionale cardiaca e l’impatto dei sintomi sulle attività quotidiane [19].

Per quanto riguarda il rimodellamento ventricolare, non ci sono state variazioni nei volumi e nello spessore del ventricolo sinistro, né nella frazione di eiezione. L’unico parametro che è cambiato, considerando sempre l’esiguo numero di pazienti, è stato il diametro dell’atrio sinistro, che potrebbe essere un marker del volume intravascolare.

Durante il follow-up un paziente è deceduto per complicanze cardiovascolari, nessuno per complicanze legate alla PUF.

Il nostro studio si basa sulla nostra esperienza su un piccolo numero di pazienti considerando la difficoltà di reclutamento e la difficoltà di stabilire un approccio multidisciplinare.

Nella nostra esperienza, la PUF è associata ad un miglioramento della qualità della vita e ad una riduzione dei giorni di ricovero. È preferibile utilizzare l’icodestrina in quanto determina una ultrafiltrazione più lenta e fisiologica. Nei casi resistenti o in presenza di iponatriemia grave è preferibile ricorrere ad un monoscambio giornaliero rapido con soluzione ipertonica. L’ultrafiltrazione peritoneale nell’insufficienza cardiaca può essere un trattamento aggiuntivo nel controllo dei volumi e nel bilancio del sodio.

Abbiamo voluto segnalare l’esperienza positiva del nostro centro nell’uso dell’ultrafiltrazione peritoneale nel controllo dei volumi nello scompenso cardiaco grave. Il maggiore limite dello studio è il ridotto numero di pazienti reclutati. La nostra esperienza vuole quindi essere uno spunto per studi futuri su un target di pazienti più ampio che ci permetta di validare quanto osservato, ovvero il miglioramento della qualità della vita, la riduzione dei giorni di ricovero e il miglioramento della classe NHYA. Inoltre, l’analisi degli effetti delle diverse soluzioni per dialisi peritoneale disponibili per il monoscambio giornaliero nelle cardiopatie gravi, ci danno importanti suggerimenti fisiopatologici per guidarci nella terapia più corretta.

 

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Hyperphosphatemic pseudotumoral calcinosis due to FGF23 mutation with secondary amyloidosis

Abstract

A 44 years old man was admitted for nephrotic syndrome and rapidly progressive renal failure. Two firm, tumour-like masses were localized around the left shoulder and the right hip joint. Since the age of 8 years old, the patient had a history of metastatic calcification of the soft tissues suggesting hyperphosphatemic pseudotumoral calcinosis. Despite treatment for a long time with phosphate binders the metastatic calcinosis had to be removed with several surgeries. The patient had also a history of recurrent fever associated with pain localized toward the two masses and underwent multiple antibiotic courses. Laboratory findings at admission confirmed nephrotic syndrome. S-creatinine was 2.8 mg/dl. Calcium was 8.4 mg/dl, Phosphorus 8.2 mg/dl, PTH 80 pg/ml, 25 (OH)VitD 8 ng/ml. Serum amyloid A was slightly increased. We performed renal biopsy and we found AA amyloid deposits involving the mesangium and the tubules. The bone marrow biopsy revealed the presence of AA amyloid in the vascular walls. During the next two months renal failure rapidly progressed and the patient started hemodialysis treatment. We performed genetic analysis that confirmed homozygous mutation of the FGF23 gene. After 14 months on hemodialysis, the patient’s lesions are remarkably and significantly reduced in dimension. The current phosphate binder therapy is based on sevelamer and lanthanum carbonate. Serum amyloid A is persistently slightly increased as well as C reactive protein. Proteinuria is in the nephrotic range without nephrotic syndrome.

Keywords: pseudotumoral calcinosis, tumoral calcinosis, FGF23, AA amyloid, renal failure, dialysis

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Introduzione

La calcinosi pseudotumorale iperfosfatemica è una rara condizione dovuta a deficit o resistenza all’azione del fibroblast growth factor 23 (FGF23). Dal punto di vista genetico, essa è associata a varianti patogenetiche a trasmissione autosomica recessiva, nei geni codificanti per FGF23 [21] e GALNT3. Quest’ultimo, a sua volta, codifica per una proteina responsabile della glicosilazione di FGF 23 [2123] e KL, regolatrici di KLOTHO, noto co-recettore fondamentale per la trasmissione intracellulare di FGF23 [3]. Ricordiamo che l’azione di FGF23 (Klotho-dipendente) si manifesta in modo simile a quella del paratormone (PTH) a livello del tubulo prossimale, dove inibisce i cotrasportatori sodio-fosforo IIa e IIc, con conseguente effetto fosfaturico. Sull’attivazione della Vit D3, invece, l’azione è opposta a quella del PTH, infatti FGF23 inibisce l’attività della 1-alfa idrossilasi e, quindi, causa una riduzione della 1-25 (OH) Vit D con conseguente inibizione, regolata dal cotrasportatore sodio-fosforo IIb, dell’assorbimento intestinale sia di calcio che di fosforo. In corso di calcinosi pesudotumorale iperfosfatemica, dunque, le mutazioni portano alla perdita della funzione fosfaturica dell’FGF23 con incremento del riassorbimento tubulare del fosforo e dell’1,25 diidrossi Vitamina D; il calcio di solito è normale-elevato e i livelli di PTH sono di solito normali o bassi. 

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A case of AL amyloidosis with fulminant evolution

Abstract

Amyloidosis represents a heterogeneous group of pathologies characterized by the deposit, in the form of fibrils, in the various organs and tissues of the body, of abnormal proteins; the deposits made up of these fibrils are called amyloid or amyloid substance. AL amyloidosis, also called “light chains”, is a primary form characterized by deposits of light chains of monoclonal immunoglobulins, proteins that are produced by the bone marrow with the aim of protecting the body from pathological processes; for unknown reasons, these immunoglobulins, once fulfilled their function, do not dissolve but, on the contrary, they transform into amyloid fibrils and accumulate progressively, transported by the bloodstream, in the various organs and tissues. Below we report the case of a 77-year-old Caucasian male patient hospitalized at our Operative Unit for nephrotic syndrome and creatinine increase in the last couple of months, compared to previous normal tests. The patient underwent a renal biopsy and a bone marrow smear with evidence of AL amyloidosis (or primary amyloidosis) and of the presence, at serum immunofixation, of small IgG multiple myeloma k. Treated with bortezomib (1 mg/m2) and soldesam (10 mg) first and with lenalidomid after, the patient had a clinical course burdened by symptomatic hypotension, due to severe dysautonomia. He had to start replacement treatment with haemodiafiltration for terminal kidney disease two months after the onset of illness. He died 4 months after the first hospitalization for nephrotic syndrome.

 

Keywords: AL amyloidosis, multiple myeloma, renal failure, haemodiafiltration

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Introduzione

L’amiloidosi è una patologia caratterizzata dal deposito di una proteina con ripiegamento beta-shift. Attualmente si conoscono circa 30 tipologie di amiloidosi, ereditarie o meno, classificate in base ai segni clinici ed alle caratteristiche biochimiche della sostanza amiloide coinvolta [1]. Alcune delle forme più frequenti sono l’amiloidosi AL (amiloidosi da immunoglobuline/catene leggere), l’amiloidosi AA (infiammatoria/reattiva) e l’amiloidosi ATTR (da accumulo di transtiretina).

L’amiloidosi AL (o amiloidosi primaria) è la forma più comune, con un’incidenza di circa 0,8 casi ogni 100.000 abitanti per anno, ed anche quella con la prognosi peggiore. In questa variante della malattia, il cosiddetto “clone amiloidogeno” è rappresentato da frammenti delle catene leggere delle immunoglobuline (anticorpi dalle plasmacellule midollari, cellule linfoidi giunte a maturazione in grado di sintetizzare immunoglobuline) che formano fibrille le quali si depositano nei tessuti. In questo caso, l’amiloidosi rientra nelle “discrasie plasmacellulari” ed è una patologia che si può manifestare con una grande varietà di segni e sintomi che dipendono dagli organi colpiti [2]. Può presentarsi come patologia isolata o in associazione con il mieloma multiplo. Gli organi più frequentemente coinvolti dal deposito delle fibrille sono il cuore (nel 75% dei pazienti), i reni (nel 65% dei casi), l’apparato gastrointestinale, il fegato (20%), la cute, i nervi periferici che trasmettono la sensibilità dai piedi e dalle mani e quelli che regolano la pressione arteriosa (20%) e gli occhi.

Molto utile alla determinazione della sopravvivenza dei pazienti affetti da amiloidosi AL può risultare la misurazione di biomarkers di danno cardiaco quali i peptidi natriuretici, ovvero la porzione amino-terminale del peptide natriuretico di tipo B (NT-proBNP) e delle troponine cardiache (cTn) [34].

I sintomi che possono far sospettare un’amiloidosi sono numerosi ed alcuni sono tipici della malattia: una proteinuria fino alla sindrome nefrosica, disturbi del ritmo cardiaco per infiltrazione del sistema di conduzione, ipertrofia del ventricolo sinistro con ispessimento ed irrigidimento delle pareti ventricolari e del setto interatriale, ipotensione ortostatica, sincope, vertigini, epatomegalia senza cause apparenti, polineuropatia, sindrome del tunnel carpale, porpora periorbitale (per fragilità capillare dovuta a deposito vascolare di amiloide), macroglossia. La comparsa di stanchezza e dimagramento inspiegabili è un sintomo frequente nel paziente con amiloidosi [59].

Le terapie impiegate nell’amiloidosi AL sono atte a contrastare le plasmacellule che producono la paraproteina e si basano su combinazioni di diversi farmaci [10].  

Per i pazienti giovani, con condizioni generali buone è possibile eseguire l’autotrapianto di cellule staminali, una procedura che si avvale di chemioterapia ad alta dose, che elimina tutte le cellule del midollo osseo, che viene poi ricostituito grazie alle cellule staminali del paziente, prelevate in precedenza e crioconservate [11].

Tra i farmaci usati nel trattamento dell’amiloidosi AL spicca l’azione di due classi: l’inibitore del proteasoma, bortezomib e gli immunomodulatori, derivati dalla talidomide, lenalidomide e pomalidomide.

Negli ultimi anni si è affermato anche il ruolo dell’immunoterapia con anticorpi monoclonali antiCD-38, diretti contro le plamascellule, come il Daratumumab.

Il proteasoma è un complesso multiproteico presente in tutte le cellule dell’organismo, con il ruolo di degradare i polipeptidi all’interno della cellula. La sua inibizione porta ad un arresto del ciclo cellulare ed alla morte per apoptosi. Tra gli effetti collaterali degli inibitori del proteasoma vi è la riattivazione dell’Herpes Zoster, la neuropatia periferica, la leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML), l’ipotensione ortostatica, l’insufficienza cardiaca [1216].

 

Caso clinico

Riportiamo un caso di un paziente 77enne, di razza caucasica, con una storia anamnestica di cardiopatia ischemica all’età di 62aa e di TIA nel 2010, iperteso in terapia con amlodipina 5 mg, ramipril 5 mg ed amiloride/idroclorotiazide 2.5/25 mg. Nel luglio 2012 tumore corde vocali trattato con radioterapia.

Nel dicembre 2018 si ricovera per alcuni giorni, dal 22 al 31, presso la nostra unità di Nefrologia per inquadramento clinico-diagnostico in funzione di una proteinuria significativa allo spot urinario (2.6 g/l), edemi declivi, ipertensione; all’ingresso si mette in evidenza un aumento della creatinina (1.4 mg/dl) che fino ad allora era sempre stata nella norma (creatinina di 1 mg/dl all’ultimo controllo del novembre 2018). Un’ecocardiogramma di fine dicembre 2018 mostrava un ventricolo sx di normali dimensioni, con lieve ipertrofia settale ed acinesia inferiore basale; funzione contrattile globale discretamente conservata (FE 55%). Nel corso della degenza è emersa una sindrome nefrosica (9.7 gr/24h), associata a disprotidemia (proteine totali 50 g/L) e si confermava un deterioramento della funzione renale (creatininemia stabile a 1.4 mg/dl). Abbiamo sottoposto il paziente ad una serie di controlli ematochimici, anche in funzione di una valutazione per eventuale biopsia renale, quali il dosaggio dei markers tumorali per escludere sindromi paraneoplastiche con riscontro di rilevante aumento del Ca125 (641 KU/L) e minimo del Ca 15-3 (33 KU/L), e la batteria autoimmunitaria, in cui emergeva esclusivamente un minimo aumento non rilevante del C3 (2.190 g/l) e C4 (0.550 g/l); anche i markers virali risultavano negativi. Era stato dimesso a fine dicembre 2018 con l’intenzione di approfondire a breve il quadro clinico e con una creatininemia sempre intorno a 1.4 mg/dl e GFR stimato (con formula MDRD) di 52 ml/min.

Dal 14 gennaio al 15 febbraio nuovo ricovero in Nefrologia con una creatininemia all’ingresso di 2.36 mg/dl. Visto l’aumento dei markers tumorali e l’anamnesi positiva per pregressa neoplasia, è stato sottoposto, dopo pochi giorni dall’ingresso e previa premedicazione, a Tac stadiante con mdc con riscontro di “multiple formazioni linfonodali sovra e sottodiaframmatiche nel mediastino superiore, anteriormente alla trachea, in sede ilare bilateralmente, nel retroperitoneo superiore, all’altezza dell’origine del tripode celiaco, con diametro massimo 22 mm. Reni in sede, con spessore parenchimale modestamente assottigliato ed effetto parenchimografico simmetrico. Aumentate di dimensioni due alterazioni ossee osteoaddensanti all’ala sacrale di destra ed all’altezza del II metamero sacrale”. Dal punto di vista laboratoristico, un’immunofissazione sierica evidenziava componente monoclonale IgG kappa <1 g/l.

Il 4 febbraio 2019 veniva sottoposto a biopsia renale con diagnosi di amiloidosi AL (colorazione rosso Congo positiva) (Fig. 1); il frustolo di parenchima renale comprendeva 19 glomeruli di cui 2 scleroialini. Tutti i glomeruli erano caratterizzati da espansione della matrice mesangiale con ispessimento della membrana basale capillare per deposizione di materiale debolmente PAS positivo che in alcuni glomeruli assumeva un aspetto nodulare; nell’interstizio erano presenti foci di infiltrato infiammatorio di tipo linfocitario e plasmacellulare e materiale debolmente PAS positivo con focali aree di atrofia tubulare. Il lume dei tubuli era occupato da voluminosi cilindri ed i vasi di medio e piccolo calibro erano ispessiti per la presenza del materiale debolmente PAS positivo”. L’amiloide non è stata tipizzata con l’immunogold o altro.

 

Fig. 1: A) (Rosso Congo; 40x) La colorazione rosso Congo mette in evidenza depositi di amiloide attorno ai vasi ed all’interno dei glomeruli (frecce). Questi depositi hanno mostrato dicroismo alla luce polarizzata; B) (Colorazione tricromica; 200x) Amiloide (depositi blu) all’interno del glomerulo (asterisco); C) (PAS; 200x) Amiloide (deposito rosa) all’interno del glomerulo (freccia); D: Amiloide (deposito rosa) attorno ai vasi (freccia).

Era stato anche eseguito uno striscio su sangue midollare con presenza di infiltrato plasmacellulare pari al 10% della cellularità totale, in quadro compatibile con mieloma multiplo ed amiloidosi renale (catene Kappa libere: 379 mg/l; catene lambda libere: 32.90 mg/l; rapporto K/L libere di 11.520 ratio; BJ: 210 mg/l). In quell’occasione la creatinina era aumentata a 2.7 mg/dl, NT-proBNP era 5923 pg/ml e la troponina T di 43.41 ng/l; a fine febbraio 2019 veniva ripetuto un’ecocardiogramma che mostrava un ventricolo sinistro lievemente ipertrofico con pareti isoecogene e contrattilita’ globale normale (FE 55%) e dilatazione biatriale.

Dal punto di vista clinico, durante la degenza si è instaurato un quadro di ipotensione ortostatica ingravescente che ha reso necessaria la sospensione della terapia antipertensiva e la prescrizione di midodrina (30 gtt tre volte al giorno).

Dopo confronto multidisciplinare con oncologo ed ematologo del nostro nosocomio e con il centro di riferimento dell’amiloidosi di Pavia, non sono stati presi in considerazione ulteriori accertamenti strumentali (RMN cardiaca, PET-TAC, biopsia linfonodale) e si è deciso di iniziare, dall’11 febbraio 2019, terapia farmacologica di prima linea, secondo lo schema Vel-Dex: bortezomib (1 mg/m2 sottocute settimanale) e desametasone 10 mg per 2 giorni settimanali, con un ciclo completo eseguito nell’arco di quattro settimane. A questi farmaci abbiamo associato anche l’aciclovir 200 mg due volte al giorno per il noto rischio di riattivazione di herpes zooster. Alla dimissione la funzione renale era ulteriormente peggiorata con una creatininemia di 5.3 mg/dl.

Nel corso del terzo ricovero in Nefrologia, dal 20 febbraio al 29 marzo 2019, si iniziava trattamento emodialitico sostitutivo con emodiafiltrazione [1718] per ulteriore peggioramento della funzione renale (azotemia 160 mg/dl, creatininemia 6.9 mg/dl) ed oligoanuria.

A fine marzo 2019, dopo il primo ciclo di trattamento con Vel/Dex, si assisteva ad un significativo aumento dell’NT-proBNP (2176 pg/ml); peggiorava anche il profilo delle FLC con catene Kappa libere: 627 mg/l; catene lambda libere: 48.40 mg/l; rapporto K/L libere di 12.960 ratio.

Era ancora molto evidente, inoltre, il quadro di ipotensione ortostatica, ulteriormente aggravato dalla terapia con bortezomib, il cui dosaggio, anche in accordo con il centro di riferimento di Pavia, veniva ridotto a 0.7 mg/m2.

Dal punto di vista laboratoristico si manifestava aumento dei valori delle FLC con catene Kappa libere di 771 mg/l, catene lambda libere di 81.8 mg/l ed un rapporto K/L libere di 14.210 ratio.

Durante tutto il decorso della malattia non si sono registrati miglioramenti nei livelli dei biomarkers misurati (pro-BNP, troponina T, catene leggere libere circolanti) (Tabella 1).

 

  GENNAIO 2019 MARZO 2019 APRILE 2019
pro-BNP (v.n. <100 pg/ml) 5923 21176 20267
S-Kappa lib. (v.n. 3,30 – 19,40 mg/l) 379 627 771
S-Lambda lib. (v.n. 5,71 – 26,30 mg/l) 32.9 48.4 81.8
S-rapporto K/L lib. (v.n. 0,300 – 1,200 ratio) 11.520 12.960 14.200
S-TnT (v.n. 0,00 – 14,00 ng/l) 43.41 80 190
Tabella 1: Andamento temporale livelli ematici biomarcatori di Amiloidosi AL

Concluso il primo ciclo di Vel/Dex, su indicazione dello specialista ematologo, si sospendeva il trattamento con bortezomib, già a dosi ridotte, e si intraprendeva trattamento con lenalidomide 5 mg/die, associato al desametasone. Dopo una settimana dall’inizio della terapia con lenalidomide il paziente è deceduto per arresto cardio-circolatorio, a distanza di quattro mesi dall’esordio di malattia.

 

Discussione

L’amiloidosi AL fa parte di un gruppo eterogeneo di patologie caratterizzate dall’accumulo di materiale proteico fibrillare, definito amiloide. È una malattia rara e difficile da diagnosticare perché spesso si presenta con sintomi aspecifici e, a differenza del mieloma multiplo, del quale condivide alcuni schemi terapeutici, non è solo una neoplasia ematologica ma può presentare un danno funzionale multiorgano che espone i pazienti ad una maggiore tossicità delle terapie farmacologiche [1921].

L’obiettivo principale della terapia dell’amiloidosi AL è quello di rallentare o arrestare la produzione della proteina che causa il danno degli organi coinvolti; sulla prognosi della malattia incide non soltanto il tipo di terapia utilizzata ma anche il monitoraggio di biomarcatori (proBNP, FLC, cTn) che possano rendere il più precoce possibile la diagnosi e contribuire positivamente all’outcome stesso.

La terapia farmacologica dell’amiloidosi AL si avvale di varie strategie che tengono conto anche della stratificazione dei pazienti affetti da amiloidosi a seconda del basso, medio ed alto rischio (Tabella 2) [22]; il trapianto autologo di cellule staminali periferiche, associato ad alte dosi di melphalan, è considerato il trattamento più efficace nei pazienti a basso rischio, con età inferiore a 65 anni, con normale troponina cardiaca, frazione di eiezione ventricolare > 45%, PAS >90 mmHg, clearance della creatinina > 50 ml/min [23].

 

Tabella 2: Stratificazione del rischio clinico nei pazienti con amiloidosi AL (relative al centro di riferimento nazionale delle amiloidosi di Pavia) [20]

L’associazione di melphalan e desametasone (MDex) o la combinazione di ciclofosfamide, thalidomide e desametasone (CTD) ha mostrato gli stessi risultati del protocollo precedente ma con una tossicità minore.

I pazienti con malattia avanzata, e ad alto rischio, possono giovarsi di un trattamento di prima scelta definito dalla combinazione dell’inibitore del proteosoma, bortezomib, con il  desametasone (Vel/Dex), protocollo che migliora la sopravvivenza dei pazienti con insufficienza cardiaca sintomatica [2426], come confermato da una metanalisi del 2019, in cui veniva posto l’accento sull’efficacia, tra le varie associazioni di terapie, del protocollo Vel/Dex sulla remissione completa [27].

I farmaci appartenenti alla categoria degli IMiDs (immunomodulatori) hanno trovato un loro spazio come rescue therapy nell’amiloidosi AL. A questa categoria appartengono la thalidomide, lenalidomide e pomalidomide; essi vengono riservati ai pazienti con recidiva di malattia e che non possono essere nuovamente sottoposti a terapie di primo livello. Questi farmaci sono in grado di superare le resistenze agli alchilanti ed all’inibitore del proteasoma e garantiscono, a seconda degli studi, una risposta ematologica tra il 40 ed il 60% [2829].

 

Conclusioni

L’amiloidosi AL rappresenta una patologia che può ancora oggi avere un’evoluzione clinica verso l’exitus. Nella prognosi gioca un ruolo importante sia la diagnosi precoce che l’eventuale interessamento multiorgano.

Nel caso clinico in questione il paziente ha presentato già all’esordio sintomi di interessamento multiorgano (sindrome nefrosica ed insufficienza renale) con successiva insufficienza renale ingravescente richiedente trattamento dialitico; i livelli aumentati di NT- ProBNP, patognomonici di interessamento cardiaco da amilodosi, non correlavano con il dato ecocardiografico e sono rimasti stabilmente elevati anche durante la chemioterapia. L’inizio della terapia con bortezomib e desametasone (schema Vel-Dex) non ha sortito gli effetti sperati ma ha complicato sintomi clinici già presenti, come l’ipotensione ortostatica ingravescente, ed il profilo delle FLC all’immunofissazione sierica è progressivamente peggiorato. L’evoluzione verso l’exitus è stata quasi fulminante, considerando che, in quattro mesi dall’esordio della sindrome, il decesso è arrivato dopo la conclusione del primo ciclo di Vel-Dex e l’inizio della terapia alternativa con lenalidomide.

 

 

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Renal failure in the medicolegal evaluation of civil invalidity and social security disability (INPS)

Abstract

After a quick description of the anatomopathology and physiopathology of renal failure, the Authors delve into the problem of assessing its medicolegal aspects in the fields of civil invalidity and social security.

In Italy, civil invalidity involves protecting the psychological and physical welfare of the disabled, as sanctioned by law 118 of 1971; this law protects all citizens with a debilitating condition, including those who do not work or are not of working age. A disabled person is someone who, if of working age (between 18 and retirement) has a reduction of more than ⅓ (34%) of their general work capacity; if under or over the retirement age, they have a persistent difficulty in carrying out age-appropriate functions and tasks. In support of an application for being awarded civil invalidity, people can also refer to law no. 104 of 1992, which assesses social, relational and work disadvantages of a disabled person.

INPS (Italian Social Security Institute) protection, on the other hand, is a social security protection based on health requirements (having a capacity for work which is reduced by more than ⅓, as established by law no. 222 of 1984), as well as on the following administrative requirement: having paid, as a worker, at least 260 weekly contributions, equivalent to five years of contribution and insurance, of which 156, equal to three years of contribution and insurance, were made in the five-year period preceding the date of submitting the application. If this is the case, the protected person, thus insured, can enjoy protection for their illness by virtue of the stipulations for social security.

 

Keywords: Renal failure, civil invalidity, social security disability, Italian Social Security Institute (INPS)

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Introduzione

L’insufficienza renale può definirsi come la ridotta capacità del rene di mantenere il bilancio tra introduzione ed escrezione di acqua e minerali nell’organismo con il conseguente accumulo di vari prodotti terminali del metabolismo [1]. L’insufficienza renale può presentarsi clinicamente in forma acuta (IRA) con una manifestazione rapida, sovente reversibile. Si parla, invece, di insufficienza renale cronica (IRC) quando la perdita della funzionalità renale si palesa in maniera progressiva e sovente irreversibile in quanto costituisce lo stadio terminale di numerose patologie non emendabili del rene. 

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Practical approach to patient therapy affected by Autosomal Dominant Autosomic Polycystic Kidney Disease

Abstract

The Autosomal Dominant Polycystic Kidney Disease(ADPKD) is the most frequent renal genetic condition and involves 7 to 10% of subjects undergoing renal replacement therapy. It is estimated that between 24,000 and 34,000 subjects in Italy are affected by this condition. For an illness that has long been neglected due to a lack of treatment options, an attractive treatment possibility is now available: tolvaptan has shown clinical efficacy regarding disease progression in two clinical trials (ADPKD patients with mild renal failure and ADPKD patients with advanced renal failure). The possible liver toxicity expressed in about 4% of the subjects exposed to the drug and an important aquaretic effect suggest prudence and attention in the use of this new molecule. Based on these critical points, some clinicians with direct experience in the use of the drug have briefly collected in the pages to follow the main clinical recommendations for the treatment of ADPKD patients. The recommendations concern the general approach to the patient affected by ADPKD but with particular attention to the aspects related to the new treatment. The delicate task of introducing the opportunities and limitations of the offered therapy to the patient will be deepened. Finally, the document wants to suggest how best to organize a clinic dedicated to this condition.

Keywords: Autosomal Dominant Polycystic Kidney Disease, Renal failure, Cyst, Aneurysm, tolvaptan

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INTRODUZIONE

Riccardo Magistroni

 

Il Rene Policistico Autosomico Dominante (ADPKD) è la più frequente patologia genetica di interesse nefrologico e coinvolge dal 7 al 10% dei soggetti in trattamento sostitutivo renale (13).

 

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Hyperkalemia as a limiting factor in the use of drugs that block the Renin Angiotensin Aldosterone System (RAAS)

Abstract

Angiotensin-converting enzyme (ACE-I) inhibitors and ARBs have shown real efficacy in reducing blood pressure, proteinuria, in slowing the progression of chronic kidney disease (MRC) and in clinical improvement. in patients with heart failure, diabetes mellitus and ischemic heart disease. However, their use is limited by some side effects such as the increase in serum potassium (K), which can be particularly severe in patients with renal insufficiency. In the 23,000 patients followed by the PIRP project of the Emilia-Romagna Region, hyperkalaemia at the first visit (K> 5.5 mEq / L) was present in about 7% of all patients. The prevalence of K values> 5.5 mEq / L increased in relation to the CKD stage, reaching 11% in patients in stage 4 and 5. Among patients with values ​​of K> 5.5 at baseline, 44.8% were in therapy with ACE-I / ARB inhibitors, 3.8% with anti-mineralcortoid and a further 3.9% concurrently taking SRAA-blocking agents and K-sparing diuretics. Counter-measures to avoid the onset of hyperkalemia during treatment with drugs that block the RAAS range from the low-K diet, to diuretics and finally to drugs that promote fecal elimination of K. Among these, polystyrene sulfonates, which have more than 50 years of life, exchange K with sodium or calcium. These drugs, however, in chronic use, can lead to sodium or calcium overload and cause dangerous intestinal necrosis. Recently two new highly promising drugs have been introduced on the market for the treatment of hyperkalemia, the patiromer and sodium zirconium cyclosilicate. The patiromer, which is a potassium-calcium exchanger, acts at the level of the colon where there is a higher concentration of K and where the drug is most ionized. Sodium zirconium cyclosilicate (ZS-9) is a resin with micropores of well-defined dimensions, placed in the crystalline structure of the zirconium silicate. The trapped K is exchanged with other protons and sodium. However, even these drugs will have to demonstrate their long-term efficacy and safety to be considered true partners of RAAS blockers in some categories of patients.

Key words: potassium, hyperkalemia, ARB, ace-inhibitors, renal failure, patiromer, sodium zieconium cyclosylate, ZS-9, kayexalate

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Introduzione

Gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-I) ed i bloccanti dei recettori dell’angiotensina (ARB) hanno dimostrato una reale efficacia nel ridurre la pressione arteriosa,la proteinuria e nel rallentare la progressione della malattia renale cronica (13). Inoltre questi farmaci favoriscono il miglioramento clinico in pazienti con insufficienza cardiaca, diabete mellito e cardiopatia ischemica. Tuttavia, questa classe di farmaci è stata anche associata ad eventi avversi, a volte severi: comparsa di insufficienza renale acuta, iperkalemia severa (45) importanti riduzioni della pressione arteriosa.

Il timore verso gli effetti avversi dei bloccanti del Sistema Renina Angiotensina Aldosterone (SRAA), spesso comporta una loro sottoutilizzazione o un sottodosaggio, in particolare nei sottogruppi di pazienti che sono maggiormente a rischio di sviluppare complicanze. Uno studio turco che si è occupato di valutare le barriere che limitano l’uso di ACE-I e ARB in pazienti con insufficienza renale cronica, ha riconosciuto nell’iperkalemia, l’elemento principale che porta alla sospensione dei bloccanti il SRAA (6). Anche lo studio di Shirazian ha evidenziato che l’iperkalemia rappresenta la causa principale di sottoutilizzo di ACE-I e ARB (7)

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