The Outpatient Activity of the Onconephrology Clinic of Cremona in the First Semester of 2023

Abstract

Despite the rapidly growing area of onconephrology in the last decade, nephropathic patients have been rarely involved in clinical trials of cancer therapy, particularly in the case of chronic kidney disease (CKD) stage 4 (CKD4) or stage 5 (CKD5). We could offer better therapeutic opportunities to our patients thanks to the Onconephrology Clinic and the Multidisciplinary group, in which a dedicated team of specialists guarantees the highest level of possible care. In this paper, we analysed the activity of the first Italian OnconephrologyClinic, twelve years after its foundation. We studied retrospectively a cohort of 174 patients referred to our center in the last six months (from 11/01/2023 to 12/07/2023), with a total of 262 visits (40 first visits). We highlight a prevalence of moderated or advanced kidney disease, in contrast with the literature, which is probably the result of a transversal II level clinic with different specialists involved. Furthermore, in patients with a prolonged follow-up, we observed a progressive better attention to every kidney involvement, particularly in patients in active cancer therapy, by the oncologist colleagues. We observed a reduction of treatment withdrawals due to kidney toxicity, thanks to a multidisciplinary approach and experienced-based management. On the other side, we highlight also a delayed addressing of patients with acute kidney injury (AKI), which often results in chronic kidney damage. This could be related to a delayed identification of the reduced renal function, which is difficult to correctly value in patients with cancer.

Keywords: onconephrology, cancer therapy, nephrectomy, kidney function

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Introduzione

L’onconefrologia, come testimoniato dal crescente numero di articoli pubblicati negli ultimi dieci anni e dal fiorire di congressi dedicati, nonché dalla nascita di ambulatori a impronta multidisciplinare in molte regioni italiane, è una branca super-specialistica che suscita sempre più interesse nel mondo nefrologico. La ricerca in ambito oncologico genera nuovi farmaci con una rapidità a cui il nefrologo non è uso: nell’ultimo decennio, dopo le terapie a bersaglio molecolare, sono stati introdotti nuovi antimetaboliti, gli inibitori dei chekpoint immunitari, i farmaci coniugati, nonché protocolli di combinazione spesso comprendenti platini e/o molecole a eliminazione o tossicità renale. Per il nefrologo che si accosta a questo ambito, l’aggiornamento continuo sul panorama farmacologico non è sufficiente. Infatti, più del 70% degli studi registrativi, a partire dalla fase II, non comprendono pazienti affetti da insufficienza renale cronica, specie se moderato-severa [1, 2] nonostante le linee guida dell’EMA [3] circa il disegno degli studi di farmacocinetica; inoltre, la letteratura offre pochi studi di farmacocinetica in fase di post marketing. A complicare le cose, non vi è uniformità negli strumenti usati negli studi registrativi né per quanto riguarda i criteri “renali” di esclusione, né per la valutazione della funzione renale. Per questi motivi, la mancanza di un nefrologo dedicato frequentemente preclude a questo gruppo di pazienti possibilità terapeutiche che non dovrebbero essergli negate, vista sia l’elevata incidenza di tumori nella popolazione con CKD che l’eccesso di mortalità per neoplasia dei pazienti nefropatici sia in terapia conservativa [4, 5] che in trattamento dialitico sostitutivo [6] rispetto alla popolazione generale. 

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Onconephrology in Renal Transplant Patient: A Challenge for the Transplant Nephrologist

Abstract

Onconephrology, an emerging field in modern medicine, is gaining importance due to its intricate challenges derived from the mixing field of tumorous and renal diseases. The growing incidence of tumors in transplant patients requires preventive strategies and accurate monitoring. Pre-transplant screening is crucial, focusing on subjects with oncological history. Post-transplant follow-up must be personalized, tailoring screenings for patients with cancer history. Immunosuppressive therapy, although essential to prevent organ rejection, represents a delicate balance between controlling the immune response and cancer risk management.
Immune checkpoint inhibitors emerge as a fascinating potential for cancer therapy, but their use in transplant patients requires caution and further research to carefully evaluate their safety and effectiveness, balancing potential benefits with actual risk of rejection. In summary, onconephrology is a growing field that requires an interdisciplinary approach and constant research, aimed at successfully addressing the complex challenges associated with oncological diseases in renal and transplant patients.

Keywords: Onconephrology, Kidney transplant, Immunosuppressive therapy, Immune check-point inhibitors

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Introduzione: l’onconefrologia e le sue prospettive

L’onconefrologia sta emergendo come una disciplina chiave nella medicina moderna, richiedendo specialisti in grado di gestire le complessità delle patologie tumorali e renali.

L’addestramento specifico è limitato, e c’è un’urgenza crescente di formare più onconefrologi per far fronte alla domanda in crescita. L’integrazione di onconefrologi in squadre multidisciplinari è fondamentale per affrontare le innumerevoli sfide legate ai pazienti oncologici con malattia renale, inclusi coloro che hanno ricevuto un trapianto di rene.

La precisione nell’applicazione delle terapie oncologiche richiede una formazione continua specifica, e l’onconefrologia deve essere inclusa nei programmi di formazione specialistica, per mantenere aggiornati i professionisti sulle cure nei pazienti oncologici nel complicato setting della nefrologia.

L’onconefrologia deve anche affrontare sfide come la mancanza di linee guida adeguate e lo sviluppo di nuovi strumenti diagnostici, inoltre la comunicazione tra oncologi e nefrologi risulta essenziale per migliorare i risultati dei pazienti e la gestione delle lesioni renali acute e croniche.

Le sfide poste da questa particolare categoria di pazienti possono essere superate attraverso la collaborazione interdisciplinare precoce e l’uso di criteri di classificazione universali. In definitiva, l’onconefrologia rappresenta un campo in evoluzione che richiede attenzione, formazione e collaborazione per affrontare efficacemente le complessità della gestione delle malattie oncologiche nei pazienti nefropatici e portatori di trapianto di rene.

 

Epidemiologia, mortalità e fattori di rischio del tumore nel paziente portatore di trapianto di rene

Il tumore è una delle principali cause di morte nei pazienti sottoposti a trapianto di rene [1, 2].

Negli studi internazionali, la popolazione dei trapiantati mostra un tasso standardizzato di incidenza (SIR) di neoplasia di 2-4 volte in più rispetto alla popolazione generale, seppur con enormi variabilità in base alla neoplasia considerata [3-9].

L’incidenza all’interno della popolazione trapiantata mostra poi un prevedibile incremento con il passare degli anni, arrivando ad oscillare tra il 10% ed il 15% a circa 15 anni dal trapianto [3, 4].

Risultati simili sono stati riscontrati anche nella popolazione italiana [5, 6]. Questi numeri sono destinati a crescere, anche in considerazione dell’aumento dell’aspettativa di vita dei pazienti trapiantati e della maggiore efficacia delle terapie antirigetto, che permette un incremento della vita media del trapianto e quindi della durata totale di immunosoppressione.

Come è prevedibile, il rischio di mortalità in questi pazienti è più elevato rispetto alla popolazione generale. I dati osservazionali hanno difatti dimostrato che i tassi di mortalità standardizzati sono almeno 1,8-2,5 volte più elevati rispetto alla popolazione generale corrispondente per età e sesso [10, 11]. Questo vale soprattutto per quanto riguarda i linfomi non Hodgkin, i tumori urogenitali ed il melanoma, patologie che mostrano un rischio complessivo di morte che supera di cinque-dieci volte quello di coloro che non hanno ricevuto un trapianto di rene [10].

Diversi fattori di rischio per malattia oncologica sono stati identificati nel paziente trapiantato. Questi possono riguardare il paziente (età anagrafica, etnia, stile di vita e fumo, malattia renale di base, storia di neoplasia, storia di abuso di analgesici, suscettibilità alle infezioni virali, fattori genetici) o possono essere fattori più propriamente trapiantologici (grado di compatibilità immunologica, valore di vPRA, terapia immunosoppressiva) [12-24].

La trasmissione di malignità dal donatore è un evento raro, con un’incidenza stimata tra lo 0,01% e lo 0,05%. Questo rischio varia in base al tipo di neoplasia [25-27]. Tuttavia bisogna evidenziare come il rischio di mortalità sia, in caso di trasmissione, particolarmente elevato, verificandosi in circa il 20% dei soggetti colpiti [26, 27], per cui una scrupolosa valutazione del potenziale donatore d’organo è essenziale per ridurre al minimo questo rischio.

 

Screening pre trapianto e timing di trapianto nel paziente con storia oncologica

Un accurato screening prima del trapianto è fortemente raccomandato dalle principali linee guida, considerando il maggior rischio oncologico evidenziato anche nei pazienti con ESRD, specialmente se sottoposti a terapia dialitica e per alcuni istotipi specifici [28-32].

In aggiunta, non è sempre del tutto chiaro quale sia il momento opportuno per sottoporre al trapianto renale coloro che hanno una storia oncologica, e questo è tuttora motivo di dibattito nella letteratura medica. Infatti, anche se il tumore è stato adeguatamente trattato, il beneficio di un trapianto deve essere bilanciato ad un rischio di una eventuale recidiva, da considerare specialmente in corso di immunodepressione. Diverse linee guida, come ad esempio quelle della KDIGO [28] o quelle di recente formulazione da parte di Al-Adra e colleghi [33], hanno cercato di mettere luce sulla questione.

Le linee guida di Al-Adra e colleghi sono state sviluppate attraverso un consensus conference nel 2019, che ha coinvolto specialisti trapiantologi ed oncologi.

La valutazione del rischio oncologico nel lavoro di Al-Adra si basa sulla stadiazione TNM (tumore, coinvolgimento dei linfonodi regionali, metastasi) unitamente a strumenti di recente sviluppo, come l’analisi dei marcatori tumorali e l’epigenetica.

In generale, i tempi di attesa dalla guarigione sono stati decisi in base alla stadiazione, alle caratteristiche biologiche del tumore e alla probabilità di recidiva. Di conseguenza, sono stati suggeriti tempi di attesa che variano dall’assenza di attesa a 2 anni per i tumori a basso grado, fino a 5 anni per quelli ad alto grado. Per procedere all’eventuale trapianto si è deciso di considerare come cut-off un tasso di sopravvivenza almeno del 80% a 5 anni.

Benché non esaustive, queste raccomandazioni trattano le patologie tumorali più comuni, offrendo così un orientamento al trapiantologo clinico. È importante però ricordare che tali indicazioni si basano principalmente su dati provenienti dalla popolazione generale, vista la limitata disponibilità di evidenze sulle popolazioni trapiantate.

 

Screening nel paziente già sottoposto a trapianto di rene

Come già detto, dopo il trapianto di rene il rischio di tumore è come minimo raddoppiato rispetto alla popolazione generale. Per tale ragione, lo screening in senso oncologico è di vitale importanza. Le raccomandazioni [34, 35] variano tra diverse società, ma in generale lo screening dovrebbe almeno seguire le indicazioni già formulate per la popolazione generale, con alcune importanti eccezioni.

Nello specifico, per i tumori della pelle e delle labbra (tumori cutanei non melanoma), il rischio è considerevolmente elevato [36-43], e la maggior parte degli autori consiglia una valutazione dermatologica annuale, in aggiunta ad un costante e scrupoloso automonitoraggio.

Per quanto riguarda i tumori urologici, non esistono linee guida chiare per lo screening del carcinoma a cellule renali nei reni nativi dopo il trapianto. Tuttavia, si suggerisce di sottoporre i pazienti con malattia cistica acquisita, pregresso carcinoma a cellule renali o abuso di analgesici a controlli ecografici periodici ogni 1-3 anni dopo il trapianto. Inoltre, i pazienti con ematuria di recente insorgenza dovrebbero essere valutati per escludere una eventuale neoplasia urologica.

Altri tumori che meritano un follow-up specifico rispetto alla popolazione generale sono i tumori associati alla relazione tra immunodepressione e virus oncogeni, specialmente HPV, EBV, HHV-8. Tra questi ricordiamo il carcinoma della cervice, il carcinoma anale, la sindrome linfoproliferativa post trapianto (PTLD), il sarcoma di Kaposi ed il già menzionato tumore cutaneo non melanoma.

Nella Tabella I è schematizzato il programma di monitoraggio oncologico del paziente adulto portatore di trapianto di rene adottato dalla Rete Nefrologica Piemonte – Valle d’Aosta e dal Centro trapianti di rene “A. Vercellone” della Città della salute e della scienza di Torino.

Il rapporto costo-efficacia di queste raccomandazioni è comunque oggetto di discussione [8, 43], soprattutto in Paesi che adottano politiche sanitarie differenti dalle nostre.

Infine, al di là delle raccomandazioni generali, è ruolo del nefrologo trapiantologo identificare i pazienti a maggior rischio, ed impostare uno screening oncologico adattato sul singolo paziente. Una rete integrata ed interdisciplinare è necessaria per assicurare una corretta gestione dei casi complessi, ed è in grado di ridurre la morbilità e la mortalità in questi pazienti.

Nella Figura 1 è schematizzata la rete interdisciplinare di assistenza al paziente adulto portatore di trapianto di rene della Città della Salute e della Scienza di Torino.

Tipo di Neoplasia

Accertamenti proposti

Mammella

Mammografia annuale/biennale.

 Cervice 

Citologico cervice ed esame pelvico annuale.

Prostata

Visita annuale (DRE) e PSA in >50 anni.

 Stomaco/Colon-retto

SOF annuale; se positivo: colonscopia; se colonscopia negativa: EGDS.

Epatocellulare (Cirrosi HCV/HBV relata o da altra causa)

ETG semestrale; a-FP semestrale.

Cute

Autoesame mensile; visita dermatologica annuale.

 Kaposi Sarcoma

Autoesame mensile; visita dermatologica annuale, HHV-8 DNA nei soggetti a rischio per regione geografica.

PTLD

EBV-DNA ogni 6-12 mesi, se viremia in incremento progressivo: valutazione ematologica (+ ETG stazioni linfonodali).

Renale (reni nativi)                        

ETG semestrale/annuale. Nei pazienti ADPKD: TC addome mdc biennale/RM senza mdc.

 Polmone

Rx torace annuale.

 Tiroide

ETG tiroide al II anno; successivamente triennale.

Tabella I. Programma di monitoraggio oncologico del paziente adulto portatore di trapianto di rene adottato dalla rete nefrologica Piemonte – Valle d’Aosta.
Figura 1. Rete interdisciplinare adottata dalla Città della Salute e della Scienza di Torino per l’assistenza al paziente adulto portatore di trapianto di rene.
Figura 1. Rete interdisciplinare adottata dalla Città della Salute e della Scienza di Torino per l’assistenza al paziente adulto portatore di trapianto di rene.

 

La terapia Immunosoppressiva

Il principale fattore oncogeno nel paziente portatore di trapianto è rappresentato dall’immunosoppressione [18], intesa come intensità, durata e carico cumulativo [19, 21, 44].

Questa aumenta il rischio tumorale riducendo la sorveglianza immunitaria, compromettendo i meccanismi di difesa contro virus oncogeni e cellule neoplastiche ed anche attraverso vie molecolari specifiche [20, 22-24].

L’importanza del carico totale di immunosoppressione nel rischio oncologico è stata inizialmente evidenziata da dati storici che hanno suggerito come i pazienti sottoposti a trapianto cardiaco mostravano una maggiore incidenza di tumori rispetto ai pazienti sottoposti a trapianto di rene [21, 44]. Studi simili hanno suggerito un rischio maggiore di malignità, in particolare di disturbi linfoproliferativi post-trapianto (PTLD), nei pazienti che hanno ricevuto terapia depletiva linfocitaria [45], ma non è chiaro se il rischio aumenti con l’aumentare delle dosi utilizzate all’induzione [46, 47].

Gli inibitori delle calcineurine, come il tacrolimus e la ciclosporina, sono associati a un aumento del rischio di malignità. Questi farmaci sembrano agire attraverso la produzione aumentata di citochine come il fattore di crescita trasformante (TGF)-beta, il fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF) e IL-6 [20, 22, 23, 48]. Inoltre, questi inibitori riducono la capacità di riparare i danni al DNA indotti dalle radiazioni, evento importante soprattutto nella patogenesi dei tumori della pelle [49]. Alcuni studi evidenziano come dosi di farmaco maggiori siano direttamente correlati ad un maggior rischio di tumore [50, 51].

Gli antimetaboliti come l’azatioprina sono stati implicati nello sviluppo di malignità post-trapianto, in particolare dei tumori della pelle non melanoma [18]. Questo trova le sue motivazioni nella capacità mutagena di questa molecola e soprattutto nella sua capacità di ridurre l’attività di riparazione delle mutazioni del DNA indotte dalle radiazioni contribuendo all’aumento dello sviluppo di instabilità del DNA microsatellite [52, 53]. A differenza dell’azatioprina, gli analoghi del micofenolato (Micofenolato Mofetile, MMF, e Acido Micofenolico, MPA) sembrano associarsi a un rischio di malignità post-trapianto inferiore, con possibili effetti antiproliferativi dovuti all’inibizione dell’enzima inosine monophosphate dehydrogenase [18, 54]. Tuttavia, studi di popolazione suggeriscono che la riduzione del rischio oncologico potrebbe ricondursi almeno in parte alla minor incidenza di rigetto acuto e alla conseguente minore necessità di aumentare le dosi di immunosoppressori [55].

L’utilizzo degli inibitori del mTOR sembra invece ridurre l’incidenza di malignità post-trapianto rispetto ad altri regimi immunosoppressori. Anche se è stato osservato un tasso di mortalità più elevato nei pazienti in trattamento con inibitori di mTOR (prevalentemente per infezioni ed eventi cardiovascolari [56, 57]), il rischio di malignità sembra diminuire con questi farmaci, probabilmente per la loro attività antiproliferativa ed anti-angiogenetica, attività particolarmente evidente contro i tumori cutanei non melanoma [5, 23, 56-65]. In effetti l’everolimus è utilizzato anche per trattare il tumore mammario recettore ormonale-positivo, i tumori neuroendocrini e il carcinoma a cellule renali. Tuttavia, è importante notare che tali farmaci sono associati a un aumento del rischio di rigetto rispetto agli inibitori delle calcineurine [65, 66].

Infine, il belatacept è stato associato a un rischio elevato di disturbi linfoproliferativi post-trapianto, specialmente con coinvolgimento del sistema nervoso centrale. Molti di questi casi si sono verificati in pazienti che erano sieronegativi per il virus di Epstein-Barr, motivo per cui il suo utilizzo in tali individui è sconsigliato [67, 68]. Un piccolo studio monocentrico sembra suggerire una riduzione del rischio oncogeno per quanto riguarda i tumori cutanei [69].

In caso di elevato rischio neoplastico o di effettiva diagnosi oncologica la riduzione della terapia immunodepressiva è quindi una delle prime contromisure che possono essere adottate. La riduzione dei livelli ematici target degli inibitori delle calcineurine, l’eventuale introduzione di un mTOR inibitore, la riduzione o la sospensione dei farmaci antimetaboliti (tra i quali bisognerebbe preferire il micofenolato mofetile o l’Acido micofenolico rispetto alla Azatioprina), la riduzione o la sospensione della terapia corticosteroidea, sono alcune delle contromisure che possono essere adottate. Casi particolarmente gravi potrebbero meritare riduzioni della terapia immunosoppressiva particolarmente aggressive, fino alla completa sospensione. Le principali linee guida internazionali rimangono tuttavia molto vaghe su come modificare la terapia immunodepressiva [34, 70], è ruolo del trapiantologo scegliere lo schema terapeutico ideale per il rischio oncologico del singolo paziente, sia in senso di prevenzione che in corso di terapia oncologica.

 

Inibitori del Checkpoint immunitario nel paziente portatore di trapianto di rene

Gli inibitori dei checkpoint immunitari (ICIs) hanno profondamente rivoluzionato l’approccio alla terapia oncologica, e le indicazioni per il loro utilizzo sono destinate ad estendersi ulteriormente [71]. Tuttavia, rimane ancora poco chiara la sicurezza e l’efficacia di questi farmaci nei pazienti sottoposti a trapianto di organo solido.

Il meccanismo d’azione di questi anticorpi monoclonali prevede infatti una stimolazione dell’attività immunitaria cellulo-mediata, al fine di eliminare le cellule neoplastiche. L’utilizzo di inibitori dei checkpoint immunitari nei pazienti con tumori avanzati che hanno ricevuto un trapianto potrebbe portare a miglioramenti nei risultati terapeutici, ma questo è evidentemente correlato ad un elevato rischio di rigetto [72-74].

Per i pazienti che hanno necessitato di terapie immunosoppressive, alcuni studi suggeriscono che l’efficacia degli inibitori dei checkpoint immunitari (ICI) non risulti eccessivamente influenzata [74-77]. Tuttavia, altri lavori indicano che l’uso precoce di corticosteroidi o l’adozione di terapie immunosoppressive insieme ai corticosteroidi siano associati ad esiti di sopravvivenza più sfavorevoli [78, 79]. Inoltre, nel valutare la possibilità di un nuovo trattamento con immunoterapia per pazienti che abbiano sperimentato eventi avversi immunomediati (irAE), l’uso simultaneo di terapie immunosoppressive è collegato a una ridotta efficacia dell’ICI. Per questo è comune pratica quella di ridurre o sospendere totalmente la terapia immunodepressiva in corso di terapia con questi farmaci, conferendo quindi un netto incremento del rischio di rigetto dell’allotrapianto.

Risultano in corso al momento attuale diversi trial clinici indirizzati proprio a chiarire la sicurezza e l’efficacia di questi farmaci nei pazienti portatori di trapianto di organo solido, alcuni dei quali mirano a valutarne gli outcome in seguito al mantenimento della terapia ID invariata (ACTRN12617000741381, NCT03816332, NCT04339062, NCT03966209, NCT04721132).

 

Conclusione

Non è un compito semplice quello di trovare il giusto equilibrio tra grado efficace di immunosoppressione e basso rischio oncologico. Questa è una sfida quotidiana per il nefrologo trapiantologo, che spesso deve adottare delle scelte terapeutiche di grande peso clinico in assenza di chiare indicazioni da parte delle linee guida. Sono quindi indispensabili ulteriori studi specificatamente rivolti alla popolazione trapiantata, che permettano una migliore comprensione del problema.

 

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Renal Side Effects of Novel Molecular Targeted Oncologic Agents

Abstract

The introduction of innovative therapies has changed the scenario of complications. The delay in the recognition of kidney adverse effects is partly due to the timing of the development of the kidney damage which occurs later than the observation period of registration studies, and partly to the exclusion of patients with known kidney impairment from registration trials.

Renal disease has a significant impact on the management of cancer patients and often leads to discontinuation of therapy. Histological evaluations of kidney disorders induced by targeted/immunotherapy are very limited. Renal biopsy is critical for the management of renal toxicities and should be especially encouraged for patients showing adverse renal effects to novel cancer agents.

We recently examined the histological features of patients treated with new cancer agents who underwent renal biopsy for new onset renal failure and/or urinary abnormalities. The cohort included 42 patients. The most frequently administered therapies were immunotherapy (54.8%) and anti-angiogenic treatments (45.2%). The most common adverse effect was tubular interstitial nephritis in the first group and thrombotic microangiopathy in the second one. Based on histological findings, definitive discontinuation of treatment could be restricted to a very limited number of patients. All of them had anti-VEGF-related TMA. Treatment discontinuation was unneeded in patients treated with ICIs. In patients treated with multidrug therapy, the histological findings made it possible to identify the weight of drug-related specific injury. Based on this data, renal biopsy should be considered in every cancer patient who develops urinary abnormalities or shows a worsening of renal function during treatment with immunotherapy or targeted therapy.

Keywords: Onconephrology, Immune checkpoint, Targeted Therapies, Renal biopsy in oncotherapy, Thrombotic Micro-angiopathy, Interstitial tubular nephritis

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Negli ultimi anni l’introduzione di terapie innovative, derivante dalla rivisitazione della malattia oncologica come disordine del sistema immunitario, ha cambiato lo scenario delle complicanze [1]. Le cosiddette target therapies in particolare hanno completamente cambiato il concetto di bersaglio terapeutico portando ad un significativo miglioramento della tolleranza, ma hanno anche obbligato i diversi specialisti a fronteggiare nuove complicanze e ad imparare a gestire situazioni differenti da quelle derivanti dall’utilizzo di chemioterapici tradizionali [2, 3]. Da un punto di vista teorico il target ideale dovrebbe essere essenziale per la sopravvivenza delle cellule maligne e non espresso sulle cellule normali. Di conseguenza la sua inibizione dovrebbe consentire la morte delle cellule neoplastiche con un effetto minimo sulle normali funzioni cellulari. Tuttavia, nella real life la selettività di queste molecole è incompleta. Ne derivano effetti collaterali che possono potenzialmente coinvolgere tutti gli organi. A distanza di alcuni anni dall’introduzione di questi nuovi agenti, è diventato chiaro che il rene costituisce uno dei bersagli di possibili tossicità [4]. Il ritardo nel riconoscimento degli effetti avversi sul rene è stato dovuto al timing dell’insorgenza di danno renale, che avviene di solito successivamente al periodo di osservazione previsto dagli studi di registrazione [5], ma anche all’esclusione dei pazienti con compromissione renale dai trial clinici.

La malattia renale ha un impatto significativo sulla gestione dei pazienti oncologici, in quanto può condizionare la sospensione temporanea o definitiva della terapia, la prescrizione di dosi inadeguate e l’uso di farmaci a dosi subottimali. Tutto ciò favorisce la crescita tumorale e lo sviluppo di metastasi.

Gli anti-VEGF ma anche gli anti-BRAF e ovviamente gli immunocheckpoint inibitori (ICI) sono tra le categorie di farmaci più coinvolti nell’insorgenza di eventi avversi renali.

Le complicanze renali delle target therapies dipendono da meccanismi patogenetici complessi che possono interessare varie parti del nefrone.

I farmaci anti-angiogenici possono indurre danni vascolari e/o glomerulari. Lo spettro delle possibili lesioni istologiche è in continua evoluzione e, oltre alla microangiopatia trombotica (TMA) e alla glomerulosclerosi segmentaria focale (GSFS), stanno emergendo molti quadri istologici differenti [6].

Esempi di farmaci anti-angiogenetici sono il bevacizumab e ranibizumab, anticorpi monoclonali (mAbs) diretti contro il VEGFA in grado di inibire l’angiogenesi attraverso l’interazione con tutte le sue isoforme. Aflibercept [7], una proteina di fusione costituita dalla combinazione dei domini di legame per VEGFR1 e VEGFR2 e la porzione Fc dell’IgG1 umana, agisce come recettore-esca solubile. Ramucirumab è un mAb IgG1 completamente umanizzato che inibisce specificamente il VEGFR2 prendendo di mira il suo dominio extracellulare [8].

Tra i farmaci bersaglio, gli inibitori della tirosin-chinasi (TKI) stanno assumendo un ruolo sempre più importante nell’ambito del trattamento di varie tipologie di tumori. I TKI sono proteine coinvolte nelle vie di trasduzione del segnale che regolano la proliferazione, la differenziazione, la migrazione, il metabolismo e i segnali anti-apoptotici delle cellule.

TKI come sunitinib, pazopanib, sorafenib e axitinib hanno come bersaglio il VEGFR2, ma interferiscono con l’attività di recettori aggiuntivi che condividono una struttura simile come il recettore PDGF, il recettore del fattore di crescita dei fibroblasti e il recettore EGF [9]. I meccanismi di danno renale degli anti VEGF sono noti. Sappiamo che il VEGF è secreto dai podociti e, legandosi ad un recettore sull’endotelio, induce la formazione delle fenestrature endoteliali nei capillari glomerulari. La produzione locale di VEGF è quindi indispensabile per mantenere l’integrità della barriera di filtrazione glomerulare. L’inibizione dell’attivazione del VEGF riduce l’espressione di nefrina e conduce al rigonfiamento, al distacco della cellula endoteliale e all’interruzione della barriera di filtrazione.

Durante il trattamento con il ligando anti-VEGF, il VEGFA secreto dai podociti viene sequestrato e non si lega né al VEGFR2 podocitario né a quello endoteliale. Questo può determinare la comparsa di proteinuria in una percentuale di pazienti che varia nei diversi studi dal 20% al 40% se trattati con basse dosi, ma aumenta fino al 64% nei pazienti trattati con alte dosi. Il quadro istologico è quello della microangiopatia trombotica.

Il trattamento con TKI consente bensì al VEGF di legarsi al suo recettore a livello endoteliale e podocitario, ma inibisce le vie di trasduzione a valle. Anche attraverso questa interferenza, l’inibizione si può associare alla comparsa di proteinuria, ma in questo caso i quadri istologici sono per lo più rappresentati da podocitopatie (minimal change disease (MCG) e la glomerulosclerosi focale e segmentaria (GSFS)) [10-12].

Un’altra molecola di trasduzione recentemente identificata come bersaglio è il B-raf la cui inibizione può essere ottenuta con TKI come vemurafenib e dabrafenib. Alcune segnalazioni ne riportano una la possibile associazione con proteinuria. Il B-raf interagisce con la proteina PLC1 dello slit diaphragm la cui espressione si riduce in corso di trattamento con il dabrafenib.  Ciò coincide con una parallela ridotta espressione di nefrina. L’esposizione a dabrafenib comporta un aumento della permeabilità all’albumina attraverso il monostrato di podociti [13, 14].

Gli immunocheckpoint sono regolatori di processi chiave del sistema immunitario. Questi modulatori dei processi di tolleranza immunologica costituiscono attualmente un bersaglio fondamentale dell’immunoterapia. I principali inibitori dei checkpoint immunitari agiscono bloccando le molecole CTLA4, PD-1 e PD-L1 [15].

L’organismo sin dalla nascita è dotato di un insieme di reattività autoimmuni, sia innate che adattative, che costituiscono l’omuncolo autoimmune. L’omuncolo autoimmune presenta, metaforicamente come Janus, due facce funzionali: un volto buono che genera un’infiammazione “terapeutica” e una faccia bellicosa che genera un’infiammazione “effettrice”. Entrambi i tipi di infiammazione sono necessari per mantenere e proteggere l’organismo sano. Le malattie autoimmuni conseguono ad un’illecita reattività contro cellule e tessuti normali. Lo stato tumorale, al contrario, è caratterizzato da una inappropriata soppressione della reattività contro le cellule tumorali [16]. La terapia ideale di una malattia autoimmune dovrebbe comportare il ripristino dell’inattivazione regolata dello “stato di guerra” contro il self e dal riemergere di uno stato di “pace omuncolare”. In questo delicato equilibrio un ruolo fondamentale è svolto dagli immunocheckpoint che sopprimono il sistema immunitario attraverso un’azione mediata da recettori inibitori. Nel contesto del cancro l’incremento di attività degli immunocheckpoint modulata da segnali di origine neoplastica comporta un “silenziamento” della risposta antitumorale da parte delle cellule T citotossiche. Le terapie di blocco del checkpoint contrastano la funzione inibitoria dei recettori promuovendo l’attivazione dei linfociti T citotossici rendendoli di nuovo capaci di uccidere le cellule tumorali. In condizioni di “equilibrio immunitario”, le risposte sono bilanciate: prevengono danni contro l’organismo, ma preservano l’aggressività necessaria ad eliminare gli agenti patogeni e le cellule tumorali. Quando però l’azione di contrasto alla funzione inibitoria supera il punto di equilibrio si scatena una malattia autoimmune [16]. Gli ICI sono anticorpi monoclonali che interagiscono con i ligandi delle cellule tumorali inibendone l’interazione con i linfociti che ricuperano la piena attività anti-tumorale. La loro azione tuttavia, seppur specifica, non è limitata alle cellule tumorali e può quindi determinare la comparsa di eventi avversi immuno-correlati (AEI). Negli ultimi anni, con la diffusione dell’utilizzo di questi farmaci, sono progressivamente aumentate le segnalazioni di danno renale con diverse estrinsecazioni cliniche: AKI [17], anomalie urinarie, alterazioni elettrolitiche. Il quadro più frequentemente descritto è sicuramente quello della nefrite tubulo-interstiziale (NTI) che può presentarsi da sola o in combinazione con altre lesioni renali [18].

Il rene costituisce un possibile target degli eventi avversi in quanto, come gli altri organi bersaglio periferici, esprime la molecola PD-1 in alcuni distretti, soprattutto a livello delle cellule epiteliali tubulari. È stato evidenziato come l’asse PD1-PDL1 a livello renale rivesta un ruolo fondamentale nel mantenere l’omeostasi immunologica. Una disregolazione dell’interazione PD-1/PD-L1 può essere responsabile della comparsa sia di glomerulopatie che di carcinomi renali [19].

Gli studi a disposizione hanno altresì evidenziato che l’uso combinato degli inibitori della via del VEGF e degli ICI consente un potenziamento da parte dei primi dell’attività antitumorale degli ICI bloccando le cellule immuno-soppressive indotte dal tumore e aumentando l’infiltrazione dei linfociti T nei tumori [20-22]. Sulla base di queste evidenze, sia la FDA che l’EMA hanno recentemente approvato l’utilizzo di axitinib in combinazione con avelumab o pembrolizumab per il trattamento di prima linea dei pazienti con carcinoma renale avanzato [23-25]. Tuttavia l’impiego delle terapie combinate complica ulteriormente la gestione delle tossicità, poiché alcuni degli eventi avversi (EA) degli ICI sono simili a quelli dati dalla terapia anti-angiogenica. L’identificazione istologica di ciascun EA, in particolare la caratterizzazione delle lesioni associate all’uno o all’altro farmaco, è fondamentale per ottimizzare non solo la gestione degli effetti collaterali ma anche la prosecuzione del trattamento [26]. Le raccomandazioni per la biopsia renale nei pazienti oncologici sono state recentemente aggiornate [27] ma rimangono limitate. La biopsia renale è stata raccomandata nei pazienti che presentano una proteinuria (≥1 g al giorno) di nuova insorgenza o un peggioramento della funzione renale quando la diagnosi di malattia renale non può essere altrimenti stabilita [28].

Nella nostra esperienza, limitare l’indagine istologica a questi specifici contesti clinici può portare non solo ad una mancata diagnosi ma anche a indicazioni terapeutiche scorrette che possono essere responsabili di ulteriori complicanze cliniche [18].

Recentemente il nostro gruppo ha rivalutato retrospettivamente tutte le diagnosi istologiche dei pazienti trattati con target therapies e/o immunoterapia, sottoposti a biopsia renale per peggioramento della funzione renale e/o comparsa di anomalie urinarie.

Sono stati valutati 23 pazienti trattati con immunoterapia (18 in monoterapia, 5 in terapia combinata con TKI o chemioterapici convenzionali) e 19 pazienti trattati con farmaci anti-angiogenetici (15 in monoterapia, 4 in terapia combinata con ICI o chemioterapici convenzionali).

Nel gruppo trattato con immunoterapia si sono ottenute le seguenti diagnosi istologiche: 8 NTI (34,8%), 4 NTA (17,4%), 3 NTI + NTA (13%), 2 microangiopatie trombtiche (MTA) (8,8%), 2 nefropatie diabetiche (8,8%), 1 GSFS + MTA (4,3%), 1 glomerulopatia membranosa (4,3%), 1 GSFS (4,3%), 1 glomerulonefrite IgA (4,3%) (Figura 1). Il 73,9% di questi pazienti ha proseguito la terapia oncologica in atto. Nel 13% dei casi si è resa necessaria una sospensione temporanea. Nel 8.7% è stato sospeso uno dei farmaci oncologici in corso e il 4.4% ha richiesto la sospensione definitiva del trattamento in corso. Sulla base dei risultati della biopsia nel 43,5% dei casi non sono state poste indicazioni ad interventi terapeutici specifici, nel 52,5% dei pazienti è stato effettuato un ciclo di terapia steroidea e 1 paziente è stato trattato con anticorpo monoclonale anti-CD20.

Figura 1. Diagnosi istologiche nei pazienti trattati con immunocheckopints inhibitor.
Figura 1. Diagnosi istologiche nei pazienti trattati con immunocheckopints inhibitor.

Nel gruppo trattato con anti-angiogenetici le diagnosi istologiche sono state: 7 MTA (36,7%), 2 GSFS + MTA (10,5%), 2 NTA (10,5%), 1 nefropatia diabetica (5,3%), 1 NTI (5,3%), 1 NTI + NTA (5,3%), 1 glomerulopatia membranosa (5,3%), 1 glomerulonefrite membranoproliferativa (5,3%), 1 nefroangiosclerosi (5,3%), 2 altre diagnosi (10.5%) (Figura 2). Il 59% di questi pazienti ha proseguito la terapia oncologica in atto, nel 17,5% è stata necessaria la sospensione di un farmaco e il 23,5% ha richiesto la sospensione definitiva del trattamento in corso (Figura 3a, 3b). Sulla base dei risultati della biopsia, nel 64,7% dei casi non sono state poste indicazioni a interventi terapeutici specifici, il 17,6% dei pazienti è stato trattato con un ciclo di terapia steroidea, l’11,8% è stato trattato con Eculizumab e 1 paziente è stato trattato con anticorpo monoclonale anti-CD20.

Figura 2. Diagnosi istologiche nei pazienti trattati con farmaci anti-angiogenetici.
Figura 2. Diagnosi istologiche nei pazienti trattati con farmaci anti-angiogenetici.
Figura 3. Distribuzione delle variazioni terapeutiche in base ai risultati istologici nei pazienti in trattamento con immunocheckpoint-inhibitor (a) e con farmaci anti-angiogenetici (b).
Figura 3. Distribuzione delle variazioni terapeutiche in base ai risultati istologici nei pazienti in trattamento con immunocheckpoint-inhibitor (a) e con farmaci anti-angiogenetici (b).

Sulla base dei risultati istologici l’interruzione definitiva del trattamento nella nostra coorte è stata indicata in un numero molto limitato di pazienti. Tutti avevano un quadro di TMA da farmaci anti-VEGF. L’interruzione definitiva del trattamento non è stata necessaria in nessuno dei pazienti trattati con immunoterapia. Nei pazienti trattati con farmaci in combinazione, i risultati istologici hanno permesso una correlazione della lesione specifica con il farmaco corrispondente consentendo modificazioni solo parziali dei protocolli terapeutici in atto.

Il trattamento ottimale per gli eventi avversi nei pazienti sottoposti a nuove terapie antitumorali rimane controverso. I glucocorticoidi rappresentano la principale opzione terapeutica degli EA. Tuttavia, la dose e la durata del trattamento restano da definire. Le linee guida raccomandano occasionalmente l’aggiunta di un secondo immunosoppressore [29-31]. Nella nostra coorte tutti i pazienti sottoposti a trattamento mirato hanno ottenuto una risposta renale e all’ultimo follow-up non si sono manifestate recidive. A questo riguardo è importante sottolineare che i pazienti che non mostrano un recupero funzionale completo presentano una mortalità a distanza più elevata [32]. L’aumento della mortalità associato al mancato recupero dall’AKI può almeno in parte essere spiegato dalla limitazione terapeutica a cui vanno incontro i pazienti con funzionalità renale compromessa e sottolinea l’importanza del timing diagnostico e dell’intervento terapeutico. Una diagnosi precoce consente un l’avvio di un trattamento immediato che può evitare l’instaurarsi di un danno irreversibile [32].

Nella nostra coorte, i risultati istologici hanno escluso un ruolo dell’agente oncologico in una porzione significativa di pazienti. Ciò ha permesso di evitare la prescrizione di glucocorticoidi che secondo le attuali linee guida sarebbe stata indicata ma sarebbe risultata inutile.

In due pazienti infine la biopsia renale ha rivelato rispettivamente una doppia e una tripla nefropatia. In quest’ultimo caso, il paziente ha avuto una diagnosi di malattia di Fabry confermata dai test genetici [33].

In conclusione, la rapida espansione dell’armamentario terapeutico oncologico richiede da parte dei clinici un continuo aggiornamento delle conoscenze che consenta una gestione ottimale della tossicità correlate ai farmaci. La sfida che i team multidisciplinari sono chiamati a vincere è di consentire ai pazienti la prosecuzione dei trattamenti salvavita attraverso una gestione efficace degli effetti avversi. In questo contesto la biopsia renale rappresenta uno strumento diagnostico e prognostico irrinunciabile. I dati della nostra coorte dimostrano che la biopsia renale dovrebbe essere presa in considerazione in ogni paziente oncologico che sviluppi anomalie urinarie o mostri un peggioramento della funzionalità renale durante il trattamento con immunoterapia o terapia mirata. Sulla base delle caratteristiche istologiche la sospensione del trattamento può essere limitata ad un numero ristretto di pazienti consentendo al tempo stesso di ottenere una risposta renale completa nei pazienti che ricevono un trattamento specifico.

La biopsia renale è quindi fondamentale nella gestione delle tossicità renali derivanti da nuovi agenti tumorali e, ad onta delle indicazioni attuali ancora limitate, dovrebbe essere incoraggiata.

 

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Chronic Kidney Disease and Cancer: Ethical Choices

Abstract

Cancer and chronic kidney disease prevalence both increase with age. As a consequence, physicians are more frequently encountering older people with cancer who need dialysis, or patients on dialysis diagnosed with cancer. Decisions in this context are particularly complex and multifaceted. Informed decisions about dialysis require a personalised care plan that considers the prognosis and treatment options for each condition while also respecting patient preferences. The concept of prognosis should include quality-of-life considerations, functional status, and burden of care. Close collaboration between oncologists, nephrologists, geriatricians and palliativists is crucial to making optimal treatment decisions, and several tools are available for estimating cancer prognosis, prognosis of renal disease, and general age-related prognosis. Decision regarding the initiation or the termination of dialysis in patients with advanced cancer have also ethical implications. This last point is discussed in this article, and we delved into ethical issues with the aim of providing a pathway for the nephrologist to manage an elderly patient with ESRD and cancer.

Keywords: Chronic Kidney Disease, Cancer, Dialysis, Ethic, Onconephrology

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Neoplasia e malattia renale

Al giorno d’oggi, a livello mondiale, le neoplasie rappresentano una delle principali cause di morte, così come la malattia renale cronica in stadio terminale (ESRD) interessa percentuali sempre più ampie di popolazione [1, 2].

A partire dagli anni ’70 la dialisi è diventata il trattamento salvavita per pazienti con insufficienza renale acuta o cronica in stadio terminale e negli ultimi decenni nei Paesi occidentali il numero di dializzati cresce del 5% annuo. Fra le principali cause vanno ricordate l’invecchiamento della popolazione generale e l’incidenza sempre più crescente di diabete mellito di tipo II, condizione frequentemente associata a deterioramento della funzione renale [2]. La terapia sostitutiva della malattia renale cronica permette una maggior sopravvivenza rispetto al paziente con malattia renale cronica terminale ma non dializzato, maggior sopravvivenza che può favorire la comparsa di neoplasie [3]. Nonostante siano stati riportati in letteratura risultati contrastanti tra i vari studi negli anni ’90 del secolo scorso, più recentemente sono stati pubblicati studi che hanno dimostrato una maggiore incidenza per alcuni tipi di tumore nei pazienti in dialisi [4, 5].

In uno studio di coorte retrospettivo del 2018, che ha utilizzato i dati del Taiwan National Health Insurance che copre circa il 99% della popolazione della nazione, è stato dimostrato come nei pazienti in dialisi si osserva un aumentato rischio di comparsa per alcuni tipi di neoplasia. Il rischio risulta aumentato indistintamente nei pazienti in dialisi peritoneale o in dialisi extracorporea versus l’incidenza nella popolazione generale che non presenta malattia renale. Tra le neoplasie riscontrate le più frequenti erano quelle a carico delle vie urinarie extrarenali, vescicali e renali, del fegato e della tiroide [6].

Uchida e collaboratori hanno valutato la sopravvivenza media a 3 anni dall’inizio del trattamento sostitutivo in 454 pazienti in emodialisi e in 120 pazienti in trattamento con dialisi peritoneale. Nella popolazione in dialisi extracorporea è stato riportato un tasso di sopravvivenza del 65% al termine dei 3 anni di follow-up. Le cause di morte erano le malattie cardiovascolari nel 52% dei decessi, infettive nel 25% dei decessi e per neoplasia nel 12% dei decessi [6]. Nei pazienti in dialisi peritoneale si è osservata una sopravvivenza a 3 anni dell’81%, mentre le cause di morte erano infettive nel 36% dei casi, cardiovascolari nel 24% e oncologiche nel 6% dei casi (p = NS per morte da neoplasie fra emodialisi e dialisi peritoneale). Va infine sottolineato come in letteratura sia riportato un tasso di sopravvivenza nei pazienti con ESRD e neoplasia inferiore a quello dei pazienti con malattia renale cronica terminale senza neoplasia [6] e un tasso di mortalità elevato anche nei pazienti oncologici con danno renale acuto [7, 8]. 

Il meccanismo attraverso cui la malattia cronica renale end-stage possa influenzare lo sviluppo del cancro non è ancora ben compreso e si ipotizza una eziologia multifattoriale: il danno ossidativo aumentato nei pazienti uremici che danneggia il DNA predispone a mutazioni genetiche [8] e altera la riparazione del DNA [9, 10], l’accumulo di agenti cancerogeni dovuto a ridotta escrezione renale quali ad esempio i prodotti finali della glicosilazione o l’omocisteina. Oltre a questi sono riportati fra i fattori favorenti la comparsa di neoplasia lo stato infiammatorio cronico determinato dall’utilizzo di sostanze bioincompatibili e gli stress meccanici [11], lo stato immunitario maggiormente compromesso nei pazienti con CKD e ancor più nei pazienti in dialisi che espone i pazienti a maggiore probabilità di infezioni croniche come HBV, HCV, EBV [12]. Non bisogna infine dimenticare che alcuni farmaci utilizzati per il trattamento delle glomerulonefriti o delle vasculiti, quali l’azatioprina o la ciclofosfamide, sono riconosciuti come sostanze potenzialmente cancerogene e associate a maggior rischio di sviluppo rispettivamente del cancro della cute, di linfomi e del cancro della vescica [13, 14].

 

ESRD e trattamenti antineoplastici

Come nefrologi ci troveremo sempre più spesso a trattare pazienti con ESRD o già in dialisi che sviluppano un tumore (degno di nota è che spesso la diagnosi di cancro viene fatta grazie ai programmi di screening per inserimento in lista trapianto) così come gli oncologi dovranno gestire pazienti oncologici con ESRD o in dialisi. Le prescrizioni dovranno essere adattate in termini di adeguamento del dosaggio e del tempo di somministrazione al fine di prevenire effetti collaterali renali e non, dovuti alla modifica della farmacocinetica dei farmaci antitumorali in pazienti con alterata funzione renale. La corretta conoscenza della farmacocinetica dei farmaci antineoplastici permetterà così di evitare gli effetti tossici dovuti ad accumulo del farmaco per la minore escrezione renale, così come l’inefficacia terapeutica dovuta alla somministrazione di una dose non adeguata e ridotta arbitrariamente a scopo precauzionale.

Si sa ancora poco sulla gestione dei farmaci citotossici in pazienti con ESRD e ancor meno sulla tempistica ottimale e sugli aggiustamenti di dosaggio necessari a seconda delle sessioni di dialisi.  La mancanza di conoscenza e dati riguardanti l’uso sistemico di questi farmaci può portare ad un uso improprio dei chemioterapici e ad effetti tossici fatali in questi pazienti. Pertanto, è importante monitorare attentamente anche tutti gli effetti extra-renali correlati alla dose durante l’uso di tali farmaci. In questi anni si è avuto un significativo progresso nella gestione delle patologie oncologiche nei pazienti con malattia renale; quindi, i pazienti con ESRD devono avere le stesse probabilità di trattamento che hanno i soggetti senza malattia renale cronica. Infatti, alcuni studi hanno riportato che la sopravvivenza mediana dei pazienti con insufficienza renale con mieloma multiplo era inferiore nei pazienti non trattati con chemioterapia rispetto ai pazienti trattati con vincristina, adriamicina e desametasone (2 mesi vs 10 mesi) e melfalan (2 mesi vs 12 mesi) [15, 16].

Sembra tuttavia che i medici siano riluttanti ad utilizzare farmaci antitumorali nei pazienti in trattamento dialitico cronico con diagnosi di neoplasia. I pazienti in dialisi richiedono un’attenzione specifica soprattutto per la gestione dei farmaci antineoplastici poiché, nonostante gli effetti renali non siano più un problema nel paziente dializzato, è altrettanto vero che sono più esposti agli altri effetti collaterali extrarenali correlati alla dose. Questo dipende dal fatto che la maggior parte dei farmaci citotossici sono escreti prevalentemente a livello renale in forma immodificata o come metabolita attivo e dunque tossici. Nello studio multicentrico CANDY (CANcer and DialYsis, 2012), i ricercatori francesi hanno analizzato le dosi/intervalli di farmaci antitumorali somministrati in 178 pazienti in dialisi cronica che avevano sviluppato un tumore, aggiustandone il dosaggio per la funzione renale/sessione di dialisi al fine di evitare l’eliminazione prematura del farmaco durante le sessioni di dialisi [17], dimostrando che con il dosaggio appropriato del farmaco antineoplastico i pazienti oncologici con malattia renale in trattamento sostitutivo possono essere trattati come i pazienti non dializzati. Pertanto, è fondamentale utilizzare i dati disponibili per regolare la dose di farmaci antitumorali per questi pazienti e programmarne la somministrazione in base alle sessioni di dialisi. Ad esempio, nei pazienti in emodialisi che ricevono i sali di cisplatino, le dosi iniziali di cisplatino devono essere ridotte del 50% per evitare sovradosaggio e problemi di tolleranza, che possono mettere a rischio la possibilità di proseguire il trattamento chemioterapico. Questo perché il cisplatino è irreversibilmente legato alle proteine plasmatiche mentre la dose di farmaco libera è dializzabile e per questo deve essere somministrato dopo le sessioni di dialisi o nei giorni di non dialisi. Per altri farmaci non rimossi dal trattamento dialitico, come la doxorubicina, il rituximab, la vinblastina o la vincristina, la somministrazione può essere effettuata in qualsiasi momento e non necessita di aggiustamenti di dose [17]. Dunque, l’ESRD non è da considerare una controindicazione assoluta alla somministrazione di farmaci antitumorali, ma questi richiedono una gestione specifica in termini di dosaggio e tempo di somministrazione rispetto alla seduta di dialisi.

 

Approccio multidisciplinare alle cure

È dunque necessario un approccio multidisciplinare che includa oncologi, nefrologi e farmacologi per gestire correttamente i pazienti oncologici che presentano ESRD e proporre quindi una strategia farmacologica antitumorale adattata a questi pazienti che sviluppano tumori piuttosto che controindicarla sistematicamente, utilizzando le scarse raccomandazioni che derivano prevalentemente da report basati su singoli casi clinici e non da studi con una significativa numerosità di pazienti dializzati (che pur essendo scarse sono le uniche disponibili) e raccogliere correttamente i dati osservati nei pazienti trattati per avere ulteriori strumenti a disposizione per il trattamento delle neoplasie nei pazienti con ESRD o in dialisi [18, 19].

Pertanto si rende sempre più necessario, alla luce anche della continua introduzione nella pratica clinica di nuovi farmaci antitumorali, poter disporre di algoritmi terapeutici basati sullo stato fisico del soggetto, sulla mortalità prevista per malattia renale, sul tempo di dialisi, sul tipo e stadio della neoplasia, sull’impatto che il trattamento potrà avere sul grado di autonomia del paziente e il risultato ottenuto dall’algoritmo potrà quindi essere di supporto al clinico nella scelta terapeutica  (sì terapia vs no terapia).

 

Scelte etiche

Alla luce dell’età media di inizio trattamento dialitico sempre più avanzata (nel mondo occidentale è attorno ai 69 anni), della possibile comparsa di neoplasia nel corso del trattamento  dialitico, delle attese dei pazienti e familiari in un epoca sempre più connessa e con informazioni non sempre attendibili,  è lecito che la comunità dei professionisti si chieda: “è giusto trattare i pazienti dializzati con riscontro di neoplasia quando anche in condizioni di “no neoplasia” hanno una minor sopravvivenza rispetto alla popolazione generale? Tratto tutti indistintamente, non tratto nessuno, quali strumenti posso utilizzare per supportarmi nella decisione?”.

La scelta decisionale in questo caso richiede, a nostro giudizio, il supporto della bioetica, branca della filosofia che nasce con lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie biomediche (la scoperta della struttura a doppia elica del DNA e la conseguente ingegneria genetica, la preparazione della pillola per la contraccezione ormonale, lo sviluppo del trapianto d’organo, il sostegno artificiale delle funzioni vitali, il concepimento in vitro, la clonazione come esempi di innovazioni che hanno generato grandi discussioni fra i clinici) e che si occupa dell’analisi razionale dei problemi morali emergenti nel campo delle scienze biomediche, proponendosi di definire criteri e limiti di liceità alla pratica medica e alla ricerca scientifica, affinché il progresso avvenga nel rispetto di ogni persona umana e della sua dignità.

Il termine bioetica, coniato agli inizi del ’900, fu utilizzato nella sua accezione comune dall’oncologo statunitense Van Rensselaer Potter che, nel 1970, lo inserì nel titolo del suo testo “Bioetica: la scienza della sopravvivenza” spiegando il termine bioetica come “la scienza che consente all’uomo di sopravvivere utilizzando i suoi valori morali di fronte all’evolversi dell’ecosistema” [19].

La bioetica nasce quindi dall’esigenza di integrare tra loro nuove conoscenze e nuovi saperi con l’obiettivo di definire in maniera forte e razionale i criteri di regolamentazione della prassi biomedica e garantire la libertà di ricerca scientifica nel rispetto dei diritti umani fondamentali. Si può quindi dire che questo nuovo approccio alle grandi questioni mediche nasce dal dialogo e dal confronto tra biologia, medicina, filosofia, teologia, sociologia, antropologia, economia, diritto, politica, bioingegneria e, in questi tempi anche dalla discussione sull’information technology. Partendo dalla descrizione del dato scientifico, biologico o medico, la bioetica esamina la legittimità dell’intervento dell’uomo sull’uomo, avendo come orizzonte di riferimento la persona in tutte le sue dimensioni: fisiche, psichiche e spirituali.

Il fine del giudizio bioetico non è solo quello di dire ‘come’ si deve agire, ma ‘perché’ si deve agire in quel modo.

Da notare che la bioetica è cosa ben diversa dall’etica poiché quest’ultima è una branca della filosofia che si occupa del comportamento umano, studia i fondamenti che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status normativo, ovvero distinguerli in buoni, giusti, leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti ingiusti, illeciti, sconvenienti o cattivi secondo un ideale modello comportamentale. Come disciplina affronta questioni inerenti alla moralità umana definendo concetti come il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, la virtù e il vizio, la giustizia e il crimine.

Mentre per Deontologia Professionale intendiamo l’insieme delle regole morali che disciplinano l’esercizio di una determinata Professione (regole che la stessa professione, attraverso un proprio codice, si è data).

Da qui l’importanza di comprendere che la Deontologia Professionale (concetto che nella medicina trova forma scritta nella sua carta fondamentale – il Codice Deontologico) risulta essere l’insieme di quelle connotazioni prescrittive vincolanti per ciascun medico, pena la censura o radiazione, che la categoria professionale si è data per meglio esercitare la professione (contro morale = immorali).  Va pertanto ribadito che il “Codice Deontologico” non è stato elaborato partendo da precetti etici, e infatti nel codice sono contenute alcune regole che possono contrastare con il giudizio etico di alcuni suoi membri (ad esempio le norme che disciplinano l’interruzione della gravidanza).

Queste regole hanno la finalità di rappresentare i binari entro i quali la Professione debba essere esercitata, ed allo stesso tempo cosa il cittadino può “aspettarsi” dal professionista. Ecco perché il Codice è soggetto a revisione periodica, essendo considerato un “patto” è come tale soggetto a revisione tra le parti.

Tornando ai concetti di bioetica, per quanto riguarda la sua applicazione in ambito medico, si sono individuati 4 principi, riconosciuti come finalità implicite di questa pratica, cui fare riferimento in senso regolativo. Essi sono:

  • Il principio di autonomia, con il quale si riconosce e si afferma il dovere di rispettare l’individuo nella sua autodeterminazione, il suo diritto ad avere opinioni, a compiere delle scelte e ad agire in base a valori e convinzioni personali, nonché il dovere di promuovere l’autonomia dei diversi soggetti coinvolti nel processo di cura;
  • Il principio di non maleficenza, con il quale si riprende il tradizionale principio ippocratico del primum non nocere e si afferma il dovere di non provocare intenzionalmente un danno;
  • Il principio di beneficienza, che possiamo vedere come versione positiva del principio di non-maleficenza, inteso alla prevenzione o rimozione di un danno e alla promozione del bene del paziente;
  • Il principio di giustizia, che sottolinea l’esigenza di equità e giustizia della pratica medica e sanitaria e introduce la dimensione socioeconomica e politica tra i fattori determinanti questo settore [20].

 

Percorso decisionale nei pazienti con ESRD e neoplasia

Ed ecco che alla luce di tali premesse, dinanzi ad un paziente oncologico con ESRD o in dialisi il medico dovrebbe proporre un piano di assistenza personalizzato che consideri la prognosi e le opzioni terapeutiche per ogni condizione, rispettando anche le preferenze del paziente. Il concetto di prognosi dovrebbe includere considerazioni sulla qualità della vita, lo stato funzionale e l’onere dell’assistenza.

La stretta collaborazione tra oncologi, nefrologi, palliativisti e geriatri è fondamentale per prendere decisioni terapeutiche ottimali e sono disponibili diversi strumenti per definire la prognosi della neoplasia, la prognosi della malattia renale e la prognosi generale correlata all’età. Prove emergenti mostrano che questi strumenti di valutazione geriatrica, che misurano i gradi di fragilità, sono utili nei pazienti con malattia renale cronica. Nella review pubblicata su Lancet nel 2021, si cerca di fornire strumenti ai medici per guidare il processo decisionale in merito all’inizio e alla fine della dialisi nei pazienti con cancro avanzato [21]. Lo scenario che possiamo avere di fronte è duplice: il primo scenario è che i pazienti con neoplasia nota possono sviluppare ESRD e richiedere la necessità di iniziare un trattamento sostitutivo; il secondo scenario è che i pazienti con ESRD in dialisi sviluppino una neoplasia che potrebbe richiedere di non continuare la terapia dialitica. Il problema di trattare o non trattare queste condizioni cliniche spesso si pone nei pazienti più anziani con ESRD associata ad altre comorbilità, una popolazione che inoltre in una percentuale sostanziale mostra una significativa compromissione funzionale e cognitiva [22, 23] oppure perde l’indipendenza personale entro i primi mesi o anni di dialisi [24]. 

Bisogna tener presente, tuttavia, che non vi è una sostanziale eterogeneità nel processo di invecchiamento, e ciò comporta importanti variazioni nei modelli di trattamento e nei risultati nei pazienti più anziani. Inoltre, ci sono poche prove su cui basare le decisioni terapeutiche per i pazienti anziani con tumore e malattia renale, perché questo gruppo è notevolmente sottorappresentato negli studi clinici [25, 26].

Poiché l’età cronologica da sola non è un buon indice descrittivo dell’eterogeneità nel processo di invecchiamento, è necessario un modo sistematico e basato sull’evidenza per valutare la salute e la resilienza di un individuo e per guidare le decisioni terapeutiche oncologiche. Per colmare questa lacuna è stato proposto come approccio la valutazione geriatrica completa (CGA) [27].

La CGA è definita come un processo diagnostico multidimensionale e interdisciplinare fornendo una solida base per un processo decisionale condiviso perché raccoglie informazioni sulle capacità e sui limiti funzionali e psicosociali che sono legati alla discussione di ciò che conta di più nella vita quotidiana del singolo paziente. Con queste informazioni raccolte obiettivamente, il team medico è in grado di sviluppare un piano coordinato e integrato per il trattamento e il follow-up a lungo termine [28, 29].

Dato il contesto complesso dovuto sia alla neoplasia che alla malattia renale (e della possibile fragilità), in questa popolazione è fortemente raccomandato di non utilizzare la sola valutazione geriatrica ma di utilizzare l’intero processo CGA per fornire la migliore assistenza e includere assistenti e infermieri del servizio dialisi nel team interdisciplinare CGA. I punteggi Performance Status e Karnofsky Performance Status dell’Eastern Cooperative Oncology Group (ECOG) sono rapidi e semplici da accertare, ma non hanno una sensibilità sufficiente per rilevare la fragilità in modo efficiente. Inoltre, queste misurazioni non danno informazioni dettagliate sull’esatta gravità dei problemi geriatrici nei diversi domini. In uno studio di Hurria e colleghi, il Karnofsky Performance Status non è stato in grado di prevedere la tossicità della chemioterapia, mentre i componenti della valutazione geriatrica hanno aggiunto un valore sostanziale nel predirla [30].

Diversi studi hanno dimostrato che la maggior parte dei componenti del CGA ha un valore prognostico indipendente per la sopravvivenza (es., stato funzionale [31, 32], stato nutrizionale [33-36] e salute mentale [31, 32]), con la nutrizione costantemente tra i più forti predittori di esito. Tuttavia, un CGA completo richiede tempo, quindi per selezionare i pazienti che trarrebbero i maggiori benefici dalla valutazione geriatrica, sono stati sviluppati numerosi strumenti di screening geriatrico (ad esempio, Geriatric 8 noto anche come G8 [37], l’indagine sugli anziani vulnerabili [38], e la versione fiamminga del Triage Risk Screening Tool [39]. 

Inoltre, nei pazienti con malattia renale avanzata, ci sono rapporti secondo i quali la valutazione geriatrica è utile per informare il processo decisionale condiviso in merito alla scelta della modalità e per massimizzare le opportunità di riabilitazione e mantenimento dell’indipendenza [40, 41]. È stato suggerito che la CGA dovrebbe essere eseguita, e dovrebbe essere applicata per la pianificazione avanzata dell’assistenza, al momento dell’inizio della dialisi e poi riveduta quando si verifica un cambiamento importante nella salute o nello stato funzionale di un paziente, come nel caso di un ricovero in ospedale [40].

Il trattamento dialitico è da considerarsi come “terapia salvavita”, ma in alcune situazioni può essere visto anche come un prolungamento sproporzionato della vita e che può peggiorare la qualità della vita del paziente attraverso l’aumento del carico di cure. Compito del clinico, pertanto, è di “dare vita agli anni, non anni alla vita”. Molti pazienti con ESRD sono fragili e hanno molteplici comorbilità e la loro sopravvivenza globale in dialisi cronica rimane bassa, con un tasso di sopravvivenza a 5 anni inferiore al 50%; tuttavia, vi è un’elevata variazione interindividuale a seconda dell’età, dello stato funzionale e della presenza di comorbilità specifiche al momento dell’inizio della terapia renale sostitutiva [42, 43]. Oltre alle complicazioni mediche, è ben noto che l’inizio della terapia renale sostitutiva è associato ad un improvviso declino funzionale e ad una diminuzione della qualità della vita [44, 45]. Lo stato funzionale è un risultato importante per i pazienti più anziani, la maggior parte dei quali dà priorità allo stato funzionale rispetto al prolungamento della vita [46]. Inoltre, vi è una maggiore probabilità per i pazienti in dialisi di morire in ospedale o in hospice e la maggior parte dei pazienti in dialisi riceve negli ultimi anni di vita un trattamento sproporzionato rispetto ai bisogni del soggetto [47]. 

Nella popolazione anziana, attraverso l’uso di questionari anonimi, si rileva un’alta percentuale di persone che prova rimpianto per aver iniziato il trattamento sostitutivo. Ad esempio, Saeed e colleghi hanno rilevato che il rimpianto decisionale si è verificato in 82 (21%) dei 397 pazienti sottoposti a dialisi cronica [48]. L’invecchiamento della popolazione, l’evoluzione dei pazienti anziani avviati al trattamento dialitico, l’aumento delle ospedalizzazioni legate al trattamento hanno nel tempo favorito il dibattito sull’utilizzo della gestione conservativa come alternativa al trattamento dialitico almeno nella gestione dei pazienti anziani e grandi anziani [47, 49]. Questo sviluppo è stato ben illustrato da Verberne e colleghi che hanno confrontato retrospettivamente i risultati della cura conservativa rispetto alla terapia renale sostitutiva in 311 pazienti olandesi di età pari o superiore a 70 anni [50, 51]. Sebbene questo studio abbia rilevato che questi pazienti di età pari o superiore a 70 anni sottoposti a terapia renale sostitutiva avevano una sopravvivenza significativamente più lunga rispetto a quelli che avevano scelto un trattamento conservativo (tempo medio di sopravvivenza dalla data della decisione sulla cura 3,1 anni vs 1,5 anni rispettivamente; log-rank p<0,001), non è stata osservata alcuna differenza significativa nel sottogruppo di pazienti di età pari o superiore a 80 anni (2,1 anni vs 1,4 anni rispettivamente, log-rank p=0,08). Inoltre, mentre i pazienti di età pari o superiore a 70 anni con comorbidità grave (ossia, punteggio di comorbidità di Davies ≥3) che hanno scelto la terapia sostitutiva renale hanno comunque vissuto significativamente più a lungo rispetto a quelli che hanno scelto la cura conservativa, la differenza di sopravvivenza è stata inferiore rispetto a quelli con meno comorbidità (1,8 anni mediani di sopravvivenza dalla scelta della decisione terapeutica vs 1,0, log-rank p=0.02) [50]. 

Non iniziare la dialisi, o interromperla, è quindi una valida opzione terapeutica anche nelle persone anziane con neoplasia, in particolare se la prognosi della neoplasia o la prognosi generale correlata all’età è sfavorevole. L’équipe medica ha l’obbligo etico nei confronti del paziente di delineare la diagnosi e di evidenziare l’opzione della dialisi senza omettere informazioni sul rapporto rischio-beneficio. Il paziente può anche decidere di provare la dialisi a tempo limitato, prendendosi il tempo necessario per prendere la decisione definitiva di interrompere o proseguire la dialisi. Allo stesso modo, dovrebbe essere descritta la possibilità alternativa di un approccio conservativo con cure palliative. I pazienti hanno il diritto di rinunciare a qualsiasi trattamento, ma non possono richiedere la somministrazione di una terapia che l’équipe medica ritiene futile [21]. 

Come precedentemente ricordato nella pratica clinica si possono prevedere diversi scenari: pazienti con neoplasia nota che sviluppano ESRD e pazienti con ESRD in dialisi che sviluppano una neoplasia. Nel primo scenario sarà importante per il paziente e per l’oncologo comprendere l’effetto dell’ESRD e elaborare un’ipotesi di prognosi con e senza dialisi, in modo che si possa prendere una decisione informata sull’inizio della dialisi. Nel secondo caso diventano rilevanti altre domande: quali sono le opzioni diagnostiche e terapeutiche e qual è la (probabile) prognosi della neoplasia? Qual è la prognosi del paziente, data la sua attuale fragilità, lo stato di salute generale e le comorbilità? In che modo questo è influenzato dalla neoplasia, con e senza trattamento? Quali saranno gli effetti delle possibili opzioni terapeutiche oncologiche per questo specifico paziente, dato il suo stato di fragilità? Cosa significa questo per la scelta del trattamento oncologico? Qual è la prognosi per la malattia renale allo stadio terminale, con e senza dialisi? Qual è l’effetto atteso del proseguo o della sospensione della dialisi in questo particolare paziente, dato il suo stato di fragilità? Cosa significa questo per la decisione terapeutica? Quanto dell’attuale stato di fragilità del paziente è determinato dai sintomi legati alla neoplasia o alla malattia renale e che potrebbero essere alleviati iniziando il trattamento? Cosa succede se il paziente non prosegue il trattamento dialitico oppure non inizia la terapia antitumorale?

Per guidare la discussione con il paziente, sono pertanto necessarie molte informazioni sulla futura evoluzione della malattia e, in particolare, informazioni da tre diversi punti di vista: quello oncologico, quello geriatrico e quello renale. Dal punto di vista oncologico, gli oncologi devono informare il paziente sullo sviluppo previsto della malattia, con e senza iniziare o continuare la terapia antitumorale. Dal punto di vista geriatrico, i geriatri sono nella posizione migliore per informare i pazienti sui possibili effetti sull’indipendenza, sulla funzionalità e sulla qualità della vita in generale per una persona della loro età e grado di fragilità. Dal punto di vista renale, la prognosi renale è un preambolo importante nelle discussioni con il paziente ed è determinata dalla funzione renale residua e dalla gravità della patologia renale sottostante. Anche se difficilmente esatta, il nefrologo può stimare l’evoluzione di una malattia (mesi/anni prima di necessità della terapia sostitutiva). Strumenti prognostici convalidati possono aiutare in questo contesto, ad esempio, l’Equazione del rischio di insufficienza renale [52,53]. Alla luce del declino cognitivo che può manifestarsi nel periodo successivo all’inizio della terapia sostitutiva, è pertanto importante iniziare le discussioni sull’inizio o la fine della dialisi il prima possibile nel decorso clinico del paziente, per consentire un processo decisionale informato e condiviso (équipe-paziente-familiari).

Fornire informazioni è essenziale ed i pazienti che decidono se iniziare o interrompere la dialisi devono essere informati della loro prognosi e del possibile carico di sintomi che si presenteranno alla sospensione del trattamento o al non avvio della terapia sostitutiva. L’alternativa al non avvio della terapia dialitica rimane la massima gestione conservativa, un approccio che comprende il trattamento di supporto per alleviare il carico dei sintomi nei pazienti con ESRD, oltre a misure per preservare la funzione renale residua [54]. Fra queste ultime ricordiamo la prevenzione di episodi di ipotensione prolungata (controllo idratazione, uso ragionato della terapia ipotensiva, presenza di vomito o diarrea), il non utilizzo di farmaci nefrotossici (quali ad esempio i farmaci antinfiammatori non steroidei o gli aminoglicosidici) e il corretto utilizzo delle procedure che richiedono l’uso del mezzo di contrasto per via endovenosa. Gli strumenti di valutazione dei sintomi sono importanti per guidare e valutare il trattamento scelto e attualmente sono disponibili per questo scopo una moltitudine di strumenti [55, 56]. Uno studio di Van der Willik e colleghi [55] ha esaminato 121 questionari per la valutazione dei sintomi e ha identificato l’indice dei sintomi della dialisi (DSI, Dialysis Symptom Index) come il migliore della sua classe [55]. 

Il delicato equilibrio tra il trattamento e la palliazione nel paziente nefropatico con neoplasia (sia nel paziente già in trattamento che in quello che deve iniziare trattamento dialitico) ha portato in questi ultimi anni all’individuazione di una nuova specializzazione in rapida evoluzione quale è l’onconefrologia, che centralizza le competenze oncologiche, nefrologiche e geriatriche per permettere la definizione del percorso di cura del paziente anziano e nefropatico con neoplasia [57].  Le decisioni terapeutiche vanno quindi condivise attraverso un confronto tempestivo tra pazienti, familiari o caregiver e professionisti, sui delicati argomenti della prognosi e delle preferenze del paziente. La pianificazione anticipata dell’assistenza delinea i confini della perseveranza terapeutica in base alle preferenze dei pazienti [57] e mira a preparare i pazienti e i loro caregiver al processo decisionale di fine vita, nel tentativo di migliorare la qualità della vita, senza necessariamente estenderla [58]. Al termine del percorso di confronto, che può richiedere anche momenti di interruzione per permettere una adeguata elaborazione delle informazioni ricevute al paziente e ai familiari, si definisce in maniera dettagliata la pianificazione dell’assistenza (escalation terapeutica, sospensione trattamento dialitico, palliazione). Condivisione, informazione corretta, tempo per l’elaborazione delle decisioni, supporto al paziente e ai familiari nel percorso decisionale sono step fondamentali perché il percorso di cura sia basato sulle conoscenze del clinico e sulle volontà del paziente e dei caregiver. 

Nei pazienti con malattia renale cronica, di solito c’è una relazione terapeutica di lunga data tra il nefrologo e il paziente, e questa relazione favorisce le discussioni congiunte. Nel caso di riscontro di neoplasia in un soggetto dializzato cronico deve essere valutato il peso del trattamento dialitico (sia in termini assistenziali che di impatto sulla vita del paziente) e il vantaggio di sopravvivenza che il trattamento dialitico può dare, valutazione che si rende particolarmente necessaria nei pazienti anziani fragili. Le informazioni predittive sulla sopravvivenza attesa con o senza un trattamento antineoplastico specifico sono importanti per i pazienti nel processo decisionale.  La complessità di questo contesto è che la prognosi globale (cioè il corso anticipato della convivenza con una malattia), è determinata da almeno tre fattori, in parte indipendenti: la prognosi della neoplasia, la prognosi associata alla fragilità (che include altre comorbilità, lo stato funzionale e le sindromi geriatriche) e la prognosi basata sulla malattia renale. Tuttavia, la prognosi è più della sola aspettativa di vita; una definizione più ampia è quella di considerare la prognosi come la visione anticipata della convivenza con una malattia [59].

Nel campo dell’oncologia, ci sono molti dati sui fattori prognostici di sopravvivenza in diversi tipi di tumore. L’età è spesso tra questi fattori prognostici, ma i fattori correlati al tumore (es., le caratteristiche del tumore, l’estensione della malattia) sono generalmente più importanti e la fragilità è raramente inclusa perché non è stata spesso misurata in studi precedenti. Successivi studi oncologici hanno iniziato a integrare i parametri di fragilità (misurati dalla valutazione geriatrica) quando si guarda alla prognosi e alla tolleranza al trattamento. La valutazione geriatrica nei pazienti anziani con neoplasia è in grado di rilevare problemi e rischi non identificati a cui possono essere applicati interventi mirati, prevedere esiti avversi (es., tossicità, declino funzionale o cognitivo, complicanze postoperatorie) [60]. Infine, per il paziente in terapia conservativa o in trattamento dialitico con la neoplasia in cura attiva è necessaria la presa in carico “continuativa e transmuraria (territorio-ospedale-territorio)”, sul modello delle cure simultanee, in questo caso “onco-nefro-palliative”.

Inoltre, il concetto di prognosi deve includere considerazioni sulla qualità della vita, lo stato funzionale, l’onere dell’assistenza e delle cure, le speranze e le preoccupazioni dei pazienti e la possibilità di eventi imprevedibili. Sulla base di tutte queste considerazioni, il medico può aiutare il paziente a prendere decisioni che abbiano senso per il paziente nella propria vita [61]. 

Ovviamente vanno garantiti alla persona con prognosi infausta il non abbandono (ageismo) garantendo un supporto base al paziente, il sollievo delle sofferenze attraverso l’attivazione delle cure palliative, il rispetto di tutti i diritti della persona (dignità) e il diritto alla verità/speranza attraverso un’informazione veritiera. 

Per alcuni pazienti la prognosi potrebbe essere principalmente determinata dalla fragilità, per altri dalla progressione della neoplasia e per altri dal problema renale. La CGA è un processo diagnostico multidisciplinare e multidimensionale in cui vengono valutate le capacità mediche, nutrizionali, funzionali e psicosociali. Questo modello di valutazione geriatrica può aiutare a rilevare problemi geriatrici non riconosciuti, consentire un intervento precoce e portare a strategie di trattamento sempre più individualizzate [62].

 

Documenti società scientifiche

Per aiutare nella decisione delle cure sempre più individualizzate sono stati elaborati diversi documenti condivisi sia a livello nazionale che internazionale. Fra i vari documenti, segnaliamo quelli elaborati a livello nazionale, che oltre alle basi scientifiche derivate dalla letteratura, riflettono anche il pensiero elaborato su queste problematiche in numerosi convegni fra nefrologi, giuristi, palliativisti, geriatri, medici legali. Il documento Grandi insufficienze d’organo end-stage: cure intensive o cure palliative?” è stato promosso dal Gruppo di Studio di Bioetica della Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) [63]. Il testo è stato elaborato dopo un intenso lavoro di circa due anni da esperti di varie specialità e professionalità impegnati nella gestione dei malati affetti da patologie cronico-degenerative in fase end-stage. L’obiettivo è quello di fornire strumenti di valutazione e un percorso decisionale per definire con maggiore appropriatezza etico-clinica il trattamento di tali malati che giungono nei dipartimenti di emergenza o che sono ricoverati nei reparti ospedalieri per acuti. In data 22 Aprile 2012 il presente documento è stato approvato ad unanimità dal Consiglio Direttivo della SIAARTI ed il 24 Maggio 2013 dal Consiglio Direttivo Nazionale Società Italiana Medicina Emergenza Urgenza (SIMEU).

Altro documento utile per la definizione condivisa del processo delle cure è il “Documento condiviso SICP-SIN” frutto del tavolo di lavoro intersocietario fra la Società Italiana Cure Palliative e la Società Italiana di Nefrologia, approvato da entrambi i consigli Direttivi al termine di un percorso di elaborazione durato tutto il 2015. Nel documento si possono trovare gli strumenti utili per l’identificazione precoce nel paziente con malattia renale cronica avanzata del bisogno di cure palliative, gli aspetti di natura etico-giuridica e le possibili opzioni terapeutiche.

Due documenti che pongono quindi le basi per una corretta e fattiva collaborazione fra i diversi professionisti, e che per quanto ci compete da un supporto particolare a noi nefrologi e ai palliativisti, aiutandoci nelle decisioni di cura che hanno, sempre più, aspetti etici oltre che clinici [64, 65].

 

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Management of Chemotherapy in Patients Subjected in Chronic Dialysis Treatment

Abstract

The incidence of tumors is increased in patients with chronic renal failure and even more in patients on dialysis. Dialysis can affect both therapy and prognosis of oncological patients. It increases both cancer-related and non-cancer-related mortality rates and is the main cause of a suboptimal use of therapies. In patients with renal impairment, the dosage of many chemotherapies should be reduced but, due to the lack of real knowledge of the pharmacokinetic and pharmacodynamic properties of these drugs in dialysis, dosage adjustments are often done empirically and most often avoided.

Although many papers are available in the literature regarding chemotherapy in dialysis, there is a lack of consensus regarding drug dosages and administration schedules. Furthermore, guidelines are absent due to the lack of “evidence” for most of these patients, usually excluded from experimental treatments.

Specific onconephrologic trials are therefore mandatory to decide how much, how, and when to use chemotherapy in patients on dialysis and thereby ensure adequate treatment for these patients.

Keywords: onconephrology, dialysis, cancer, chemotherapy

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I numeri del cancro in dialisi

Nell’ultimo decennio del ’900 era già chiaro che i pazienti con insufficienza renale cronica e, ancora di più, i pazienti in dialisi, avessero un rischio aumentato di sviluppare tumori[1-3]. Veniva riportato un rischio del 20% di sviluppare tumore nei pazienti con insufficienza renale cronica terminale (ESRD), con un rischio che aumentava in modo proporzionale al tempo in dialisi [1]. 

Questa aumentata incidenza sembra essere secondaria al fatto che insufficienza renale cronica (CKD) e cancro condividono alcuni importanti fattori di rischio (es. ipertensione, età >65 anni, fumo di sigaretta, obesità, alcol, sesso maschile, patologie cardiovascolari, esposizione ambientale, etc.) [4, 5] e agli eventi avversi secondari all’insufficienza renale avanzata (es. esposizione prolungata alle tossine uremiche, infiammazione cronica, aumento del rischio infettivo, sistema immunitario poco efficiente, malnutrizione, alterazione dei meccanismi di riparo del DNA, etc.) [6, 7]. 

Il miglioramento delle tecniche dialitiche ha portato, nel corso degli anni, a un incremento significativo della vita media del paziente dializzato, rendendo il trattamento del tumore in questa categoria di pazienti un tema di importanza sempre maggiore [6]. 

Negli ultimi anni sono stati pertanto condotti studi epidemiologici volti a una miglior identificazione della reale incidenza di tumore nei pazienti dializzati e dei principali fattori di rischio. 

In particolare, uno dei più grandi studi condotti fino ad ora sull’argomento è uno studio di coorte, retrospettivo, che aveva lo scopo di valutare l’incidenza di tumore in pazienti in trattamento dialitico cronico dal 1996 al 2009. Sono stati valutati 482.510 pazienti; di questi, 37.128 hanno sviluppato una neoplasia entro i 5 anni (prevalenza 7,65%), con un’incidenza cumulativa calcolata in 5 anni del 9,48%. Il rischio era più elevato per il tumore del rene, della pelvi renale e della vescica e i principali fattori di rischio individuati sono stati sesso maschile, razza non ispanica, età superiore ai 65 anni e una causa di ESRD diversa dal diabete [8]. 

Questi dati sono stati confermati da uno studio italiano, condotto da Taborelli et al., su 10.790 pazienti emodializzati. In questa popolazione sono stati registrati 367 tumori de novo in 330 pazienti evidenziando come il rischio di insorgenza di una neoplasia de novo sia di 1,3 volte maggiore nella popolazione dialitica rispetto alla popolazione generale. In questo studio non sono state evidenziate differenze tra i sessi, con un rischio maggiore in pazienti giovani. Il rischio è apparso essere più elevato nei primi tre anni, ed in particolare nel primo anno di dialisi [6]. 

Uno studio condotto in Oceania sempre negli stessi anni si è occupato invece di valutare il rischio di recidiva di malattia oncologica nei pazienti dializzati. Sono stati valutati 4912 pazienti che avevano avuto una precedente neoplasia. Di questi, 323 pazienti (6,6%) hanno sviluppato una recidiva di neoplasia, l’80% dei quali metastatica. 343 pazienti (7%) hanno invece avuto una diagnosi di nuova neoplasia. È stato registrato un tempo medio di recidiva di tumore dall’inizio della dialisi di 1,2 anni e un tempo di insorgenza medio per lo sviluppo di un nuovo tumore di 2 anni. È stato inoltre visto che la sopravvivenza media di questi pazienti era limitata: 1,3 anni per i pazienti che avevano sviluppato un tumore de novo, in particolare di rene, vie urinarie e polmone, e una sopravvivenza a 3 anni inferiore al 50% per i pazienti con recidiva di malattia. In questo caso i tumori più frequenti erano linfoma, vie urinarie, polmone e melanoma [9]. 

Tutti questi studi hanno confermato una stretta relazione tra funzione renale e cancro rendendo evidente la necessità di uno screening specifico e di un follow-up regolare nella popolazione dializzata con particolare attenzione ai pazienti con una storia oncologica e la necessità di rendere la terapia oncologica accessibile anche a questa categoria di pazienti [10]. 

 

Chemioterapia ieri e oggi

La chemioterapia citotossica è stata la prima classe di farmaci utilizzata per il trattamento dei tumori. Nel 1942 Louis Goodman e Alfred Gilman usarono per la prima volta le mostarde azotate in un paziente con linfoma non Hodgkin, dimostrando che la chemioterapia può indurre remissione del tumore [11].

Da allora l’utilizzo della chemioterapia si è diffuso notevolmente con un’esplosione del numero di farmaci utilizzati e il tipo di tumore trattati. Nel 1992, l’approvazione di Imatinib per il trattamento della leucemia mieloide cronica ha segnato l’inizio dell’era dei farmaci a bersaglio molecolare. L’introduzione di nuove classi di farmaci ha migliorato la sopravvivenza dei pazienti oncologici ma la chemioterapia resta ancora oggi molto utilizzata sia in monoterapia che in combinazione con altri chemioterapici o farmaci di altre classi (Tabella 1).

La gestione della chemioterapia nei pazienti in dialisi rappresenta ancora oggi una grande sfida per l’oncologo e per il nefrologo poiché molti chemioterapici sono escreti a livello renale anche solo in parte e la dialisi altera il metabolismo della maggior parte dei farmaci, anche quelli con un’escrezione renale ridotta o nulla [13].

Le principali sfide in questo ambito sono individuare la dose di farmaco da somministrare e il momento in cui somministrarlo rispetto alla seduta dialitica. È importante riuscire a ottimizzare al meglio entrambi i parametri poiché, se da una parte somministrare una dose eccessiva di farmaco può portare a over-esposizione del paziente alla sostanza tossica con un aumento degli eventi avversi e una riduzione della sopravvivenza, anche una riduzione della dose del farmaco eccessiva o una sua rimozione precoce dal circolo ematico porta a un sotto-trattamento e quindi a una riduzione di efficacia dello stesso [14].

Tipo di tumore Uso della chemioterapia Terapie “emergenti”
Polmone Riduzione globale ICI; ICI + CT; TA
Colon-retto Stabile TA + CT
Esofago-stomaco Stabile TA + CT
Pancreas Stabile TA + CT
Ovaio Stabile TA + CT
Endometrio Stabile ICI; TA + CT
Testa-collo Stabile ICI + CT; TA
Urotelio Stabile ADC, ICI
Mammella Riduzione importante ADC, TA
Prostata In aumento TA
Sarcoma Stabile TA
Linfoma/Leucemia Stabile CT + TA
ICI, inibitori di immune checkpoint; CT, chemioterapia; TA, Farmaci a bersaglio molecolare; ADC, antibody-drug conjugates
Tabella 1. Chemioterapia nella pratica clinica [12].

 

Studi clinici e raccomandazioni

Gli studi clinici fase I e II solitamente includono solo i pazienti con funzione renale normale o lievemente ridotta; il problema persiste negli studi di fase III dove soltanto in alcuni vengono arruolati pazienti con insufficienza renale cronica moderata. Per questo motivo i dati relativi a pazienti con insufficienza renale avanzata (eGFR <30 ml/min/1,73 mq), insufficienza renale cronica terminale (ESRD) o in dialisi sono particolarmente limitati o del tutto assenti prima dell’approvazione del farmaco. La presenza di dati limitati e l’inesperienza circa la sicurezza nell’uso dei farmaci in queste popolazioni fanno si che sulla scheda tecnica degli stessi appaia la dicitura “il farmaco è controindicato nei pazienti con insufficienza renale avanzata” [15].

I pazienti con ESRD vengono esclusi dagli studi clinici nonostante ci siano raccomandazioni specifiche da parte di EMA e FDA per l’arruolamento dei pazienti con CKD nei trial clinici a condizione che venga definito una metodica standard per stimare il filtrato glomerulare per tutta la durata dello studio e che vengano stabiliti degli adeguamenti della dose del farmaco in base al filtrato glomerulare standardizzati per lo studio [16, 17].

Uno studio condotto da Kitchlu et al. nel 2018 ha posto l’attenzione sulla grande problematica dell’esclusione dei pazienti con insufficienza renale dai triali clinici dei farmaci oncologici evidenziando come dei 310 triali clinici analizzati, condotti dal 2012 al 2017 su farmaci oncologici per il trattamento dei 5 tumori più comuni (vescica, seno, colon-retto, polmone, prostata) e i cui risultati sono stati pubblicati su riviste ad elevato impact-factor, l’85% escludeva a priori i pazienti con insufficienza renale cronica e il 100% i pazienti in dialisi [18]. Uno studio retrospettivo simile, volto a valutare la percentuale di trial clinici di fase III su farmaci oncologici sistemici che escludono pazienti con CKD, e relativi criteri d’esclusione, è stato pubblicato nel 2022 da Delaye et al.; dei 268 trial valutati, il 68% (185) presentavano almeno un criterio di esclusione basato sulla funzione renale [19].

Questi dati sono particolarmente rilevanti se si considera l’elevata incidenza di tumori nei pazienti con CKD. L’esclusione dei pazienti dai trial fa si che questi pazienti non vengano presi in considerazione per terapie oncologiche. È inoltre importante sottolineare che i pazienti con CKD non sono esclusi solo dai trial di farmaci con elevata potenzialità nefrotossica o per i quali ci sia un elevato rischio di eventi avversi a causa dell’eccessivo accumulo del farmaco nell’organismo in caso di ridotta escrezione renale, ma anche da quelli per i quali il rene non ha un ruolo determinante in farmacocinetica e farmacodinamica [18]. 

Nel 2020 Sprangers et al. hanno proposto delle misure da adottare per migliorare la cura oncologica nei pazienti con insufficienza renale. In particolare hanno suggerito la necessità che Agenzie Nazionali e Internazionali del farmaco come FDA ed EMA impongano l’inclusione dei pazienti con CKD nei trial clinici dei farmaci o che producano dati clinici separati ma specifici sui pazienti con insufficienza renale prima dell’approvazione dei farmaci stessi. Inoltre, raccomandano che vengano eseguiti almeno degli studi secondari, successivi all’approvazione dei farmaci, per i pazienti con CKD o ESRD; suggeriscono anche che i nefrologi vengano coinvolti nelle prime fasi dei trial clinici dei farmaci e nei team dedicati alla disfunzione d’organo per aumentare il reclutamento dei pazienti con CKD, e che vengano creati dei gruppi a livello nazionale con lo scopo di aumentare l’interesse per la problematica [20].

Proposte simili sono state avanzate da Delaye et al., i quali suggeriscono inoltre di stabilire un metodo di stima della funzione renale che possa essere usato in tutti i trial clinici, che le modifiche di dose necessarie per i pazienti con GFR ridotto vengano stabilite nelle prime fasi dei trial in modo da avere maggior facilità nella gestione dei pazienti con CKD nelle ultime fasi degli studi e limitare l’eventuale esclusione dei pazienti con ESRD dai trial clinici per i soli farmaci che, in base alle caratteristiche di farmacocinetica e farmacodinamica, potrebbero mettere a rischio il paziente [19].

I dati clinici disponibili sull’utilizzo dei chemioterapici in dialisi sono pertanto derivati da case report e case series o piccoli studi retrospettivi che raccolgono pazienti trattati con farmaci molto diversi tra loro e che pertanto non permettono di trarre conclusioni statisticamente significative e omogenee sulla dose di farmaco da somministrare, la tempistica di somministrazione rispetto alla seduta dialitica, il profilo di sicurezza e di efficacia [21-25].

Lo studio Candy [26], studio multicentrico retrospettivo condotto dal 1997 al 2010 su 178 pazienti emodializzati, aveva come obiettivo primario quello di dare indicazioni circa la gestione dei farmaci oncologici in pazienti dializzati che sviluppavano un tumore dopo l’inizio della dialisi (tempo medio tra l’inizio della dialisi e la diagnosi di tumore di 2,6 anni). Dei 178 pazienti, 50 erano stati trattati con chemioterapici per un totale di 96 prescrizioni e 36 diversi farmaci prescritti. Delle 96 prescrizioni il 45% richiedeva un adeguamento di dose sulla base dei pochi dati di letteratura o erano farmaci per i quali non erano disponibili raccomandazioni nei pazienti in dialisi; il 75% dei farmaci prescritti era stato somministrato dopo la seduta di dialisi. Dei 50 pazienti trattati, il 72% aveva ricevuto almeno un farmaco che richiedeva adeguamento di dose o per cui non c’erano raccomandazioni nei pazienti dializzati. In generale, dallo studio emerge che l’88% dei pazienti trattati con farmaci oncologici aveva avuto necessità di una gestione specifica della dose o del timing di somministrazione di almeno un farmaco senza però linee guida specifiche.

I principali limiti di questo studio sono l’assenza di indicazioni su come adeguare la dose del farmaco (viene indicato solo se sia necessario un adeguamento), non ci sono dati circa i pazienti trattati con dosi ridotte, e le informazioni sulla necessità di adeguamento di dose o di dializzabilità derivano da casi clinici singoli o piccole case series per la mancanza di evidenze di alto livello in questo setting di pazienti. Mancano inoltre i dati circa la risposta alla terapia.

Nel 2017 l’Associazione Italiana Oncologia Medica (AIOM) e la Società Italiana di Nefrologia (SIN) hanno pubblicato delle “Raccomandazioni” sulla gestione della chemioterapia nei pazienti dializzati basandosi sui dati presenti in letteratura, per stessa ammissione degli autori, nella maggior parte dei casi singoli, case report o piccole case series; nonostante siano state fornite indicazioni circa l’utilizzo della maggior parte dei principali chemioterapici, la mancanza di studi clinici sull’argomento impedisce di avere informazioni certe e quindi delle reali linee guida [27].

Nel 2022 è stata pubblicata una review che, ancora una volta, ha provato a riassumere le indicazioni circa la gestione dei farmaci nei pazienti oncologici in trattamento dialitico cronico. Sempre per una mancanza in letteratura di studi clinici, anche le indicazioni presentate dagli autori di questa review sono basate su una casistica limitata che, per la maggior parte, coincide con quella su cui si sono basati sui case series precedenti [13].

In letteratura è presente una sola review che ha raccolto i dati di pazienti in dialisi peritoneale; si tratta di una raccolta di 16 case report trattati con un totale di 18 regimi terapeutici (15 chemioterapia, 3 farmaci a bersaglio molecolare, no immunoterapia). Sulla base delle poche evidenze gli autori raccomandano l’adeguamento di dose dei farmaci utilizzati [28].

Sempre nel 2022 sono state pubblicate le “International Consensus Guideline for Anticancer Drug Dosing in Kidney Dysfunction (ADDIKD)” con l’obbiettivo di fornire indicazioni generali su come stimare la funzione renale nei pazienti oncologici e su come utilizzare questo dato per adeguare la dose dei farmaci oncologici. Vengono poi fornite indicazioni specifiche su come somministrare i singoli farmaci in base alla funzione renale dei pazienti. Le linee guida non forniscono indicazioni su come adeguare la dose dei farmaci nei cicli di terapia successivi al primo e informazioni specifiche sull’adeguamento di dose in pazienti con filtrato glomerulare inferiore ai 15 ml/min/1,73 mq in terapia conservativa o trattamento dialitico. Per queste categorie di pazienti viene suggerito un approccio multidisciplinare con nefrologi, oncologi/ematologi e farmacologi.

Ancora una volta, la mancanza di studi clinici specifici impedisce di avere linee guida chiare su come gestire i chemioterapici nella popolazione di pazienti dializzati [29].

Il mancato arruolamento dei pazienti con ESRD e in dialisi nei trial clinici dei farmaci non permette inoltre di avere dati circa la farmacocinetica e farmacodinamica in questi pazienti e, anche nei case report descritti in letteratura, spesso non sono state studiate queste caratteristiche dei farmaci. Questo rende ulteriormente difficile l’utilizzo dei farmaci in questa popolazione.

Infatti, nella popolazione generale le proprietà farmacodinamiche derivano dall’interazione del farmaco con i suoi recettori/target cellulari e l’attivazione del successivo pathway a valle e la farmacocinetica dei farmaci può invece essere descritta dall’acronico ADME: assorbimento, distribuzione, metabolismo ed escrezione (Figura 1) [13]. Questi parametri nei pazienti con ESRD o in dialisi possono essere modificati anche per i farmaci non eliminati primariamente dal rene ma i cui metaboliti lo sono; inoltre, le tossine uremiche possono alterare gli enzimi epatici coinvolti nel metabolismo dei farmaci [13]. Nei pazienti in dialisi la farmacocinetica e farmacodinamica dipendono inoltre anche da variabili specifiche della dialisi: ultrafiltrazione, tipo di membrana utilizzata e superficie, ritmo dialitico e durata del trattamento, peso molecolare dei farmaci, legame con le proteine, etc. [30, 31]; queste sono considerazioni da fare e non controindicazioni alla somministrazione di chemioterapia in dialisi.

Figura 1. La farmacocinetica nel paziente dializzato.
Figura 1. La farmacocinetica nel paziente dializzato.

 

La pratica clinica

Nella pratica clinica quotidiana, nonostante esista la possibilità, somministrare terapia oncologica sistemica ai pazienti in dialisi resta tutt’ora un’enorme sfida per il clinico; la conseguenza nella realtà è che non sempre viene somministrata. Uno studio retrospettivo condotto da Minegishi et al. ha mostrato come di 158 pazienti oncologici affetti da tumore del polmone afferenti a 22 ospedali giapponesi, solo 91 pazienti sono stati trattati con chemioterapia mentre 67 hanno ricevuto solamente cure di supporto a prescindere dallo stadio del tumore [32]. I dati francesi del CANDY study [23] riportano che solo il 28% dei pazienti dializzati con una neoplasia diagnosticata de novo vengono trattati con terapia oncologica sistemica, e uno studio giapponese riporta una percentuale ancora inferiore pari al 15% [33].

Se esiste già una tendenza al sotto trattamento nei pazienti con evidenza di malattia, il problema diventa ancora più rilevante nel setting adiuvante. In particolare, Ishii et al. hanno recentemente pubblicato i dati relativi a uno studio retrospettivo condotto su 99.761 pazienti sottoposti a chirurgia curativa per tumori di colon, polmone o mammella in ospedali giapponesi. Di questi, 1207 pazienti (1%) erano dializzati. Quello che è emerso dallo studio è la conferma che i pazienti dializzati vengono sottoposti a terapia adiuvante meno spesso dei pazienti non dializzati (24% vs 63%, p<0,001) e che, quando viene avviata, la terapia adiuvante è spesso più breve (138 vs 154 giorni, p<0,001), con regimi di terapia modificati senza omogeneità e con riduzioni spesso non necessarie della dose del farmaco (92% dei pazienti trattati in questo studio vs 72% in studi precedenti) [34].

 

Sopravvivenza dopo terapia

I pazienti oncologici con concomitate CKD hanno outcome peggiori rispetto ai pazienti normofunzione renale [18], è stato inoltre riportato un rischio di mortalità cancro-relata 1,5-2,9 volte superiore nei pazienti dializzati rispetto alla popolazione generale [34]. Per esempio, dallo studio di Minegishi et al. non emergono chiari benefici di sopravvivenza nel trattare i pazienti con chemioterapia e, pertanto, viene consigliata una valutazione attenta prima del trattamento di questi pazienti [32].

Se da un lato il peggioramento dell’outcome può essere spiegato dalle numerose comorbidità dei pazienti dializzati, un problema effettivo sembra essere rappresentato dal non trattamento o mal trattamento dei pazienti. Infatti, ai pazienti in dialisi, spesso viene negato un trattamento adeguato per un atteggiamento “nichilistico” da parte degli oncologi ma anche troppo spesso dei nefrologi, per la mancanza di una reale conoscenza della farmacocinetica e farmacodinamica di questi farmaci in dialisi e per la difficoltà gestionale di far coincidere terapia oncologica e seduta dialitica.

È emerso in studi condotti su pazienti con CKD che un adeguamento della dose del farmaco in base alla funzione renale corretto ed effettuato prima dell’inizio del trattamento porti a una miglior prognosi oncologica rispetto a un adeguamento di dose in corso di terapia [14, 35]. Nonostante non esistano al momento studi analoghi condotti su pazienti in dialisi è verosimile credere che l’andamento in termini di prognosi sia il medesimo.

 

Conclusioni

Nonostante in letteratura ci siano lavori riguardo la chemioterapia in dialisi, c’è poca uniformità per quanto riguarda la dose e i tempi di somministrazione, con informazioni a volte contraddittorie, e, al momento, non esistono reali Linee Guida ma solo raccomandazioni o consigli di esperti. È quindi evidente la necessità di trial clinici dedicati in ambito onconefrologico, poiché una conoscenza approfondita delle proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche è mandatoria per decidere quanto, come, e quando usare la chemioterapia in questi pazienti.

In conclusione, il cancro di un paziente in dialisi dovrebbe essere trattato allo stesso modo che in un paziente non in dialisi; facendo le opportune valutazioni sulla clearance renale del farmaco, il dosaggio e la sua dializzabilità [26] e considerando etica del trattamento, prognosi oncologica, qualità della vita, desideri e obiettivi del paziente.

 

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Cancer and the Kidney: A Deadly Embrace

Abstract

A deadly embrace occurs between cancer and chronic kidney disease.   The estimation of kidney function in cancer patients is of utmost interest due to its direct impact on chemotherapy dosing, selection, and eligibility for chemotherapeutics. Overestimating kidney function (determined as estimated glomerular filtration rate -eGFR) can lead to overdosing and drug toxicity, while underestimating kidney function can prevent patients from receiving novel therapies. Notably, the current measures of eGFR are not validated in transplanted patients yet.

The field of onconephrology ranges from nephrotoxicity of existing and novel therapeutics, paraproteinemias, and cancer-associated electrolyte imbalance, fluid and acid-base disturbances, the effects of the destruction of cancer cells, and acute and/or chronic kidney injuries. Recently, the therapeutic armamentarium has been enriched with new agents that interfere with specific proteins involved in oncogenesis. These are the so-called target therapies, which although acquired as “targeted” therapies do not have absolute specificity and selectivity and tend to inhibit multiple targets, often involving the kidney. Renal biopsy may be critical in managing these adverse effects. Moreover, primary hematological and oncological disorders can have significant kidney implications in the form of glomerular or nonglomerular diseases presenting with proteinuria, hematuria, hypertension, and kidney function decline, specifically including cast nephropathy or systemic light chain amyloidosis, and paraneoplastic glomerulopathies that occur as a result of occult malignancy, such as Membranous Nephropathy and Minimal Change disease.

Keywords: Onconephrology, Target Therapies, Renal biopsy in onconephrology, Cancer and kidney

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Introduzione

La crescente conoscenza dei meccanismi patogenetici della malattia oncologica ha consentito un rapido miglioramento della qualità della diagnosi e del trattamento di molti tumori. La definizione stessa di “tumore” è cambiata. Sempre più si parla del tumore come malattia cronica. E la sopravvivenza dei pazienti oncologici negli ultimi anni è migliorata in maniera consistente grazie ad innovative strategie diagnostiche e terapeutiche che coinvolgono diversi specialisti in modelli di presa in carico multispecilistica. Ai nefrologi viene sempre più spesso richiesto di entrare a far parte di questi gruppi perché le interazioni rene-tumore sono strette, bidirezionali e in continua evoluzione. Riguardano “l’abbraccio mortale” tra malattia renale cronica e tumore (che si potenziano vicendevolmente) gli effetti dell’impiego del mezzo di contrasto, la complessa gestione delle terapie oncologiche nel paziente con malattia renale cronica o in trattamento dialitico, lo screening del portatore e del candidato al trapianto di rene. Di più, le malattie glomerulari sono spesso associate a neoplasie solide ed ematologiche e possono rappresentarne il sintomo di presentazione. I meccanismi coinvolti sono i più diversi. Coinvolgono molecole ad attività ormonale, citochine, antigeni liberati dal tumore.

 

Malattie glomerulari e tumore

La nefropatia membranosa è la patologia glomerulare più frequentemente associata ai tumori solidi (Figura 1). In una revisione di 240 pazienti con diagnosi istologica di nefropatia membranosa, Lefaucheur et al. hanno riportato una prevalenza di tumore del 10% [1]. Solo la metà di questi pazienti presentava sintomi correlati al cancro al momento della biopsia renale, in molti altri il tumore veniva diagnosticato entro un anno. Il rischio di sviluppare un tumore da 0 a 3 anni dopo la biopsia renale per i pazienti di età compresa tra 45 e 64 anni varia dal 7,3% al 15,8% e, per quelli di età > 64 anni, dall’11,8% al 20,3% [2]. I tumori più comunemente associati a nefropatia membranosa sono polmonari e gastrici, seguiti dai renali, dal carcinoma prostatico e dal timoma [2].
Altra malattia glomerulare associata con relativa frequenza a patologia oncologica è la nefropatia a lesioni minime. Oltre ai disordini linfoproliferativi, sono state descritte associazioni col cancro del polmone, del colon-retto, col carcinoma renale e con il timoma e più raramente del pancreas, della vescica, mammella e ovaie [3].
La glomerulonefrite a prevalenti depositi di IgA è stata più frequentemente descritta in associazione a tumori renali e del tratto respiratorio [4].
Le glomerulonefriti rapidamente progressive possono essere associate a tumori renali, gastrici e polmonari [5].
Si considera comunemente che il trattamento delle glomerulopatie paraneoplastiche debba consistere essenzialmente nell’eradicazione della neoplasia. Spesso tuttavia la neoplasia non è immediatamente eradicabile oppure la presentazione clinica della glomerulopatia è così ecclatante da richiedere un trattamento specifico. E talora tempestivo. In questi casi più ancora che nel percorso di elaborazione diagnostica il peso specifico del nefrologo nel pool multidisciplinare diventa rilevante.

Figura 1. Malattie glomerulari associate a tumori solidi ed ematologici.
Figura 1. Malattie glomerulari associate a tumori solidi ed ematologici.

 

Malattia renale cronica e tumore

Spesso i pazienti oncologici presentano una malattia renale cronica al momento della diagnosi di neoplasia (Figura 2).  Questo deriva spesso dall’effetto combinato di condizioni di co-morbilità ad elevata prevalenza nella popolazione generale (come diabete mellito e ipertensione). All’opposto la malattia renale cronica di per sé può essere associata a un rischio più elevato di sviluppare alcuni tumori maligni, in particolare quelli delle vie urinarie.

Poco meno di un terzo di una coorte di oltre 4000 pazienti veniva all’osservazione dell’oncologo con un valore di filtrato glomerulare stimato (eGFR) <60 mL/min e l’8,3% aveva un eGFR di 45 mL/min [6], a suggerire che una porzione rilevante della popolazione oncologica presenta alla prima osservazione una malattia renale cronica clinicamente significativa con possibili limitazioni di efficacia o tossicità del trattamento.

Sulla base dei dati di casistiche di paesi diversi, nella popolazione di soggetti con malattia oncologica la prevalenza della malattia renale cronica, definita come eGFR <60 mL/min, varia dal 12 % al 25% [7]. L’affidabilità di questa misura di eGFR come indicatore-limite di contrazione funzionale (ed aumentato rischio di mortalità), ancorché definitivamente acquisito dalle linee guida internazionali, prescinde dalla fisiologica caduta della velocità di filtrazione glomerulare con l’invecchiamento e dovrebbe essere largamente emendato. Una valutazione imperfetta della funzione renale favorisce la somministrazione di una dose subottimale di farmaco o preclude al paziente l’accesso a opzioni terapeutiche potenzialmente più efficaci o a sperimentazioni innovative.

Figura 2. Fattori di rischio per lo sviluppo di malattia renale cronica nel paziente oncologico.
Figura 2. Fattori di rischio per lo sviluppo di malattia renale cronica nel paziente oncologico.

 

Classiche complicanze renali del trattamento oncologico

Le chemioterapie convenzionali continuano a rappresentare il cardine del trattamento oncologico. Le principali complicanze renali includono il danno tubulare acuto, la microangiopatia trombotica e le nefriti tubulo-interstiziali (Figura 3). Queste complicanze possono condizionare la sospensione della terapia, la prescrizione di dosi inadeguate di chemioterapico e l’impiego di farmaci di seconda scelta, in ultima analisi la crescita del tumore e lo sviluppo di metastasi. All’opposto il prolungamento dell’emivita del farmaco oncologico per effetto della compromissione della funzione renale può condizionare una tossicità sistemica.  

Classici quadri di nefrotossicità sono l’insufficienza renale acuta e le alterazioni elettrolitiche.  Questi si sviluppano attraverso meccanismi di danno diretto oppure sinergico ad altri agenti nefrotossici quali i mezzi di contrasto radiopaco. Nella pratica clinica molto spesso questi meccanismi coesistono e la patogenesi del danno è multifattoriale.

Il danno renale acuto è una complicanza frequente in corso di terapia oncologica. In uno studio danese condotto in 5 anni su 37.267 pazienti, un danno renale acuto di grado severo con necessità di trattamento dialitico è stato osservato nel 7,6% [8]. L’incidenza era diversa nei diversi tipi di tumore, più frequente nel tumore epatico e nel mieloma multiplo. In uno studio più recente che ha coinvolto più di 163.000 pazienti circa il 10% ha sviluppato un danno renale acuto con necessità dialitiche [9]. In questa popolazione l’incidenza annuale risultava in progressivo aumento e il determinante più rilevante era l’incremento della tossicità della terapia nel tempo. L’outcome dei pazienti oncologici che sviluppano danno renale acuto è tendenzialmente negativo soprattutto se richiesto un trattamento dialitico.

Negli ultimi vent’anni, l’armamentario terapeutico disponibile per i pazienti oncologici si è arricchito di nuovi agenti che interferiscono con specifiche proteine e con recettori coinvolti nell’oncogenesi. Si tratta delle cosiddette terapie target, che hanno determinato un significativo aumento della sopravvivenza di molte categorie di pazienti oncologici [10]. Ancorché acquisite come terapie “mirate”, molte di queste molecole non hanno una specificità e una selettività assoluta e tendono a inibire più bersagli, alcuni dei quali sono espressi a livello renale, ad includere il fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF), le tirosina chinasi (TKI) di BCR-ABL, la chinasi B del fibrosarcoma rapidamente accelerato (BRAF), il fattore di crescita epidermico (EGFR) e il bersaglio della rapamicina nei mammiferi (mTOR). Abbiamo dati ancora limitati sugli effetti avversi delle terapie target. Quelli renali non sembrano trascurabili. 

Principali categorie di questi farmaci sono gli anti-VEGF, gli anti-BRAF e gli immunocheckpoint [10].

Bevacizumab e Ranibizumab sono anticorpi monoclonali (mAbs) diretti contro tutte le isoforme di VEGFA e inibiscono l’angiogenesi.

Aflibercept è invece una proteina di fusione che integra domini di legame per VEGFR1 e VEGFR2 e una frazione costante, il frammento cristallizzabile Fc, dell’IgG1 umana. Agisce come recettore esca solubile o trappola per VEGF

Ramucirumab è un mAb IgG1 completamente umanizzato diretto contro il dominio extracellulare del VEGFR2 che inibisce specificamente.

Gli inibitori delle tirosinochinasi (TKI) come sunitinib, pazopanib, sorafenib e axitinib sono più specificamente diretti contro VEGFR2, ma interferiscono anche con l’attività di recettori tirosin-chinasici (RTK) aggiuntivi come quello del PDGF, il recettore del fattore di crescita dei fibroblasti e il recettore EGF, che hanno struttura simile. 

I meccanismi di danno renale degli anti VEGF sono abbastanza noti. VEGF è secreto dai podociti e legandosi al proprio recettore sull’endotelio del capillare glomerulare ne favorisce l’apertura di fenestrature. La produzione locale di VEGF è indispensabile per mantenere l’integrità della barriera di filtrazione glomerulare. La sua inibizione si associa alla comparsa di proteinuria nel 20-40% dei pazienti trattati con basse dosi e nel 64% dei pazienti trattati con dosi elevate [11]. 

Vemurafenib e Dabrafenib inibiscono una molecola di trasduzione: B-Raf. Anche il Dabrefenib è stato segnalato come potenziale responsabile di proteinuria. Il B-raf interagisce con la proteina PLC1 dello slit diaphragm la cui espressione si riduce in corso di trattamento con il Dabrafenib, influenzando l’espressione di Nefrina, componente strutturale essenziale dello slit diaphragm che interagisce con PLCε1 attraverso la proteina adattatore IQGAP1.  Il passaggio transepiteliale dell’albumina fluorescente attraverso i podociti aumenta dopo esposizione a Dabrafenib [12].  

Un’altra categoria di farmaci coinvolta nel possibile sviluppo di complicanze renali è quella degli inibitori degli immunocheckpoint, potenziali responsabili di patologie immunologiche multi organo.

Ad oggi mancano linee guida specifiche per la gestione della proteinuria nei pazienti che ricevono terapie anti-VEGF. Le indicazioni americane per la prescrizione di bevacizumab raccomandano un monitoraggio dell’esame urine, la sospensione temporanea del farmaco in caso di proteinuria >2 g/24 ore e la sua sospensione permanente in caso di sviluppo di una sindrome nefrosica, indipendentemente dalle condizioni causali.

Per quanto riguarda i Tyrosin-kinase inhibitors le indicazioni riguardanti la sospensione del farmaco sono ancora più complesse (uPt ≥3 g/24 ore per pazopanib, ≥2 g/24 ore per lenvatinib, non definito per axitinib). 

Non esistono linee guida per altri agenti quali sorafenib, sunitinibvandetanibcabozantinib.

E infine gli inibitori degli immunocheckpoint per i quali le linee guida della società per l’immunoterapia e della società americana degli oncologi fanno generico riferimento alla “nefrite” e alla “nefrite sintomatica”, ma le indicazioni sulla gestione clinica sono limitate e talora incoerenti. 

Figura 3. Danno renale acuto e cronico da terapie antitumorali.
Figura 3. Danno renale acuto e cronico da terapie antitumorali.

 

Come la biopsia renale può guidare la gestione del paziente oncologico con effetti avversi dovuti a target therapies o immunoterapia

Si tratta di un tema controverso col quale le linee guida attualmente in uso dovrebbero più criticamente confrontarsi. Recentemente il nostro gruppo ha riesaminato le diagnosi istologiche dei pazienti trattati con target therapies e/o immunoterapia, sottoposti a biopsia renale per peggioramento della funzione renale e/o comparsa di anomalie urinarie [13]. Sulla guida del dato istologico l’interruzione del trattamento è stata prescritta in un numero assai limitato di pazienti, essenzialmente con quadro di TMA da farmaci anti-VEGF. L’interruzione del trattamento non si è invece resa necessaria in nessuno dei pazienti trattati con immunoterapia. Nei pazienti trattati con farmaci in combinazione, i risultati istologici hanno permesso l’identificazione della lesione renale farmaco-specifica consentendo modificazioni solo parziali del protocollo terapeutico in atto.

La biopsia renale andrebbe probabilmente effettuata in tutti i pazienti oncologici che sviluppano anomalie urinarie o un inatteso declino della funzionalità renale durante il trattamento con immunoterapia o terapia mirata. Sulla guida del dato istologico la necessità di sospensione del trattamento potrebbe essere molto più contenuta e anche il raggiungimento di una risposta renale completa, che è requisito essenziale per una più prolungata sopravvivenza e non può prescindere da una terapia adeguata, potrebbe rappresentate un obiettivo più efficacemente perseguibile.

 

Tumore e trapianto

Un aspetto fondamentale dell’onconefrologia è rappresentato dalla gestione dei pazienti con trapianto di rene. Per questi pazienti il cancro costituisce una causa maggiore di mortalità. La ridotta sorveglianza immunitaria e la minor difesa verso i virus oncogeni sono i principali meccanismi attraverso i quali l’immunosoppressione costituisce un fattore di rischio determinante per lo sviluppo di cancro dopo trapianto. Il rischio di sviluppo dei tumori varia con durata e tipo di immunosoppressione, ma l’incidenza dei tumori non è cambiata negli ultimi tre decenni.  Un’ulteriore complicazione nella gestione di questi pazienti è rappresentata dall’aggiustamento della dose. I modelli di calcolo dell’eGFR secondo Cockcroft-Gault, CKD-EPI, MDRD è validato sul rene nativo, non su quello trapiantato.  Il sovra- o il sottodosaggio farmacologico sono pertanto comuni in questi pazienti. 

Chemioterapia classica o terapia a bersaglio molecolare e radioterapia sono gli approcci terapeutici più comuni anche nei pazienti con trapianto di rene. Gli inibitori del checkpoint immunitario (ICI) sono diventati lo standard di terapia per molti tumori. E inizialmente, l’ipilimumab (anti-CTLA4) era stato indicato come agente sicuro nel trapianto [14]. Negli ultimi anni tuttavia si sono accumulate evidenze di aumentato rischio di rigetto legate all’impiego di ICI soprattutto con le molecole dirette contro il PD1 e il PD-L1, essenziali per la preservazione della tolleranza all’allotrapianto [15]. In uno recente studio osservazionale multicentrico il rischio di rigetto acuto è risultato molto elevato (42%) con un tempo mediano tra avvio di trattamento e rigetto di 24 giorni [16]. Il rischio è risultato inversamente proporzionale con il numero di immunosoppressori (minore nell’immunosoppressione a tre agenti). Ad oggi non vi sono linee guida per l’utilizzo di questi farmaci nel paziente portatore di trapianto di rene.

 

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Ten Years of Onconephrology

Abstract

Onconephrology is a subspecialty of Nephrology with the aim of fully dealing with the complex and bidirectional relationship between the tumor and the kidneys.
In a world where Nephrologists still too often consider Oncological patients as “lost” and in which Oncologists are afraid to administer oncological therapies to patients with renal failure due to the absence of Literature data, Onconephrology was created with the aim of guaranteeing patients with renal disease the same treatment opportunities as the general population.
Over the years this subspecialty has developed and more nephrologists, experts in the field, daily support oncologists in clinical-therapeutic decisions by dealing with cases of renal toxicity from oncological therapy, managing treatments in patients with renal failure and dealing with all those conditions associated with both oncological and renal pathology in terms of prevention and treatment.
In this paper we will retrace the history of Onconephrology by analyzing what are the results achieved and what are the objectives for the future. 

Keywords: onconephrology, history of onconephrology, oncological therapies

Sorry, this entry is only available in Italian.

Introduzione

Negli ultimi anni il progressivo aumento della consapevolezza della necessità di una gestione multidisciplinare dei pazienti oncologici, il rapido sviluppo di nuove terapie antineoplastiche, l’aumentata sopravvivenza dei pazienti oncologici e quindi la maggior incidenza di insufficienza renale cronica hanno creato un terreno fertile per l’affermazione dell’Onconefrologia. Questa sottospecialità della Nefrologia mira ad occuparsi a 360 gradi della complessa e bidirezionale relazione tra tumore e rene: infatti, se da una parte la presenza della neoplasia o del suo trattamento può essere causa di un danno renale, dall’altra la presenza di una malattia renale può alterare la biodisponibilità e quindi l’efficacia del trattamento oncologico stesso.
Oggi come oggi la cura del paziente oncologico dovrebbe essere multidisciplinare ed integrata, deve cioè tener conto non solo della gestione della malattia tumorale ma anche di tutte quelle condizioni che possono associarsi ad essa, sia in termini di prevenzione che di cura in situazioni specifiche.
Si sente sempre maggiormente la necessità di porre più attenzione clinica alle criticità che possono accompagnare la malattia oncologica. Tali criticità, una volta identificate, possono necessitare sia di interventi urgenti per supportare/ristabilire funzioni vitali, sia di interventi con intento prevalentemente di supporto per migliorare la qualità di vita e di cura, durante tutto l’iter della malattia oncologica, anche quando trattamenti oncologici attivi hanno sostanzialmente esaurito le proprie potenzialità. Garantire un trattamento appropriato in tutte le situazioni critiche del paziente oncologico è l’obiettivo che ci si deve porre utilizzando ogni competenza specialistica necessaria.
Nella gestione della malattia oncologica, quindi, le energie di ciascun specialista coinvolto dovrebbero essere rivolte a garantire la miglior terapia oncologica possibile con particolare attenzione al trattamento delle tossicità.
L’introduzione nel nostro armamentario terapeutico di tutta una nuova serie di farmaci antitumorali, quali gli anticorpi monoclonali diretti contro svariate proteine coinvolte nella patogenesi tumorale, gli inibitori dell’angiogenesi, gli inibitori di mTOR, l’immunoterapia, gli inibitori di HIF, i coniugati anticorpo-farmaco (ADC), ha finito per aumentare l’esposizione dei pazienti a sostanze potenzialmente nefrotossiche; molti farmaci antitumorali, infatti, possono esercitare un effetto nefrotossico diretto, reversibile o meno, sul rene, possono far precipitare una nefropatia pre-esistente, o causarne l’insorgenza ex-novo.
Questo complesso scenario è poi reso ancora più complicato da una scarsa comprensione dei meccanismi di danno renale indotto da questi farmaci, alcuni dei quali possiedono una nefrotossicità diretta per le loro caratteristiche chimiche, mentre altri possono diventare nefrotossici in condizioni particolari (ad esempio, per iperaccumulo o per la contemporanea presenza di fattori di rischio), senza contare il fatto che alcune di queste molecole possono causare effetti collaterali che, a loro volta, rappresentano fattori di rischio per lo sviluppo di insufficienza renale (su tutti, ipertensione, diabete, ipercolesterolemia, etc.).
Si rende inoltre sempre più pressante la necessità di gestire tali farmaci nei pazienti nefropatici evitando inutili sospensioni o riduzioni di trattamento, cercando anche di rendere eleggibili questi pazienti ai protocolli di ricerca e a farmaci sperimentali.

 

Storia dell’Onconefrologia

La vera data di nascita dell’Onconefrologia può essere identificata nel 1975, anno in cui Matas AJ et al. hanno pubblicato il primo lavoro in questo campo sul Lancet, nel quale veniva messo in luce l’aumento di incidenza di patologie neoplastiche nella popolazione con insufficienza renale cronica [1]. Il termine Onconefrologia è invece più recente, se lo si cerca su Google non si trovano item precedenti al 2010, una ricerca nel 2011 ne evidenziava circa 871.
Dal 2010 ad oggi la stessa ricerca evidenzia 54.400.000 item, a prova del crescente interesse scientifico nei confronti di questa nuova disciplina.
Per quanto fosse noto che l’insufficienza renale sia estremamente comune nella popolazione generale, l’unica valutazione sistematica della sua prevalenza tra i pazienti oncologici è stata fatta nel 2007 con la pubblicazione dello studio IRMA (“Renal Insufficiency and Anticancer Medications”), che ha dimostrato un’elevata prevalenza di insufficienza renale tra 4684 pazienti affetti da neoplasie solide provenienti da 15 centri oncologici francesi [2]. Dei pazienti valutati nello studio (età media 58,1 ± 13,1) quasi il 60% aveva una eGFR inferiore a 90 mL/min/1.73m2 a configurare un’insufficienza renale di grado 2.
Il problema appariva ancora più rilevante nei pazienti oncologici anziani, dove la prevalenza di insufficienza renale era compresa tra il 47,8% dello studio americano NHANES (che considerava pazienti al di sopra dei 70 anni di età) ed il 65,2% dello studio IRMA, nel quale il cut-off di età era stato stabilito a 65 anni.
E ancora, tra i pazienti sottoposti a chemioterapia il 16% svilupperà una IRC, con una riduzione media annuale del eGFR di 24,5 ml/min/1.73m2, entro due anni dall’inizio della chemioterapia.
Inoltre, da uno studio retrospettivo presentato al Congresso annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) del 2012 è emerso che il rischio che un paziente con insufficienza renale possa sviluppare una neoplasia renale è direttamente proporzionale ai valori di eGFR (eGFR tra 45-90, l’Hazard Ratio (HR) è pari a 1,35, tra 30-44 HR è di 1,67 e per <30 l’HZ è di 2,09).
Stante quanto sopra, nella pratica clinica è sempre più frequente trovarsi ad affrontare casi di tossicità renale da terapia oncologica, gestire i trattamenti in pazienti con insufficienza renale, il tutto spesso in assenza di dati della Letteratura ed esperienza personale a sostegno delle decisioni terapeutiche che si rendono necessarie in questi pazienti. Alcuni farmaci di recente sviluppo, inoltre, possono determinare una falsa insufficienza renale (pseudo-insufficienza renale) portando inevitabilmente ad una riduzione o sospensione di terapia del tutto inutile.
Inoltre, troppo spesso, i Nefrologi tendono a considerare un paziente oncologico, soprattutto se avanzato, come un paziente ‘perso’, sottovalutando il miglioramento dell’aspettativa di vita di questi pazienti indotto dai progressi terapeutici degli ultimi decenni.
D’altro canto, da parte loro, gli Oncologi sono spesso impreparati alla gestione di un paziente con insufficienza renale (o in dialisi), con il conseguente rischio di interrompere (o rinunciare del tutto a) trattamenti potenzialmente utili per i pazienti, trovandosi di fronte a tossicità che sarebbero invece gestibili con le adeguate conoscenze.
Nel 2011 è stato istituito presso l’American Society of Nephrology (ASN) un Gruppo di Studio di Onco-Nefrologia e, nel 2013, in Francia è stata fondata la Società Scientifica C-KIN (Cancer and Kidney network), un gruppo storico che riuniva farmacologi, nefrologi e oncologi.
In Italia, fu grazie al pensiero illuminato del Prof. G. Capasso e del Prof. S. Cascinu, rispettivamente Presidente SIN (Società Italiana di Nefrologia) e Presidente AIOM (Associazione Italiano Oncologia Medica), che nel 2013 fu istituita sotto l’egida delle due Società Scientifiche la prima Commissione Interdisciplinare AIOM-SIN.
Il lavoro della Commissione ha posto le basi per una duratura e solida collaborazione tra le due specialità. La commissione, tuttora attiva e rinnovata, ha lo scopo di creare protocolli comuni, condividere Linee Guida sulle tematiche di gestione integrata e multidisciplinare del paziente con neoplasia e patologia renale, con l’obiettivo di sviluppare la ricerca scientifica in ambito Onco-Nefrologico. L’Onconefrologia è cresciuta in modo esponenziale negli ultimi anni grazie al grande entusiasmo, alla professionalità indiscutibile e alla visione di molti colleghi tra cui:
• D. Roccatello e Prof.ssa R. Fenoglio (Torino)
• A. Pani, Dr. M. Floris (Cagliari)
• M. Gallieni, Dr.ssa Laura Cosmai (Milano)
• L. Gesualdo, Prof. C Porta (Bari)
• G. Grandaliano (Roma)
Da questa collaborazione, che comprende anche altre Società Scientifiche internazionali, sono stati prodotti numerosi lavori pubblicati su riviste internazionali e abstract presentati a congressi nazionali e internazionali [3-7]. Dal 2014 la nostra Società Scientifica è parte integrata dello Steering Committee dedicato alla stesura delle Linee Guida AIOM sulla gestione del paziente con neoplasia renale [8], e dal 2022 è coinvolta nelle Linee Guida sulla gestione delle tossicità da immunoterapia.
Anche la Società Europea di Nefrologia (ERA-EDTA) e la Società Europea di Oncologia (ESMO) hanno posto l’accento sulla necessità di sviluppare questa nuova disciplina, creando Gruppi di Studio, organizzando congressi condivisi e identificando aree di ricerca comuni a livello europeo.
A queste attività, iniziate nel 2011, ha sempre partecipato l’équipe proponente questo nuovo progetto di collaborazione.
Dal 2022 è stata fondata l’American Society of Onconephrology e numerose Società Scientifiche in Europa e nel resto del mondo hanno creato e stanno creando collaborazioni nel campo dell’Onconefrologia.

 

Il primo Ambulatorio di Onconefrologia

Il primo ambulatorio di Onconefrologia in Italia è stato inaugurato presso la UOC di Nefrologia di Cremona diretta dal Dr. F. Malberti, a maggio 2011, sotto la responsabilità della Dr.ssa L. Cosmai, per rispondere alle necessità dei pazienti oncologici con malattia renale, dalla presa di coscienza che la mancanza di conoscenze in questo ambito spesso portava a una gestione non ottimale del paziente. Se da una parte in campo oncologico negli anni diventava sempre più evidente la necessità di una gestione multidisciplinare del paziente oncologico e venivano istituiti team dedicati alle varie patologie neoplastiche, il paziente nefropatico restava escluso da questo tipo di gestione anche a causa della mancanza di conoscenze e di produzione scientifica in questo ambito, dell’esclusione dei pazienti con insufficienza renale dai trial clinici dei farmaci e di conseguenza della mancanza di linee guida chiare che aiutassero gli oncologi nella gestione dei pazienti. La “mission” di questo ambulatorio è partita quindi dall’improrogabile necessità di una gestione multidisciplinare condivisa finalizzata a garantire trattamenti migliori, ridurre la morbilità degli stessi, risparmiare risorse attraverso la riduzione dell’uso improprio di farmaci e di ricoveri per complicanze iatrogene, creare protocolli di ricerca clinica, creare protocolli di prevenzione del danno renale.

La denominazione dell’ambulatorio (Onco-Nefrologico) sottolineò sin dalla sua nascita il focus sulla necessità di una visione “non nefrocentrica” di questa popolazione di pazienti, basata sulla consapevolezza del peso prognostico sia del tumore che della nefropatia, patologie ben note per un eccesso di mortalità rispetto alla popolazione generale.

Durante il primo anno di attività la complessità clinica e gestionale dei pazienti onconefrologici portò ben presto ad un cambio di locazione: l’ambulatorio venne ubicato presso il DH oncologico, integrandosi sia logisticamente che culturalmente nell’attività oncologica, grazie alla facilitazione del confronto interdisciplinare e alla formazione reciproca fra oncologi e nefrologi.

La costituzione delle équipe multidisciplinari, fra cui quella dedicata al distretto genito-urinario nel 2017, comprendente oncologi, urologi, nefrologi, radiologi, radioterapisti e anatomo-patologi, diede ulteriore visibilità intraziendale all’ambulatorio e favorì da un lato l’allargamento delle indicazioni alla visita onconefrologica (ad esempio valutazione pre-nefrectomia in pazienti con filtrato renale ridotto o fattori di rischio per progressione di IRA da perdita di massa nefronica), dall’altro ridusse alcuni quesiti come la profilassi per il mezzo di contrasto organo-iodato, grazie alla discussione e alla condivisione delle linee guida radiologiche europee e dei criteri per individuare i pazienti realmente a rischio di nefropatia associata a mezzo di contrasto.

L’ambulatorio Onconefrologico, a cadenza settimanale, si arricchì ben presto di slot per le urgenze e, data la rapida ascesa della richiesta e la continua necessità di aggiornamento scientifico, si evidenziò la necessità di formare altri nefrologi in questa branca multidisciplinare. Dal 2012, l’ambulatorio è stato gestito da due nefrologi, che sono divenuti tre nel 2022 (Dr.ssa M. Foramitti, Dr.ssa F. Boni, Dr. G. Marchi).

Questo Ambulatorio fu definito “modello Cremona” dal Prof. M. Gallieni che ha sempre sostenuto e promosso l’Onconefrologia a livello nazionale internazionale.

 

Quali erano gli obiettivi

L’obiettivo dell’Onconefrologia è quello di garantire il miglior trattamento oncologico possibile, prevenire lo sviluppo di AKI o di un peggioramento di una CKD pre-esistente, prevenire gli eventi avversi di pertinenza nefrologica, gestire le terapie non oncologiche nei pazienti con insufficienza renale cronica o in dialisi. Nei pazienti trapiantati di rene la relazione tra tumore e rene riguarda la gestione delle terapie oncologiche, della terapia immunosoppressiva e quando e se un paziente oncologico può essere candidato a trapianto di rene o, dall’altra parte donatore di rene.

Il primo ambulatorio di Onconefrologia italiano è nato quindi con l’obiettivo di creare un centro di riferimento per l’Onconefrologia, migliorare gli outcome dei pazienti oncologici affetti da concomitanti patologie renali, migliorare la qualità di vita dei pazienti oncologici e la loro assistenza. Per far questo si rende necessaria una presa in carico sistematica del paziente oncologico con concomitante patologia renale o a rischio di svilupparla, del paziente monorene chirurgico per neoplasia e la creazione di percorsi diagnostico-terapeutici dedicati (Figura 1).

Figura 1. Percorsi diagnostico-terapeutici dedicati al paziente Onconefrologico.
Figura 1. Percorsi diagnostico-terapeutici dedicati al paziente Onconefrologico.

Dall’esperienza derivata dai primi anni di ambulatorio di Onconefrologia nel 2015 abbiamo pubblicato un “decalogo” con lo scopo di sottolineare le aree di collaborazioni tra oncologi e nefrologi per la miglior gestione del paziente (Tabella 1).

1. Insufficienza renale acuta e cronica nei pazienti oncologici
2. Effetti nefrotossici della terapia oncologica, sia della chemioterapia tradizionale che dei nuovi farmaci a bersaglio molecolare
3. Manifestazioni renali paraneoplastiche
4. Gestione dei pazienti nefrectomizzati per carcinoma renale
5. Gestione della terapia dialitica e trattamento oncologico attivo
6. Trapianto renale in pazienti sopravvissuti a un tumore e rischio oncologico in pazienti con ESRD
7. Trattamento oncologico in pazienti trapiantati di rene
8. Gestione del dolore in pazienti oncologici con malattia renale
9. Sviluppo di line guida integrate per i pazienti onco-nefrologici
10. Trial clinici sviluppati in modo specifico per pazienti onco-nefrologici
Tabella 1. Il Decalogo.
ESRD, End Stage Renal Disease.

Maturando esperienza negli anni, ci siamo resi conto di quanti e quanto numerosi siano gli ambiti in cui la stretta collaborazione tra oncologia e nefrologia può portare ad una migliore gestione dei pazienti (Tabella 2), ma non solo, sono anche aree di ricerca in cui investire per meglio conoscere i meccanismi di danno renale e l’associazione tra neoplasia e malattia renale.

1. Anemia ed ESA nei pazienti oncologici con CKD
2. Mezzo di contrasto nei pazienti oncologici
3. Disordini elettrolitici e disturbi dell’equilibrio acido-base nei pazienti oncologici
4. Nefrite interstiziale secondaria a terapia con ICI e il suo uso nei pazienti trapiantati
5. Consulto nutrizionale nei pazienti con cancro e CKD
6. Patologie ematologiche e insufficienza renale
7. TMA relata a cancro e/o terapia oncologica
8. Tumor Lysis Syndrome
9. Fosforo e nuovi FGFRs inibitori
10. Tumori urologici, non solo RCC
11. Osso, rene e cancro
12. Come misurare la funzione renale nel paziente oncologico
13. Danno renale radiazioni-relato
14. Nefrotossicità secondaria a CART-cell
15. Uso di tecniche di aferesi nei pazienti oncologici
16. Pseudo-AKI
17. Gestione della proteinuria (VEGF/-VEGFRs inibitori)
18. Terapie Combo: ICIs/TKI, CT/ICIs, ICIs/ICIs
19. Ruolo della biopsia renale nei pazienti oncologici
20. Nefrotossicità da ADC
21. Nefrotossicità da nuove immunoterapie
22. Nuovi approcci terapeutici
Tabella 2. Oltre il Decalogo.
ADC, Antibody Drug Conjugate; CKD, Chronic Kidney Disease; CT, Chemo-therapy; ESA, Erythropoiesis Stimulating Agents; FGFR, Fibroblast Growth Factor Receptor; ICI, Immune Checkpoint Inhibitors; TMA, Thrombotic Microangiopathy; RCC, Renal Cell Carcinoma; TKI, Tyrosine Kinases Inhibitors.

 

Conclusioni

L’Onconefrologia è una sottospecialità in continua crescita, un modello di collaborazione per la migliore gestione del paziente affetto da neoplasia e malattia renale cronica, oltre che un vasto ambito di ricerca. La sua crescita ha portato allo sviluppo di ambulatori, consulti multidisciplinari, congressi dedicati, Linee Guida condivise, produzioni scientifiche in stretta collaborazione e creato una lingua comune tra nefrologia e oncologia (Figura 2).

Cosa significa realmente occuparsi di Onconefrologia:
●      Significa fare in modo che i nostri pazienti siano curati e non “ghettizzati”

●      Significa gestire le tossicità di nostra competenza in modo da continuare la terapia oncologica

●      Significa dare risposte

●      Significa uscire dal ruolo esclusivamente nefrologico e pensare al paziente che hai davanti, alla sua prognosi con/senza terapia, alle opzioni terapeutiche

●      Significa prendersi responsabilità quando non ci sono evidenze e linee guida

●      Significa continuare a studiare perché l’oncologia corre

●      Significa parlare una lingua comune che non sia quella esclusivamente nefrologica

●      Significa acquistare fiducia dagli oncologi e viceversa

Figura 2. Cosa significa realmente occuparsi di Onconefrologia.

 

Bibliografia

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