High-flow fistula: a problem not easy to handle

Abstract

High-output cardiac failure is a well-known phenomenon of high-flow fistula in hemodialysis patients. The definition of “high flow” is varied and almost always connected to proximal arteriovenous fistulas (AVF).
High flow access is a condition in which hemodynamics is affected by a greater rate of blood flow required for hemodialysis and this can compromise circulatory dynamics, particularly in the elderly in the context of pre-existing heart disease.
High access flow is associated with complications like high output heart failure, pulmonary hypertension, massively dilated fistula, central vein stenosis, dialysis associated steal syndrome or distal hypoperfusion ischemic syndrome.
Although there is no single agreement about the values of AVF flow volume, nor about the definition of high‐flow AVF, there is no doubt that AVF flow should be considered too high if signs of cardiac failure develop.
The exact threshold for defining high flow access has not been validated or universally accepted by the guidelines, although a vascular access flow rate of 1 to 1.5 l/min has been suggested.
Moreover, even lower values may be indicative of relatively excessive blood flow, depending on the patient’s condition.
The pathophysiology contributing to this disease process is the shunting of blood from the high-resistance arterial system into the lower resistance venous system, increasing the venous return up to cardiac failure.
Accurate and well-timed diagnosis of high flow arteriovenous hemodynamics by monitoring of blood flow of fistula and cardiac function is required in order to stop this process prior to cardiac failure.
We present two cases of patients with high flow arteriovenous fistula with a review of the literature.

Keywords: Blood flow, cardiac failure, vascular access, hemodialysis

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Introduzione

Una insufficienza cardiaca ad alta gittata può essere la conseguenza di svariate condizioni patologiche quali anemia, sepsi, ipertiroidismo, beri beri. Un’altra causa nota, in alcuni pazienti emodializzati, può essere la presenza di una fistola arterovenosa (FAV) in relazione al notevole aumento del flusso dell’accesso vascolare con conseguente eccessivo carico di lavoro cardiaco, insufficienza cardiaca congestizia ed ipertensione polmonare [13].

Come è ben noto, la sindrome uremica è associata ad un aumento della morbilità e mortalità cardiovascolare; il rischio di morte in un paziente emodializzato con insufficienza cardiaca è del 33%, 46% e 57% rispettivamente a 12, 24 e 36 mesi dopo l’inizio della terapia dialitica secondo i dati del Renal Data System statunitense [4]. Un’insufficienza cardiaca congestizia può manifestarsi nel 25-50% dei pazienti emodializzati, in particolare nei pazienti con “fistola artero-venosa ad alto flusso”.

La definizione di “FAV ad alto flusso” è, però, varia e, quasi sempre, collegata a FAV prossimali, nelle quali l’emodinamica è influenzata da un flusso sanguigno che supera di gran lunga quello richiesto per l’emodialisi, compromettendo tutta la dinamica circolatoria, in particolare nei soggetti anziani [5]. Sebbene una velocità di flusso eccessivamente alta sia associata a conseguenze avverse, la capacità di tollerare un flusso elevato è variabile.

Infatti, nei soggetti giovani può essere tollerato un flusso della fistola a riposo fino a 4 l/min senza alcun effetto negativo sull’emodinamica; anche se va considerato che, durante l’esercizio fisico, la gittata cardiaca può raddoppiare o triplicare e quindi il flusso può raggiungere anche 12 l/min con conseguente sovraccarico cardiaco ed ipertensione polmonare [1, 6].

Il termine di “FAV ad alto flusso” non è utilizzato in modo uniforme per i pazienti con i segni di insufficienza cardiaca (edemi periferici, ascite e ipotensione) o per quelli con un flusso ematico della FAV (Qa) >1500-2000 ml/min o quando il rapporto Qa e gittata cardiaca (GC = CO) è > 30% [7].

La Vascular Access Society definisce come FAV ad alta portata un accesso vascolare con valori di 1000-1500 ml/min ed affianca a tale definizione un ulteriore dato, il “ricircolo cardiopolmonare” (RCP), ossia il rapporto tra il flusso della FAV e la portata cardiaca al fine di valutarne l’impatto emodinamico. Quando tale indice è > 20% si può verificare una condizione di rischio di scompenso ad alto output. La prevalenza di questa condizione non è però ben stabilita, poiché molti casi non vengono segnalati e rimangono misconosciuti [1].

Le linee guida KDOQI [8] sottolineano l’importanza di uno stretto monitoraggio (attento esame fisico e determinazione di RCP) ogni 6-12 mesi (o, più frequentemente, in caso di necessità) per gestire precocemente la FAV con alto flusso, evitando complicazioni gravi o irreversibili, quali insufficienza cardiaca ad alta gittata, ipertensione polmonare, stenosi delle vene centrali, ipertensione venosa, degenerazione aneurismatica della FAV e ischemia della mano. Sebbene la soglia per definire l’accesso ad alto flusso non sia stata rigorosamente convalidata né universalmente accettata, è stata indicato dalle linee guida KDOQI un Qa compreso tra 1 e 1,5 l/min o un Qa > 20% della gittata cardiaca. Le linee guida riservano, inoltre, il termine di “insufficienza cardiaca” solo ai pazienti sintomatici e considerano “precursori dello scompenso cardiaco” alcune alterazioni ecocardiografiche quali la disfunzione diastolica, la dilatazione delle cavità cardiache e lo sviluppo di rigurgito valvolare. Inoltre le linee guida non sono d’accordo riguardo all’indicazione chirurgica della riduzione del flusso nei pazienti asintomatici [911].

Va sottolineato, tuttavia, che c’è un elemento di individualità intrinseco alla definizione di flusso elevato della FAV. Infatti, sintomi legati all’ insufficienza cardiaca congestizia si possono sviluppare a valori di Qa anche inferiori; in particolare nei pazienti con cardiopatia sottostante o comorbilità correlate; pertanto secondo le linee guida potrebbe essere di aiuto l’esecuzione di un ecocardiogramma bidimensionale ogni 6-12 mesi.

Le linee guida spagnole suggeriscono nei casi di Qa > 2000 ml/min e/o nei pazienti con ricircolo cardiopolmonare > 30% la riduzione del flusso della FAV (mediante banding o procedure di rivascolarizzazione come la revisione dell’afflusso distale o RUDI) al fine di ridurre il rischio di insufficienza cardiaca ad alta gittata [12].

Le linee guida della Società Europea di Chirurgia Vascolare raccomandano per i pazienti emodializzati con un Qa > di 1500 ml/min un regolare monitoraggio mediante misurazioni del flusso, ecocardiografia e valutazione dei segni clinici di insufficienza cardiaca [13].

È un aspetto di cruciale importanza dell’assistenza al paziente emodializzato fare una diagnosi accurata e precoce della FAV ad alto flusso ed, inoltre, selezionare le procedure più idonee per trattare questa condizione patologica e le sue complicanze; infatti l’insufficienza cardiaca, come evidenziato in letteratura, è potenzialmente reversibile con la riduzione della portata e/o con la chiusura della FAV, sia spontanea per trombosi, che chirurgica dopo trapianto di rene [14, 15].

Nel presente lavoro descriviamo la storia di due pazienti portatori di FAV ad alta portata con revisione della letteratura.

 

Caso clinico 1

Uomo di 45 anni sottoposto a trapianto di rene da donatore cadavere. Dopo rigetto cronico, all’età di 55 anni riprendeva il trattamento emodialitico, utilizzando come accesso vascolare una FAV radio-cefalica sx prossimalizzata, mantenuta pervia, contro il parere dei sanitari, durante tutta la durata (10 anni) di funzionalità del graft.

Alla presa in carico presso il nostro centro, il paziente si presentava asintomatico e con valori di pressione arteriosa nella norma, l’esame obiettivo metteva in evidenza una FAV molto sviluppata con un enorme aneurisma. L’indagine con ecocolordoppler mostrava una dilatazione aneurismatica post-anastomotica a pareti indenni da lesioni; il calcolo della portata risultava di 10 l/min (eseguito in modo automatico dall’ecografo attraverso l’impostazione di 2 parametri: diametro dell’arteria omerale in B-Mode e velocità media calcolata sempre sullo stesso vaso a circa 2 cm dalla piega del gomito secondo le indicazioni delle linee guida) (Fig. 1).

FAV con portata di 10 l/min. 
Figura 1: FAV con portata di 10 l/min.  I parametri necessari per il calcolo della portata della FAV sono: diametro del vaso (arteria omerale) e velocità media del sangue.  Flusso (ml/min) = Area × Velocità media × 60, dove per area si intende l’area di sezione del vaso (cm²) e la velocità media è quella dei globuli rossi (cm/sec) ricavata dal tracciato Doppler nella sede in cui viene misurata l’area del vaso.

L’ecocardiogramma evidenziava ipertrofia concentrica del ventricolo sinistro, dilatazione biatriale, FE pari al 50% e assenza di ipertensione polmonare. Il paziente, dopo un breve periodo in cui è stato sottoposto a stretto monitoraggio, ha finalmente dato il suo consenso al trattamento chirurgico di riduzione dell’aneurisma e della portata della FAV, come concordato dal nefrologo e dal chirurgo vascolare.

Dopo anestesia plessica con carbocaina, è stata eseguita una flebografia dell’arto, tramite venopuntura della vena cefalica arterializzata, per valutare l’eventuale presenza di una stenosi dei vasi venosi centrali, non evidenziabile all’indagine ecocolordoppler. L’esame risultava negativo per stenosi. Pertanto, si procedeva con incisione longitudinale al terzo prossimale-medio dell’avambraccio, veniva isolata l’anastomosi ed il primo tratto del versante venoso dove era presente l’aneurisma (Fig. 2).

Aneurisma in FAV ad alta portata
Figura 2: Aneurisma in FAV ad alta portata. Dopo incisura al terzo prossimale-medio dell’avambraccio è ben visibile l’aneurisma a livello del primo tratto del versante venoso.

Dopo clampaggio dei vasi, è stata eseguita una venotomia longitudinale di circa 8 cm fino all’anastomosi (Fig. 3).

FAV prossimale ad alta portata.
Figura 3: FAV prossimale ad alta portata. Apertura della sacca aneurismatica.

La parete in eccesso della sacca aneurismatica veniva rimossa (Fig. 4), si procedeva a chiusura della parete con sutura continua e riduzione dell’anastomosi stessa (Fig. 5).

FAV prossimale ad alta portata.
Figura 4: FAV prossimale ad alta portata. Resezione con riduzione dell’aneurisma.
Termine intervento dopo aneurismectomia e riduzione del diametro dell’anastomosi.
Figura 5: Termine intervento dopo aneurismectomia e riduzione del diametro dell’anastomosi. Portata FAV attuale circa 2,0 l/min.

Al termine, la portata della FAV, intraoperatoria, si attestava a circa 2,0 l/min. A distanza di circa 8 mesi, il follow-up ecografico confermava la stabilità della portata della FAV (Fig. 6).

Portata FAV post-intervento: 1900 ml/min.
Figura 6: Portata FAV post-intervento: 1900 ml/min. Ecocolordoppler: curva spettrale a bassa resistenza con elevata componente diastolica.

 

Caso clinico 2

Uomo di 60 anni. In anamnesi ipertensione arteriosa, ipotiroidismo, nefrectomia renale sinistra per carcinoma a cellule renali nel 2005. Nel maggio 2017 si evidenziava comparsa di malattia nel rene destro per cui veniva sottoposto ad intervento di nefrectomia. Iniziava trattamento emodialitico con catetere venoso centrale e, successivamente, a giugno 2018, veniva allestito un accesso vascolare prossimale tra l’arteria omerale e la vena cefalica del braccio. La FAV, dopo adeguata maturazione, è stata punta regolarmente e sono stati eseguiti controlli periodici con ecocolordoppler in relazione ad alta portata (circa 4 l/min, con una bocca anastomotica di 5 mm). Nell’aprile 2019, per il riscontro all’ecocolordoppler di una stenosi al terzo medio della vena cefalica arterializzata, eseguiva una angioplastica (PTA).

Ad inizio 2020 il follow-up con ecocolordoppler mostrava un netto incremento della portata (8 l/min) ed un progressivo incremento delle dimensioni di una dilatazione aneurismatica post-anastomosi (Fig. 7).

Immagine B-mode: si apprezza l’anastomosi e l’aneurisma post anastomosi, il diametro dell’arteria omerale è di 9,2 mm.
Figura 7: Immagine B-mode: si apprezza l’anastomosi e l’aneurisma post anastomosi, il diametro dell’arteria omerale è di 9,2 mm.

Si proponeva al paziente la riduzione dell’anastomosi. L’intervento veniva, però, posticipato per oltre un anno per il sopraggiungere dell’emergenza Covid. In seguito ad un controllo ecocardiografico veniva effettuato un ricovero in Cardiologia e sottoposto ad angioplastica (PTCA) + stent medicati (DES) su IVA per riscontro di necrosi settale e severa disfunzione di pompa, in nota insufficienza mitralica e dilatazione biatriale, insufficienza tricuspidale con ipertensione polmonare (PAPS stimata > 65 mmHg).

La situazione clinica del paziente si complicava per una grave emorragia addominale causata dalla ripresa della malattia oncologica con metastasi addominali. Il paziente presentava episodi di flutter/fibrillazione atriale trattati con betabloccante e digitale endovena ed era ipoteso (PA 110/60 mmHg). A settembre 2021 ricovero per l’intervento di riduzione della FAV. Eseguito un esame fisico ed ecocolordoppler prima dell’intervento che metteva in evidenza la presenza di un collaterale a partenza dalla vena cefalica arterializzata di buon calibro (>3 mm) (Fig. 8), si decideva di utilizzare tale collaterale in sede di intervento.

Figura 8: Mega fistola con portata preintervento di 8 l/min.
Figura 8: Mega fistola con portata preintervento di 8 l/min.

In anestesia plessica con carbocaina, veniva eseguita incisione longitudinale in corrispondenza dell’aneurisma che veniva isolato. Si identificava il vaso collaterale da usare per nuovo allestimento di FAV, lo si mobilizzava e si chiudevano dei piccoli rami collaterali. Si lavava con fisiologia eparinata. L’aneurisma era chiuso, a livello prossimale e distale, e resecato. Veniva riconfezionato un nuovo accesso vascolare poco più prossimalmente rispetto al precedente (Fig. 9). L’intervento permetteva una riduzione della portata a meno di 2 l/min. Dopo la riduzione della portata, si assisteva ad un miglioramento del quadro clinico con buon compenso emodinamico, risalita dei valori pressori e riduzione della frequenza cardiaca. A distanza di pochi mesi però, si assisteva al decesso del paziente a causa di una sepsi a partenza da un’ulcera dell’arto inferiore destro.

Figura 9: Rappresentazione schematica di fistola pre- e post-intervento.
Figura 9: Rappresentazione schematica di fistola pre- e post-intervento.

 

Discussione

I casi clinici riportati riassumono le caratteristiche e le complicanze cliniche relative ad una FAV ad alta portata; tale condizione si associa, spesso, a dilatazioni aneurismatiche della vena arterializzata.

Sebbene non ci sia un rapporto causa-effetto chiaramente definito, alta portata e dilatazioni aneurismatiche sono meritevoli di particolare attenzione al fine di evitare quadri clinici più complessi come l’insufficienza cardiaca ad alta gittata con l’aumento del volume telediastolico ventricolare sinistro, l’ipertensione polmonare, le stenosi delle vene centrali e la sindrome ischemica da ipoperfusione distale, ulcerazioni cutanee e rottura. La dilatazione aneurismatica si verifica a causa di una complessa interazione tra fattori biologici che inducono il rimodellamento della parete e fattori fisici come la tensione della parete, in aggiunta all’indebolimento della parete da ripetute venopunture (lesioni tissutali e successiva guarigione) e all’aumento della pressione dell’accesso a causa di una stenosi relativa o assoluta [16]. Le manifestazioni cliniche associate ad un accesso ad alto flusso possono variare da un reperto accidentale asintomatico ad una situazione grave e pericolosa per la vita. Il sospetto di una alta portata della FAV va considerato in ogni paziente con caratteristiche cliniche riassunte nella Tabella 1.

Ipertrofia ventricolare sinistra eccentrica Rimodellamento del muscolo cardiaco con dilatazione delle quattro camere proporzionale al Qa
Insufficienza cardiaca ad alta gittata

Indice cardiaco superiore alla norma o gittata cardiaca elevata.

Sintomi: dispnea a riposo o con vari gradi di sforzo, ortopnea, dispnea parossistica notturna, edema polmonare e/o periferico

Ischemia miocardica Squilibrio avverso tra l’apporto di ossigeno subendocardico e l’aumento della richiesta di ossigeno dovuta all’aumento della gittata cardiaca
Ipertensione polmonare

Aumento della gittata cardiaca dopo creazione di FAV associato ad aumento della pressione arteriosa polmonare che è correlata al Qa.

Sintomi: dispnea progressiva, astenia, sincope e insufficienza cardiaca dx

Ischemia distale

indotta dall’accesso dell’emodialisi

Diminuzione della pressione di perfusione distalmente all’anastomosi FAV

Ischemia sino alla gangrena

Qa spesso elevato, in alcuni casi normale o basso

Diminuzione della clearance della dialisi Elevato ricircolo cardiopolmonare con ridotta efficienza dialitica
Stenosi venosa periferica e centrale

La stenosi del deflusso venoso è il risultato dell’iperplasia neointimale dovuta alla risposta dell’endotelio vasale all’alterazione del flusso sanguigno. Ciò avviene in siti specifici (biforcazione dei vasi, valvole venose, zone curve fortemente angolate all’interno del vaso) la cui anatomia favorisce un flusso sanguigno turbolento con conseguente squilibrio nello shear stress di parete.

Qa eccessivamente alto favorisce lo sviluppo di stenosi centrali

Allargamento aneurismatico dell’accesso (megafistola) Progressivo aumento dei vasi rendendo la FAV diffusamente tortuosa ed ectasica
Tabella 1: Manifestazioni cliniche legate ad una FAV ad alta portata.

La sintomatologia dell’insufficienza cardiaca ad alta gittata dovuta ad una FAV ad alto flusso è varia e caratterizzata da difficoltà respiratoria, palpitazioni, edema agli arti inferiori, inappetenza, ortopnea, dispnea anche per piccoli sforzi e/o dispnea parossistica notturna. La FAV ad alto flusso è una causa frequente di ipertensione polmonare quando la pressione arteriosa polmonare media supera i 25 mmHg a riposo o durante l’esercizio; in genere è asintomatica nei pazienti emodializzati, ma possono essere presenti sintomi come respiro corto, vertigini, svenimento, segni di insufficienza cardiaca destra ed edemi agli arti inferiori. Tale situazione può regredire con la riduzione del flusso e conseguente notevole abbassamento della pressione dell’arteria polmonare; incerto è, invece, un miglioramento della prognosi di vita di questi pazienti.

Nella pratica clinica quotidiana, spesso, non si riesce a trovare una correlazione univoca tra la sintomatologia e l’alto flusso di una FAV e non sono chiare le cause alla base dell’evoluzione di un sovraccarico di volume verso una insufficienza cardiaca conclamata. Le motivazioni sono svariate e legate sia alla tipologia del paziente (sovraccarico di volume, alterato metabolismo calcio-fosforo con calcificazioni arteriose, ipertensione arteriosa ed un aumento del cardiac output secondario all’anemia cronica, oltre alla coesistente presenza di malattie organiche come diabete, aritmie, cardiopatia ischemica o valvulopatie [17]), sia al fatto che la portata ematica di una FAV è legata soprattutto alla sede dell’anastomosi, più alta quanto più prossimale, alle dimensioni della breccia anastomotica (per esempio in una FAV prossimale > 4-6 mm), all’angolazione e al calibro del primo tratto venoso.

Diversi studi hanno dimostrato che, subito dopo la creazione di una FAV, si verifica una istantanea diminuzione delle resistenze vascolari periferiche e, per i successivi sette giorni, un progressivo compensatorio aumento, pari al 10-20% della gittata cardiaca e del 12,7% [18, 19] della massa ventricolare sinistra [20]. Lo sviluppo di una FAV è, quindi, un complesso rimodellamento vascolare venoso, arterioso e della circolazione sistemica con modificazioni dello shear stress di parete, dilatazione delle arterie e delle vene con cambiamenti strutturali della parete vasale [21]. Seppur raramente, sono descritti in letteratura casi di insufficienza cardiaca ad alta gittata “iperacuta” con quadri drammatici, già in sala operatoria, subito dopo l’allestimento di una FAV, tanto da rendere necessaria la legatura dell’accesso per ripristinare la stabilità emodinamica [22].

Basile e colleghi, in uno studio prospettico di riferimento, nel 2008, analizzando nelle FAV distali e prossimali la correlazione tra portata della FAV e cardiac output, hanno dimostrato un elevato valore predittivo dell’alta portata della FAV nel determinare una insufficienza cardiaca ad alta gittata soprattutto nelle FAV prossimali e/o nelle FAV con flussi maggiori o uguali a 2000 ml/min.

In particolare, i casi di scompenso ad alta portata sono osservati per il 70% tra i pazienti portatori di FAV prossimale e la soglia di rischio indicata riguarda un flusso maggiore di 2,2 l/min [23].

Molti autori hanno studiato gli effetti emodinamici di una FAV e l’impatto sugli indici ecocardiografici della funzione cardiaca (aumento dei volumi diastolici, gittata sistolica, ricircolo cardiopolmonare) già poco dopo la creazione della FAV ed, in particolare, nelle FAV prossimali rispetto a quelle distali [2426].

Quarello e colleghi, analizzando alcuni case report presenti in letteratura, suggeriscono che i pazienti in emodialisi dovrebbero essere valutati per scompenso cardiocircolatorio ad alta portata utilizzando il dato del RCP. Se RCP è > 30% l’ecocardiogramma di controllo deve essere eseguito con cadenza semestrale. Nei pazienti con RCP > 40%, in presenza di sintomatologia, si impone la chiusura della FAV al fine di ottenere il massimo recupero cardiaco. Miglioramenti della funzione cardiaca riducendo la portata sono stati segnalati da vari autori con riduzione dell’ipertrofia sia eccentrica che concentrica oltre che della gittata cardiaca e dell’ipertensione polmonare [27].

Se, da un lato, in letteratura, non vi è accordo sulla definizione di FAV ad alta portata, arbitrariamente possiamo considerare basso un flusso < a 600 ml/min, normale da 600 a 1500 ml/min, alto > 1500 ml/min.

Il test di Nicoladoni-Branham può aiutarci a capire se una fistola ad alto flusso è un fattore di stress per il cuore con un sovraccarico di volume cardiaco. È un test semplice, che si può utilizzare nella pratica clinica quotidiana e può essere effettuato al letto del paziente. Si esegue una pressione a livello dell’anastomosi arteriosa per 30-60 secondi al fine di occludere il flusso sanguigno alla fistola. La risposta a questa manovra è la diminuzione della frequenza cardiaca e l’aumento della pressione sanguigna, dovuto alla normalizzazione del flusso sanguigno circolante occludendo la fistola [28].

La diagnosi di una FAV ad alto flusso è, comunque, complicata [5]. Nella quotidianità un attento esame fisico può aiutare a confermare un sospetto di un elevato flusso, avvalorato dalla determinazione della portata della FAV sull’arteria brachiale con l’ecocolordoppler (Tabella 2); occorre poi eseguire una valutazione ecocardiografica e determinare la gittata cardiaca. L’insufficienza cardiaca può essere diagnosticata con un’ecografia transtoracica, ma, talora, può richiedere un cateterismo cardiaco destro per la diagnosi definitiva [29].

SEDE Qa elevato nelle FAV prossimali rispetto alle distali
DIMENSIONE

Grandi dimensioni, soprattutto se presente un’ostruzione a valle,

FAV diffusamente tortuosa ed ectasica

PALPAZIONE

Rilevazione del fremito (thrill) in corrispondenza dell’anastomosi.

Il thrill è continuo: indicatore di flusso.

Più forte (prominente) nell’accesso AV ad alto flusso rispetto ad un accesso con flusso normale o basso

AUSCULTAZIONE

Soffio vascolare continuo: indicatore di flusso.

La pulsazione o un soffio intermittente, invece, sono indicatori di elevata resistenza o iniziale occlusione.

Normalmente, man mano che si avanza lungo la vena, l’importanza del thrill e del soffio di sottofondo diminuisce leggermente; ciò non succede con un accesso con Qa ad alto flusso.

ECOCOLORDOPPLER

La diagnosi di un Qa elevato dipende dalla sua misurazione, che deve essere effettuata a livello dell’arteria brachiale almeno 5 cm prossimalmente all’anastomosi indipendentemente dal fatto che si tratti di una fistola AV radiale o dell’arteria brachiale.

Per l’elevata portata e l’alternarsi di tratti successivi di calibro diverso, è frequente riscontrare nella vena efferente, soprattutto nel suo tratto più vicino all’anastomosi, zone a flusso vorticoso, che conferiscono alternata codifica di colore (aliasing) nel lume vasale con un caratteristico andamento spiroidale

Tabella 2: FAV Alta Portata: caratteristiche Ecocolordoppler e correlati clinici.

In alcuni casi la FAV ad alto flusso, in presenza di stenosi dell’arco cefalico o della vena di deflusso (Fig. 10) e di dilatazioni aneurismatiche della vena arterializzata (Fig. 11), può evolvere verso la megafistola. Alcuni autori hanno stabilito i criteri per la definizione di megafistola: 1) Portata della FAV > 2,2 l/min, 2) Vena arterializzata ipertrofica, 3) Ricircolo cardiopolmonare > 20%, 4) Insufficienza cardiaca con gittata cardiaca > 4-8 l/min, 5) Indice cardiaco (rapporto tra gittata cardiaca e superficie corporea) > 3. Un’altra definizione proposta è la presenza di svariati segmenti della FAV molto dilatati (più del doppio del diametro della vena normale adiacente), portata maggiore di 2000 ml/min e pressioni intra-accesso elevate [11, 30, 31].

Stenosi sulla vena di deflusso.
Figura 10: Stenosi sulla vena di deflusso. Ben visibile il fenomeno dell’aliasing. All’analisi spettrale elevate velocità sisto-diastoliche.
Sezione trasversa e longitudinale in B-mode e color di tratti aneurismatici di FAV.
Figura 11: Sezione trasversa e longitudinale in B-mode e color di tratti aneurismatici di FAV.

Gardezi e colleghi, in un recente lavoro, valutando 10 pazienti con megafistola sottolineano quanto sia importante riconoscere e trattare le stenosi dell’outflow oltre alla sorveglianza continua dell’accesso, soprattutto nei pazienti che non sono in dialisi, come i portatori di trapianto, al fine di non avere quadri complicati con alta portata fino alla megafistola. Una volta che si sviluppa una megafistola, non ci sono molte opzioni di trattamento oltre alla legatura con conseguente perdita di un accesso che potrebbe ancora essere necessario in futuro [32].

In uno studio prospettico osservazionale, Stoumpos e colleghi hanno studiato, con l’utilizzo della risonanza magnetica nucleare (RMN), sia gli effetti della creazione della FAV che la funzione cardiaca nei pazienti con malattia renale cronica avanzata. In particolare, hanno messo in relazione le misurazioni ecografiche del Qa a 6 settimane con gli effetti dell’allestimento della FAV sulla massa ventricolare sinistra al basale e dopo un tempo medio di 6,3 settimane.

Gli autori hanno osservato un aumento sostanziale della massa ventricolare sinistra e della gittata cardiaca (p = 0,02) dopo 6,3 settimane, proporzionale alla portata misurata sull’arteria brachiale (p = 0,04). L’incremento della massa ventricolare sinistra era pari al 10,2% quando il Qa era superiore a 600 ml/min. Secondo gli autori tale aumento non era dovuto al peggioramento dell’uremia, al sovraccarico di volume plasmatico o alle variazioni dell’ematocrito poiché tali parametri non erano cambiati significativamente nell’intervallo di tempo osservato (mediana 8,3 settimane). Inoltre, gli autori hanno confermato che le fistole del braccio hanno flussi sanguigni più elevati rispetto alle fistole dell’avambraccio e, di conseguenza, hanno dimostrato che l’incidenza di insufficienza cardiaca è molto più alta nei pazienti con FAV prossimali rispetto alle distali. Questo è il primo studio che dimostra tali cambiamenti precoci nella massa del ventricolo sinistro e collega il flusso iniziale della FAV al cambiamento della massa del ventricolo sinistro [33].

Altri autori hanno valutato il Qa (mediante una tecnica di diluizione a due aghi) e la sopravvivenza in una popolazione in emodialisi per un periodo di 9 anni, considerando la mortalità cardiovascolare secondo la classificazione della European Renal Association-European Dialysis and Transplant Association.

Gli autori hanno studiato sia il Qa iniziale (definito come il primo valore di Qa ottenuto in una FAV ben funzionante) sia il ruolo del Qa effettivo (definito come il volume di flusso di accesso ottenuto di routine una volta ogni 1-2 mesi per la sorveglianza della FAV) e i cambiamenti periodici nel Qa effettivo. I risultati mostravano, in periodi di 3 mesi, un’associazione tra l’aumento del Qa effettivo e la mortalità (p = 0,010) indicando che solo i pazienti con un Qa crescente avevano maggiore probabilità di morire, sebbene il Qa effettivo non era correlato alla sopravvivenza. Inoltre, gli autori, pur riconoscendo i limiti dello studio (limitato numero di pazienti, dati ematochimici ed ecocardiogramma seriali non disponibili per tutti i pazienti), concludevano che la conoscenza di queste nuove caratteristiche del Qa può contribuire a comprendere l’elevata mortalità cardiovascolare nei pazienti emodializzati, e, pertanto, potranno essere di aiuto studi futuri combinati e seriali di cardiofisiologia e di imaging con il monitoraggio di marcatori biochimici [34].

Inoltre, piccoli studi osservazionali suggeriscono che la massa del ventricolo sinistro potrebbe migliorare dopo la legatura della FAV dopo trapianto di rene [3537].

Più recentemente, utilizzando la risonanza magnetica, è stato eseguito in Australia uno studio randomizzato in 63 pazienti adulti con trapianto di rene. La legatura della FAV in pazienti trapiantati stabili migliora il rimodellamento ventricolare sinistro con riduzione significativa dopo 6 mesi della massa ventricolare sinistra, dei volumi telediastolici, dei volumi atriali, della gittata cardiaca (da 6,8 l/min al basale a 4,8 l/min a 6 mesi p < 0,05) e del pro-BNP [38].

Inoltre, lo scompenso cardiaco si manifesta, anche, in presenza di un flusso non elevato della FAV per una riduzione della riserva cardiaca poiché un valore di Qa nel range di normalità (600-1200 ml/min) può essere eccessivo a causa di una bassa riserva coronarica (ridotta contrattilità miocardica con bassa gittata cardiaca), in quanto il cuore non riesce a soddisfare l’aumento della gittata cardiaca dovuta alla creazione della FAV [39, 40].

Recentemente, Malik e colleghi focalizzano l’attenzione sull’emodinamica cardiovascolare nei pazienti emodializzati portatori di FAV e suggeriscono alcuni elementi per la scelta dell’accesso vascolare più idoneo per ogni paziente considerando che la funzione cardiaca con o senza scompenso cardiaco dovrebbe essere uno dei criteri principali per selezionare il tipo di accesso appropriato utilizzando, in base alla gravità dei sintomi, la classificazione della New York Heart Association (4 classi) e dell’American Heart Association (stadio da A a D). Gli autori concludono proponendo l’utilizzo di modelli predittivi validati per stimare la portata che avrà la fistola dopo il suo allestimento ed i suoi effetti cardiaci [41].

Sono ben documentati i criteri terapeutici per la riduzione del flusso della FAV nelle condizioni quali malattie cardiopolmonari (insufficienza cardiaca, ipertensione polmonare, ischemia distale indotta dall’accesso all’emodialisi) associate a un Qa eccessivamente elevato. Al di là di queste condizioni, i criteri per il trattamento non sono ben definiti. Nei casi di stenosi venosa il Qa può essere normale, basso o elevato. Se il Qa è alto, dovrebbe essere eseguita una riduzione del flusso piuttosto che un’angioplastica, poichè ci si può aspettare che il Qa aumenti (ad eccezione di una stenosi venosa centrale) [42]. Questo aumento di flusso dopo angioplastica può peggiorare (come nel nostro caso clinico n°2) o slatentizzare problematiche quali l’insufficienza cardiaca, l’edema polmonare o l’ischemia della mano [43].

A tutt’oggi non esiste un valore target generalmente accettato per la riduzione del flusso; sono fondamentali il giudizio clinico e la considerazione della gravità della condizione individuale del paziente. L’obiettivo ideale del trattamento di una FAV ad alta portata è alleviare gli effetti avversi riducendo il Qa senza rischiare la perdita della pervietà dell’accesso vascolare.

Sono disponibili vari approcci per la riduzione del flusso quali la legatura degli affluenti venosi, il banding (chirurgico o endovascolare) e le procedure di rivascolarizzazione come la revisione dell’afflusso distale o RUDI [44].

 

Conclusioni

Il monitoraggio e la sorveglianza degli Accessi Vascolari sono essenziali al fine di migliorare la gestione e la cura del paziente in emodialisi e, per questo, si fa sempre più strada una stretta collaborazione tra nefrologo e altre professionalità con l’uso di protocolli e procedure basati su evidenze scientifiche uniformando gli interventi e i comportamenti. Dobbiamo definire e quindi ottimizzare il flusso sanguigno della FAV per prevenire le complicazioni a lungo termine, considerando che l’accesso vascolare può influenzare la funzione cardiaca e, in alcuni pazienti, potrebbe peggiorare lo stato clinico. Il trattamento deve essere individualizzato in base alla presentazione clinica, alla sintomatologia ed alle comorbilità del paziente.

Varie tecniche chirurgiche ed endovascolari sono state utilizzate per trattare l’alta portata. Il trattamento chirurgico, come nel nostro caso, consente di preservare la FAV autologa.

 

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Vascular ultrasonography in the preparation and surveillance of arteriovenous fistula: a monocentric experience

Abstract

Creating an arteriovenous fistula (AVF) is complicated by the gradual increase in the average age of patients initiating chronic haemodialysis treatment and by the greater prevalence of pathologies that impact the cardiovascular system.

In the past, the choice of which vessels to use for the creation of the AVF was essentially based on the physical examination of the upper limbs. Current international guidelines suggest that a colour doppler ultrasound (DUS) should be performed to complete the physical examination. Similarly, vascular ultrasound is fundamental in the post-operative phase for appropriately monitoring the access.

We have conducted a retrospective analysis on the use of DUS in clinical practice in our centre, in order to determine the repercussions on vascular access survival. To this end, we identified three phases, according to the methods that were used for pre-operative vascular evaluation and monitoring of the AVF, that saw the progressive integration of clinical and ultrasound parameters.

The analysis of the data highlighted a statistically significant higher rate of survival for all vascular accesses, evaluated as a whole, and for distal AVFs, in the third phase, despite a greater percentage of patients over 75 (48% vs 28%).

In conclusion, we believe that an approach integrating clinical and ultrasound evaluation is indispensable to identify the most suitable AVF site and guarantee its efficiency over time.

 

Keywords: haemodialysis, arteriovenous fistula, colour doppler ultrasound, monitoring, vascular access

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Introduzione

Un trattamento emodialitico adeguato necessita di un accesso vascolare ben funzionante nel tempo.

I pazienti affetti da insufficienza renale cronica (CKD) al IV° stadio (eGFR <30 ml/min), devono pertanto essere accuratamente studiati al fine di poter avviare il trattamento sostitutivo con un accesso vascolare idoneo [1].

I dati della letteratura e le linee guida internazionali in merito indicano la fistola artero-venosa (FAV), allestita con vasi nativi, quale accesso di prima scelta per un minore rischio d’infezione e trombosi, una migliore sopravvivenza, minori costi correlati alla necessità di ospedalizzazione se paragonati alla FAV protesica o al catetere venoso centrale tunnellizato (CVCt) [2].

Nei pazienti affetti da CKD il corretto utilizzo del patrimonio vascolare degli arti superiori costituisce un momento fondamentale ai fini del futuro confezionamento di una FAV. L’attuale incremento dell’età media dei pazienti a inizio trattamento emodialitico cronico e la maggiore prevalenza negli stessi di patologie ad elevato impatto sul sistema cardio-vascolare (diabete mellito, angiosclerosi, arteriopatia obliterante polidistrettuale), determinano maggiori difficoltà nell’allestire una FAV che garantisca buona efficienza dialitica e sufficiente durata nel tempo [3].

Tra le FAV native, il gold standard è rappresentato dalla FAV radio-cefalica distale con anastomosi a livello del polso: essa è associata ad un minor rischio sindrome di steal [4] e, al contrario di una FAV prossimale (omero-cefalica; omero-basilica), raramente sviluppa una elevata portata, causa non trascurabile di scompenso cardiaco nei pazienti uremici.

Basile et al. in uno studio prospettico hanno analizzato il rapporto tra Qa FAV ed output cardiaco e concludevano che una portata uguale o maggiore a 2000 ml/min rappresenta il giusto cut-off nel predire il rischio di scompenso cardiaco cronico ad alta gittata [5].

La FAV distale non è sempre proponibile e può andare incontro a scarsa maturazione e a conseguente fallimento, tuttavia la sua realizzazione, ove possibile, permette un più corretto utilizzo del patrimonio vascolare del singolo paziente e la possibilità per il medesimo di poter usufruire dell’eventuale confezionamento nel tempo di ulteriori accessi che richiedano l’utilizzo di vasi posti in sede più prossimale.

Altra tipologia di accesso vascolare che può essere considerato prima del confezionamento di una FAV prossimale è quella mid-arm, con l’utilizzo del tratto prossimale dell’arteria radiale. Essa è caratterizzata da una portata inferiore rispetto alla prima, ed in genere è ben tollerata anche nei pazienti anziani, diabetici o con vasculopatia periferica [6].

La scelta dei vasi da utilizzare per il confezionamento dell’accesso vascolare per dialisi è avvenuta in passato essenzialmente attraverso l’esame obiettivo degli arti superiori: un attento esame fisico ed anamnestico permette di raccogliere alcune importanti informazioni sul circolo venoso superficiale e sul circolo arterioso:

  • palpabilità delle vene superficiali, valutazione del loro calibro e decorso
  • palpabilità dei polsi arteriosi
  • presenza di cicatrici chirurgiche o aree di distrofia cutanea
  • presenza di pace-maker (PM)
  • pregressi traumi/fratture o interventi chirurgici a carico degli arti superiori o precedenti accessi vascolari
  • storia di pregressi posizionamenti di CVC
  • segni di pregressa reiterata venipuntura, segni di tromboflebite in atto o pregressa
  • presenza di comorbidità rilevanti (scompenso cardiaco, grave valvulopatia, cardiopatia ischemica, patologie della coagulazione).

Le linee guida internazionali attualmente suggeriscono l’esecuzione di un ecocolordoppler (ECD), a completamento dell’esame fisico, in tutti i pazienti candidati al confezionamento di una FAV. Esso consente, in fase preoperatoria, la scelta dei vasi più idonei all’intervento e, in fase post-operatoria, rappresenta un momento fondamentale per un’adeguata sorveglianza dell’accesso e la diagnosi precoce di eventuali cause di malfunzionamento suscettibili di correzione [7].

L’ECD fornisce, infatti, numerose e dettagliate informazioni sul circolo venoso superficiale e profondo e sul circolo arterioso dell’intero arto superiore, consente altresì valutazioni emodinamiche e morfologiche permettendo di identificare eventuali varianti anatomiche.

Lo studio vascolare pre-intervento effettuato di routine ha permesso di incrementare negli anni la percentuale di FAV confezionate con vasi nativi a scapito della FAV protesiche, nonché di migliorare la sopravvivenza nel tempo, attraverso una più adeguata sorveglianza e la identificazione precoce delle complicanze [89].

Il mapping artero-venoso pre intervento fa riferimento ai parametri di seguito riportati:

  1. Parametri arteriosi (Fig.1):
  • diametro dell’arteria radiale: un diametro minimo di 2 mm è stato correlato ad una elevata percentuale di pervietà primaria ad un anno (83%) [10]
  • spessore e qualità intima-media: l’incremento dello stesso correla con un peggior outcome della FAV [11]
  • flusso/compliance vascolare nel test dell’iperemia reattiva: un valore dell’indice di resistenza (IR) >0,7 in fase di iperemia reattiva è correlato ad un fallimento precoce dell’accesso vascolare [12]
  • presenza di calcificazioni vascolari
  • presenza di lesioni steno-ostruttive
Figura 1: Parametri arteriosi
Figura 1: Parametri arteriosi
  1. Parametri venosi (Fig.2):
  • pervietà del vaso e struttura di parete: lume anecogeno, comprimibilità del vaso, parete sottile
  • diametro e distensibilità della vena cefalica: 2 mm senza elastocompressione, 2,5 mm con elastocompressione [13]
  • profondità: <6 mm rispetto al piano cutaneo, al fine di consentire un’agevole venipuntura
  • decorso: deve essere sufficientemente rettilineo
  • presenza di circoli collaterali a meno di 5 cm dall’anastomosi [14].
Figura 2: Parametri venosi
Figura 2: Parametri venosi

Una FAV si definisce matura quando il diametro venoso permette la venipuntura con aghi di grosso calibro e la portata raggiunge i 600 ml/min, il diametro del vaso 6 mm, con un decorso del vaso a non più di 6 mm di profondità rispetto al piano cutaneo.

Appare auspicabile che i pazienti in emodialisi siano sottoposti ad una regolare sorveglianza dell’accesso vascolare, finalizzata alla diagnosi precoce delle cause di malfunzionamento dell’accesso. In particolare, l’identificazione di stenosi emodinamicamente significative (riduzione maggiore del 50% del lume vasale) e la valutazione del trend della portata dell’accesso, incrementano in modo significativo il tasso di pervietà riducendo di conseguenza l’incidenza di trombosi della FAV [15].

In merito alla sorveglianza degli accessi vascolari, i metodi di screening per la ricerca di stenosi significative sono stati suddivisi in quelli di I e II generazione [16]:

  1. Metodi di I generazione:
  • il monitoraggio fisico
  • vigilanza della pressione FAV (valutazione di pressione venosa dinamica, intra accesso e statica)
  • test del ricircolo
  • riduzione dell’efficienza dialitica (riduzione kt/v ed URR).
  1. Metodi di II generazione, permettono di calcolare la portata dell’accesso:
  • screening diluzionale
  • ECD.

La misurazione della portata a livello dell’arteria brachiale al di sopra del gomito tramite ECD rappresenta il miglior modo per sorvegliare una FAV; una portata <500 ml/min o una sua riduzione progressiva nel tempo sono altamente predittive di stenosi [1].

La trombosi, di fatto, rappresenta quasi sempre una causa di fallimento tardivo, con innumerevoli conseguenze cliniche negative, che determinano un incremento della frequenza di ospedalizzazione e della spesa sanitaria, nonché della morbidità e mortalità dei pazienti in emodialisi cronica [17].

 

Materiali e metodi

Nel nostro Centro abbiamo condotto un’analisi retrospettiva finalizzata ad analizzare se ed in quali termini l’utilizzo dell’ECD nella pratica clinica in ambito nefrologico abbia avuto delle ripercussioni sulla sopravvivenza degli accessi vascolari.

Sono stati a tal proposito individuati tre periodi storici (Tab. I), in relazione alla modalità di esecuzione nel Centro di:

  • valutazione vascolare pre-intervento
  • sorveglianza della FAV.
Pre-intervento Sorveglianza
2000-2004:
  • esame fisico
  • eventuale flebografia
  • monitoraggio clinico
  • test del ricircolo, scadimento efficienza dialitica
  • ECD (se presente indicazione clinica, ma non in ambito nefrologico)
2005-2009:
  • esame fisico
  • avvio mapping vascolare in ambito nefrologico
  • monitoraggio clinico
  • test del ricircolo, scadimento efficienza dialitica
  • inizio uso ECD per ricerca stenosi e misurazione portata:
    • ogni 90 giorni per le FAV protesiche
    • su indicazione clinica per le FAV native
    • ad un mese da procedure interventistiche e successivamente ogni 6 mesi
2010-2015:
  • esame fisico
  • mapping vascolare di routine in ambito nefrologico
  •  monitoraggio clinico
  • test del ricircolo, scadimento efficienza dialitica
  • ECD per ricerca stenosi e misurazione portata:
    • ogni 90 giorni per le FAV protesiche
    • su indicazione clinica per le FAV native
    • ad un mese da procedure interventistiche e successivamente ogni 6 mesi
Tabella I: Tre fasi storiche in relazione alla modalità di esecuzione di valutazione vascolare pre-intervento e di sorveglianza della FAV

Sono stati altresì definiti i parametri cui fare riferimento tanto per la fase di studio pre-operatoria, quanto per quella di sorveglianza (Tab. II).

Riferimenti nella fase di pre-intervento: Riferimenti nella fase di sorveglianza:
Esame fisico:

Presenza e consistenza dei polsi arteriosi (brachiale, radiale, ulnare)

Valutazione del reticolo venoso superficiale con elastocompressione: palpabilità, e decorso dei vasi

Monitoraggio clinico:

Presenza e trasmissione del thrill, prolungato sanguinamento a fine dialisi, difficoltà al posizionamento degli aghi

Flebografia:

Valutazione pervietà e calibro dei vasi venosi scarsamente palpabili

Parametri dialitici:

Test ricircolo urea >10%, scadimento trend della efficienza dialitica (riduzione dello 0.2 Kt/v)

Mapping Vascolare:

–        Arteria: calibro della a. radiale uguale o maggiore di 2 mm, profilo velocimetrico trifasico, test iperemia reattiva IR uguale e inferiore a 0.7

–        Vena: pervietà del vaso ed integrità di parete, calibro maggiore o uguale a 2.5 mm con elastocompressione (avambraccio), calibro uguale o maggiore di 4 mm per protesi

Parametri ultrasonografici:

Portata inferiore a 500 ml/min, trend con riduzione maggiore del 25%

Riscontro di aree di stenosi superiori al 50% (PSV > 400 cm/s o PSV ratio >2)

Tabella II: Parametri di riferimento

Tecnica chirurgica

Le FAV con vasi nativi sono state tutte confezionate in anestesia locale (ropivacaina 7.5%) con anastomosi latero-terminale per le FAV distali e prossimali, e latero-laterale o latero-terminale per le FAV mid-arm, con lunghezza del tratto anastomotico 5-7 mm.

Le FAV protesiche tutte in politetrafluoroetilene (PTFE), coniche 4-7 mm (gore-tex STRETCH), sono state confezionate in anestesia plessica (levobupivacaina 2%, ropivacaina 5%) con conformazione a loop fra arteria omerale e vena basilica, o conformazione retta fra arteria omerale e vena omerale o ascellare.

Dopo il primo anno di collaborazione con il chirurgo, tutti gli accessi sono stati eseguiti da equipe nefrologica.

Tecnica ultrasonografica

Al fine di decidere l’arto da utilizzare ed il tipo di accesso da confezionare, il nefrologo ha eseguito ECD usando sonda lineare L4-15 mHz eseguendo scansioni longitudinali e trasversali dei vasi esaminati con utilizzo del doppler pulsato per le valutazioni velocimetriche, facendo riferimento ai parametri specificati nella Tab. II.

Il numero dei pazienti prevalenti, compresi i pazienti incidenti, nei tre periodi considerati è stato di 130 ±6 pazienti, con una percentuale di CVCt che è gradualmente aumentata: 13% nel primo periodo, 18% nel a secondo periodo 22% nel a terzo periodo.

Al fine di prevenire il fallimento precoce dell’accesso, tutti i pazienti sottoposti ad intervento di confezionamento di FAV hanno avviato terapia antiaggregante (acido acetilsalicilico 100 mg) salvo quelli che eseguivano terapia con anticoagulante orali per altre motivazioni cliniche [18].

Metodo statistico

Per l’analisi statistica sono state utilizzate le curve di sopravvivenza secondo Kaplan-Meier al fine di valutare le differenze nei tre periodi osservati. Il livello di significatività definito come p <0.05.

 

Risultati

La sopravvivenza cumulativa degli accessi vascolari nei tre periodi osservati è apparsa migliore nel terzo periodo di osservazione in modo statisticamente significativo (P <0.05) rispetto ai precedenti (Fig. 3).

Figura 3: FAV totali
Figura 3: FAV totali

È stata successivamente condotta una analisi statistica specifica mirata alla valutazione della sopravvivenza di ciascuna tipologia di accesso realizzato nei tre periodi. L’analisi dei dati ha evidenziato per la FAV distale una migliore sopravvivenza, statisticamente significativa (p< 0.05), nella 3° coorte rispetto alle prime due (Fig. 4).

Figura 4: FAV distale
Figura 4: FAV distale

Per la FAV mid-arm, confezionata in due dei tre periodi osservati, si è evidenziata una migliore sopravvivenza nel terzo rispetto al secondo periodo, ma senza significatività statistica (Fig. 5).

Figura 5: FAV mid-arm
Figura 5: FAV mid-arm

Per la FAV prossimale si è osservato un trend di miglior sopravvivenza nella 3° coorte rispetto alle prime due, ma anche in questo caso senza significatività statistica (Fig.6).

Figura 6: FAV prossimale
Figura 6: FAV prossimale

Per la FAV protesica sono state osservate minime differenze nei tre periodi osservati prive di rilevanza statisticamente significativa (Fig.7).

Figura 7: FAV protesica
Figura 7: FAV protesica

È stata inoltre effettuata una analisi per valutare le caratteristiche anagrafiche della popolazione inclusa nei tre periodi osservati. A dispetto della migliore sopravvivenza degli accessi nella terza coorte dei pazienti, essa ha evidenziato un progressivo incremento percentuale delle FAV confezionate nei soggetti over 75 dal primo periodo (28,3%) al terzo periodo (47,9%) (Fig. 8).

Figura 8: Numero di pazienti e numero di accessi in pazienti over 75
Figura 8: Numero di pazienti e numero di accessi in pazienti over 75

A completare l’analisi dei dati, è stata effettuata una valutazione sull’incidenza dei fallimenti precoci, considerata a 30 giorni dal confezionamento dell’accesso, che ha evidenziato un tasso di incidenza con trend in riduzione, dal 12,8% del primo periodo al 5,5% e 6,7% rispettivamente del secondo e terzo periodo.

 

Discussione

Pur con i limiti dello studio retrospettivo, l’analisi dei risultati evidenzia un miglioramento degli outcomes clinici in termini di pervietà globale dopo l’introduzione in ambito nefrologico della tecnica ultrasonografica in fase di progettazione e sorveglianza dell’accesso vascolare, e la sua integrazione con il monitoraggio clinico, dato peraltro ampiamente confermato in letteratura [19-20].

Nei tre periodi considerati la percentuale di pazienti diabetici (25-30%) ed obesi (8-10%) era sovrapponibile, pertanto i risultati non appaiono influenzati in modo significativo da tali variabili.

È al contrario evidente che il supporto ultrasonografico risulta fondamentale al fine incrementare il numero di FAV confezionate nel paziente anziano, essendo il dato percentuale delle FAV realizzate nel paziente over 75 incrementato dal 28% del primo periodo, al 48% del terzo periodo. Aspetto quest’ultimo non trascurabile se si considera che l’utilizzo del CVCt quale accesso definitivo per emodialisi è correlato ad un maggiore morbilità e mortalità del paziente uremico [17].

Di fatto, la sola età anagrafica non può costituire un limite al confezionamento di una FAV nel paziente anziano da avviare alla terapia dialitica [21].

L’analisi eseguita in relazione alla singola tipologia di FAV ha posto in evidenza un risultato chiaramente significativo in termini di sopravvivenza a favore delle fistole confezionate con vasi nativi. Nella fattispecie, il dato è apparso statisticamente significativo per le fistole radio-cefaliche, ma ha mostrato un trend in miglioramento anche per le fistole mid-arm e prossimali.

È altrettanto vero che nei tre periodi considerati, si è registrata una riduzione percentuale delle FAV radio-cefaliche rispetto al totale delle FAV realizzate, dal 57% della prima coorte, al 44% della seconda fino al 37% della terza. Tale aspetto è tuttavia essenzialmente da riferire alla realizzazione nel secondo e nel terzo periodo delle FAV mid-arm, tipologia di accesso in precedenza non confezionato, che ha determinato una riduzione percentuale anche della FAV prossimali. Il dato è sostanzialmente da riferire al metodico studio preoperatorio ed alla scelta del sito reputato più idoneo per il confezionamento dell’accesso che, in una popolazione con elevata percentuale di anziani, ha favorito l’utilizzo di vasi in sede più prossimale rispetto al polso ma ha anche permesso di utilizzare in modo adeguato ed efficace il tratto intermedio del braccio, prima di optare per il confezionamento di una FAV prossimale [22].

Non vi è stata alcuna variazione significativa, nei tre periodi considerati, della sopravvivenza delle FAV di tipo protesico, la cui percentuale nei tre intervalli ha registrato leggero progressivo incremento come numero assoluto. Tuttavia per tale tipologia di accesso è possibile evidenziare un miglioramento della sopravvivenza nella seconda e terza coorte rispetto alla prima a 12 e 24 mesi, ma peggiore a 36 mesi.

Il dato non appare di semplice interpretazione, pur con i limiti dovuti alla modesta numerosità del campione esaminato, un adeguato mapping vascolare preoperatorio è sembrato importante al fine di ridurre il tasso di insuccessi precoci, come per altro dimostrato in letteratura [16]. La sopravvivenza peggiorativa a distanza sembra invece ridimensionare il valore del controllo strumentale della FAV protesica, nei confronti della quale, nel nostro pool di pazienti, è stato effettuato un metodico controllo ECD con cadenza trimestrale, avvalorando in modo indiretto il concetto del ruolo di primo piano del monitoraggio clinico nell’ambito della sorveglianza dell’accesso vascolare per emodialisi [23].

Il numero di procedure interventistiche è progressivamente aumentato: dalle 31 eseguite nel primo periodo alle 36 nel secondo periodo fino a raggiungere le 52 nel terzo periodo. L’incremento di tali procedure, che tuttavia è apparsa contenuta in termini assoluti, conduce a nostro parere a due riflessioni: da una parte l’innegabile ruolo dell’ECD nell’identificazione precoce di lesioni stenotiche correggibili per via endovascolare, dall’altra, la necessità di ottimizzare il programma di sorveglianza strumentale, senza tuttavia eccedere nell’indicazione allo studio angiografico.

Appare evidente che un’azione integrata, clinica ed ultrasonografica, sia indispensabile al fine di perseguire due fondamentali obiettivi: identificare il sito più idoneo per il confezionamento di un accesso vascolare e garantire una corretta sorveglianza finalizzata al mantenimento di una buona funzionalità della fistola nel tempo [924].

Alla luce di tali considerazioni e dell’esperienza da noi condotta, crediamo che un approccio multidisciplinare alla complessa problematica dell’accesso vascolare per emodialisi sia di fondamentale importanza: in tal senso in ambito nefrologico appare indispensabile la realizzazione di un settore specifico finalizzato alla valutazione ultrasonografica preoperatoria del paziente da indirizzare ad un programma di emodialisi, nonché alla sorveglianza dei pazienti medesimi nel tempo [25].

Il nefrologo dovrebbe costituire il riferimento clinico del team multidisciplinare, che vede coinvolti anche chirurghi vascolari, angioradiologi ed infermieri di dialisi ed in tal senso interagire con le figure menzionate e con esse decidere in merito alla creazione dell’accesso vascolare, alla gestione del medesimo ed alla risoluzione di eventuali problemi connessi al suo utilizzo.

Tale team multidisciplinare dovrebbe avere il compito fondamentate di definire il life-plan individuale del paziente con uremia terminale, nello specifico definire la sede e il timing di confezionamento dell’accesso vascolare nonché garantire l’adeguata sorveglianza nel tempo. Ogni scelta andrebbe effettuata in maniera prospettica tenendo presente che il paziente uremico nell’arco della sua storia dialitica potrebbe avere la necessità di confezionare più accessi [26].

Risulta a nostro parere importante acquisire e mantenere in ambito nefrologico le risorse umane e le competenze adeguate per poter garantire con continuità la realizzazione della FAV in tempi corretti e nel sito più idoneo, realizzando di fatto un primo livello clinico assistenziale sul tema specifico. Appare altresì fondamentale che tale attività sia coordinata con un secondo livello clinico assistenziale che vede attive le altre figure professionali coinvolte.

Chirurghi vascolari ed angioradiologi appaiono indispensabili per la risoluzione delle complicanze connesse all’utilizzo degli accessi vascolari nonché per la realizzazione di accessi complessi, ma estremamente importante è mantenere una costante attività di sorveglianza e collaborazione con infermieri della sala di dialisi che spesso costituisce la prima sede in cui è possibile verificare l’adeguato funzionamento dell’accesso vascolare o la eventuale presenza degli iniziali segni di malfunzionamento.

 

Conclusioni

In conclusione, crediamo di poter affermare che programmi formativi volti a consolidare le competenze di carattere ultrasonografico vascolare in ambito nefrologico possano essere rilevanti al fine di migliorare gli outcomes clinici della fistola artero-venosa per emodialisi.

Riteniamo anche che l’ausilio dell’ECD non possa in nessuna fase di cura sostituire l’importanza dell’esame fisico e della sorveglianza clinica che rimangono fondamentali per garantire una migliore sopravvivenza e qualità di vita dei pazienti uremici.

È auspicabile altresì che ogni unità operativa di Nefrologia e Dialisi effettui un monitoraggio continuativo dei propri dati e che valuti nel tempo la sopravvivenza delle FAV e l’incidenza di complicanze ad esse correlate, al fine di poter al meglio modulare la strategia operativa, sempre nel rispetto delle linee guida di riferimento in merito.

  

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Spondylodiscitis in hemodialysis patients: a new emerging disease? Data from an Italian Center

Abstract

Hemodialysis (HD) patients are at high risk for infectious complications such as spondylodiscitis. The aim of this retrospective study was to evaluate the cases of infective spondylodiscitis occurred between May 2005 and October 2019 among HD patients at our center.

In 14 years, there were 9 cases (mean age 69±12 years). The main comorbidities found were diabetes mellitus (55.6% of patients), hypertension (55.6%), bone diseases (22.2%), cancer (11.1%) and rheumatoid arthritis treated with steroids (11.1%). The clinical onset included back pain (100% of cases), fever (55.6%), neurological deficits (33.4%), leukocytosis (55.6%) and elevated CRP level (88.9%).

Most cases were diagnosed by magnetic resonance imaging (66.7%) with more frequent involvement of lumbar region (77.8%). Blood cultures were positive in five patients (mostly for S. aureus); three of them used catheters as vascular access and, in two cases, their removal was necessary. The mean time interval between the onset of symptoms and the diagnosis was 34±42 days.

All patients received antibiotic treatment for a mean duration of 6 weeks; most cases were initially treated with vancomycin or teicoplanin plus ciprofloxacin. Most patients (77.8%) recovered after a mean of 3.5 months; one patient had a relapse after 2 years and one patient had long-term neurologic sequelae.

Infective spondylodiscitis in HD must be suspected in the presence of back pain, even in the absence of fever or traditional risk factors. An early diagnosis could improve the outcome. Close monitoring of vascular access, disinfection procedures and aseptic techniques are important to avoid this complication.

 

Keywords: spondylodiscitis, hemodialysis, back pain, vascular access, infectious complications, bacteremia

Introduction

Septicemia and infections contribute to 12% of deaths in uremic patients [1].

Hemodialysis (HD) patients represent a risk category for bacteremia (in particular caused by S. aureus), because of the coexistence of multiple risk factors: the immunodepression typical of uremia, the frequent venopunctures of native and prosthetic fistulas and the presence of temporary or permanent venous catheters [23].

One of the possible complications of bacteremia is spondylodiscitis, defined as infection of the vertebra and intervertebral disc sometimes extended to the surrounding soft tissues [47]. The incidence of this disease varies between 1:250,000 patients/year [89] and 0,4-2,4:100.000 patients/year [5] in the general population, while the major studies carried out on HD patients report an incidence of 1:80–1:215 patients/year [1011].

Although bacterial spondylodiscitis is one of the most serious complications that can occur to dialysis patients, few cases have been reported in the literature; it is therefore not clear which is the best clinical management. Moreover, diagnosis may be often delayed due to the insidious onset of the symptoms.

Considering the cases occurred in our center, in this work we analyze the clinical features and the problems related to the diagnosis and the therapy of spondylodiscitis in HD patients; the possible risk factors related to the onset of this disease are also considered.

 

Methods

A retrospective study has been conducted by evaluating all cases of infective spondylodiscitis that occurred between May 2005 and October 2019 among the HD patients at our center (IRCCS Multimedica, Sesto San Giovanni, Milan, Italy).

Patients were identified according to a diagnosis of “spondylodiscitis” and “ESRD” from the hospital records. The diagnosis of infective spondylodiscitis was based on clinical data, laboratory results [5, 12] and diagnostic imaging tests [1213]. The exclusion criteria were as follows: post-operative spinal infection, patients affected by chronic renal insufficiency not in hemodialysis, patients who received HD for less than 14 days. We finally included 9 cases.

For each patient, demographic data, personal medical history, dialytic age and type of vascular access were collected. The baseline characteristics included age, gender, primary cause of ESRD and main comorbidities (diabetes mellitus, hypertension, malignancy, bone and joint diseases). Regarding infective spondylodiscitis, initial clinical symptoms, laboratory and culture test results, diagnostic tools and location of spinal infection were collected for each patient. We focused in particular on the time interval between the onset of symptoms and the diagnosis, often delayed.

Finally, we collected data regarding the treatments performed and the patients’ outcomes.

 

Results

In 14 years, there have been 9 cases of infective spondylodiscitis in our center, with an estimated incidence of 1:200 patients/year. The incidence was calculated by comparing the number of cases to the dialysis population over 14 years (we usually treat chronically 100 HD patients).

Table 1 shows the clinical characteristics of the patients with infective spondylodiscitis treated in our center. Sixty-seven percent of patients were male, the mean age was 69±12 years. The primary causes of ESRD included diabetic nephropathy (3 patients, 33.4%), obstructive nephropathy (2 patients, 22.2%), autosomal dominant polycystic kidney disease (1 patient, 11.1%), arterial hypertension (1 patient, 11.1%) and unknown causes (2 patients, 22.2%). Five patients (55.6%) were affected by diabetes mellitus, 11.1% by obesity, 55.6% by arterial hypertension and 22.2% by bone diseases. One patient was known for rheumatoid arthritis and was in chronic treatment with low-dose steroids and azathioprine; none of the other patients received chronic immunosuppressive therapy. One patient was affected by prostatic cancer.

All patients had back pain as an initial symptom, 55.6% had fever, while 33.4% had neurological symptoms, such as limb weakness and paresthesia (Table 2).

 

Patient Age [years] Gender Cause of ESRD Comorbidities
1 62 M Diabetes Diabetes
2 78 M Unknown Myelodysplasia
3 63 M Unknown Obesity, arterial hypertension, hypothyroidism, diabetes
4 78 F Unknown Rheumatoid arthritis, osteoporosis
5 69 F Nephrolithiasis Diabetes, secondary hyperparathyroidism
6 73 F ADPKD Diabetes, arterial hypertension, Graves’ disease, vasculopathy
7 88 M Obstructive nephropathy Arterial hypertension, prostatic cancer
8 48 M Diabetes Diabetes, arterial hypertension
9 61 M Arterial hypertension Arterial hypertension
ESRD, end stage renal disease; ADPKD, autosomal dominant polycystic kidney disease
Table 1: Characteristics of the patients with infective spondylodiscitis in care at our center.

 

Patient Back Pain Fever Neurological symptoms WBC CRP Diagnostic tools Location
1 Yes Yes No 26700 26.7 CT, MRI D9-D10
2 Yes Yes No 28000 22 MRI L5-S1
3 Yes No Yes 10200 5.83 MRI L3-L4
4 Yes No Yes 3800 9.9 MRI L4-L5
5 Yes Yes Yes 15500 10.1 MRI D4-D5
6 Yes No No 6230 8.52 CT, MRI L4-L5
7 Yes No No 5290 0.3 MRI L4-L5
8 Yes Yes No 22500 31.8 CT L4-L5
9 Yes Yes No 7130 3.7 MRI L1-L2
WBC, white blood cell count (cells/ml); CRP, c-reactive protein (mg/dl); MRI, magnetic resonance imaging
Table 2: Initial clinical presentation, initial laboratory results, diagnostic tools, location of infection.

 

Figure 1: MRI of the lumbosacral spine without gadolinium contrast showing discitis at the L4–L5 level (patient n. 6)

 

At hospital admission 55.6% of patients had leukocytosis, while 88.9% had elevated CRP levels (Table 2).

Six patients (66.7 %) had their diagnoses confirmed by magnetic resonance imaging (MRI) (Figure 1), while two had a CT performed prior to MRI (Table 2). One patient had his diagnosis confirmed by CT only (it was not possible to perform MRI because of the presence of a metallic foreign object in the patient’s body). All patients had performed a spine radiograph that turned out not to be diagnostic. In no case it was necessary to perform a FDG-PET for the diagnosis of spondylodiscitis. Echocardiography was performed in 2 cases, both negative for valvular vegetation, to exclude infective endocarditis.

The lumbar level was the most common site of infection (7 patients, 77.8 %); in 2 patients (22.2 %), the thoracic spine was also involved, while in no case the cervical spine was involved (Table 2).

The mean dialytic age was 33±38 months, as reported in Table 3. Four patients (44.4 %) used an arteriovenous fistula (AVF) as vascular access for hemodialysis, 1 patient (11.1 %) used an arteriovenous graft (AVG), 3 patients (33.4 %) used a tunneled cuffed catheter (TCC), and 1 patient (11.1 %) used a non-tunneled catheter (NTC) (Table 3). Two patients had experienced thrombosis of the arteriovenous fistula for hemodialysis and underwent endovascular surgery. The surgical interventions had not been successful; for this reason, central venous catheters for hemodialysis had been positioned (a tunneled cuffed catheter in one case, a non-tunneled catheter, then removed and replaced, in the other). Blood cultures were positive in five cases, four for S. aureus (Table 3) and one for S. agalactiae. In the first of our 9 cases, the non-tunneled catheter, which was the source of the infection, was removed and replaced. In the second case the infection was successfully treated without the need of removing the tunneled cuffed catheter. In the third and fourth cases, the patients had AVFs and no sign of local infection. In the fifth case, the removal of the TCC was necessary due to the persistence of a septic status related to the catheter. A NTC was subsequently placed and an AVF was created.

 

Patient Dialytic age [months] Vascular access Blood culture Bone biopsy Diagnostic delay
1 45 NTC S. aureus Not executed 1 month
2 24 AVF Negative Not executed 3 months
3 3 TCC S. aureus Not executed 5 days
4 57 AVF Negative Not executed 10 days
5 12 AVF S. aureus S. aureus 3 weeks
6 120 AVG Negative Negative 4 months
7 16 TCC Negative Not executed 3 weeks
8 1 TCC S. aureus Negative 3 days
9 15 AVF Streptococcus agalactiae Not executed 5 days
AVF, arteriovenous fistula; AVG, arteriovenous graft; NTC, non-tunneled catheter; TCC, tunneled cuffed catheter
Table 3: Dialytic age, vascular access for hemodialysis, culture results, time interval between onset of symptoms and diagnosis

 

A bone biopsy was performed in three instances (Table 3). In the first case, the patient developed a paraplegia with level D4 during hospitalization; she was therefore subjected to a neurosurgical operation of bone marrow decompression. The bone culture test confirmed the diagnosis of S. aureus spondylodiscitis. Despite surgical intervention and the use of targeted systemic antibiotic therapy, the recovery of lower limb function was not achieved. In the second case, a bone biopsy was performed because of the persistence of painful symptoms after months of antibiotic therapy; the cultural exam of the disc and the vertebral body was negative; the patient was then discharged with a diagnosis of chronic spondylodiscitis. In the third case, the bone biopsy was also performed due to the persistence of painful symptoms and the exam resulted negative.

The mean time interval between the onset of symptoms and the diagnosis was 34±42 days (Table 3). All patients received antibiotic treatment and the mean treatment duration was 6 weeks (Table 4). In most cases, vancomycin or teicoplanin plus ciprofloxacin were used as initial antibiotics (Table 4). The aim of the initial empiric treatment was to cover Staphylococci and Gram-negative bacilli. One patient underwent surgical intervention due to progressive neurologic deficits, as reported above. In four cases, the use of an orthopedic corset was prescribed (Table 4).

One patient had another infective spondylodiscitis within 2 years, caused by a different organism to in his first event. One patient had long-term neurologic sequelae despite surgical treatment. The others 7 patients recovered after a mean of 3.5 months (Table 4).

 

Patient Antibiotics Duration of antibiotic therapy Surgical treatment Orthopedic corset Outcome
1 Vancomycin plus gentamicin 4 weeks No Yes Recurrent after 2 years
2 Vancomycin plus ciprofloxacin; then teicoplanin plus ceftazidime 8 weeks No No Resolution after 2 months
3 Vancomycin plus ciprofloxacin plus ceftazidime 8 weeks No No Resolution after 3 months
4 Teicoplanin plus ciprofloxacin 4 weeks No Yes Resolution after 3 months
5 Vancomycin plus ciprofloxacin 8 weeks Yes, bone marrow decompression / Paraplegia D4
6 Levofloxacin plus rifampicin 4 weeks No Yes Resolution after 8 months
7 Ciprofloxacin 8 weeks No No Resolution after 3 months
8 Teicoplanin; then Linezolid 8 weeks No Yes Resolution after 4 months
9 Vancomycin plus levofloxacin 4 weeks No No Resolution after 1 month
Table 4: Treatments and outcome of patients

 

Discussion

In our center there have been 9 cases of infective spondylodiscitis over 14 years, with an estimated incidence of 1:200 patients/year, which is in line to what has been previously reported in the literature regarding HD patients [1011].

The mean age of the patients considered in our study was 69±12 years, suggesting, as is also reported in the literature, that in recent years spondylodiscitis has evolved from an acute pathology with a high mortality mostly affecting young patients to a more indolent disorder affecting elderly patients, with a reduced mortality but more frequent relapses and debilitating sequelae [14].

The most frequent comorbidities found in our patients were diabetes mellitus (55.6%), arterial hypertension (55.6%) and bone diseases (22.2%). Several risk factors for spondylodiscitis are reported in the literature: diabetes mellitus, intravenous drug abuse, liver disease, immunodeficiency, alcoholism, rheumatoid arthritis, steroid therapy, immunosuppressive therapy, tumors [1516]. The prevalence of arterial hypertension among our cases of spondylodiscitis appears lower than that of the hemodialysis population (55.6% vs 80%); however, the relationship reported in previous studies between arterial hypertension and spondylodiscitis in HD patients is an association, not a cause and effect relationship. The prevalence of diabetes mellitus in our sample appears to be higher than that reported in the literature among hemodialysis patients (55.6% vs 30%). This could indicate that diabetes can favor infectious processes, including spondylodiscitis, and confirms that diabetes mellitus could be a risk factor for vertebral infections, as reported in previous studies. It is interesting to note that in our case series one patient was treated for rheumatoid arthritis with low-dose steroids and azathioprine at the time of the spondylodiscitis episode; another patient was affected by prostatic cancer.

Our small sample of patients seems therefore representative of the main risk factors for spondylodiscitis, except for alcoholism and liver disease; in it we found diabetes mellitus, rheumatoid arthritis, steroid therapy and cancer. Moreover, other risk factors, related to the state of uremia and to dialysis treatment, may play a decisive role in the onset of spondylodiscitis: they are the immunodepression typical of uremia, the frequent use of central venous catheterization as vascular access for hemodialysis, the frequent venopuncture of the fistulas, both native and prosthetic, and the endovascular surgery procedures for thrombosis of the vascular access, with the consequent greater risk of bacteremia and infectious complications [23]. In our case series, 44.4% of patients used an AVF as vascular access for hemodialysis, 11.1% used an AVG, 33.4% used a TCC, and 11.1% used a NTC. Two patients had experienced thrombosis of the arteriovenous fistula, requiring endovascular surgery. Moreover, the blood cultures resulted positive for S. aureus in three of the four patients with central venous catheter and the catheter removal was necessary in two cases. A previous article reports that 91% of their spondylodiscitis cases used a central venous catheter instead of an arteriovenous fistula as vascular access for hemodialysis [17]. For this reason, possible preventive strategies in hemodialysis patients are the choice of AVF as vascular access, as it is associated with a lower incidence of spondylodiscitis compared to the TCC [11], and the close monitoring of the vascular access, paying particular attention to disinfection procedures and aseptic techniques [18].

In our case series, all patients had back pain at the onset of symptoms, while fever and neurological symptoms were present only in some. The literature also describes back pain as the main clinical manifestation of the disease; it is present in 90% of all cases, at the level of the affected bone metamer [15]. Fever is not a constant finding and is present only in half of the cases, while neurological symptoms are found in 30% of patients with spondylodiscitis [1516]. At hospital admission 55.6% of our patients had leukocytosis, 88.9% had elevated CRP levels. In the literature, leukocytosis is reported in 40% of cases and an increase in inflammatory indices in 80% of them [19].

Magnetic resonance imaging of the spine is the most sensitive and specific radiological method to diagnose vertebral osteomyelitis; it is also the procedure of choice to assess the extent of the disease, the involvement of soft tissues and neurological structures and the possible presence of abscesses [13]. Spine radiography is often performed first and shows alterations in 89% of cases [13]; however, it has a reduced sensitivity and specificity, especially in the early stages [20]. CT is less sensitive than MRI and is generally used when the latter is contraindicated, as well as to perform CT guided percutaneous biopsy [20]. A final exam that can help locate abnormalities and monitor the response to treatment is FDG-PET, which is especially indicated in cases where the patient cannot undergo MRI [12, 21]. In our case series, 66.7% of patients had their diagnoses confirmed by MRI, one patient had his diagnosis confirmed by CT, while two patients had a CT performed prior to MRI. In no case we performed FDG-PET.

In our sample of patients, the lumbar spine was the most common site of infection, followed by the thoracic spine. Generally, the lumbar vertebrae are the most frequently affected (60-70% of cases in the literature) given their wide vascularization [22]. As reported in previous studies, in 10% of cases the infection localizes at the cervical level (the site that can most frequently lead to neurological complications); in 20-30% of cases it is localized at the thoracic level, while the sacral localization is found in less than 10% of cases [5, 23].

In our study, blood cultures were positive in five instances, four for S. aureus and one for S. agalactiae. Spondylodiscitis are generally due to a hematogenous infection by S. aureus (50% of cases in the literature), but episodes caused by Gram-negative, P. aeruginosa, S. epidermidis, Streptococci of group C and G have been described (especially in diabetic patients) [4]. Generally, blood cultures are positive in 50-70% of patients with vertebral osteomyelitis [1516].

We performed a bone biopsy in three cases. CT-guided percutaneous vertebral disc biopsy may be considered in patients with negative blood cultures who do not respond to antibiotic therapy; it identifies the pathogen in 60-70% of cases. The possibility of identifying the causative pathogen is reduced if the patient has previously taken antibiotics. The histological examination of the biopsy may show disc necrosis and neutrophil infiltration, too [5]. In patients with suspected spondylodiscitis, with persistent symptoms despite antibiotic therapy and negative microbiological tests (blood culture and disc biopsy) it is indicated to repeat a second percutaneous biopsy and eventually proceed with an open biopsy, that is positive in 75% of cases [5, 12].

All our patients received antibiotic treatment, in most of the cases vancomycin or teicoplanin plus ciprofloxacin as initial therapy. Randomized controlled trials on empirical antibiotic therapy have not yet been conducted and therefore no antibiotic, alone or in an association, is currently considered superior to the others in treating this infection. Usually, an empirical antibiotic therapy is set up with broad-spectrum antibiotics with anti-staphylococcal activity (for example vancomycin or teicoplanin), also associating an agent with anti-negative bacilli activity [2425]. Antibiotic therapy should continue for at least 4-8 weeks (up to 6-12 weeks) [2425]. In our case series, the mean treatment duration was 6 weeks.

The recommended therapy also consists in immobilization, with bed rest with analgesia for at least 2-4 weeks, followed by the gradual mobilization with orthopedic corset; this was prescribed to four of our patients. Surgery can be indicated if there are neurological deficits, radicular compression, a need to prevent and correct instability and deformity, severe persistent pain, or when it is necessary to perform drainage of abscesses or open biopsy [6, 23]. In our case series, only one patient underwent surgical intervention due to progressive neurologic deficits.

The mortality rate for spondylodiscitis among HD patients is reported at 16.7%. In our case series, no patient died due to infection, although one had a second infective spondylodiscitis within 2 years and another suffered from long-term neurologic sequelae, despite surgical treatment. The others seven patients recovered after an average of 3.5 months.

An early diagnosis that identifies, where possible, the responsible microorganism, could prevent the development of such complications and could improve the outcome for patients, allowing for a prompt resolution of the infective episode [14]. An algorithm on the possible diagnostic/therapeutic workup for the management of suspected cases of spondylodiscitis among hemodialysis patients is shown in Figure 2.

 

Figure 2: Algorithm on the possible diagnostic/therapeutic workup for the management of suspected cases of spondylodiscitis among hemodialysis patients.

 

Our study certainly presents some limits due to the reduced number of cases and its descriptive and retrospective nature. However, it is the first Italian study that focuses on this rare disease, characterized by important mortality and complications, especially among hemodialysis patients, and on the diagnostic delay that often occurs.

 

Conclusions

Infective spondylodiscitis must be suspected in the presence of back pain in HD patients, even in the absence of fever and traditional risk factors. In order to improve the outcome for patients and obtain a prompt resolution, it is important to get an early diagnosis by identifying, if possible, the responsible microorganism, and to avoid any delays in the diagnosis. Finally, the close monitoring of vascular access, and a great attention to disinfection procedures and aseptic techniques are all important to avoid these serious infectious complications.

 

 

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Evaluation via ecocolordoppler before creating a vascular access for hemodyalisis: a monocentric experience

Abstract

The use of a preoperative echocolordoppler improves the clinical evaluation because provides anatomical and hemodynamic information that make it an important tool in planning vascular access strategy.

The preoperative ultrasound study of the vessels can significantly reduce the failure rate and the incidence of complications of vascular access.

We describe the experience of our center, lasting 10-year, where the ultrasound assessment was performed in all patients before the creation of vascular access.

Indeed, ultrasound reduces the rate of fistula failure and increases the utilization of fistula, allowing proper selection of vessels.

In addition, the presence of the vascular access team has allowed us to achieve quite satisfactory results.

 

Keywords: vascular access, imaging, ecocolordoppler, presurgical evaluation, hemodyalisis

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Introduzione

Il buon funzionamento dell’accesso vascolare (FAV) è uno degli elementi cruciali per la riuscita del trattamento emodialitico ed è associato ad una riduzione della morbilità e mortalità del paziente uremico. Un basso tasso di trombosi della FAV è uno degli obiettivi più importanti per migliorare la qualità di vita e delle prestazioni sanitarie dei pazienti in trattamento emodialitico. Tuttavia, ancora oggi, la problematica legata agli accessi vascolari rappresenta, nella sua evidente complessità, un nodo dolente della terapia sostitutiva renale. Inoltre, oggi più che mai, noi nefrologi siamo chiamati a gestire il paziente emodializzato in termini sempre più elevati di qualità della prestazione sanitaria e di riduzione dei costi.

Le prime Linee Guida KDOQI, pubblicate oltre dieci anni fa, raccomandavano di approntare una fistola con vasi nativi almeno 3-4 mesi prima del previsto inizio del trattamento emodialitico e di ridurre il posizionamento dei cateteri venosi centrali (CVC), incrementando il numero dei pazienti portatori di una fistola ben funzionante [1]. Le linee guida pubblicate più recentemente (UK Renal Association, Società Europea per gli accessi vascolari (ESVS), Associazione Europea ERA-EDTA ed il Gruppo Multidisciplinare Spagnolo degli Accessi Vascolari (GEMAV)) sono dirette oltre che ai chirurghi, anche a tutti i professionisti coinvolti nella cura e nella gestione dell’accesso vascolare al fine di migliorare la qualità di vita del paziente emodializzato [25]. Quindi sono di notevole aiuto al fine di stabilire le migliori strategie di gestione per tutti i pazienti che necessitano di un accesso vascolare (AV).

 

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Assessing the quality of life in patients with a vascular access

Abstract

Patients undergoing haemodialytic treatment have a lower quality of life than the general population because of several factors. Their wellbeing can be assessed through a clinical evaluation or through the subjective point of view of the patients themselves: the perceived Health-Related Quality of Life (HRQoL) is an index calculated on the basis of the patients’ own perspective. A well-functioning vascular access (VA) and the absence of complications are certainly associated with better health in patients on dialysis but unfortunately VA-related perceived HRQoL has so far been a subject of little interesting literature, even though the choice of the most appropriate access in the individual patient is today increasingly articulate and difficult. Information about subjective perception of health is typically collected through generic or specific questionnaires. The most used reproducible questionnaires available are SF-36, EuroQoL5D, SONG-HD, WHOQoL-BREF, VAQ, although not all of them have been used for a targeted assessment of the issues concerning HRQoL and VA function. This review confirms that the VAQ questionnaire is currently the simplest and most reliable tool to assess patient satisfaction with their VA.

Keywords: Health-Related Quality of Life (HRQoL), questionnaires, vascular access

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Introduzione

In linea generale la qualità di vita di un paziente può essere valutata in due modi: 1) una valutazione clinica dello stato di salute che tenga conto del benessere psichico e fisico, della disabilità e dell’efficienza lavorativa; 2) una valutazione basata sulla percezione soggettiva che lo stesso paziente riferisce della propria qualità di vita (QoL). La qualità di vita salute-correlata (HRQoL) percepita è un indice misurato attraverso la prospettiva del paziente stesso e correla strettamente al numero di ospedalizzazioni e alla mortalità [1]. Le informazioni su questa percezione soggettiva della salute, raccolte in genere attraverso dei questionari, possono fornire al clinico dati fondamentali sul paziente e il suo vissuto e guidare alla scelta assistenziale più appropriata. Gli strumenti utilizzati a questo scopo vengono suddivisi in questionari generici e questionari specifici. I questionari generici sono indirizzati a misurare il benessere e la funzionalità complessiva del soggetto senza riferimento ad una specifica malattia. Questi strumenti offrono il vantaggio di poter essere utilizzati in diversi contesti, con popolazioni diverse, sia in persone affette da malattia che in soggetti sani, ma, per la loro genericità, non riescono a cogliere cambiamenti nella QoL in particolari patologie. I questionari specifici prevedono invece domande specifiche orientate alla patologia di cui il soggetto è affetto e dunque sono più accurati e sensibili nella misura della QoL in rapporto alla situazione contingente.

 

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Peripheral hypoperfusion syndrome and monomielic syndrome: from diagnosis to treatment. Case report with review of the literature

Abstract

Arteriovenous access ischemic steal is a fairly uncommon complication associated with the creation of a vascular access for hemodialysis, which can sometimes cause potentially devastating complications, with permanent disability. Several old names for this syndrome have now been replaced by two new denominations: Hemodialysis Access-Induced Distal Ischemia (HAIDI) and Distal Hypoperfusion Ischemic Syndrome (DHIS).

Clinically, we distinguish between the Peripheral Hypoperfusion Syndrome, which can cause gangrene of the fingers, and the Monomelic Syndrome, characterized by low incidence and by the presence of neurological dysfunctions. Risk factors include diabetes mellitus, atherosclerotic vascular disease, old age, female gender, tobacco use and hypertension.

We report the case of a patient with HAIDI in order to increase awareness on this syndrome’s early diagnosis and proper management. After describing the case, we also include a literature review.

 

Keywords: hand Ischemia, vascular access, echocolordoppler, hemodialysis

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Case Report

Descriviamo il caso di un uomo di 58 anni con una storia di diabete mellito di lunga durata, ipertensione arteriosa e vasculopatia periferica. Il primo accesso vascolare (AV) allestito era una FAV brachio-cefalica al braccio sinistro. Subito dopo l’intervento, però, si assisteva alla comparsa di lieve dolore, parestesie e debolezza della mano, sintomatologia che è andata via via scomparendo nei giorni successivi. 

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Superior Cava Vein stenosis in a hemodialysis patient with long-term central venous catheter and vascular graft: a case report

Abstract

Recently, the use of central venous catheters (CVC) as a vascular access in patients undergoing hemodialysis is significantly increased, mainly because of the aging of this population and the presence of several comorbidities. However, the implantation and the long stay of CVC are associated with many complications. Among them, central venous stenosis represents one of the most common problems that, if not properly diagnosed, could lead to vascular thrombosis and consequent vascular access malfunction.
Here, we report a case of a 38-year-old patient, who underwent hemodialysis firstly by a CVC long-term into right jugular vein and then by a prosthetic fistula in the ipsilateral limb. The patient presented many episodes of vascular access thrombosis that required endovascular interventions. The ultrasound screening and CT-angiography revealed an asymptomatic stenosis of the superior cava vein, which treatment with the implantation of vascular stent resulted in an initial improvement of vascular access performance. However, in the following months, a restenosis was observed that required new interventions to reestablish a satisfactory vascular access function.
This case highlights that patients on hemodialysis should undergo proper clinical and instrumental follow-up in order to prevent or early recognize vascular access complications.

KEYWORDS: echocolordoppler, hemodialysis, vascular access, graft.

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Introduzione

Un accesso vascolare “ben funzionante” è un requisito indispensabile per una dialisi efficace ed efficiente; se da un lato, la fistola artero-venosa (FAV) nativa, dopo più di 50 anni dalla sua “creazione”, rimane sempre il miglior approccio a cui tendere, dall’altro l’uso dei cateteri venosi centrali (CVC) sta aumentando esponenzialmente, in tutti quei pazienti anziani, comorbidi e con un patrimonio vascolare eccessivamente compromesso per gli accessi vascolari.

A fronte di una facilità di utilizzo, i CVC presentano molteplici complicanze che incidono pesantemente sia sulla qualità di vita e sia sull’efficienza dialitica.

A riguardo, le linee guida K/DOQI consigliano e incentivano l’uso dell’ecografia per la pianificazione chirurgica di un accesso vascolare complesso come può esserlo l’impianto di un graft, per il quale è necessario un regolare follow-up ecografico al fine di garantirne il buon funzionamento nel lungo termine, con la possibilità di diagnosticare per tempo le “stenosi subcliniche”, che esiterebbero inevitabilmente in trombosi precoci.
 

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