An Integrated Multidisciplinary Approach to the Care of Renal Cancer Patients Undergoing Nephrectomy

Abstract

Kidney cancer is one of the most common cancers globally, ranking 9th and 14th among men and women, respectively. Advances in diagnostic techniques have enabled earlier and potentially less invasive interventions, however, this progress poses a challenge in managing low-malignancy tumors that were previously undiagnosed. To navigate treatment pathways, a deep understanding of the bidirectional relationship between Chronic Kidney Disease (CKD) and Renal Cell Carcinoma (RCC) is essential, influenced by risk factors such as hypertension and obesity.
The debate between partial (PN) and radical nephrectomy (RN) continues to be fueled by a rich body of studies in the last two decades, aiming to determine the precise benefits of renal function preservation and overall survival. However, long-term monitoring remains inadequate. There is an urgent need for heightened clinical vigilance, urging meticulous periodic evaluations that include both eGFR and the urinary albumin-creatinine ratio, to identify potential deteriorations early.
Furthermore, non-neoplastic renal parenchyma requires equal attention, often overshadowed by the assessment of tumor mass. A nuanced analysis is necessary to identify a range of nephropathies that guide more effective therapeutic strategies. A collaborative strategy that brings nephrologists, urologists, nuclear radiologists, oncologists, and pathologists together on a unified platform, focusing on a personalized medicine approach grounded on a profound analysis of individual risk factors, is pivotal in shaping the future of management and prevention strategies.
This approach ensures a detailed therapeutic outlook and facilitates early interventions, marrying vigilance with interdisciplinary cooperation, thereby guarding against late diagnoses and offering patients a robust shield in their battle against kidney afflictions.

Keywords: renal cancer, acute kidney injury, acute kidney disease, chronic kidney disease, nephrectomy, partial nephrectomy, chemotherapy, targeted anticancer agents

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Introduzione

Il tumore del rene rappresenta a livello globale rispettivamente la nona e la quattordicesima causa principale di cancro tra gli uomini e le donne [1]. Le stime relative all’Italia indicano che sono stati diagnosticati 12.900 nuovi casi, con una predominanza significativa nel sesso maschile, mantenendo un rapporto di circa 2:1 rispetto al sesso femminile [2]. Analogamente, il numero di decessi registrati nel 2016 mantiene questa disparità di genere, attestandosi a 3.717. L’analisi dei tassi di sopravvivenza evidenzia che il 71% dei pazienti sopravvive oltre 5 anni dalla diagnosi, una percentuale che si riduce leggermente, al 66%, quando si considera un arco temporale di 10 anni [2, 3]. Questi dati, seppur indicativi di una situazione non facile, mostrano anche segni di speranza e di efficacia nelle strategie di trattamento adottate.

Appare incoraggiante l’aumento nel numero di sopravvissuti al cancro renale, passando da 129.200 nel 2018 a circa 144.400 [3]. Questo incremento, seppur positivo poiché indica un miglioramento nella gestione e nel trattamento della malattia, porta con sé anche la necessità di un focus aumentato sul follow-up a lungo termine e sulla gestione delle complicazioni post-trattamento e delle comorbilità.

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un marcato incremento delle diagnosi di neoplasie in vari organi, un trend che ha colpito specialmente i paesi sviluppati. Questo aumento può essere attribuito a diversi fattori, tra cui l’innovazione tecnologica nel campo diagnostico, una maggiore consapevolezza dei problemi legati alla salute e un accesso facilitato alle cure mediche. Parallelamente a questo, si è osservato il fenomeno della “stage migration” che si riferisce al cambiamento nel profilo dello stadio di diagnosi dovuto, ad esempio, all’introduzione di tecniche diagnostiche più avanzate che consentono la rilevazione di tumori in una fase più precoce e spesso meno avanzata spesso prima dell’insorgenza dei sintomi [4, 5]. Questa evoluzione verso una diagnosi precoce, benché permetta interventi terapeutici tempestivi e spesso meno invasivi, pone anche una serie di sfide, tra cui la gestione di tumori a basso potenziale maligno, che in passato sarebbero potuti rimanere non diagnosticati per tutta la vita del paziente. Il fenomeno della “stage migration” pertanto, se da una parte rappresenta un’opportunità, aprendo la porta a trattamenti potenzialmente meno aggressivi e a un più alto tasso di successo terapeutico, dall’altra pone interrogativi significativi sulla necessità di trattamento in determinate circostanze, alimentando il dibattito sull’opportunità della “vigilanza attiva” come approccio alternativo in casi selezionati [5].

In questo scenario, diventa pertanto fondamentale procedere con un’analisi attenta e ponderata, capace di distinguere tra i casi in cui un intervento precoce può effettivamente fare la differenza in termini di outcome e quelli in cui una strategia più conservativa potrebbe essere più appropriata. Appare inoltre fondamentale considerare che la possibilità di trattare, spesso in maniera risolutiva i pazienti affetti da eteroplasie renali, pone il clinico nella condizione di dover gestire le complicanze a breve e lungo termine del paziente nefrectomizzato.

 

Relazione tra malattia renale cronica e carcinoma renale

Esiste una correlazione bidirezionale tra la Malattia Renale Cronica (CKD) e il Carcinoma a Cellule Renali (RCC). Dati recenti indicano che il 26% dei pazienti affetti da cancro al rene aveva già sviluppato CKD prima dell’intervento di nefrectomia [6].

Alcuni fattori di rischio, quali ipertensione, diabete, fumo e obesità, si presentano come elementi indipendenti predisponenti sia allo sviluppo della CKD che del RCC [6, 7], delineando un quadro di reciproca incidenza e influenza tra le due condizioni patologiche.

Dopo interventi chirurgici, come la nefrectomia, si è registrato che il 39% dei pazienti presentava un tasso di filtrazione glomerulare (GFR) stimato inferiore a 60 ml/min [7], un dato che sottolinea una diretta correlazione tra la procedura chirurgica e una diminuzione della funzione renale. Inoltre, studi recenti hanno evidenziato come, in casi di CKD avanzata, il rischio di cancro sembra essere specifico per determinati siti [8]. Da una ricerca retrospettiva su una vasta coorte di individui adulti negli USA, è emerso che un eGFR ridotto (inferiore a 30 ml/min) era associato a un incremento del rischio di cancro renale e dell’urotelio, mentre non venivano riscontrate associazioni significative tra eGFR e cancro alla prostata, al seno, al polmone, al colon-retto, o altre forme di cancro in generale [9]. Questa osservazione apre la strada a ulteriori indagini, poiché emerge che il rischio di sviluppare un cancro al rene aumenta con la diminuzione della funzione renale, delineando un ciclo in cui CKD e RCC si influenzano reciprocamente in una spirale di deterioramento della salute del paziente.

Nel contesto della CKD, il diabete di tipo 2 emerge come un fattore di rischio significativo, essendo associato ad una maggiore incidenza di tumori in diversi organi, compreso il rene. Questa correlazione potrebbe essere influenzata da una serie di meccanismi, inclusa l’iperinsulinemia, che funge da fattore di crescita, la resistenza all’insulina e le citochine infiammatorie correlate all’obesità [10].

Comprendere in modo approfondito i meccanismi biologici sottostanti non solo potrebbe gettare nuova luce sulle intricate dinamiche che legano CKD e RCC, ma potrebbe aprire nuove strade per il trattamento e persino la prevenzione del carcinoma renale. La medicina personalizzata, basata sull’analisi approfondita dei fattori di rischio individuali, potrebbe rappresentare il futuro nella gestione delle malattie renali croniche e nella prevenzione del carcinoma a cellule renali.

 

La gestione pre-operatoria

Prima di procedere con interventi chirurgici o terapie ablative, è fondamentale identificare i pazienti ad alto rischio di sviluppare CKD e eventi cardiovascolari. Uno screening attento può essere effettuato stimando il tasso di GFR e misurando l’albuminuria, seguendo le indicazioni previste dagli standard globali per la classificazione della CKD.

L’attenzione del clinico in questa fase è focalizzata all’ottimizzazione preoperatoria del controllo glicemico e della pressione sanguigna, soprattutto per i pazienti già affetti da CKD, al fine di limitare il declino della funzione renale dopo la riduzione del parenchima a seguito dell’intervento. Una strategia efficace di prevenzione comprende inoltre l’evitare l’esposizione a nefrotossici e condizioni di ipoperfusione renale, fattori che potrebbero aumentare il rischio di perdita di GFR dopo l’intervento.

Un’attenta misurazione della funzione renale differenziale, comunemente effettuata attraverso scintigrafie nucleari, può aiutare a prevedere un possibile declino del GFR in seguito a una nefrectomia, sebbene tenda a sottovalutare il GFR nel rene preservato pre-nefrectomia. Dopo l’intervento, il GFR differenziale post-operatorio tende a riflettere più accuratamente i danni renali intraoperatori legati all’ischemia e alle dimensioni del tumore asportato.

Il quadro epidemiologico attuale evidenzia una prevalenza elevata di CKD tra i pazienti affetti da small renal masses (SRMs), variabile tra il 10% e il 52% [11]. Tale dato potrebbe essere spiegato dalla presenza di fattori di rischio comuni, quali età avanzata, sesso maschile, l’abitudine al fumo, diabete mellito e ipertensione. Non a caso, si è notata una presenza significativamente maggiore di diabete e ipertensione non solo in pazienti con pregressa CKD, ma anche in quelli con RCC, rispetto a controlli appaiati senza cancro.

A seguito della resezione chirurgica, la prevalenza di CKD aumenta, variando da un minimo del 10-24% a un massimo del 16-52% [12-14]. I fattori di rischio post-operatori per una nuova diagnosi o una progressione della CKD includono, oltre a quelli già citati, anche l’obesità [15], una riduzione del GFR [16], una maggiore dimensione del tumore e una corrispondente riduzione del volume renale [16], ipoalbuminemia [17] e danno renale acuto (AKI) post-operatorio [18].

Inoltre, l’albuminuria è associata alla presenza di tumori, e può rappresentare un fenomeno paraneoplastico, preludio di una prognosi sfavorevole, specialmente in presenza di tumori di grado o stadio avanzato [17].

Pertanto, i pazienti con RCC e fattori di rischio sottostanti per lo sviluppo di CKD post-operatoria dovrebbero beneficiare di un consulto nefrologico prima della nefrectomia, al fine di prevenire possibili complicanze e garantire un approccio terapeutico mirato e individualizzato.

 

La stima della perdita della funzione renale

Allo stato attuale, è fondamentale affrontare la crescente necessità di modelli predittivi efficaci che possano informare le decisioni riguardanti il trattamento dei pazienti con masse renali localizzate, in particolare nel contesto della scelta tra nefrectomia radicale (RN) e nefrectomia parziale (PN).

Studi recenti hanno sottolineato l’importanza di identificare i pazienti ad alto rischio di sviluppare CKD e AKI post-operatorie. In uno studio condotto dal nostro gruppo su 144 pazienti sottoposti a RN è stata riscontrata una significativa incidenza di AKI, pari al 64%. Le analisi hanno evidenziato che un più alto valore di eGFR basale e una minore presenza di restringimenti arteriosi pre-operatori erano associati a un maggiore rischio di AKI e a un declino dell’eGFR al follow-up di un anno [19].

Un altro studio ha cercato di sviluppare un modello predittivo per quantificare il rischio di declino dell’eGFR a ≤45 mL/min/1,73 m² dopo RN. Tra i 668 pazienti soddisfacenti i criteri di inclusione, 183 hanno sperimentato un tale declino. Il modello predittivo risultante, basato su variabili come età, sesso e livello di creatinina preoperatorio, ha dimostrato un significativo beneficio clinico nella facilitazione della decisione tra RN e PN, suggerendo che i pazienti con un rischio maggiore di riduzione dell’eGFR post-operatorio potrebbero beneficiare maggiormente della preservazione del nefrone [20].

Entrambi gli studi condividono una focalizzazione su misure pre-operatorie dettagliate, inclusa l’analisi istologica del tessuto renale sano e l’estimazione dell’eGFR, per informare le decisioni di trattamento. L’integrazione di questi dati in uno strumento quantitativo per identificare i pazienti a rischio di declino dell’eGFR post-operatorio potrebbe facilitare decisioni più informate nel contesto clinico.

Quindi, la combinazione di un’analisi istologica dettagliata e l’uso di un nomogramma predittivo che integra diversi fattori di rischio potrebbero rappresentare passi significativi verso un approccio più personalizzato e mirato nel trattamento dei tumori renali.

Al fine di mitigare i rischi e preservare la funzione renale, è essenziale considerare non solo gli obiettivi oncologici, ma anche le implicazioni a lungo termine di tali interventi sulla funzione renale dei pazienti.

 

La scelta della tecnica operatoria: nefrectomia parziale o nefrectomia radicale

La letteratura scientifica che indaga la funzione renale dopo l’intervento di nefrectomia è molto estesa e vanta oltre 300 studi pubblicati negli ultimi 2 decenni, principalmente focalizzati sulle conseguenze della nefrectomia sulla funzione renale a breve e lungo termine [21]. Nonostante ciò, una percentuale minima di questi ha condotto un monitoraggio dei pazienti per un periodo significativamente lungo; infatti, meno del 5% ha superato la media di cinque anni, e meno del 2% quella di 7,5 anni [21]. Un tema dominante in questi lavori è il confronto tra i benefici derivati dalla PN rispetto alla RN, sia per quanto riguarda la funzione renale post-operatoria che la sopravvivenza complessiva [22].

Se da una parte è riconosciuto che la PN permette una migliore conservazione della massa nefronica, risultando in una più alta funzione renale post-operatoria in media, dall’altra permangono dubbi riguardanti i benefici effettivi in termini di sopravvivenza. Nonostante diversi studi osservazionali ben strutturati abbiano evidenziato vantaggi in termini di sopravvivenza derivanti dalla PN rispetto a RN [21], altri, compreso lo studio clinico randomizzato condotto dall’European Organisation for Research and Treatment of Cancer Genito-Urinary Group (EORTC-GU), non hanno confermato questa affermazione [23]. Questa discrepanza ha alimentato un dibattito continuo sulla reale rilevanza clinica della riduzione della funzione renale indotta dalla nefrectomia derivante da cause mediche. L’analisi recente sullo sviluppo del CKD in seguito a nefrectomia evidenzia quindi un panorama clinico complesso e sfaccettato. A fronte della riduzione chirurgica della massa nefronica, anche individui in buona salute manifestano un rischio accresciuto di CKD progressiva, ESKD e una mortalità generale e cardiovascolare più alta. Le linee guida attuali, che identificano gli stadi del CKD sulla base di un eGFR <60 mL/min per 1,73 m², potrebbero non riflettere pienamente la gamma di rischi clinici presenti in questa popolazione. Nonostante non tutti gli individui con un eGFR inferiore a 60 sviluppino un CKD progressivo post-nefrectomia, emerge chiaramente una correlazione con un rischio maggiore di mortalità, paragonabile a quello dei pazienti con CKD di qualsiasi altra eziologia [24]. La fluttuazione degli indici di eGFR, a volte in modo altalenante o con remissioni, rende la diagnosi e il monitoraggio una sfida ancora maggiore.

È essenziale, dunque, che in ambiente clinico si mantenga un elevato grado di vigilanza: il paziente con un eGFR che oscilla intorno al valore soglia dovrebbe essere sottoposto a controlli periodici, che comprendano non solo la misurazione dell’eGFR, ma anche del rapporto albumina-creatinina urinario. In questo modo, eventuali deterioramenti possono essere prontamente identificati e affrontati, evitando ritardi nel riferimento a un nefrologo. Un approccio simile potrebbe non solo garantire un monitoraggio più attento, ma anche fornire una base più solida per affrontare il dibattito in corso sulla rilevanza clinica del CKD post-nefrectomia rispetto ad altre cause di CKD.

 

L’analisi del parenchima non neoplastico

L’attenzione nella valutazione patologica delle nefrectomie tumorali è stata storicamente centrata sulla massa renale. Tuttavia, ricerche recenti hanno messo in luce l’elevata incidenza di malattie renali non neoplastiche presenti nei reni affetti. Tra queste, la nefropatia diabetica è la più frequente, seguita da altre condizioni come la glomerulosclerosi focale segmentaria (FSGS) e la nefroangiosclerosi ipertensiva, oltre a una vasta gamma di altre nefropatie [25]. Nonostante l’importanza di queste scoperte, nel 60% dei casi queste importanti informazioni sono state trascurate nella prima lettura della biopsia [26], un aspetto che sottolinea l’urgenza di un approccio più oculato e dettagliato nella valutazione dei campioni bioptici.

Attualmente, negli Stati Uniti, vi sono più di 300.000 sopravvissuti al cancro del rene, e si stima che il 15% di questi, pari a circa 45.000 pazienti, abbia delle malattie renali mediche sottostanti, diagnosticabili solo tramite un’accurata analisi patologica [27].

In risposta a questo, dal 2010, il College of American Pathologists ha richiesto l’esame del parenchima renale non neoplastico nella relazione sinottica del cancro del rene [25]. Tuttavia, il cammino verso la piena adesione a questa normativa è ancora lungo, con una percentuale significativa di patologi che non seguono ancora tale indicazione, come evidenziato da recenti studi e sondaggi condotti in Europa.

La necessità di un intervento correttivo è ancora più accentuata considerando che una diagnosi accurata del parenchima non neoplastico non solo potrebbe portare all’identificazione di pazienti affetti da malattie glomerulari, tubulo-interstiziali o vascolari che richiedono una gestione medica addizionale, ma potrebbe anche evitare complicanze future, facilitando l’adozione di strategie terapeutiche più efficaci.

In questo quadro, è di fondamentale importanza che urologi e nefrologi collaborino attivamente con i patologi, insistendo per una revisione specifica e approfondita del parenchima non neoplastico, specialmente in presenza di pazienti con RCC che presentano diabete, ipertensione o proteinuria.

Lo sviluppo di una sinergia tra i diversi specialisti rappresenta non soltanto un argine nel limitare le diagnosi incomplete, ma anche un sostegno concreto per i pazienti, fornendo loro un quadro clinico più dettagliato e una prospettiva terapeutica più affidabile, riducendo inoltre il rischio di diagnosi tardive di patologie renali post-operatorie, data la frequenza non trascurabile di malattie renali sottostanti non diagnosticate.

 

Possibile sequenza di interventi nella gestione del paziente nefrectomizzato

Da quanto descritto nei paragrafi precedenti emerge la presenza di un gran numero di specialisti, coinvolti nel processo di cura del paziente nefrectomizzato. Tale processo, sintetizzato nella Figura 1, consta di una parte pre-operatoria che inizia al momento della diagnosi di una massa renale potenzialmente trattabile chirurgicamente. Il ruolo del nefrologo in questo contesto è finalizzato ad effettuare una prima valutazione della funzione renale al fine di ottimizzare l’impatto dei fattori di rischio clinici e terapeutici che possono contribuire alla progressione del danno e ipotizzare il decadimento della funzione renale a seguito dell’intervento. Per ottenere questo secondo obiettivo è importante l’interfaccia con i colleghi urologi che eseguiranno l’intervento e i medici nucleari grazie ai quali è possibile avere delle informazioni più precise in merito al contributo del singolo rene al raggiungimento della funzione renale complessiva. A seguito di questa collegialità sarà possibile pianificare la migliore strategia di intervento in un paziente adeguatamente preparato affinché possa risentire il meno possibile la perdita del parenchima.

Nell’immediato post-operatorio, la presenza di uno specialista nefrologo con competenza nella gestione dell’AKI o della malattia renale acuta (AKD) offre sicuramente un valore aggiunto per effettuare una diagnosi precoce di eventuali riduzioni del filtrato non dipendenti dalla riduzione del parenchima e per mettere in atto una adeguata terapia di supporto in questo contesto clinico. L’anatomopatologo è un altro specialista coinvolto in questo contesto clinico: la valutazione del parenchima renale non neoplastico appare fondamentale per pianificare il proseguo del percorso di cura, indipendentemente dalla severità della patologia oncologica di base. Con l’allontanamento progressivo dal momento dell’intervento chirurgico, assumerà un ruolo sempre maggiore il nefrologo, anche per valutare le conseguenze post intervento a lungo termine e integrare queste conoscenze in un eventuale percorso di cura oncologico.

Figura 1. Rappresentazione grafica dell’intervento multidisciplinare nella gestione pre-, intra- e post-operatoria del paziente nefrectomizzato per neoplasia.
Figura 1. Rappresentazione grafica dell’intervento multidisciplinare nella gestione pre-, intra- e post-operatoria del paziente nefrectomizzato per neoplasia.

 

Conclusioni

Il cancro al rene rimane una patologia non adeguatamente riconosciuta e studiata all’interno della comunità nefrologica. Nonostante sia una malattia frequentemente riscontrata nella pratica nefrologica generale e che la sua incidenza sia in aumento, è fondamentale che i nefrologi in attività possiedano una conoscenza approfondita della sua biologia e dei relativi trattamenti.

Nel corso di questa rassegna, abbiamo cercato di focalizzarci sulla gestione multidisciplinare di questa condizione sempre più frequente. L’evidente correlazione tra RCC e altre malattie renali, specialmente considerando le nefropatie frequentemente associate, sottolinea la necessità di un’attenzione focalizzata sul parenchima non neoplastico durante le valutazioni patologiche.

Guardando al futuro, auspichiamo pertanto una collaborazione più stretta e coordinata tra nefrologi, urologi, medici nucleari, patologi e oncologi, assicurando così una gestione più olistica e centrata sul paziente, dove il focus non sia soltanto sul tumore, ma anche sulle potenziali malattie renali coesistenti, aprendo la strada ad un approccio clinico più completo e arricchente per il benessere del paziente.

 

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Chronic Kidney Disease and Cancer: Ethical Choices

Abstract

Cancer and chronic kidney disease prevalence both increase with age. As a consequence, physicians are more frequently encountering older people with cancer who need dialysis, or patients on dialysis diagnosed with cancer. Decisions in this context are particularly complex and multifaceted. Informed decisions about dialysis require a personalised care plan that considers the prognosis and treatment options for each condition while also respecting patient preferences. The concept of prognosis should include quality-of-life considerations, functional status, and burden of care. Close collaboration between oncologists, nephrologists, geriatricians and palliativists is crucial to making optimal treatment decisions, and several tools are available for estimating cancer prognosis, prognosis of renal disease, and general age-related prognosis. Decision regarding the initiation or the termination of dialysis in patients with advanced cancer have also ethical implications. This last point is discussed in this article, and we delved into ethical issues with the aim of providing a pathway for the nephrologist to manage an elderly patient with ESRD and cancer.

Keywords: Chronic Kidney Disease, Cancer, Dialysis, Ethic, Onconephrology

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Neoplasia e malattia renale

Al giorno d’oggi, a livello mondiale, le neoplasie rappresentano una delle principali cause di morte, così come la malattia renale cronica in stadio terminale (ESRD) interessa percentuali sempre più ampie di popolazione [1, 2].

A partire dagli anni ’70 la dialisi è diventata il trattamento salvavita per pazienti con insufficienza renale acuta o cronica in stadio terminale e negli ultimi decenni nei Paesi occidentali il numero di dializzati cresce del 5% annuo. Fra le principali cause vanno ricordate l’invecchiamento della popolazione generale e l’incidenza sempre più crescente di diabete mellito di tipo II, condizione frequentemente associata a deterioramento della funzione renale [2]. La terapia sostitutiva della malattia renale cronica permette una maggior sopravvivenza rispetto al paziente con malattia renale cronica terminale ma non dializzato, maggior sopravvivenza che può favorire la comparsa di neoplasie [3]. Nonostante siano stati riportati in letteratura risultati contrastanti tra i vari studi negli anni ’90 del secolo scorso, più recentemente sono stati pubblicati studi che hanno dimostrato una maggiore incidenza per alcuni tipi di tumore nei pazienti in dialisi [4, 5].

In uno studio di coorte retrospettivo del 2018, che ha utilizzato i dati del Taiwan National Health Insurance che copre circa il 99% della popolazione della nazione, è stato dimostrato come nei pazienti in dialisi si osserva un aumentato rischio di comparsa per alcuni tipi di neoplasia. Il rischio risulta aumentato indistintamente nei pazienti in dialisi peritoneale o in dialisi extracorporea versus l’incidenza nella popolazione generale che non presenta malattia renale. Tra le neoplasie riscontrate le più frequenti erano quelle a carico delle vie urinarie extrarenali, vescicali e renali, del fegato e della tiroide [6].

Uchida e collaboratori hanno valutato la sopravvivenza media a 3 anni dall’inizio del trattamento sostitutivo in 454 pazienti in emodialisi e in 120 pazienti in trattamento con dialisi peritoneale. Nella popolazione in dialisi extracorporea è stato riportato un tasso di sopravvivenza del 65% al termine dei 3 anni di follow-up. Le cause di morte erano le malattie cardiovascolari nel 52% dei decessi, infettive nel 25% dei decessi e per neoplasia nel 12% dei decessi [6]. Nei pazienti in dialisi peritoneale si è osservata una sopravvivenza a 3 anni dell’81%, mentre le cause di morte erano infettive nel 36% dei casi, cardiovascolari nel 24% e oncologiche nel 6% dei casi (p = NS per morte da neoplasie fra emodialisi e dialisi peritoneale). Va infine sottolineato come in letteratura sia riportato un tasso di sopravvivenza nei pazienti con ESRD e neoplasia inferiore a quello dei pazienti con malattia renale cronica terminale senza neoplasia [6] e un tasso di mortalità elevato anche nei pazienti oncologici con danno renale acuto [7, 8]. 

Il meccanismo attraverso cui la malattia cronica renale end-stage possa influenzare lo sviluppo del cancro non è ancora ben compreso e si ipotizza una eziologia multifattoriale: il danno ossidativo aumentato nei pazienti uremici che danneggia il DNA predispone a mutazioni genetiche [8] e altera la riparazione del DNA [9, 10], l’accumulo di agenti cancerogeni dovuto a ridotta escrezione renale quali ad esempio i prodotti finali della glicosilazione o l’omocisteina. Oltre a questi sono riportati fra i fattori favorenti la comparsa di neoplasia lo stato infiammatorio cronico determinato dall’utilizzo di sostanze bioincompatibili e gli stress meccanici [11], lo stato immunitario maggiormente compromesso nei pazienti con CKD e ancor più nei pazienti in dialisi che espone i pazienti a maggiore probabilità di infezioni croniche come HBV, HCV, EBV [12]. Non bisogna infine dimenticare che alcuni farmaci utilizzati per il trattamento delle glomerulonefriti o delle vasculiti, quali l’azatioprina o la ciclofosfamide, sono riconosciuti come sostanze potenzialmente cancerogene e associate a maggior rischio di sviluppo rispettivamente del cancro della cute, di linfomi e del cancro della vescica [13, 14].

 

ESRD e trattamenti antineoplastici

Come nefrologi ci troveremo sempre più spesso a trattare pazienti con ESRD o già in dialisi che sviluppano un tumore (degno di nota è che spesso la diagnosi di cancro viene fatta grazie ai programmi di screening per inserimento in lista trapianto) così come gli oncologi dovranno gestire pazienti oncologici con ESRD o in dialisi. Le prescrizioni dovranno essere adattate in termini di adeguamento del dosaggio e del tempo di somministrazione al fine di prevenire effetti collaterali renali e non, dovuti alla modifica della farmacocinetica dei farmaci antitumorali in pazienti con alterata funzione renale. La corretta conoscenza della farmacocinetica dei farmaci antineoplastici permetterà così di evitare gli effetti tossici dovuti ad accumulo del farmaco per la minore escrezione renale, così come l’inefficacia terapeutica dovuta alla somministrazione di una dose non adeguata e ridotta arbitrariamente a scopo precauzionale.

Si sa ancora poco sulla gestione dei farmaci citotossici in pazienti con ESRD e ancor meno sulla tempistica ottimale e sugli aggiustamenti di dosaggio necessari a seconda delle sessioni di dialisi.  La mancanza di conoscenza e dati riguardanti l’uso sistemico di questi farmaci può portare ad un uso improprio dei chemioterapici e ad effetti tossici fatali in questi pazienti. Pertanto, è importante monitorare attentamente anche tutti gli effetti extra-renali correlati alla dose durante l’uso di tali farmaci. In questi anni si è avuto un significativo progresso nella gestione delle patologie oncologiche nei pazienti con malattia renale; quindi, i pazienti con ESRD devono avere le stesse probabilità di trattamento che hanno i soggetti senza malattia renale cronica. Infatti, alcuni studi hanno riportato che la sopravvivenza mediana dei pazienti con insufficienza renale con mieloma multiplo era inferiore nei pazienti non trattati con chemioterapia rispetto ai pazienti trattati con vincristina, adriamicina e desametasone (2 mesi vs 10 mesi) e melfalan (2 mesi vs 12 mesi) [15, 16].

Sembra tuttavia che i medici siano riluttanti ad utilizzare farmaci antitumorali nei pazienti in trattamento dialitico cronico con diagnosi di neoplasia. I pazienti in dialisi richiedono un’attenzione specifica soprattutto per la gestione dei farmaci antineoplastici poiché, nonostante gli effetti renali non siano più un problema nel paziente dializzato, è altrettanto vero che sono più esposti agli altri effetti collaterali extrarenali correlati alla dose. Questo dipende dal fatto che la maggior parte dei farmaci citotossici sono escreti prevalentemente a livello renale in forma immodificata o come metabolita attivo e dunque tossici. Nello studio multicentrico CANDY (CANcer and DialYsis, 2012), i ricercatori francesi hanno analizzato le dosi/intervalli di farmaci antitumorali somministrati in 178 pazienti in dialisi cronica che avevano sviluppato un tumore, aggiustandone il dosaggio per la funzione renale/sessione di dialisi al fine di evitare l’eliminazione prematura del farmaco durante le sessioni di dialisi [17], dimostrando che con il dosaggio appropriato del farmaco antineoplastico i pazienti oncologici con malattia renale in trattamento sostitutivo possono essere trattati come i pazienti non dializzati. Pertanto, è fondamentale utilizzare i dati disponibili per regolare la dose di farmaci antitumorali per questi pazienti e programmarne la somministrazione in base alle sessioni di dialisi. Ad esempio, nei pazienti in emodialisi che ricevono i sali di cisplatino, le dosi iniziali di cisplatino devono essere ridotte del 50% per evitare sovradosaggio e problemi di tolleranza, che possono mettere a rischio la possibilità di proseguire il trattamento chemioterapico. Questo perché il cisplatino è irreversibilmente legato alle proteine plasmatiche mentre la dose di farmaco libera è dializzabile e per questo deve essere somministrato dopo le sessioni di dialisi o nei giorni di non dialisi. Per altri farmaci non rimossi dal trattamento dialitico, come la doxorubicina, il rituximab, la vinblastina o la vincristina, la somministrazione può essere effettuata in qualsiasi momento e non necessita di aggiustamenti di dose [17]. Dunque, l’ESRD non è da considerare una controindicazione assoluta alla somministrazione di farmaci antitumorali, ma questi richiedono una gestione specifica in termini di dosaggio e tempo di somministrazione rispetto alla seduta di dialisi.

 

Approccio multidisciplinare alle cure

È dunque necessario un approccio multidisciplinare che includa oncologi, nefrologi e farmacologi per gestire correttamente i pazienti oncologici che presentano ESRD e proporre quindi una strategia farmacologica antitumorale adattata a questi pazienti che sviluppano tumori piuttosto che controindicarla sistematicamente, utilizzando le scarse raccomandazioni che derivano prevalentemente da report basati su singoli casi clinici e non da studi con una significativa numerosità di pazienti dializzati (che pur essendo scarse sono le uniche disponibili) e raccogliere correttamente i dati osservati nei pazienti trattati per avere ulteriori strumenti a disposizione per il trattamento delle neoplasie nei pazienti con ESRD o in dialisi [18, 19].

Pertanto si rende sempre più necessario, alla luce anche della continua introduzione nella pratica clinica di nuovi farmaci antitumorali, poter disporre di algoritmi terapeutici basati sullo stato fisico del soggetto, sulla mortalità prevista per malattia renale, sul tempo di dialisi, sul tipo e stadio della neoplasia, sull’impatto che il trattamento potrà avere sul grado di autonomia del paziente e il risultato ottenuto dall’algoritmo potrà quindi essere di supporto al clinico nella scelta terapeutica  (sì terapia vs no terapia).

 

Scelte etiche

Alla luce dell’età media di inizio trattamento dialitico sempre più avanzata (nel mondo occidentale è attorno ai 69 anni), della possibile comparsa di neoplasia nel corso del trattamento  dialitico, delle attese dei pazienti e familiari in un epoca sempre più connessa e con informazioni non sempre attendibili,  è lecito che la comunità dei professionisti si chieda: “è giusto trattare i pazienti dializzati con riscontro di neoplasia quando anche in condizioni di “no neoplasia” hanno una minor sopravvivenza rispetto alla popolazione generale? Tratto tutti indistintamente, non tratto nessuno, quali strumenti posso utilizzare per supportarmi nella decisione?”.

La scelta decisionale in questo caso richiede, a nostro giudizio, il supporto della bioetica, branca della filosofia che nasce con lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie biomediche (la scoperta della struttura a doppia elica del DNA e la conseguente ingegneria genetica, la preparazione della pillola per la contraccezione ormonale, lo sviluppo del trapianto d’organo, il sostegno artificiale delle funzioni vitali, il concepimento in vitro, la clonazione come esempi di innovazioni che hanno generato grandi discussioni fra i clinici) e che si occupa dell’analisi razionale dei problemi morali emergenti nel campo delle scienze biomediche, proponendosi di definire criteri e limiti di liceità alla pratica medica e alla ricerca scientifica, affinché il progresso avvenga nel rispetto di ogni persona umana e della sua dignità.

Il termine bioetica, coniato agli inizi del ’900, fu utilizzato nella sua accezione comune dall’oncologo statunitense Van Rensselaer Potter che, nel 1970, lo inserì nel titolo del suo testo “Bioetica: la scienza della sopravvivenza” spiegando il termine bioetica come “la scienza che consente all’uomo di sopravvivere utilizzando i suoi valori morali di fronte all’evolversi dell’ecosistema” [19].

La bioetica nasce quindi dall’esigenza di integrare tra loro nuove conoscenze e nuovi saperi con l’obiettivo di definire in maniera forte e razionale i criteri di regolamentazione della prassi biomedica e garantire la libertà di ricerca scientifica nel rispetto dei diritti umani fondamentali. Si può quindi dire che questo nuovo approccio alle grandi questioni mediche nasce dal dialogo e dal confronto tra biologia, medicina, filosofia, teologia, sociologia, antropologia, economia, diritto, politica, bioingegneria e, in questi tempi anche dalla discussione sull’information technology. Partendo dalla descrizione del dato scientifico, biologico o medico, la bioetica esamina la legittimità dell’intervento dell’uomo sull’uomo, avendo come orizzonte di riferimento la persona in tutte le sue dimensioni: fisiche, psichiche e spirituali.

Il fine del giudizio bioetico non è solo quello di dire ‘come’ si deve agire, ma ‘perché’ si deve agire in quel modo.

Da notare che la bioetica è cosa ben diversa dall’etica poiché quest’ultima è una branca della filosofia che si occupa del comportamento umano, studia i fondamenti che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status normativo, ovvero distinguerli in buoni, giusti, leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti ingiusti, illeciti, sconvenienti o cattivi secondo un ideale modello comportamentale. Come disciplina affronta questioni inerenti alla moralità umana definendo concetti come il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, la virtù e il vizio, la giustizia e il crimine.

Mentre per Deontologia Professionale intendiamo l’insieme delle regole morali che disciplinano l’esercizio di una determinata Professione (regole che la stessa professione, attraverso un proprio codice, si è data).

Da qui l’importanza di comprendere che la Deontologia Professionale (concetto che nella medicina trova forma scritta nella sua carta fondamentale – il Codice Deontologico) risulta essere l’insieme di quelle connotazioni prescrittive vincolanti per ciascun medico, pena la censura o radiazione, che la categoria professionale si è data per meglio esercitare la professione (contro morale = immorali).  Va pertanto ribadito che il “Codice Deontologico” non è stato elaborato partendo da precetti etici, e infatti nel codice sono contenute alcune regole che possono contrastare con il giudizio etico di alcuni suoi membri (ad esempio le norme che disciplinano l’interruzione della gravidanza).

Queste regole hanno la finalità di rappresentare i binari entro i quali la Professione debba essere esercitata, ed allo stesso tempo cosa il cittadino può “aspettarsi” dal professionista. Ecco perché il Codice è soggetto a revisione periodica, essendo considerato un “patto” è come tale soggetto a revisione tra le parti.

Tornando ai concetti di bioetica, per quanto riguarda la sua applicazione in ambito medico, si sono individuati 4 principi, riconosciuti come finalità implicite di questa pratica, cui fare riferimento in senso regolativo. Essi sono:

  • Il principio di autonomia, con il quale si riconosce e si afferma il dovere di rispettare l’individuo nella sua autodeterminazione, il suo diritto ad avere opinioni, a compiere delle scelte e ad agire in base a valori e convinzioni personali, nonché il dovere di promuovere l’autonomia dei diversi soggetti coinvolti nel processo di cura;
  • Il principio di non maleficenza, con il quale si riprende il tradizionale principio ippocratico del primum non nocere e si afferma il dovere di non provocare intenzionalmente un danno;
  • Il principio di beneficienza, che possiamo vedere come versione positiva del principio di non-maleficenza, inteso alla prevenzione o rimozione di un danno e alla promozione del bene del paziente;
  • Il principio di giustizia, che sottolinea l’esigenza di equità e giustizia della pratica medica e sanitaria e introduce la dimensione socioeconomica e politica tra i fattori determinanti questo settore [20].

 

Percorso decisionale nei pazienti con ESRD e neoplasia

Ed ecco che alla luce di tali premesse, dinanzi ad un paziente oncologico con ESRD o in dialisi il medico dovrebbe proporre un piano di assistenza personalizzato che consideri la prognosi e le opzioni terapeutiche per ogni condizione, rispettando anche le preferenze del paziente. Il concetto di prognosi dovrebbe includere considerazioni sulla qualità della vita, lo stato funzionale e l’onere dell’assistenza.

La stretta collaborazione tra oncologi, nefrologi, palliativisti e geriatri è fondamentale per prendere decisioni terapeutiche ottimali e sono disponibili diversi strumenti per definire la prognosi della neoplasia, la prognosi della malattia renale e la prognosi generale correlata all’età. Prove emergenti mostrano che questi strumenti di valutazione geriatrica, che misurano i gradi di fragilità, sono utili nei pazienti con malattia renale cronica. Nella review pubblicata su Lancet nel 2021, si cerca di fornire strumenti ai medici per guidare il processo decisionale in merito all’inizio e alla fine della dialisi nei pazienti con cancro avanzato [21]. Lo scenario che possiamo avere di fronte è duplice: il primo scenario è che i pazienti con neoplasia nota possono sviluppare ESRD e richiedere la necessità di iniziare un trattamento sostitutivo; il secondo scenario è che i pazienti con ESRD in dialisi sviluppino una neoplasia che potrebbe richiedere di non continuare la terapia dialitica. Il problema di trattare o non trattare queste condizioni cliniche spesso si pone nei pazienti più anziani con ESRD associata ad altre comorbilità, una popolazione che inoltre in una percentuale sostanziale mostra una significativa compromissione funzionale e cognitiva [22, 23] oppure perde l’indipendenza personale entro i primi mesi o anni di dialisi [24]. 

Bisogna tener presente, tuttavia, che non vi è una sostanziale eterogeneità nel processo di invecchiamento, e ciò comporta importanti variazioni nei modelli di trattamento e nei risultati nei pazienti più anziani. Inoltre, ci sono poche prove su cui basare le decisioni terapeutiche per i pazienti anziani con tumore e malattia renale, perché questo gruppo è notevolmente sottorappresentato negli studi clinici [25, 26].

Poiché l’età cronologica da sola non è un buon indice descrittivo dell’eterogeneità nel processo di invecchiamento, è necessario un modo sistematico e basato sull’evidenza per valutare la salute e la resilienza di un individuo e per guidare le decisioni terapeutiche oncologiche. Per colmare questa lacuna è stato proposto come approccio la valutazione geriatrica completa (CGA) [27].

La CGA è definita come un processo diagnostico multidimensionale e interdisciplinare fornendo una solida base per un processo decisionale condiviso perché raccoglie informazioni sulle capacità e sui limiti funzionali e psicosociali che sono legati alla discussione di ciò che conta di più nella vita quotidiana del singolo paziente. Con queste informazioni raccolte obiettivamente, il team medico è in grado di sviluppare un piano coordinato e integrato per il trattamento e il follow-up a lungo termine [28, 29].

Dato il contesto complesso dovuto sia alla neoplasia che alla malattia renale (e della possibile fragilità), in questa popolazione è fortemente raccomandato di non utilizzare la sola valutazione geriatrica ma di utilizzare l’intero processo CGA per fornire la migliore assistenza e includere assistenti e infermieri del servizio dialisi nel team interdisciplinare CGA. I punteggi Performance Status e Karnofsky Performance Status dell’Eastern Cooperative Oncology Group (ECOG) sono rapidi e semplici da accertare, ma non hanno una sensibilità sufficiente per rilevare la fragilità in modo efficiente. Inoltre, queste misurazioni non danno informazioni dettagliate sull’esatta gravità dei problemi geriatrici nei diversi domini. In uno studio di Hurria e colleghi, il Karnofsky Performance Status non è stato in grado di prevedere la tossicità della chemioterapia, mentre i componenti della valutazione geriatrica hanno aggiunto un valore sostanziale nel predirla [30].

Diversi studi hanno dimostrato che la maggior parte dei componenti del CGA ha un valore prognostico indipendente per la sopravvivenza (es., stato funzionale [31, 32], stato nutrizionale [33-36] e salute mentale [31, 32]), con la nutrizione costantemente tra i più forti predittori di esito. Tuttavia, un CGA completo richiede tempo, quindi per selezionare i pazienti che trarrebbero i maggiori benefici dalla valutazione geriatrica, sono stati sviluppati numerosi strumenti di screening geriatrico (ad esempio, Geriatric 8 noto anche come G8 [37], l’indagine sugli anziani vulnerabili [38], e la versione fiamminga del Triage Risk Screening Tool [39]. 

Inoltre, nei pazienti con malattia renale avanzata, ci sono rapporti secondo i quali la valutazione geriatrica è utile per informare il processo decisionale condiviso in merito alla scelta della modalità e per massimizzare le opportunità di riabilitazione e mantenimento dell’indipendenza [40, 41]. È stato suggerito che la CGA dovrebbe essere eseguita, e dovrebbe essere applicata per la pianificazione avanzata dell’assistenza, al momento dell’inizio della dialisi e poi riveduta quando si verifica un cambiamento importante nella salute o nello stato funzionale di un paziente, come nel caso di un ricovero in ospedale [40].

Il trattamento dialitico è da considerarsi come “terapia salvavita”, ma in alcune situazioni può essere visto anche come un prolungamento sproporzionato della vita e che può peggiorare la qualità della vita del paziente attraverso l’aumento del carico di cure. Compito del clinico, pertanto, è di “dare vita agli anni, non anni alla vita”. Molti pazienti con ESRD sono fragili e hanno molteplici comorbilità e la loro sopravvivenza globale in dialisi cronica rimane bassa, con un tasso di sopravvivenza a 5 anni inferiore al 50%; tuttavia, vi è un’elevata variazione interindividuale a seconda dell’età, dello stato funzionale e della presenza di comorbilità specifiche al momento dell’inizio della terapia renale sostitutiva [42, 43]. Oltre alle complicazioni mediche, è ben noto che l’inizio della terapia renale sostitutiva è associato ad un improvviso declino funzionale e ad una diminuzione della qualità della vita [44, 45]. Lo stato funzionale è un risultato importante per i pazienti più anziani, la maggior parte dei quali dà priorità allo stato funzionale rispetto al prolungamento della vita [46]. Inoltre, vi è una maggiore probabilità per i pazienti in dialisi di morire in ospedale o in hospice e la maggior parte dei pazienti in dialisi riceve negli ultimi anni di vita un trattamento sproporzionato rispetto ai bisogni del soggetto [47]. 

Nella popolazione anziana, attraverso l’uso di questionari anonimi, si rileva un’alta percentuale di persone che prova rimpianto per aver iniziato il trattamento sostitutivo. Ad esempio, Saeed e colleghi hanno rilevato che il rimpianto decisionale si è verificato in 82 (21%) dei 397 pazienti sottoposti a dialisi cronica [48]. L’invecchiamento della popolazione, l’evoluzione dei pazienti anziani avviati al trattamento dialitico, l’aumento delle ospedalizzazioni legate al trattamento hanno nel tempo favorito il dibattito sull’utilizzo della gestione conservativa come alternativa al trattamento dialitico almeno nella gestione dei pazienti anziani e grandi anziani [47, 49]. Questo sviluppo è stato ben illustrato da Verberne e colleghi che hanno confrontato retrospettivamente i risultati della cura conservativa rispetto alla terapia renale sostitutiva in 311 pazienti olandesi di età pari o superiore a 70 anni [50, 51]. Sebbene questo studio abbia rilevato che questi pazienti di età pari o superiore a 70 anni sottoposti a terapia renale sostitutiva avevano una sopravvivenza significativamente più lunga rispetto a quelli che avevano scelto un trattamento conservativo (tempo medio di sopravvivenza dalla data della decisione sulla cura 3,1 anni vs 1,5 anni rispettivamente; log-rank p<0,001), non è stata osservata alcuna differenza significativa nel sottogruppo di pazienti di età pari o superiore a 80 anni (2,1 anni vs 1,4 anni rispettivamente, log-rank p=0,08). Inoltre, mentre i pazienti di età pari o superiore a 70 anni con comorbidità grave (ossia, punteggio di comorbidità di Davies ≥3) che hanno scelto la terapia sostitutiva renale hanno comunque vissuto significativamente più a lungo rispetto a quelli che hanno scelto la cura conservativa, la differenza di sopravvivenza è stata inferiore rispetto a quelli con meno comorbidità (1,8 anni mediani di sopravvivenza dalla scelta della decisione terapeutica vs 1,0, log-rank p=0.02) [50]. 

Non iniziare la dialisi, o interromperla, è quindi una valida opzione terapeutica anche nelle persone anziane con neoplasia, in particolare se la prognosi della neoplasia o la prognosi generale correlata all’età è sfavorevole. L’équipe medica ha l’obbligo etico nei confronti del paziente di delineare la diagnosi e di evidenziare l’opzione della dialisi senza omettere informazioni sul rapporto rischio-beneficio. Il paziente può anche decidere di provare la dialisi a tempo limitato, prendendosi il tempo necessario per prendere la decisione definitiva di interrompere o proseguire la dialisi. Allo stesso modo, dovrebbe essere descritta la possibilità alternativa di un approccio conservativo con cure palliative. I pazienti hanno il diritto di rinunciare a qualsiasi trattamento, ma non possono richiedere la somministrazione di una terapia che l’équipe medica ritiene futile [21]. 

Come precedentemente ricordato nella pratica clinica si possono prevedere diversi scenari: pazienti con neoplasia nota che sviluppano ESRD e pazienti con ESRD in dialisi che sviluppano una neoplasia. Nel primo scenario sarà importante per il paziente e per l’oncologo comprendere l’effetto dell’ESRD e elaborare un’ipotesi di prognosi con e senza dialisi, in modo che si possa prendere una decisione informata sull’inizio della dialisi. Nel secondo caso diventano rilevanti altre domande: quali sono le opzioni diagnostiche e terapeutiche e qual è la (probabile) prognosi della neoplasia? Qual è la prognosi del paziente, data la sua attuale fragilità, lo stato di salute generale e le comorbilità? In che modo questo è influenzato dalla neoplasia, con e senza trattamento? Quali saranno gli effetti delle possibili opzioni terapeutiche oncologiche per questo specifico paziente, dato il suo stato di fragilità? Cosa significa questo per la scelta del trattamento oncologico? Qual è la prognosi per la malattia renale allo stadio terminale, con e senza dialisi? Qual è l’effetto atteso del proseguo o della sospensione della dialisi in questo particolare paziente, dato il suo stato di fragilità? Cosa significa questo per la decisione terapeutica? Quanto dell’attuale stato di fragilità del paziente è determinato dai sintomi legati alla neoplasia o alla malattia renale e che potrebbero essere alleviati iniziando il trattamento? Cosa succede se il paziente non prosegue il trattamento dialitico oppure non inizia la terapia antitumorale?

Per guidare la discussione con il paziente, sono pertanto necessarie molte informazioni sulla futura evoluzione della malattia e, in particolare, informazioni da tre diversi punti di vista: quello oncologico, quello geriatrico e quello renale. Dal punto di vista oncologico, gli oncologi devono informare il paziente sullo sviluppo previsto della malattia, con e senza iniziare o continuare la terapia antitumorale. Dal punto di vista geriatrico, i geriatri sono nella posizione migliore per informare i pazienti sui possibili effetti sull’indipendenza, sulla funzionalità e sulla qualità della vita in generale per una persona della loro età e grado di fragilità. Dal punto di vista renale, la prognosi renale è un preambolo importante nelle discussioni con il paziente ed è determinata dalla funzione renale residua e dalla gravità della patologia renale sottostante. Anche se difficilmente esatta, il nefrologo può stimare l’evoluzione di una malattia (mesi/anni prima di necessità della terapia sostitutiva). Strumenti prognostici convalidati possono aiutare in questo contesto, ad esempio, l’Equazione del rischio di insufficienza renale [52,53]. Alla luce del declino cognitivo che può manifestarsi nel periodo successivo all’inizio della terapia sostitutiva, è pertanto importante iniziare le discussioni sull’inizio o la fine della dialisi il prima possibile nel decorso clinico del paziente, per consentire un processo decisionale informato e condiviso (équipe-paziente-familiari).

Fornire informazioni è essenziale ed i pazienti che decidono se iniziare o interrompere la dialisi devono essere informati della loro prognosi e del possibile carico di sintomi che si presenteranno alla sospensione del trattamento o al non avvio della terapia sostitutiva. L’alternativa al non avvio della terapia dialitica rimane la massima gestione conservativa, un approccio che comprende il trattamento di supporto per alleviare il carico dei sintomi nei pazienti con ESRD, oltre a misure per preservare la funzione renale residua [54]. Fra queste ultime ricordiamo la prevenzione di episodi di ipotensione prolungata (controllo idratazione, uso ragionato della terapia ipotensiva, presenza di vomito o diarrea), il non utilizzo di farmaci nefrotossici (quali ad esempio i farmaci antinfiammatori non steroidei o gli aminoglicosidici) e il corretto utilizzo delle procedure che richiedono l’uso del mezzo di contrasto per via endovenosa. Gli strumenti di valutazione dei sintomi sono importanti per guidare e valutare il trattamento scelto e attualmente sono disponibili per questo scopo una moltitudine di strumenti [55, 56]. Uno studio di Van der Willik e colleghi [55] ha esaminato 121 questionari per la valutazione dei sintomi e ha identificato l’indice dei sintomi della dialisi (DSI, Dialysis Symptom Index) come il migliore della sua classe [55]. 

Il delicato equilibrio tra il trattamento e la palliazione nel paziente nefropatico con neoplasia (sia nel paziente già in trattamento che in quello che deve iniziare trattamento dialitico) ha portato in questi ultimi anni all’individuazione di una nuova specializzazione in rapida evoluzione quale è l’onconefrologia, che centralizza le competenze oncologiche, nefrologiche e geriatriche per permettere la definizione del percorso di cura del paziente anziano e nefropatico con neoplasia [57].  Le decisioni terapeutiche vanno quindi condivise attraverso un confronto tempestivo tra pazienti, familiari o caregiver e professionisti, sui delicati argomenti della prognosi e delle preferenze del paziente. La pianificazione anticipata dell’assistenza delinea i confini della perseveranza terapeutica in base alle preferenze dei pazienti [57] e mira a preparare i pazienti e i loro caregiver al processo decisionale di fine vita, nel tentativo di migliorare la qualità della vita, senza necessariamente estenderla [58]. Al termine del percorso di confronto, che può richiedere anche momenti di interruzione per permettere una adeguata elaborazione delle informazioni ricevute al paziente e ai familiari, si definisce in maniera dettagliata la pianificazione dell’assistenza (escalation terapeutica, sospensione trattamento dialitico, palliazione). Condivisione, informazione corretta, tempo per l’elaborazione delle decisioni, supporto al paziente e ai familiari nel percorso decisionale sono step fondamentali perché il percorso di cura sia basato sulle conoscenze del clinico e sulle volontà del paziente e dei caregiver. 

Nei pazienti con malattia renale cronica, di solito c’è una relazione terapeutica di lunga data tra il nefrologo e il paziente, e questa relazione favorisce le discussioni congiunte. Nel caso di riscontro di neoplasia in un soggetto dializzato cronico deve essere valutato il peso del trattamento dialitico (sia in termini assistenziali che di impatto sulla vita del paziente) e il vantaggio di sopravvivenza che il trattamento dialitico può dare, valutazione che si rende particolarmente necessaria nei pazienti anziani fragili. Le informazioni predittive sulla sopravvivenza attesa con o senza un trattamento antineoplastico specifico sono importanti per i pazienti nel processo decisionale.  La complessità di questo contesto è che la prognosi globale (cioè il corso anticipato della convivenza con una malattia), è determinata da almeno tre fattori, in parte indipendenti: la prognosi della neoplasia, la prognosi associata alla fragilità (che include altre comorbilità, lo stato funzionale e le sindromi geriatriche) e la prognosi basata sulla malattia renale. Tuttavia, la prognosi è più della sola aspettativa di vita; una definizione più ampia è quella di considerare la prognosi come la visione anticipata della convivenza con una malattia [59].

Nel campo dell’oncologia, ci sono molti dati sui fattori prognostici di sopravvivenza in diversi tipi di tumore. L’età è spesso tra questi fattori prognostici, ma i fattori correlati al tumore (es., le caratteristiche del tumore, l’estensione della malattia) sono generalmente più importanti e la fragilità è raramente inclusa perché non è stata spesso misurata in studi precedenti. Successivi studi oncologici hanno iniziato a integrare i parametri di fragilità (misurati dalla valutazione geriatrica) quando si guarda alla prognosi e alla tolleranza al trattamento. La valutazione geriatrica nei pazienti anziani con neoplasia è in grado di rilevare problemi e rischi non identificati a cui possono essere applicati interventi mirati, prevedere esiti avversi (es., tossicità, declino funzionale o cognitivo, complicanze postoperatorie) [60]. Infine, per il paziente in terapia conservativa o in trattamento dialitico con la neoplasia in cura attiva è necessaria la presa in carico “continuativa e transmuraria (territorio-ospedale-territorio)”, sul modello delle cure simultanee, in questo caso “onco-nefro-palliative”.

Inoltre, il concetto di prognosi deve includere considerazioni sulla qualità della vita, lo stato funzionale, l’onere dell’assistenza e delle cure, le speranze e le preoccupazioni dei pazienti e la possibilità di eventi imprevedibili. Sulla base di tutte queste considerazioni, il medico può aiutare il paziente a prendere decisioni che abbiano senso per il paziente nella propria vita [61]. 

Ovviamente vanno garantiti alla persona con prognosi infausta il non abbandono (ageismo) garantendo un supporto base al paziente, il sollievo delle sofferenze attraverso l’attivazione delle cure palliative, il rispetto di tutti i diritti della persona (dignità) e il diritto alla verità/speranza attraverso un’informazione veritiera. 

Per alcuni pazienti la prognosi potrebbe essere principalmente determinata dalla fragilità, per altri dalla progressione della neoplasia e per altri dal problema renale. La CGA è un processo diagnostico multidisciplinare e multidimensionale in cui vengono valutate le capacità mediche, nutrizionali, funzionali e psicosociali. Questo modello di valutazione geriatrica può aiutare a rilevare problemi geriatrici non riconosciuti, consentire un intervento precoce e portare a strategie di trattamento sempre più individualizzate [62].

 

Documenti società scientifiche

Per aiutare nella decisione delle cure sempre più individualizzate sono stati elaborati diversi documenti condivisi sia a livello nazionale che internazionale. Fra i vari documenti, segnaliamo quelli elaborati a livello nazionale, che oltre alle basi scientifiche derivate dalla letteratura, riflettono anche il pensiero elaborato su queste problematiche in numerosi convegni fra nefrologi, giuristi, palliativisti, geriatri, medici legali. Il documento Grandi insufficienze d’organo end-stage: cure intensive o cure palliative?” è stato promosso dal Gruppo di Studio di Bioetica della Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) [63]. Il testo è stato elaborato dopo un intenso lavoro di circa due anni da esperti di varie specialità e professionalità impegnati nella gestione dei malati affetti da patologie cronico-degenerative in fase end-stage. L’obiettivo è quello di fornire strumenti di valutazione e un percorso decisionale per definire con maggiore appropriatezza etico-clinica il trattamento di tali malati che giungono nei dipartimenti di emergenza o che sono ricoverati nei reparti ospedalieri per acuti. In data 22 Aprile 2012 il presente documento è stato approvato ad unanimità dal Consiglio Direttivo della SIAARTI ed il 24 Maggio 2013 dal Consiglio Direttivo Nazionale Società Italiana Medicina Emergenza Urgenza (SIMEU).

Altro documento utile per la definizione condivisa del processo delle cure è il “Documento condiviso SICP-SIN” frutto del tavolo di lavoro intersocietario fra la Società Italiana Cure Palliative e la Società Italiana di Nefrologia, approvato da entrambi i consigli Direttivi al termine di un percorso di elaborazione durato tutto il 2015. Nel documento si possono trovare gli strumenti utili per l’identificazione precoce nel paziente con malattia renale cronica avanzata del bisogno di cure palliative, gli aspetti di natura etico-giuridica e le possibili opzioni terapeutiche.

Due documenti che pongono quindi le basi per una corretta e fattiva collaborazione fra i diversi professionisti, e che per quanto ci compete da un supporto particolare a noi nefrologi e ai palliativisti, aiutandoci nelle decisioni di cura che hanno, sempre più, aspetti etici oltre che clinici [64, 65].

 

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Nephrological nutritional office: a transversal organization model and access flowchart

Abstract

The nutritional aspect has a critical relevance in the educational and care path of nephropathic patients. The Nephrology-Dietology synergy in the Hospital is conditioned by various factors, such as the difficulty for Dietology to provide capillary and personalized follow-up to nephropathic patients.

Hence the experience of a transversal II level nephrological clinic, dedicated to nutritional aspects throughout the path of nephropathic patients, from the earliest stages of kidney disease to replacement treatment. The access flowchart provides a nephrological indication: from chronic kidney disease (CKD), kidney stones, immunopathology, hemodialysis, peritoneal dialysis, and transplantation clinics, from the nephrological department, patients are selected for evaluation.

The clinic is conducted by an expert nephrologist and trained dietitians, and is divided into different settings: educational meetings in small groups (patients and caregivers); simultaneous dietary and nephrological visits to advanced CKD; nutritional-nephrological visits on specific problems: from metabolic screening of kidney stones to action on the intestinal microbiota in immunological pathologies, to the application of the ketogenic diet in obesity, metabolic syndrome, diabetes, and early kidney damage, to onconephrology. Submission to further dietological assessment is limited to critical and selected cases.

The synergistic model between nephrology and dietetics offers clinical and organizational advantages: guarantees a capillary follow-up, reduces the number of hospital accesses, thus enhancing compliance and clinical outcomes, optimizes available resources, and overcomes the critical issues of a complex hospital with the advantage of the always profitable multidisciplinarity.

Keywords: dietetic-nutritional therapy, nephrology, chronic kidney disease

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La terapia dietetico-nutrizionale nella malattia renale cronica (MRC)

L’aspetto nutrizionale ha rilevanza critica nel percorso educazionale e di cura del paziente nefropatico tanto che anche le linee guida nazionali ed internazionali [16] confermano la Terapia Dietetico-Nutrizionale (TDN) come parte integrante del trattamento da offrire ai nostri pazienti cronici. Il suo obiettivo non è solo di preservare la funzione renale residua, rallentando la progressione della malattia renale verso l’uremia, ma anche e soprattutto di meglio controllare i sintomi uremici e di mantenere uno stato nutrizionale adeguato [1, 2, 7]. In questo modo i pazienti stanno meglio e giungono al trattamento sostitutivo più tardi e in condizioni cliniche e nutrizionali migliori, con vantaggi anche economici di risparmio sulla spesa sanitaria [1, 2]. 

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Thrombophilic study in dialysis patients

Abstract

Chronic kidney disease is a complex phenotype that results from the association of underlying kidney disease and environmental and genetic factors. In addition to the traditional risk factors, genetic factors are involved in the etiology of renal disease, including single nucleotide polymorphisms which could account for the increased mortality from cardiovascular disease of our hemodialysis patients. The genes that influence the development and rate of progression of kidney disease deserve to be better defined. We have evaluated the alterations of thrombophilia genes in hemodialysis patients and in blood donors and we have compared the results obtained. The objective of the present study is to identify biomarkers of morbidity and mortality, which allow us to identify patients with chronic kidney disease at high risk, thanks to which it is possible to implement accurate therapeutic strategies and preventive strategies that have the objective of intensifying controls in these patients.

Keywords: single nucleotide polymorphisms, thrombophilia panel, biomarkers of mortality, omic sciences, chronic kidney disease, hemodialysis

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Introduzione

La malattia renale cronica è definita come una progressiva ed irreversibile perdita della funzione renale, evidenziata con un GFR stimato al di sotto di 60 ml/min/1,73 m2, con la persistente presenza di manifestazioni che sono suggestive di danno renale (proteinuria, sedimento urinario attivo, danni istologici, anormalità strutturali o storia di trapianto renale) o con entrambi, presenti da più di tre mesi [1].

La malattia renale cronica è da sempre considerata un problema di salute pubblica mondiale che richiede un’importante assistenza e significativi oneri economici. È noto che ad una riduzione del GFR fa seguito un incremento degli eventi cardiovascolari, delle ospedalizzazioni e complessivamente della mortalità [2]. La prevalenza della malattia renale cronica varia a seconda delle aree geografiche e per lo più varia tra il 10% e il 20 %, percentuale che aumenta gradualmente soprattutto nei paesi sviluppati [3, 4]. Questo trend potrebbe essere attribuito all’aumentato invecchiamento della popolazione a livello globale [5], oltre che all’incremento di patologie come il diabete mellito, l’ipertensione e l’obesità [6]. 

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Possible vaccine-induced immune thrombotic thrombocytopenia in a patient with diabetes and chronic kidney disease or random association?

Abstract

We report the case of a 75-year-old man who developed acute myocardial infarction 12 hours after the first dose of ChAdOx1 nCov-19 vaccine. The event was associated with a transient decrease of platelet count and the detection of anti-PF4 antibodies approximately 45 days after the event.
Vaccine-induced thrombotic thrombocytopenia (VITT) is characterized by the onset of venous or arterial thrombosis in temporal relationship to the administration of anti-Sars-Cov-2 viral vector vaccines (ChAdOx1 nCov-19 and Ad26.COV2.S), thrombocytopenia and the production of anti-PF4 antibodies. It occurs mainly at a young age, even if the median age is 54 years; it is often associated with thrombosis in atypical sites, such as the cerebral sinus.
Our reported case does not present all the diagnostic criteria of VITT. However, the close temporal relationship between ChAdOx1 nCov-19 vaccine administration, thrombosis, and concomitant anti-PF4 antibodies positivity makes the case suggestive of a possible slight form of VITT.

Keywords: Sars-CoV-2, chronic kidney disease, vaccine, ChAdOx1 nCov-19, vaccine-induced immune thrombotic thrombocytopenia, VITT

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Introduzione

Il virus Sars-CoV-2 è responsabile di una pandemia senza precedenti a livello mondiale, che ha causato quasi 300 milioni di infezioni, più 5 milioni di decessi [1] e gravi ripercussioni dal punto di vista sociale ed economico. Grazie a uno sforzo senza precedenti, solo dopo nove mesi dall’inizio della pandemia, sono stati resi disponibili diversi vaccini contro il virus Sars-CoV-2. In particolare, due di questi (Pfizer mRNABNT162b2 e Moderna mRNA-1273) utilizzano una tecnologia innovativa, basata su molecole di RNA messaggero che contengono le istruzioni per produrre temporaneamente la proteina “spike” del Sars-CoV-2.

Al contrario, altri due vaccini disponibili in Italia, ChAdOx1 nCov-19 (Astazeneca) e Ad26.COV2.S (Johnson & Johnson) sono basati su una tecnologia più tradizionale, che utilizza un vettore virale ad adenovirus per introdurre la proteina “spike” del Sars-CoV-2 nell’organismo e indurre la risposta anticorpale.

Nel febbraio 2021, dopo alcuni mesi dall’inizio della campagna vaccinale, sono stati segnalati i primi casi di trombosi atipiche, in particolare a livello del seno venoso cerebrale, insorte dopo 5-30 giorni dalla somministrazione di vaccini anti-Sars-CoV-2 a vettore virale [24]. I casi di trombosi si associavano alla comparsa di trombocitopenia e presenza di anticorpi anti-fattore 4 delle piastrine (anti-PF4); la nuova sindrome è stata denominata trombocitopenia trombotica immune indotta da vaccino (VITT) [2]. 

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Methods for calculating the number of nephrons from ultrasound scans and kidney biopsies for nephrologists’ use

Abstract

The interest in determining the number of nephrons in the kidney dates back to the 1960s, when an influential laboratory method for determining ex vivo the number of nephrons in the kidneys was described by Bricker. Over the years, various methods have been developed to estimate the number of nephrons in living beings as accurately as possible. These modern methods combine data such as the glomerular density, the percentage of glomeruli in sclerosis calculated from biopsy samples, and the kidney volume, which can be precisely estimated from magnetic resonance, CT scan, or specific ultrasound methods. As the reduction in the number of functioning nephrons is closely connected with an increased risk of progression of renal disease (especially in patients with nephrotic syndrome) and hypertension, its introduction into clinical practice could allow a precise stratification of progression risk in patients with kidney disease and a better understanding of the mechanisms that contribute to the loss of functioning nephrons.

Keywords: nephrons number, kidney biopsy, CKD

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Introduzione

L’interesse nella determinazione del numero di nefroni del rene risale agli anni ’60, quando Damadian, Shawayri e Bricker misero a punto il primo metodo di laboratorio per la determinazione del numero di nefroni nei reni [1]. L’unità funzionale del rene, il nefrone, varia in numerosità fra varie specie, con caratteristiche che sono determinate da un adeguato sviluppo fetale [2]. Nell’uomo il numero complessivo di nefroni varia a seconda della stima: da 850.000 nefroni [3] a 1.429.000 [4], con variazioni in base all’etnia [5]. L’effetto del genere (maschile/femminile) sul numero di nefroni è meno evidente: in alcuni modelli murini (topi B6) le femmine hanno più nefroni dei maschi, mentre in altri ceppi (C3H) non vi sono differenze fra i due sessi [6]. Inoltre, variazioni nel numero di nefroni sono state associate a diverse condizioni cliniche come l’ipertensione: gli adulti ipertesi hanno infatti una media di 702.000 nefroni, inferiore a quella di soggetti normotesi con una media di 1.429.000 [4].

In corso di malattia renale cronica si verifica una perdita della funzione renale dovuta al danno di singoli nefroni e una ipertrofia ed iperfiltrazione dei nefroni residui. Quest’ultimo fenomeno può causare danno ai nefroni superstiti. Un possibile meccanismo dovuto all’iperfiltrazione consiste in un maggior fabbisogno energetico dei nefroni superstiti, una inadeguatezza dell’apporto vascolare con ipossia, ischemia, acidosi [7] (Figura 1).

malattia renale cronica
Figura 1: Nella malattia renale cronica, l’insufficienza continua dei singoli nefroni porta alla progressiva perdita della funzione renale. Questo processo risulta in parte da una risposta cellulare e molecolare alla lesione che rappresenta un tentativo di mantenere l’omeostasi ma avvia invece un programma che danneggia il nefrone. Man mano che i nefroni vengono persi, la compensazione da parte dei nefroni rimanenti esacerba la fisiopatologia glomerulare. Il fabbisogno energetico dei nefroni iperfunzionanti supera il substrato metabolico a disposizione del tubulo renale e l’inadeguatezza dell’apporto vascolare locale promuove l’ipossia/ischemia e la conseguente acidosi. In questo modo, i meccanismi attivati per mantenere l’equilibrio biologico portano alla fine alla scomparsa del nefrone.

Conoscere il numero di nefroni di un soggetto è rilevante alla luce della correlazione tra basso numero di nefroni alla nascita e un aumentato rischio di malattia renale cronica e ipertensione [7, 8], aggravato da uno stile di vita sedentario [9]. Inoltre, l’obesità, insieme ad altre condizioni alla base di lesioni renali acute o croniche, provoca una riduzione del numero di nefroni funzionanti e di conseguenza progressione della malattia renale [10]. Anche il diabete determina un deterioramento progressivo della massa nefronica [11].

Con l’età il numero di nefroni diminuisce e questo è uno dei meccanismi che determina la diminuzione della funzione renale età-dipendente [12]. Sulla base di una serie di autopsie, il tasso di perdita di nefroni per rene è stato stimato a circa 6.800 nefroni per rene all’anno [13]. Da un ulteriore studio effettuato su donatori viventi di rene, il tasso di perdita di nefroni risulta essere di circa 6.200 nefroni per rene all’anno con una velocità di perdita che aumenta con l’età [14].

Numerose condizioni, oltre all’obesità, portano ad un ridotto numero di nefroni. Forme congenite di basso numero di nefroni sono causate da basso peso alla nascita, sesso femminile (anche se, come discusso, questo dato non è replicato in modelli animali), bassa statura da adulti, reni ipoplasici, nascita pretermine, ridotta crescita intrauterina [15, 16]. Tutte le forme di malattia renale cronica (inclusa quella diabetica) si associano a una perdita di nefroni. Altri aspetti, invece, come l’ipertensione hanno una relazione causa-effetto meno chiara, poiché se l’ipertensione causa danno glomerulare, è anche noto che un ridotto numero di nefroni può causare ipertensione.

Numerosi sono stati i progressi, fino ad oggi, sulla determinazione del numero di nefroni. La micro-TAC con mezzo di contrasto permette, ad esempio, di visualizzare i singoli glomeruli (e quindi contare i nefroni) [17]. Tuttavia, è possibile avere un’adeguata stima del numero di nefroni conoscendo la densità di glomeruli da biopsie renali e il volume della corticale renale. Questa ultima è conoscibile tramite risonanza magnetica [18], ecografia e tomografia computerizzata [19].

Con la risonanza magnetica, il volume renale viene calcolato misurando i tre assi del rene, la cui forma viene approssimata a quella di un ellissoide; per impostazione predefinita vengono misurati i diametri longitudinale e trasversale del rene, e il volume renale è calcolato applicando la formula di approssimazione: volume = lunghezza × larghezza × profondità media × 0,5 [18]. Per quanto riguarda le tecniche ecografiche di calcolo del volume renale, una delle formule utilizzate è l’equazione dell’ellissoide (lunghezza × larghezza × spessore × π/6) e un’equazione aggiustata (lunghezza × larghezza × spessore × 0,674). Tale calcolo è stato validato dal confronto con tecniche di misurazione del volume renale che si servono della tomografia assiale computerizzata (TC) tramite il conteggio dei voxel, che è considerato il criterio standard [19].

Partendo dal volume renale che quindi può essere calcolato anche semplicemente tramite l’ecografia renale, si può facilmente ricavare il numero di nefroni, integrando i dati acquisiti con parametri bioptici quali la densità glomerulare e la percentuale di glomeruli sclerotici [20]. Il nostro scopo, infatti, è quello di chiarire l’importanza della determinazione di questo parametro e di proporne l’introduzione nella pratica clinica con il fine di avere un determinante in più, oltre al filtrato renale (eGFR) e ai marcatori di danno renale (proteinuria), per una più precisa stratificazione del rischio di pazienti affetti da malattia renale.

 

Storia del calcolo del numero di nefroni

Uno dei più antichi metodi per la conta dei nefroni fu messo a punto nel 1965 da Damadian, Shawayri e Bricker tramite un esperimento condotto su cani, allo scopo di quantificare i nefroni con glomeruli perfusi che non contribuiscono con il loro filtrato all’urina finale. Questi sfruttarono una tecnica a doppio marcatore per il rilevamento simultaneo in vivo della perfusione glomerulare e della filtrazione glomerulare. Come marcatore di perfusione è stato utilizzato l’inchiostro di china mentre l’emoglobina è stata usata come marcatore di filtrazione. I risultati con il metodo dell’inchiostro di china in vivo su reni normali sono stati confrontati strettamente con i valori ottenuti nei reni controlaterali con la tecnica standard di perfusione di ferrocianuro in vitro [1]. Nel 1972, Jean-Piere Bonvalet, Monique Champion, Frida Wanstok e Gu Berjal ripresero il metodo di Damadian: ratti sottoposti a un dosaggio letale di anestetico venivano nefrectomizzati, i reni venivano privati della capsula e successivamente macerati in una soluzione di acido cloridrico (HCl) al 50% a 37˚ C per 105 minuti, poi mantenuti in 250 ml di acqua distillata a 4˚ C per un giorno, prima di effettuare la conta. Il giorno seguente, ogni rene veniva posto in una fiala che veniva leggermente agitata a mano per ottenere una sospensione omogenea di glomeruli e frammenti di vasi e tubuli. Aliquote da 1 ml della sospensione venivano poi riposte in celle di plexiglas, e infine i glomeruli venivano contati con un microscopio a un ingrandimento di 40x.

Tale metodo è stato utilizzato con lo scopo di valutare se l’aumento del numero di nefroni fosse responsabile dell’ipertrofia compensatoria che si verificava in ratti nefrectomizzati. I risultati mostrano che l’aumento del numero di nefroni si verificava solo nei ratti nefrectomizzati nei primi 50 giorni di vita, suggerendo che la nefrogenesi sia conservata nei ratti più giovani ma non risulta più presente nei topi di maggiore età [21].

Il metodo di Damadian [1] per la conta del numero di nefroni è stato rivisitato con un protocollo sperimentale proposto da un gruppo dell’Università del Mississippi [22]. Entrambi i metodi si basano sulla tecnica di macerazione in acidi del tessuto renale. In breve, il rene viene sminuzzato e degradato mediante una soluzione di acido cloridrico. Questo porterà all’isolamento dei glomeruli che possono così essere diluiti in un volume noto, contati in un microscopio capovolto, così da poterne stimare infine il numero totale [22].

Con gli anni sono stati elaborati vari metodi per stimare nel modo più preciso possibile il numero di nefroni anche nei viventi [20]. Tali metodi moderni si servono di dati quali la densità glomerulare e la percentuale di glomeruli in sclerosi, calcolate da campioni bioptici [23], e del volume renale che può essere stimato a partire dalla risonanza magnetica con la formula dell’ellissoide che si serve delle misure dei tre assi dell’organo. Si tratta solo di una delle metodiche effettuate per calcolare il volume renale e tale formula, anche se molto utilizzata, tende a sottostimare sistematicamente il volume renale [18]. Un’altra formula che si usa per calcolare il volume renale partendo da risonanza magnetica è l’ellissoide KV-3, messa a punto da Higashihara nel 2015 con l’intento di avere una precisa stima del volume di reni policistici: ellissoide-KV3 = 84 + 1,01 x π/24 × Lunghezza × (somma di due misurazioni di larghezza) [24]. Tale calcolo è stato validato dal confronto con tecniche di misurazione del volume renale che si servono della tomografia assiale computerizzata (TC) ed il principio di Cavalieri. In pratica, conoscendo la distanza (d) fra le scansioni assiali, si calcola su ciascuna scansione (i) l’area del rene (Ai), ed il volume viene stimato tramite la seguente formula (principio di Cavalieri):

V = d * Σi Ai

Si sommano quindi le aree nelle varie scansioni e si moltiplica il tutto per la distanza fra una sezione e la successiva [19]. La limitazione di questa metodologia è che richiede l’uso di raggi X, è più costosa, e richiede tempo per l’analisi perché è necessario delimitare manualmente il profilo del rene su ogni immagine. Normalmente almeno dieci immagini sono necessarie per avere una stima valida del volume renale usando questa tecnica. Inoltre è possibile stimare il volume del rene con l’ecografia [25], anche se si tratta di una metodica operatore-dipendente e quindi più difficilmente riproducibile, ma sicuramente meno dispendiosa per il paziente.

 

Calcolo del numero di nefroni

L’interesse per il calcolo del numero di nefroni deriva principalmente dall’ evidenza che esistono diverse condizioni patologiche renali, come la sindrome nefrosica, nell’ambito delle quali il decadimento della funzione renale è spiegato in larga parte dalla riduzione del numero di nefroni funzionanti [20].

Per effettuare tale calcolo bisogna conoscere il volume della corticale renale (VRC). È possibile calcolare questo parametro partendo dal volume renale totale (VRT) misurato tramite ecografia usando la formula dell’ellissoide KV-3 proposta da Higashihara nel 2015: ellissoide-KV3 = 84 + 1,01 x π/24 × Lunghezza × (somma di due misurazioni di larghezza) [25]. Oltre al VRC è necessario ricavare dalle biopsie prima il volume dei glomeruli non sclerotici (Vnsg), quindi la densità del volume di glomeruli non sclerotici (DglomNSG) servendosi del modello stereologico proposto da Weibel-Gomez nel 1962 [26]. In questo modo è possibile avere una stima di informazioni tridimensionali partendo dalle immagini istologiche in due dimensioni. Una volta che si è in possesso del VRC e della DglomNSG, è possibile calcolare il numero totale di nefroni (TNN) con la formula seguente:

TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81 (Figura 2)

dove il denominatore 1.81 rappresenta un fattore di correzione del restringimento subito dal tessuto istologico per la perdita della perfusione sanguigna [20].

calcolo del numero di nefroni
Figura 2: Per effettuare il calcolo del numero di nefroni bisogna conoscere il volume della corticale renale (VRC), calcolato con l’ecografia renale. Oltre al VRC è necessario ricavare dalle biopsie prima il volume dei glomeruli non sclerotici (Vnsg), quindi la densità del volume di glomeruli non sclerotici (DglomNSG) con il modello stereologico proposto da Weibel-Gomez nel 1962 che permette di stimare informazioni tridimensionali partendo dalle immagini delle biopsie in due dimensioni. Una volta che si è in possesso del VRC e della DglomNSG, è possibile calcolare il numero totale di nefroni (TNN) con la formula seguente: TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81.

 

Numero di nefroni in differenti patologie del glomerulo

La formula descritta è stata utilizzata in una ricerca svolta dal nostro team e pubblicata [20] per stimare il numero di nefroni in diverse glomerulopatie mediante uno studio pilota trasversale retrospettivo su un campione di 107 pazienti che hanno effettuato una biopsia renale. I criteri di inclusione erano: (i) diagnosi istologica di glomerulosclerosi focale e segmentale (GSFS), nefropatia membranosa (MN), nefropatia diabetica (DN), nefropatia a lesioni minime (MCD), nefropatia da IgM (IgMN), nefropatia da IgA (IgAN), nefrite lupica; (ii) età compresa tra 20 e 60 anni. Tramite esame ecografico dei reni è stato calcolato il VRC sfruttando la formula ellissoide KV-3 e, successivamente, applicando la formula per il calcolo del numero totale di nefroni riportata di seguito: TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81. Dalle biopsie renali sono stati calcolati il Vnsg e la DglomNSG con la formula di Weibel-Gomez. I risultati mostrano che (i) il numero totale di nefroni è inversamente correlato alla pressione sistolica, (ii) nelle malattie caratterizzate da proteinuria, come la GSFS, MN e la DN, la variazione dell’eGFR è direttamente correlata al numero totale di glomeruli non sclerotici (NSG); (iii) di contro, nella sindrome nefritica, non abbiamo osservato una correlazione significativa tra il numero di nefroni e la diminuzione dell’eGFR. Ciò lascia quindi ipotizzare che le alterazioni dell’eGFR che si verificano nelle sindromi nefritiche come la nefropatia da IgA (IgAN) non possono essere spiegate sulla base del numero di NSG.

Probabilmente, la velocità di filtrazione glomerulare non è modificata in maniera significativa dal processo di fusione dei pedicelli dei podociti che si verifica tipicamente nelle malattie con proteinuria: quindi, nella sindrome nefrosica la variazione dell’eGFR dipende principalmente dal numero di nefroni funzionanti. D’altra parte, la riduzione della funzione renale che si verifica nelle sindromi nefritiche non può essere spiegata semplicemente sulla base del numero di NSG e probabilmente dipende soprattutto dal coinvolgimento dell’asse mesangiale.

 

Conclusioni

La riduzione del numero di nefroni funzionanti, che può essere connessa ad una nefrogenesi incompleta o a fattori ambientali, è strettamente connessa con un aumento del rischio di progressione di malattia renale (soprattutto nei pazienti con sindrome nefrosica) e di ipertensione [27]. Generalmente, quando i nefroni vanno incontro a perdita di funzione, i glomeruli dei nefroni residui subiscono una serie di modifiche disadattative diventando ipertrofici, un processo che può portare a un transitorio aumento dell’eGFR ma che, con il tempo, aumenta il rischio di progressione della malattia renale [8]. Il basso numero di nefroni alla nascita rappresenta quindi un chiaro fattore di rischio cardiovascolare nella vita adulta, e soprattutto di ipertensione. Tra i fattori che, durante la vita intrauterina, influenzano la nefrogenesi, ritroviamo fattori genetici e fattori ambientali, tra cui anche la dieta materna svolgerebbe un ruolo importante [28]. Anche la denutrizione materna, l’ipossia fetale e il basso peso alla nascita svolgono un ruolo importante nel determinare una nefrogenesi insufficiente e quindi basso numero di nefroni con aumentato rischio di sviluppare malattia renale cronica in età adulta [29].

Dal momento in cui il calcolo del numero di nefroni risulta essere poco dispendioso nei pazienti che vengono sottoposti a una biopsia renale e a un’ecografia renale, suggeriamo di introdurre nella pratica clinica il calcolo sistematico in questa popolazione con il fine di avere una più precisa stima del rischio di progressione della malattia renale in questi pazienti ed eventualmente mettere in atto strategie terapeutiche e/o preventive con tempistiche più adatte in modo di rallentare la progressione della malattia renale. Una strategia efficace potrebbe essere l’ottimizzazione della dieta e la riduzione al minimo dei fattori di stress ipossico/tossico nelle donne in gravidanza e nei bambini all’inizio dello sviluppo postnatale [29].

Le evidenze sulla popolazione adulta affetta da malattia renale cronica e/o ipertensione risultano, invece, ancora scarse. Sono necessari ulteriori studi per confermare l’efficacia del numero di nefroni come parametro utile per stratificare il rischio evolutivo in queste popolazioni e per elaborare scelte terapeutiche adeguate. Infine, sarebbe utile confermare con ulteriori trial clinici che la riduzione del numero di nefroni è un evento correlato soprattutto al danno podocitario, mentre sembra meno in relazione con le patologie renali non caratterizzate da sindrome nefrosica, come dimostrato da dati preliminari sull’argomento [20].

 

Bibliografia

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Controversy in estimating glomerular filtration rate through traditional equations in transgender people: discussion through a case report

Abstract

Introduction: Chronic kidney disease (CKD) and the number of transgender people is on the rise. Hormone replacement therapy may be associated with the development of adverse effects, including kidney disease.
Objective: To report the case of a transgender patient using hormone therapy who developed CKD.
Case Report: Male transgender patient, 28 years old, using testosterone cypionate every 15 days, without any comorbidity. Evolved with hypertensive peaks of 160-150/110 mmHg and loss of kidney function (Ur 102 mg/dl, Cr 3.5 mg/dl, estimated Glomerular Filtration Rate (eGFR) of 22 ml/min/1.73m2 considering male gender and 16.6 ml/min/1.73m2 considering female gender). Abdominal ultrasound showed chronic parenchymal nephropathy. Due to the significant reduction in eGFR, the patient was referred for kidney transplantation, but he was not included in the list because he had a creatinine clearance of 23 ml/min/1.73m2 for males and 21.5 ml/min/1.73m2 for females in the most recent tests.
Conclusion: Hormone replacement may have contributed to the increase in the patient’s blood pressure and, consequently, to the development of CKD. There is still no well-established consensus on the best way to estimate the GFR in transgender people, and it seems to be more appropriate to consider the gender to which the person self-identifies or to perform the calculation for both genders, obtaining an estimate of the range in which the patient’s GFR lies.

Keywords: Transgender persons, chronic renal insufficiency, hypertension, hormone replacement therapy.

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Introduzione

La malattia renale cronica (MRC) è un grave problema di salute pubblica in tutto il mondo, che colpisce tra il 9,1% e il 15% degli adulti [1, 2]. In Brasile, l’insufficienza renale cronica ha mostrato un numero crescente negli ultimi decenni, con oltre 144 000 pazienti attualmente in dialisi [3]. Parallelamente, c’è un numero crescente di persone transgender, con una stima di oltre 1 milione negli Stati Uniti e 150 000 in Canada [46]. In un recente studio epidemiologico, è stato stimato che in Brasile l’1,9% della popolazione si identifica come non binaria e lo 0,69% come transgender [7], che corrisponderebbe a circa 1,4 milioni di transgender. 

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Left atrial appendage occlusion as replacement of coumarin anticoagulants in calciphylaxis

Abstract

Calcific uremic arteriolopathy (CUA), often referred to as calciphylaxis, is a rare condition potentially life-threatening seen in 1-4% of patients with kidney failure on chronic dialysis. Pathogenesis is not clear, but several risk factors have been identified, one of the most known among them is coumarin anticoagulants therapy (tAC). When CUA occurs, tAC is contraindicated: the left atrial appendage occlusion, in dialysed patients affected by non-valvular atrial fibrillation, could be contemplated in replacement of tAC, that should be considered by nephrologist and discussed by a multidisciplinary team including cardiologists.

Keywords : Calciphylaxis, Warfarin, anticoagulant therapy, left atrial appendage occlusion, chronic kidney disease

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Introduzione

L’arteriolopatia uremica calcifica, nota anche come calcifilassi, è una patologia calcifica vascolare caratterizzata da occlusione dei piccoli vasi del tessuto adiposo sottocutaneo e del derma, e si accompagna ad un elevato tasso di mortalità. Colpisce prevalentemente i pazienti affetti da malattia renale cronica (MRC) terminale in trattamento renale sostitutivo, popolazione già di per sé predisposta all’insorgenza di calcificazioni extra scheletriche.

La CUA si manifesta con ischemia e necrosi cutanea secondaria alla deposizione di calcio nella tonaca media delle arteriole con conseguente fibrosi dell’intima, riduzione del lume vascolare e trombosi del vaso. Il decorso è  caratterizzato da due fasi della malattia, spesso coesistenti: la fase d’esordio, insidiosa, è distinta dalla comparsa di semplice eritema laminare; la seconda fase invece è rapidamente progressiva, con evoluzione ischemica e conseguente necrosi tessutale. Nella maggior parte dei casi, il pattern di distribuzione delle lesioni è di tipo “centrale” (addome e glutei) dove si dispone la maggior parte del tessuto adiposo, alternativamente può avere un pattern “distale” (arti), anche se la malattia teoricamente può colpire qualsiasi distretto corporeo [1, 2, 3].

I principali fattori di rischio noti comprendono: alterazione del prodotto calcio-fosforo, l’iper- e l’ipoparatiroidismo, la terapia con anticoagulanti cumarinici, gli stati di ipercoagulabilità, la malnutrizione o l’obesità.

La diagnosi si basa clinicamente sulla triade data da malattia renale avanzata/trattamento dialitico, due o più ulcere necrotiche dolenti e pattern di presentazione tipico; per la conferma diagnostica ci si avvale di imaging radiografico, che documenta le calcificazioni dei piccoli vasi, e dell’accertamento bioptico quando possibile.

La diagnosi differenziale si pone con numerose altre patologie, tra cui: necrosi da warfarin, vasculiti, embolizzazione colesterinica, porpora fulminante, vasculite da ossalati, crioglobulinemie.

Il trattamento si fonda su tre cardini:

  • gestione delle lesioni cutanee: antidolorifici, curettage chirurgico, terapia iperbarica, gestione del rischio infettivo;
  • modificazione dei fattori di rischio, ove possibile: sospensione della tAC, ottimizzazione del metabolismo calcio-fosforo, sospensione della vitamina D e dei suoi metaboliti, sospensione dei chelanti del fosforo a base di calcio;
  • inibizione/chelazione del processo di calcificazione: utilizzo off label del sodio tiosolfato (STS) [1, 2, 3]; attualmente in fase di studio il SNF472 [4].

 

Caso clinico

Riportiamo il caso di una donna caucasica di anni 60, affetta da malattia renale cronica di causa misconosciuta, in trattamento dialitico peritoneale per 6 anni e successivamente passata a trattamento emodialitico (dapprima con ritmo trisettimanale, quindi quadri-settimanale per elevati incrementi ponderali interdialitici) da fistola artero-venosa nativa a maggio 2020. In anamnesi si segnala: ipertensione arteriosa di lunga data, cardiopatia ipertensiva ad evoluzione ipocinetica (potatrice di ICD), stenosi aortica moderato-severa, FANV parossistica in tAC da maggio 2020, obesità. La terapia domiciliare della paziente era costituita da: Amiodarone 200mg, Amlodipina 10mg, Atorvastatina 40mg, Calcio carbonato 500mg 2cpx2, Doxazosina 4mgx2, Carvedilolo 25mgx2, Colecalciferolo 30gocce/settimana, Enalapril 10mg, Furosemide 250mgx2, Cinacalcet 60mg, Omeprazolo 20mgx2, Pregabalin 25mg, Warfarin 5mg secondo INR; la terapia intradialitica prevedeva somministrazione della regolare eparina ed Epoetina-zeta 6000UI tutte le dialisi.

Nel mese di gennaio 2021, ai regolari esami eseguiti in regime di dialisi, veniva registrato uno spiccato iperparatiroidismo accompagnato da grave iperfosforemia; inoltre la paziente lamentava agli arti inferiori intenso dolore, insorto da qualche tempo, e per il quale era stata valutata dal chirurgo vascolare, che consigliava utilizzo di calze elastiche (presidio che la paziente ha adottato senza benefici). All’osservazione del medico dializzatore gli arti inferiori della paziente presentavano lesioni cutanee necrotiche e circostante livedo reticularis ai polpacci bilateralmente; nel sospetto di CUA, la paziente veniva ricoverata. All’ingresso in reparto si prendeva atto della recente autosospensione da parte della paziente della terapia con calcio-mimetici, e dai recenti esami ematochimici si evidenziava una marcata alterazione del metabolismo calcio-fosforo (calcemia totale pari a 11.2 mg/dL – v.n. 8.8-10.2 mg/dL, fosforemia 7.8mg/dL – v.n. 2.5-4.5 mg/dL, e di paratormone 1660ng/L – v.n. 15-65ng/L). Ai restanti dati di laboratorio si segnala: quadro di anemia normocitica normocromica (Hb 9.8mg/dL – v.n. 11.8-17.5g/dL), conta e formula leucocitaria nella norma, lieve rialzo della PCR (1.89 mg/dL – v.n. 0.03-0.5 mg/dL), elettroforesi proteica nei limiti. I parametri di efficienza dialitica al momento del ricovero erano discreti con un valore Kt/V pari a 1.43 (Formula logaritmica di Daugirdas per la misurazione del Kt/V(urea)). All’esame obiettivo si confermava la presenza di ulcere dolenti ad entrambi i polpacci, di dimensioni variabili (max 5 x 3cm), con fondo necrotico ed eritema laminare circostante e con tendenza alla confluenza, già in progressione rispetto all’osservazione medica precedente. Veniva eseguito ecocolor-doppler degli arti inferiori che descriveva un asse vascolare, seppur calcifico, pervio, escludendo così ischemie dei vasi maggiori.

Nell’ipotesi di CUA venivano prontamente sospesi la tAC (sostituita dalla calciparina sottocute), i farmaci contenenti metaboliti attivi della vit-D ed i chelanti del fosforo a base di calcio; venivano reintrodotti calcio-mimetico orale (cinacalcet 60mg/die) e chelanti del fosforo privi di calcio. Successivamente si sostituiva calcio-mimetico orale con farmaco endovena (etelcalcetide cloridrato 2,5mg) nei giorni di dialisi; si avviava inoltre trattamento antalgico con bruprenorfina transdermica (20mcg/h) e morfina orale al bisogno. Sulla base del quadro clinico, la paziente iniziava trattamento con sodio tiosolfato endovena trisettimanale in infusione lenta durante l’ultima ora di dialisi con graduale titolazione del farmaco a partire da 12,5 g fino a un massimo di 25 g, quest’ultimo dosaggio mal tollerato per insorgenza di nausea e vomito, per cui proseguiva la terapia alla posologia di 18 g. Non è stato necessario aumentare la frequenza delle sedute emodialitiche in quanto la paziente era già sottoposta a un programma di quattro trattamenti settimanali (per il compromesso quadro cardiovascolare), ritenuti sufficienti, ponendo attenzione al bagno dei bicarbonati per il possibile quadro di acidosi metabolica che il sodio tiosolfato può indurre, monitorandone l’andamento con emogasanalisi venose pre- e post-dialisi.

Nelle settimane successive, malgrado il rapido intervento medico, la malattia presentava un’evoluzione rapidamente progressiva con l’estensione delle lesioni ischemiche di entrambi i polpacci fino ad impossibilità di deambulazione autonoma; si predisponeva così il trasferimento dal reparto di nefrologia a un centro riabilitativo specializzato, presso il quale venivano eseguite biopsie cutanee incisionali a cuneo, di 6 differenti siti, il cui referto risultava compatibile con il quadro di calcifilassi in 5 delle lesioni biopsiate (Fig. 1).

Fig. 1: Biopsia cutanea:
Fig. 1: Biopsia cutanea: Campioni di cute con necrosi tessutale ed ulcerazione, associata a calcificazioni dermo-ipodermiche, a sede prevalentemente vascolare, con liponecrosi del tessuto adiposo ipodermico e abbondante infiltrato infiammatorio misto subacuto, con ricca componente istiocitaria e granulocitaria neutrofila, tessuto di granulazione e fibrosi riparativa. Non evidenza di microrganismi PAS+. Reperti istologici coerenti con calcifilassi.

In aggiunta alla terapia medica, sempre presso lo stesso centro, veniva effettuato curettage chirurgico delle lesioni ed innesti cutanei sintetici bioinduttivi HMPA (esametilfosforammide) con successive periodiche medicazioni. Dopo circa due mesi di terapia combinata medica e chirurgica, si assisteva ad un progressivo miglioramento delle lesioni (Fig. 2), sino a sospensione di terapia antalgica ed a ripresa dell’autonoma deambulazione.

Fig. 2: Evoluzione delle lesioni dall’inizio del trattamento:
Fig. 2: Evoluzione delle lesioni dall’inizio del trattamento: A) Tempo 0, alcune iniziali lesioni necrotiche circoscritte con eritema laminare circostante; B) dopo 6 settimane, nonostante la tempestiva terapia, i piccoli vasi del sottocutaneo ormai trombizzati hanno causato l’espansione delle lesioni necrotiche ai polpacci con progressiva tendenza alla confluenza; C) dopo 30 settimane, grazie a curettage chirugico, innesti cutanei sintetici bioinduttivi e rimozione delle graft metalliche chirurgiche (in quasta fase grafts già assorbiti e cicatrizzati), possiamo parlare di risoluzione di malattia acuta; si possono tuttora apprezzare queste estese cicatrici bilateralmente.

In corso di ricovero e nel post degenza si assisteva a una rapida normalizzazione dei valori di paratormone, calcio e fosforo (Tabella 1). Nel mese di marzo, in concomitanza all’intervento di curettage chirurgico, si registrava rialzo degli indici di flogosi (PCR 10.63mg/dL) per sovrainfezione batterica (frequente complicanza e causa di decesso nella CUA) da E. Cloacae e S. Aureus, trattata efficacemente con terapia antibiotica secondo antibiogramma. I parametri di efficienza dialitica post ricovero erano Kt/V 1.88 (Formula logaritmica di Daugirdas per la misurazione del Kt/V(urea)).

  11/01/2021 01/02/2021 15/02/2021 01/03/2021 15/03/2021 12/04/2021
Calcio (v.n. 8.8- 10.2mg/dL) 11.2 8.75 9.63 9.63 9.28 9.53
Fosforo (v.n. 2.5 4.5 mg/dL) 7.8 5.4 1.9 4 3.1 1.8
PTH (v.n. 15-65 ng/L) 1661 880 238 320 398
PCR (v.n. 0.03-0.5 mg/dL) 1.89 1.96 4.71 10.63 1.74

RICOVERO OSPEDALIERO

Tabella 1: Andamento degli esami ematochimici nel tempo.

Superata la fase acuta della malattia si discuteva collegialmente il caso clinico con gli specialisti cardiologi per stabilire se ci fosse o meno la necessità di proseguire la terapia anticoagulante. Alla luce della rivalutazione strumentale attraverso l’esame ecocardiografico ed il monitoraggio elettrocardiografico continuo, un CHA(2)DS(2)-VASc score =7 (se ≥2 nelle donne rischio moderato-alto di stroke/TIA/embolismo sistemico), si confermava l’indicazione al trattamento anticoagulante per l’elevato rischio di recidiva aritmica.

Vista l’associazione della tAC alla CUA e l’elevato rischio emorragico della paziente che presentava un HAS-BLED score pari a 4 (se ≥3 rischio elevato di sanguinamenti maggiori, per cui è consigliato valutare alternative alla terapia anticoagulante), per ovviare ad una terapia anticoagulante orale sine die, si optava per l’intervento di LAAO (Fig. 3), che la paziente accettava; la procedura veniva eseguita senza complicanze successive ed in questo modo si poneva definitivamente fine alla tAC, con indicazione ad avvio di temporanea doppia antiaggregazione post procedurale (cardioaspirina e clopidogrel).

Fig. 3: Intervento di LAAO effettuato sulla paziente.
Fig. 3: Intervento di LAAO effettuato sulla paziente.

 

Discussione

La FANV è l’aritmia cardiaca più comune nella popolazione generale, le cui principali complicanze sono l’ictus e l’aumentata mortalità generale; la terapia con anticoagulanti cumarinici o anticoagulanti orali diretti (DOACs) è il cardine del trattamento della FANV nei pazienti con elevato rischio cardio embolico (CHA2DS2VASc >1 negli uomini e >2 nelle donne) [5].

I pazienti con malattia renale avanzata sottoposti a dialisi hanno un’elevata prevalenza ed incidenza di fibrillazione atriale, associata a sua volta ad elevata mortalità. Sappiamo inoltre che questa popolazione ha di per sé un elevato rischio di sanguinamento legato allo stato uremico. Nei pazienti affetti da malattia renale cronica avanzata, ed in trattamento emodialitico, attualmente la tAC rimane ancora la terapia di prima scelta in quanto i DOACs si associano ad un’aumentata mortalità e ad eventi emorragici e, per tale motivo, ne è sconsigliato l’utilizzo [5]. Alcuni studi però hanno sollevato dubbi in merito al reale vantaggio dell’utilizzo della tAC per la popolazione dializzata nella prevenzione dell’evento cardioembolico, e di come questa possa essere addirittura più dannosa che di reale beneficio [6]; allo stato attuale tuttavia non esistono trial randomizzati controllati in dialisi che valutino rischi e benefici della tAC rispetto alla no-therapy. Le stesse linee guida non forniscono precise indicazioni sulla terapia per la FAVN nei pazienti in trattamento emodialitico, lasciando spesso alla valutazione del nefrologo e/o cardiologo la decisione di intraprendere l’anticoagulazione sul singolo caso. Nel 2021 è stato pubblicato un’interessante studio randomizzato controllato multicentrico che ha comparato gruppi di pazienti emodializzati terapia con tAC vs Rivaroxaban 10mg, in una mediana temporale di 1.88 anni, con risultato di un rischio di stroke similare per i due gruppi ma un aumentato rischio di mortalità, eventi non cardiovascolari e di eventi emorragici maggiore per i pazienti in tAC, a supporto dell’ipotesi di come la tAC possa essere di maggior danno che beneficio nell’emodialisi e addirittura debba essere evitata, aprendo forse così la strada per il trattamento con DOACs nei pazienti emodializzati cronici [7].

Inoltre, come osservato nel nostro caso clinico, la tAC è anche uno dei principali fattori di rischio per l’insorgenza di calcifilassi a causa della down regolazione della Gla-protein matrix (MPG), una proteina prodotta dalla cellula muscolare liscia nella tonaca media della parete vascolare, la quale previene la trans differenziazione della stessa cellula muscolare in cellula osteoblastica, ed inoltre interagisce con i cristalli di idrossiapatite prevenendo così le calcificazioni. La MPG è attivata da un meccanismo di carbossilazione mediante la gamma-glutamil carbossilasi, un enzima vitamina K dipendente; la vitamina K quindi previene le calcificazioni vascolari fungendo da cofattore alla carbossilazione di MPG. Bassi livelli di MPG, inoltre, si sono visti associati ad aumentati livelli di Bone Morphogenetic Protein-2 (BMP2), la quale appartiene alla superfamiglia dei fattori di crescita, ed è coinvolta nell’induzione della differenziazione osteoclastica delle cellule muscolari, creazione ex novo di calcificazioni e calcificazioni extra vascolari. Gli antagonisti della vitamina K, quali il warfarin, interferendo con questi meccanismi, sono così promotori del processo di calcificazione extra scheletrica, in sinergia con altri fattori di rischio già di per sé presenti nel paziente con insufficienza renale cronica avanzata (come la flogosi cronica e il rialzo delle citochine infiammatorie, il calo della fetuin-alpha in quanto inibitore delle calcificazioni extra vascolari) [1, 2, 8, 9].

Secondo le recenti linee guida cardiologiche, la LAAO può rappresentare un’alternativa sicura e di efficacia non inferiore all’anticoagulazione orale nei pazienti affetti da FANV con elevato rischio cardioembolico e controindicazione assoluta alla terapia anticoagulante orale a lungo termine [10].

L’auricola sinistra è un reliquato embrionale che, grazie alla sua ottima capacità di adattarsi ai sovraccarichi pressori o di volume, contribuisce al riempimento diastolico ventricolare grazie alla sua funzione di reservoir; inoltre ha anche un’importante funzione endocrina, contribuendo alla produzione di peptidi natriuretici atriali (ANP) e cerebrali (“brain”, BNP). Il remodeling dell’auricola promuove la stasi ematica e, in sinergia ad altri pathways molecolari favorevoli allo stato pro-trombotico (infiammazione, fattori di crescita, ossido nitrico, asse renina-angiotensina-aldosterone), aumenta così il rischio di eventi tromboembolici [11]. La LAAO, oltre al vantaggio della sospensione dell’anticoagulazione, si è vista associata ad una riduzione dei valori di ANP e di BNP  [12, 13].

La LAAO si esegue per via percutanea con accesso venoso femorale in anestesia generale (più raramente può essere utilizzato un approccio ibrido epicardico/endocardico); mediante puntura transettale e guida ecocardiografica transesofagea si accede all’atrio sinistro e si posiziona il device, una struttura tubulare trabecolata, variabile di dimensione e forma [5].

I pazienti candidabili alla LAAO sono: coloro con controindicazione alla terapia anticoagulante cronica per aumentato rischio emorragico (HAS-BLED ≥3); con rischio di sanguinamento sottostimato dall’HAS-BLED (es. tumori, trombocitopenia); prolungata tripla terapia antiaggregante; che hanno avuto precedenti sanguinamenti maggiori gastrointestinali con fonte non passibile di risoluzione (es. diffuse angiodisplasie intestinali); nella malattia renale avanzata o in trattamento emodialitico; che non possono adempiere la compliance al trattamento medico anticoagulante prolungato (demenza, patologia psichiatrica, continue interruzioni di terapia per eventi emorragici); nei pazienti che hanno sviluppato un evento ictale nonostante la terapia orale. Ancora in fase di valutazione sono altre indicazioni cardiologiche come la compresente indicazione ad ablazione cardiaca o in prevenzione primaria per chi presenta elevato rischio di insorgenza di fibrillazione atriale [14, 15, 16, 17].

Un imaging pre-procedurale ottimale è necessario per analizzare l’anatomia e le dimensioni dell’auricola ed eventuali trombi al suo interno, così da permettere di scegliere il miglior accesso per la puntura transettale ed il device migliore per il singolo paziente. I gold standard per l’imaging pre-procedurale sono l’ecocardiografia transesofagea (TEE) per lo studio della presenza di eventuali trombi presenti, e l’angiografia coronarica con tomografia (CCTA), che permette una ricostruzione fedele in 3D dell’anatomia dell’auricola [5].

Per quanto riguarda i rischi peri-procedurali, recenti metanalisi hanno riportato le seguenti complicanze: un 2% di fallimento della procedura, 1% di ictus, 2% di tamponamento cardiaco, un tasso di mortalità del 0.28%, ed un’incidenza di sanguinamento severo ed effusione pericardica rispettivamente dell’1.71% e del 3,25%. Sono raccomandati nel post-operatorio controlli imaging con TEE o CCTA a 6-24 settimane per valutare la presenza di eventuali trombi relati al device e leak peri-device [18].

La doppia terapia farmacologica antiaggregante post impianto riduce il rischio di trombogenesi device-relato e deve essere proseguita da 1 a 6 mesi. I leak peri-device invece aumentano il rischio di immissione in circolo di eventuali trombi: leak <5mm sono irrilevanti, leak di dimensioni maggiori invece richiedono terapia anticoagulante orale o un reintervento di chiusura (anche se non pare avere un chiaro vantaggio questa seconda opzione) [19]; l’incidenza di leak patologici varia dagli studi, dall’1% dei casi a tre mesi [20], al 32% a un anno [18].

Una recente metanalisi dei pazienti affetti da FANV ha combinato i dati dei due maggiori studi clinici randomizzati (PROTECT-AF [18] e PREVAIL [21]) che comparavano la non inferiorità della sicurezza e dell’efficacia della LAAO rispetto alla tAC in termini di evento ictale, embolismo sistemico e morte cardiaca; è stata dimostrata una minor incidenza nella LAAO di stroke emorragico (HR: 0.20), ictus con disabilità severa (HR: 0.45), e mortalità cardiovascolare/morte inspiegata (HR: 0.59).

Nell’ambito dell’utilizzo della terapia anticoagulante nei pazienti affetti da malattia renale cronica, occorre fare una precisazione tra la popolazione in trattamento conservativo e in trattamento renale sostitutivo.

Nella popolazione generale e nell’MRC fino al III stadio con FANV, i DOACs sono attualmente riconosciuti dalle linee guida come terapia di prima linea per maggior sicurezza ed efficacia; le metanalisi [21, 22] descrivono la LAAO inferiore nella prevenzione dell’ictus ischemico rispetto ai DOACs, anche se la LAAO pare per alcuni essere più efficace nella prevenzione degli eventi emorragici rispetto sia ai DOACs che al trattamento antiaggregante [23].

Nella popolazione emodializzata attualmente non disponiamo ancora di studi multicentrici randomizzati, ma la procedura di LAAO si sta facendo sempre più spazio e sta guadagnando interesse, in considerazione delle molteplici comorbidità e degli effetti collaterali della tAC nella popolazione dializzata. Uno studio prospettico italiano multicentrico [24] ha messo a confronto tre coorti di pazienti emodializzati con fibrillazione atriale: il primo gruppo sottoposto a LAAO per elevato rischio emorragico o controindicazione alla tAC (n=92); il secondo gruppo in terapia con tAC (n=114); il terzo costituito da pazienti che non assumevano nessun tipo di terapia (n=148). Gli endpoint primari considerati sono stati l’incidenza di complicanze peri-procedurali, l’incidenza di eventi tromboembolici o emorragici a 2 anni, e la mortalità a 2 anni. Nel gruppo sottoposto a LAAO sono state riportate 2 complicanze maggiori peri procedurali e nessun evento tromboembolico nei 2 anni di follow-up, invece, per quanto riguarda il rischio di sanguinamento (considerando che i pazienti dopo l’impianto assumono doppia terapia antiaggregante), non ci sono state differenze statisticamente significative rispetto al gruppo in tAC nei primi 3 mesi; diversamente, nei successivi 21 mesi si è vista una maggior incidenza di sanguinamenti i coloro che assumevano tAC (HR 6.48). La mortalità generale è stata maggiore nei pazienti in tAC (HR 2.76) e nei no-therapy (HR 3.09) rispetto alla coorte LAAO, con un’incidenza di eventi cardiovascolari non fatali significativamente inferiore per quest’ultimo gruppo rispetto alle altre coorti. Dato l’elevato rischio di eventi emorragici post-procedura di LAAO, è in fasi di discussione la reale necessità di una doppia terapia antiaggregante e di come la monoterapia possa essere già di per sé sufficiente non solo nella LAAO, ma anche nell’evento ischemico miocardico [25, 26, 27, 28, 29].

Anche in termini di farmaco-economia, un recente studio ha mostrato come l’intervento di chiusura dell’auricola sinistra sia vantaggioso nel lungo tempo in termini di spesa sanitaria rispetto alla tAC ed i DOACs [30].

 

Conclusioni

Nei pazienti con FANV e malattia renale terminale, sottoposti a dialisi cronica, i DOACs attualmente rimangono ancora controindicati e la tAC non previene completamente gli eventi embolici, procurando al contempo un elevato rischio di sanguinamento. Pertanto, la LAAO pare essere un’alternativa sicura ed efficace per quei pazienti con elevato rischio di sanguinamento o controindicazione alla terapia anticoagulante cronica, come nei casi di calcifilassi. La procedura di chiusura dell’auricola sinistra ha dei limiti, quali l’attuale ridotta diffusione nei centri cardiovascolari, la necessità di un buon expertise da parte dei cardiologi interventisti, ed il suo costo relativamente elevato. Il nefrologo dovrebbe tenere in considerazione questa possibilità terapeutica, soprattutto nei pazienti in terapia cronica con anticoagulanti cumarinici, valutando gli opportuni rischi e benefici in collaborazione con l’equipe cardiologica di riferimento. Attualmente persiste la necessità di maggiori dati in merito alla sicurezza a lungo termine della procedura di chiusura dell’auricola sinistra, e di nuove analisi sulla popolazione emodializzata.

 

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Uremic pruritus through healthcare administrative data

Abstract

Background: This retrospective observational study aimed at describing patients on hemodialysis with/without uremic pruritus (UP), their healthcare resource consumption and costs from the perspective of the Italian National Health Service (INHS).

Methods: Through the cross-linkage of the healthcare administrative data collected in the ReS (Ricerca e Salute) database from 2015 to 2017, patients undergoing in-hospital/outpatient hemodialysis (index date) for ≥2 years were selected. After the exclusion of subjects with other causes of pruritus, UP/non-UP cohorts were created based on the presence/absence of UP-related treatment supplies and characterized. Treatments, hospitalizations and costs were analyzed.

Results: Of 1239 patients on hemodialysis for ≥2 years (20.2% of all hemodialysis subjects), 218 (17.6%) were affected by UP. Both cohorts were mostly males and elderly. One year before and after the index date, 58.1% and 65.1% of UP patients received UP-related treatments, of which >50% were treated with antihistamines (mostly cetirizine), 10% gabapentin and 1.4% ultraviolet light therapy. The mean annual overall cost per patient with/without UP was €37,065/€35,988. Outpatient specialist services accounted for 80% (>77% hemodialysis), hospitalizations for 10% (>60% hemodialysis).

Conclusions: Though the prevalence of UP and related healthcare costs charged to the INHS were underestimated, the burden of UP was not negligible. High-efficiency dialytic therapies performed to UP patients seemed to largely weigh on the overall mean annual cost. The availability of specific and effective treatments for UP might offer cost and healthcare offsets.

 

Keywords: chronic kidney disease, pruritus, public health practice, database

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Introduzione

Il prurito associato a malattia renale cronica (MRC) è generalmente persistente e refrattario e tende ad affliggere perlopiù i pazienti in emodialisi. È più comunemente conosciuto come prurito uremico (PU), sebbene non sia stata trovata una dipendenza tra la sua eziologia e l’accumulo di urea e tossine uremiche nel sangue [1, 2]. Il più recente studio sui risultati e i modelli di applicazione della dialisi (DOPPS) ha mostrato che, nel periodo analizzato 2012-2015, dal 26% dei pazienti tedeschi in emodialisi al 48% di quelli inglesi risultavano affetti da prurito cutaneo di tipo almeno moderato, apparentemente senza incremento negli anni [2]. La prevalenza di PU sembra aumentare con la gravità della MRC [3] e con il tempo di dialisi [4]. Il PU si presenta generalmente in caso di cute secca e spesso tendono a verificarsi contemporaneamente alcune complicazioni [5].

I sintomi negativi associati al PU sono molteplici e non trascurabili, come disagio, spossatezza, scarsa qualità del sonno e depressione [3]. In generale, più il prurito è severo, più scarso è lo stato mentale e fisico del paziente affetto da PU [3]. La patofisiologia del PU è causata probabilmente da diversi fattori tuttavia, a oggi, non è ancora stata chiarita e perciò non esistono trattamenti in grado di curare la causa specifica [6, 7]. Un primo passo nel trattamento del PU consiste nel potenziare la rimozione delle tossine uremiche [8] aumentando il tempo di dialisi o introducendo metodiche a più alta efficienza [911] (es. emodialfiltrazione o filtri con membrane ad elevata capacità di adsorbimento come il PMMA). Queste scelte, seppur messe in discussione da recenti studi epidemiologici [2], sono ancora ampiamente utilizzate nei centri dialisi [2]. In caso di PU, le linee guida europee sul prurito cronico raccomandano l’uso di capsaicina, come terapia topica, e di alcuni trattamenti sistemici [7]: antistaminici di prima e di seconda generazione, corticosteroidi, l’agonista dei recettori κ-oppioidi nalfurafina, gabapentin, pregabalin e, sporadicamente talidomide e alcuni antidepressivi. La fototerapia a raggi UV, in particolare UVB, è un’alternativa non farmacologica consolidata [7]. Popolazione speciali (es. anziani, donne in gravidanza e bambini) affette da PU richiedono particolare attenzione e un trattamento definito caso per caso [7]. Infine, secondo le linee guida dell’associazione inglese dei dermatologi, sebbene non fornisca specifiche raccomandazioni, stabilisce il trapianto renale come unico trattamento definitivo per il PU [6]. Oltre alle criticità relative all’assenza di un trattamento specifico del PU, è stato dimostrato che il PU stesso è ampiamente sotto riportato da parte dei professionisti [1, 2, 12], in particolare a causa della scarsa conoscenza della sua patofisiologia e degli effetti a lungo termine [13]. Di conseguenza, restano trascurabili l’interesse da parte degli stakeholder a livello istituzionale, politico e privato, e la produzione di evidenze scientifiche, lasciando così ampi buchi informativi, a partire dall’aspetto epidemiologico fino ai dati di costo.

Questo studio retrospettivo osservazionale dei dati amministrativi sanitari italiani raccolti nel database di Fondazione ReS (Ricerca e Salute) si è posto l’obiettivo di descrivere i pazienti in emodialisi e potenzialmente affetti/non affetti da PU e di valutarne il consumo di risorse sanitarie e il relativo costo a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

 

Metodi

Fonte dei dati

Grazie al cross-linkage dei database amministrativi sanitari di proprietà di alcune Aziende Sanitarie Locali (ASL) o regionali (ASR) e regolarmente raccolte nel database ReS, sulla base di specifici accordi, è stato possibile analizzare in forma aggregata i dati correntemente inviati al Ministero della Salute da parte delle ASL/ASR coinvolte, dunque valutare l’assistenza sanitaria dal punto di vista del SSN. Il record linkage è stato svolto a partire da un numero identificativo univoco, poiché i dati sono stati opportunamente anonimizzati prima del loro inserimento nel database ReS, sulla base degli specifici accordi con le ASL/ASR e della legislazione europea in tema di privacy. Nonostante il database ReS non raccolga tutti i dati amministrativi sanitari italiani, viene analizzato per produrre numerosi studi osservazionali in diversi ambiti clinici e con finalità istituzionali dal 2018 [1416]. L’annuale confronto con i dati ISTAT (Istituto Nazionale di Statistica) sulle distribuzioni per età ha dimostrato di rappresentare in modo affidabile la popolazione italiana [17]. I dati che compongono il database ReS provengono dai database: dell’anagrafica (età, sesso, ASL di residenza e codici di esenzione per patologia); della farmaceutica (permette di analizzare tutti i farmaci rimborsati dal SSN ed erogati da farmacie territoriali e ospedaliere sulla base del codice di autorizzazione in commercio, ATC o Anatomical Therapeutic Chemical classification [18], dose, numero di confezioni e data di dispensazione); delle ospedalizzazioni (diagnosi e procedure indicate nella scheda di dimissione ospedaliera di ricoveri ordinari o giornalieri, sulla base dei codici ICD-9-CM [19]); delle prestazioni specialistiche ambulatoriali (visite, diagnostica e procedure invasive/non invasive, sulla base della classificazione nazionale corrente). Inoltre, poiché i database amministrativi sanitari nascono con obiettivi di rimborso, sono inclusi anche tutti i costi a carico del SSN dovuti ai relativi consumi di risorse sanitarie (costi diretti).

Il database ReS è fisicamente localizzato presso il Cineca [20], grazie alla cui collaborazione vengono garantiti gli standard internazionali di qualità e sicurezza dei dati. L’anonimizzazione dei dati alla fonte, l’analisi in forma aggregata e le finalità istituzionali di questo studio, in accordo con le ASL/ASR coinvolte, hanno permesso l’esenzione dalla richiesta di approvazione da parte del Comitato Etico e del consenso informato.

Selezione della coorte

A partire dal database ReS, è stata identificata la popolazione con almeno una procedura ospedaliera o ambulatoriale di emodialisi (codice ICD-9CM 39.95) erogata tra il 01/01/2015 e il 31/12/2017. La data più recente di emodialisi è stata considerata la data indice. Sono stati selezionati esclusivamente i pazienti con almeno 2 anni consecutivi di emodialisi prima della data indice e sono stati esclusi coloro potenzialmente affetti da patologie che generalmente causano prurito (malattia epatica cronica, cirrosi, lupus eritematoso sistemico, vasculite arteriosa e malattie o infiammazioni della pelle e dei tessuti sottocutanei individuate a partire dal 2013), per i cui criteri di individuazione si veda la tabella I supplementare in appendice.

La popolazione finale è stata, quindi, suddivisa sulla base della presenza di trattamenti correlati a PU erogati nei 180 giorni precedenti e/o successivi la data indice: gabapentin, pregabalin, talidomide, antistaminici e fototerapia (per i criteri specifici, si veda la tabella II supplementare, in appendice). I trattamenti per PU sono stati selezionati sulla base della comune pratica clinica e delle raccomandazioni internazionali [6, 7]. Il lasso temporale di 180 giorni precedenti/successivi la data indice sono stati scelti al fine di assicurare il più possibile la potenziale associazione tra PU e l’erogazione dei farmaci scelti.

Epidemiologica e caratteristiche cliniche

Le coorti sono state descritte in termini di età e sesso alla data indice.

Trattamenti per PU

I trattamenti correlati al PU e rimborsati dal SSN sono stati ricercati nel database della farmaceutica (gabapentin, pregabalin, talidomide e antistaminici – codice ATC) e tra le procedure ospedaliere/ambulatoriali (fototerapia – codice ICD-9-CM e codice tariffario della specialistica).

Per la coorte con PU, è stato descritto l’approccio terapeutico nell’anno successivo alla data indice, per coerenza con le altre analisi di follow-up. Il consumo di farmaci per PU è stato analizzato in termini di DDD (defined daily dose – la dose media giornaliera di mantenimento di un farmaco nella sua indicazione terapeutica principale [18]), numero di confezioni per i farmaci e di procedure per la fototerapia e percentuale di pazienti che hanno ricevuto un farmaco per PU almeno una volta nell’anno precedente o successivo la data indice.

Farmaci concomitanti

Le dispensazioni di farmaci diversi da quelli correlati a PU sono state ricercate nel database della farmaceutica (codice ATC) e analizzate per entrambe le coorti nell’anno precedente e successivo la data indice. Il consumo di farmaci concomitanti è stato analizzato in termini di DDD, numero di confezioni e percentuale di pazienti che hanno ricevuto un farmaco concomitante almeno una volta nell’anno successivo la data indice.

Ricoveri ospedalieri

I pazienti di entrambe le coorti ricoverati in regime ordinario presso una struttura ospedaliera pubblica o convenzionata SSN nell’anno successivo la data indice sono stati analizzati in termini di percentuale di ospedalizzati e numero medio di ricoveri per ricoverato e numero medio di giornate di degenza, per diagnosi principale (ICD-9CM) indicata nella scheda di dimissione ospedaliera.

Costi assistenziali integrati

Per i pazienti con PU e senza PU, sono stati analizzati i costi medi annuali a carico del SSN. Nello specifico, i costi farmaceutici sono stati estrapolati dalla spesa lorda per i farmaci erogati dalle farmacie territoriali e dal prezzo reale ospedaliero (IVA inclusa) per i farmaci dispensati dalle farmacie ospedaliere; la spesa ospedaliera è stata ricavata dal sistema tariffario dei DRG (diagnosis related group) che stima il costo del paziente durante l’intero periodo di ricovero, senza distinzione tra i singoli servizi sanitari erogati. Il costo della specialistica ambulatoriale è stato valutato tramite il tariffario nazionale in vigore. I costi assistenziali sanitari sono mostrati come media pro capite per i singoli database e per il totale derivante dall’integrazione di questi, e come distribuzioni percentuali.

Analisi statistiche

Tramite i dati amministrativi è possibile analizzare ampie popolazioni (milioni di abitanti), per cui le coorti identificate, sebbene numericamente piccole, possono essere considerate grandi abbastanza da assumere che minime differenze siano statisticamente significative per il livello convenzionale (p<0,05), anche in assenza di un plausibile e convincente significato clinico. Per questo motivo, sono state descritte esclusivamente le differenze nominali.

Tutte le analisi sono state svolte per mezzo del software Oracle SQL Developer versione italiana 18.1.0.095 (California, Stati Uniti).

 

Risultati

Epidemiologia e caratteristiche cliniche

A partire dal database ReS, dal 2015 al 2017, 6147 pazienti sono stati trattati con emodialisi in ambito ospedaliero o ambulatoriale (figura 1), di cui 1589 (25,9%) per almeno due anni. Dopo aver escluso i pazienti potenzialmente affetti da altre patologie che causano frequentemente prurito, la popolazione finale è stata suddivisa nelle coorti con PU (n=218) e non-PU (n=1021). Entrambe le coorti erano composte prevalentemente da pazienti di sesso maschile e di età >65 anni, e la prevalenza cresceva con l’età, fino a raggiungere un picco attorno ai 70 anni (tabella I).

Figura 1: Flowchart di selezione dei pazienti in emodialisi, con o senza prurito uremico
Figura 1: Flowchart di selezione dei pazienti in emodialisi, con o senza prurito uremico

Pazienti con PU

(n=218)

Pazienti senza PU

(n=1021)

Sesso femminile (n; %) 97; 44,5 438; 42,9
Età media (±deviazione standard) 69 (±13) 66 (±15)
Distribuzione per fascia d’età (%)
<39 5; 2,3 49; 4,8
40-59 40; 18,3 274; 26,8
60-79 120; 55,0 498; 49,0
≥80 53; 24,3 200; 19,6
Abbr.: PU: prurito uremico
Tabella I: Caratteristiche demografiche alla data indice dei pazienti con/senza prurito uremico

Trattamenti per PU

La tabella II mostra che il 58% e il 65% dei pazienti con PU hanno ricevuto almeno un farmaco correlato a PU nell’anno precedente o successivo la data indice, rispettivamente. In entrambi i periodi di osservazione circa il 10% della coorte era stato trattato con gabapentin e la metà aveva ricevuto antistaminici (cetirizina la più erogata: 24%). Il consumo medio di antistaminici (4,6 confezioni per paziente) risulta in linea con un uso cronico annuale. Per tutti i farmaci per PU il consumo medio annuale in termini di numero di confezioni e DDD è risultato molto simile prima e dopo la data indice. L’1,4% dei pazienti con PU è stato trattato con fototerapia almeno una volta nell’anno precedente o successivo la data indice. In media, tale trattamento è stato erogato a paziente due volte nell’anno precedente e 4 in quello successivo la data indice.

Trattamenti per PU Anno precedente la data indice Anno successivo la data indice

Pazienti; % sulla coorte con PU

(n= 218)

Numero medio di confezioni per paziente trattato DDD medie per paziente trattato Pazienti; % sulla coorte con PU

(n= 218)

Numero medio di confezioni per paziente trattato DDD medie per paziente trattato
Gabapentin 23; 10,6 4,7 21,0 20; 9,2 5,4 25,5
Pregabalin 0 0
Talidomide 0 0
Antistaminici 108; 49,5 4,6 93,6 122; 56,0 4,2 88,2
Cetirizina 53; 24,3 1,5 30,2 53; 24,3 1,8 36,2
Desloratina 19; 8,7 1,8 35,8 28; 12,8 1,7 33,6
Oxatomide 15; 6,9 2,0 30,0 16; 7,3 1,8 26,6
Loratidina 11; 5,0 1,9 38,2 7; 3,2 2,1 42,9
Ebastina 8; 3,7 1,8 52,5 12; 5,5 1,5 45,0
Levocetirizina 6; 2,8 2,0 40,0 10; 4,6 1,6 32,0
Rupatidina 6; 2,8 1,5 45,0 15; 6,9 1,4 42,0
Mizolastina 3; 1,4 2,0 40,0 2; 0,9 1,5 30,0
Ketotifene 1; 0,5 3,0 45,0 0
Fexofenadina 1; 0,5 1,0 20,0 1; 0,5 1,0 20,0
Fototerapia UVB 3; 1,4 2,0 ND 3; 1,4
Almeno un trattamento per PU 127; 58,3 142; 65,1
Abbr.: PU: prurito uremico; UVB: raggi ultravioletti B; DDD: defined daily dose; ND: non disponibile
Tabella II: Pattern prescrittivo dei trattamenti per la cura del prurito uremico nell’anno precedente e successivo la data indice, tra i pazienti con prurito uremico

Farmaci concomitanti

Quasi la totalità di entrambe le coorti ha ricevuto almeno un farmaco concomitante nell’anno di follow-up (tabelle III e IV). I trattamenti per i disturbi correlati all’acidità sono stati i più prescritti, seguiti da antibatterici a uso sistemico e agenti antitrombotici. In particolare, i pazienti con PU hanno mostrato, rispetto a coloro senza PU, un consumo in termini di numero di confezioni (107 vs 92) e DDD (1824 vs 1636) leggermente maggiore. In generale, per entrambe le coorti i consumi maggiori si sono registrati per il trattamento di patologie cardio metaboliche.


Farmaci concomitanti (ATC II livello)
Pazienti con PU (n= 218)
N; % Numero medio di confezioni per paziente trattato DDD medie per paziente trattato
Farmaci per disturbi correlati all’acidità 201; 92,2 21,6 273,7
Antibatterici per uso sistemico 180; 82,6 7,4 27,3
Antitrombotici 176; 80,7 12,4 251,9
Tutti gli altri prodotti terapeutici 145; 66,5 6,3 149,4
Farmaci antiinfiammatori ed antireumatici 104; 47,7 3,8 58,2
Betabloccanti 98; 45,0 9,8 108,9
Sostanze modificatrici dei lipidi 91; 41,7 18,7 343,9
Calcio omeostatici 83; 38,1 10,5 159,8
Farmaci per disturbi ostruttivi delle vie respiratorie 80; 36,7 6,6 149,1
Vitamine 75; 34,4 6,5 23,1
Farmaci antianemici 73; 33,5 25,9 227,7
Calcio-antagonisti 72; 33,0 12,3 314,6
Analgesici 71; 32,6 7,0 43,7
Corticosteroidi sistemici 66; 30,3 5,4 74,3
Antidiarroici, antinfiammatori ed antimicrobici intestinali 66; 30,3 7,1 48,5
Sostanze ad azione sul sistema renina-angiotensina 58; 26,6 9,3 389,6
Antiipertensivi 52; 23,9 15,1 286,4
Farmaci usati nel diabete 48; 22,0 8,8 286,7
Terapia cardiaca 45; 20,6 11,3 251,6
Terapia tiroidea 40; 18,3 7,8 228,9
Almeno un farmaco concomitante 217; 99,5 106,6 1823,7
Abbr.: PU: prurito uremico; DDD: defined daily dose; ATC: anatomical therapeutic chemical classification
Tabella III: Farmaci diversi dai trattamenti per prurito uremico erogati ai pazienti con prurito associato a malattia renale cronica nell’anno successivo la data indice

Farmaci concomitanti (ATC II livello)
Pazienti senza PU (n=1021)
N; % Numero medio di confezioni per paziente trattato DDD medie per paziente trattato
Farmaci per disturbi correlati all’acidità 832; 81,5 20,5 247,8
Antitrombotici 757; 74,1 12,6 260,8
Antibatterici per uso sistemico 684; 67,0 5,8 25,1
Tutti gli altri prodotti terapeutici 609; 59,6 6,1 141,6
Betabloccanti 413; 40,5 9,1 116,7
Vitamine 387; 37,9 6,5 32,1
Calcio omeostatici 385; 37,7 9,4 149,3
Sostanze modificatrici dei lipidi 385; 37,7 15,9 304,2
Calcio-antagonisti 347; 34,0 13,0 319,5
Farmaci antiinfiammatori ed antireumatici 318; 31,1 2,8 40,2
Sostanze ad azione sul sistema renina-angiotensina 318; 31,1 9,5 379,1
Farmaci antianemici 317; 31,0 28,3 280,1
Farmaci per disturbi ostruttivi delle vie respiratorie 235; 23,0 4,4 97,2
Antidiarroici, antinfiammatori ed antimicrobici intestinali 227; 22,2 6,6 37,0
Corticosteroidi sistemici 205; 20,1 7,0 87,7
Terapia cardiaca 200; 19,6 12,0 279,4
Antiipertensivi 191; 18,7 13,6 246,9
Diuretici 172; 16,8 9,4 976,1
Farmaci usati nel diabete 169; 16,6 6,6 211,6
Analgesici 139; 13,6 6,6 41,5
Almeno un farmaco concomitante 974; 95,4 92,3 1636,4
Abbr.: PU: prurito uremico; DDD: defined daily dose; ATC: anatomical therapeutic chemical classification
Tabella IV: Farmaci diversi dai trattamenti per prurito uremico erogati ai pazienti senza prurito associato a malattia renale cronica nell’anno successivo la data indice

Ricoveri ospedalieri

Dall’analisi delle ospedalizzazioni nell’anno di follow-up (tabelle V e VI), poco più del 40% di entrambe le coorti è stato ricoverato. In generale, ogni paziente è stato ricoverato almeno 2 volte nell’anno successivo la data indice, ma la coorte senza PU con una durata di degenza leggermente più lunga (9,1 vs 7,8 giorni). Inoltre, i pazienti con PU sono stati ricoverati più frequentemente per condizioni tipiche delle età più avanzate, come la frattura del collo del femore, ma anche per disordini cardiocircolatori, dell’equilibrio acido-base e della ghiandola paratiroidea. Mentre, all’interno della coorte senza PU, si sono verificate delle ospedalizzazioni per anemia.


Diagnosi principali (ICD-9-CM)
Pazienti con PU (n= 218)
N; % Numero medio di ricoveri per ricoverato Numero medio di giornate di degenza
Malattia renale cronica 39; 17,9 1,6 7,4
Complicazioni conseguenti a impianti, innesti, trapianti 15; 6,9 1,4 3,8
Frattura del collo del femore 6; 2,8 1,0 11,8
Infarto acuto del miocardio 5; 2,3 1,2 6,3
Sintomi cardiovascolari, incluso shock in assenza di trauma 5; 2,3 1,2 21,3
Aterosclerosi 5; 2,3 1,0 10,4
Disordini degli elettroliti e dell’equilibrio acido-base 4; 1,8 1,3 5,8
Sintomi respiratori e al torace 4; 1,8 1,0 6,0
Broncopolmonite 4; 1,8 1,0 14,3
Disordini del sistema circolatorio 4; 1,8 1,0 5,0
Ipotensione 4; 1,8 1,0 5,0
Insufficienza cardiaca 3; 1,4 1,3 10,5
Malattie del pancreas 3; 1,4 1,0 8,7
Disordini della ghiandola paratiroidea 2; 0,9 1,0 8,5
Malattie dei polmoni, compresa insufficienza respiratoria 2; 0,9 1,5 7,0
Pleurite 2; 0,9 2,0 9,3
Embolismi venosi e trombosi 2; 0,9 1,0 3,0
Occlusione e stenosi delle arterie para cerebrali 2; 0,9 1,0 6,5
Emorragia intracerebrale 2; 0,9 1,0 8,0
Angina pectoris 2; 0,9 1,0 3,5
Almeno un ricovero ospedaliero 94; 43,1 2,1 7,8
Abbr.: PU: prurito uremico; ICD-9-CM: international classification disease – 9th version – clinical modification
Tabella V: Ricoveri ospedalieri dei pazienti con prurito uremico nell’anno successivo la data indice. Prime 20 diagnosi principali di ammissione ospedaliera

Diagnosi principali (ICD-9-CM)
Pazienti senza PU (n=1021)
N; % Numero medio di ricoveri per ricoverato Numero medio di giornate di degenza
Malattia renale cronica 154; 15,1 1,5 8,8
Complicazioni conseguenti a impianti, innesti, trapianti 92; 9,0 1,3 6,2
Infarto miocardico acuto 16; 1,6 1,4 10,2
Aterosclerosi 16; 1,6 1,3 10,5
Insufficienza cardiaca 15; 1,5 1,1 12,1
Malattie dei polmoni, compresa insufficienza respiratoria 14; 1,4 1,0 6,2
Setticemia 13; 1,3 1,1 12,5
Aritmie cardiache 13; 1,3 1,1 8,2
Disordini del sistema circolatorio 12; 1,2 1,0 3,6
Frattura del collo del femore 12; 1,2 1,1 11,5
Sintomi cardiovascolari, incluso shock in assenza di trauma 12; 1,2 1,1 22,0
Broncopolmonite 10; 1,0 1,3 10,7
Disordini degli elettroliti e dell’equilibrio acido-base 9; 0,9 1,1 5,9
Bronchite cronica 8; 0,8 1,0 9,0
Sintomi generali (inclusi convulsioni, disturbi del sonno, febbre e fatigue) 8; 0,8 1,0 5,5
Insufficienza renale acuta 8; 0,8 1,3 12,7
Colelitiasi 8; 0,8 1,0 9,6
Pleurite 8; 0,8 1,0 12,5
Anemia 7; 0,7 1,0 9,4
Malattie dell’endocardio 7; 0,7 1,0 11,9
Almeno un ricovero ospedaliero 423; 41,4 2,0 9,1
Abbr.: PU: prurito uremico; ICD-9-CM: international classification disease – 9th version – clinical modification
Tabella VI: Ricoveri ospedalieri dei pazienti senza prurito uremico nell’anno successivo la data indice. Prime 20 diagnosi principali di ammissione ospedaliera

Costi assistenziali integrati

La stima delle spese del SSN è mostrata in tabella VII. In media, nell’anno di follow-up, il SSN ha pagato 37.065 € e 35.988 € per ogni paziente con e senza PU, rispettivamente. In entrambe le coorti: circa l’80% della spesa è stata destinata alla specialistica ambulatoriale, di cui quasi l’80% per il trattamento emodialitico; circa il 10% era imputabile alla farmaceutica e, in particolare, nella quasi totalità ai farmaci concomitanti; un ulteriore 10% era correlato alle ospedalizzazioni, di cui più del 60% per procedure di emodialisi.

Database amministrativo sanitario

Specifica voce di costo

Pazienti con PU

(n= 218)

Pazienti senza PU (n=1021)
Spesa media (€) pro capite (% sul totale della spesa/ per database) Spesa media (€) pro capite (% sul totale della spesa/ per database)
Farmaceutica 3667 (9,9) 3430 (9,5)
Gabapentin 5 (0,0) <1 (0,0)
Antistaminici 15 (0,0) < 1 (0,0)
Altri farmaci 3647 (99,5) 3430 (100,0)
Antidepressivi 16 (0,4) 5 (0,1)
Ospedalizzazioni 3590 (9,7) 3640 (10,1)
Emodialisi 2238 (62,3) 2413 (66,3)
Prestazioni specialistiche ambulatoriali 29.809 (80,4) 28.917 (80,4)
Fototerapia UVB < 1 (0,0) 0 (0,0)
Emodialisi 23.239 (77,9) 22.697 (78,4)
Emodialisi a membrane biocompatibili e a base di bicarbonato 13.763 (46,2) 13.565 (46,9)
Altra emodiafiltrazione 5465 (18,3) 5296 (18,3)
Emodiafiltrazione 1680 (5,6) 2083 (7,2)
Emodiafiltrazione, assistenza limitata 1286 (5,6) 619 (2,1)
Emodialisi a base di acetato e bicarbonato 783 (2,6) 775 (2,7)
Emofiltrazione 91 (0,3) 126 (0,4)
Emodialisi – Emofiltrazione 89 (0,3) 160 (0,5)
Emodialisi a base di acetato e bicarbonato, assistenza limitata 81 (0,3) 72 (0,2)
Emodialisi domiciliare a base di acetato e bicarbonato 0 (0,0) < 1 (0,0)
Spesa totale 37.065 (100,0) 35.988 (100,0)
Abbr.: PU: prurito uremico.
Tabella VII: Costi assistenziali integrati per paziente con/senza prurito uremico nell’anno successivo la data indice

 

Discussione

Questo studio retrospettivo osservazionale ha individuato un 17,6% di pazienti in emodialisi in Italia dal 2015 al 2017 potenzialmente affetti da PU, nei limiti dei database amministrativi sanitari italiani. Tale prevalenza risulta difficile da confrontare con i dati presenti in letteratura, poiché originari di studi qualitativi che utilizzano modalità differenti di misurazione del PU e, soprattutto, incoerenti tra loro [2,8]. Tuttavia, la fase 5 del DOPPS, che ha analizzato il periodo 2012-2015 [2] ha individuato tra il 5 e il 20% di pazienti in emodialisi affetti da prurito di tipo almeno moderato. Data l’assenza nei dati amministrativi di un servizio sanitario specifico che permetta di identificare il PU e di informazioni cliniche (es. provenienti da registri di dialisi, database dei medici di base, laboratori analisi), i pazienti sono stati selezionati a partire dalle erogazioni dei farmaci raccomandati dalle attuali linee guida e rimborsati dal SSN (gabapentin, pregabalin, talidomide, antistaminici), e dal trattamento con fototerapia [6,7]. Inoltre, dal momento che i database amministrativi sanitari registrano soltanto l’assistenza sanitaria a carico del SSN e nessuno dei criteri utilizzati è specifico per PU, è stato necessario escludere alcune condizioni patologiche concomitanti (si veda la sezione Metodi) che frequentemente sono causa di prurito che può essere trattato con le terapie sopra citate [6,7]. È importante ricordare che gli antistaminici corrispondono alla più comune strategia terapeutica per PU in Italia [2]. Il loro uso cronico è rimborsato dal SSN in presenza di condizioni croniche gravi (es. le patologie escluse nell’analisi), ma anche in caso di rinocongiuntiviti allergiche stagionali che richiedono trattamenti antistaminici a lungo termine [21] e che difficilmente sono individuabili tramite i dati amministrativi. Dunque, inevitabilmente, i pazienti affetti da quest’ultima condizione e allo stesso tempo in emodialisi possono aver contribuito per una minima parte alla coorte con PU.

Le persone con PU sono risultate prevalentemente di sesso maschile e di età media 69 ±13, in linea con la letteratura [1,2,12]. A oggi, poche ricerche hanno esaminato la prevalenza, le caratteristiche e gli esiti a lungo termine del PU [8].

Alcune di queste hanno sollevato la tendenza dei pazienti a sotto riportare il prurito e quella a sottovalutarlo da parte dei medici di base, dei nefrologi e di altri professionisti sanitari [1,2,12]. L’assenza di informazioni sul funzionamento renale e delle possibili precedenti linee di trattamento impedisce a questa analisi di definire la gravità del PU. Tuttavia, sulla base di uno studio che ha valutato i motivi che hanno portato a sotto riportare il prurito tra i pazienti con MRC [12], possiamo suppore che la maggior parte di questi avesse ricevuto assistenza SSN in condizioni di grande disagio, probabilmente affetti già da una forma moderata di PU.

L’eziopatogenesi del PU è tuttora sconosciuta e probabilmente multifattoriale, ma alcuni disordini metabolici concomitanti (per esempio correlati ai valori nel sangue di calcio, fosforo e ferritina, ma anche a paratormone, emoglobina e albumina) sono stati frequentemente evidenziati, sebbene una causalità non sia ancora stata confermata [14]. Dall’analisi dei farmaci concomitanti e delle ospedalizzazioni si confermano frequenti alcune comorbilità prettamente correlate al PU, come anemia (33,5% trattati con preparati antianemici) e disordini della ghiandola paratiroidea (38,1% trattati con farmaci per l’omeostasi del calcio; 0,9% ricoverati), oltre a patologie di tipo cardio metabolico, come ipertensione, coronaropatie, dislipidemia, diabete e disfunzioni della tiroide che delineano uno scarso quadro clinico di tali pazienti. È risaputo che le persone affette da PU sono caratterizzate da scarse condizioni fisiche e mentali, ma non è ancora chiaro quali tra le comorbilità siano coinvolte nell’eziopatogenesi, o presenti prima dell’inizio della terapia dialitica o in seguito, poiché non esistono a oggi evidenze a supporto. L’impatto della sintomatologia associata a PU è elevato ed è necessario ridurlo prontamente. Dal momento che una cura specifica ed efficace non esiste ancora, i tentativi si basano sulle evidenze disponibili, anche se non provate. Le attuali linee guida [6,7] non raccomandano una gestione precisa, ma studi e revisioni recenti [2,8,22,23] hanno mostrato che la comune pratica clinica tende a seguire un approccio graduale, che consiste idealmente nel raggiungere, innanzitutto, obiettivi di clearance o valori target ossei e minerali; successivamente viene trattata la xerosi cutanea, se presente, con creme emollienti; se il prurito persiste, segue la prescrizione di gabapentin o pregabalin. Né le terapie per i disordini minerali e ossei, né quelle topiche sono valutabili tramite i database amministrativi [7], mentre l’approccio dialitico verrà discusso nella sezione relativa all’analisi dei costi assistenziali integrati.

Nella pratica clinica reale, i nefrologi tendono a prescrivere antistaminici di prima e seconda generazione per la cura del PU, senza ulteriori interventi. Più della metà dei direttori medici intervistati da Rayner e colleghi hanno prescritto antistaminici orali come prima scelta per il prurito [2]. Nel nostro studio, gli antistaminici sono stati dispensati a circa il 50% dei pazienti con PU, sia nell’anno precedente che successivo la data indice. Dal momento che coloro affetti da dermatiti o patologie autoimmuni potenzialmente correlate alla prescrizione di antistaminici erano stati esclusi, è possibile affermare che gli antistaminici si sono dimostrati il maggior indicatore di presenza di PU tra gli assistibili italiani analizzabili tramite il database ReS. Inoltre, sempre Rayner e colleghi [2] dopo aver intervistato i pazienti stessi, hanno constatato che meno del 10% era stato trattato con gabapentin o pregabalin. In particolare, nonostante gabapentin sia a oggi il solo farmaco in commercio con le maggiori evidenze nel trattamento del PU [24], hanno dimostrato che in Italia non è previsto come prima scelta nell’uso cronico [2]. Il nostro studio, a sua volta, ha individuato un 10% di trattati con gabapentin tra i pazienti con PU. È bene, tuttavia, ricordare che il suo rimborso da parte del SSN è previsto in caso di epilessia ed è regolamentato dalla Nota AIFA 04 per casi specifici di neuropatia [25]. Dunque, la quota di pazienti trattati con gabapentin in questa analisi potrebbe essere sottostimata. Questo studio ha ricercato anche l’uso di pregabalin, ma a nessun paziente è stato dispensato. Anche la talidomide è raccomandata dalle attuali linee guida [7], per diversi meccanismi d’azione potenzialmente coinvolti nell’origine del prurito, ma anche questa non è stata erogata in regime di rimborsabilità SSN ad alcun paziente in emodialisi. L’uso della fototerapia UVB nel trattamento del prurito è aumentato molto [8]. In questo studio l’1,4% dei pazienti con PU ha ricevuto almeno un trattamento a carico del SSN, con una frequenza media che è passata da 2 prestazioni nell’anno precedente la data indice a 4 nel follow-up, suggerendo che probabilmente tale terapia ha dato buoni risultati.

Sulla base della più aggiornata letteratura, sono state sviluppate 4 teorie alla base dei meccanismi patofisiologici del PU [8]: neuropatia periferica, disfunzione del sistema immunitario, squilibrio oppioide e accumulo di tossine. La valutazione delle comorbilità risulta essenziale per identificare il possibile meccanismo e definire la strategia terapeutica migliore per ridurre o eliminare tale disfunzione. Sono in studio nuove promettenti terapie basate sullo squilibrio oppioide (difelikefalin, un antagonista del recettore κ-oppioide) e sui disordini immunitari [23].

Nonostante con questo studio sia stato possibile valutare solo le terapie farmacologiche rimborsate dal SSN e analizzabili tramite dati amministrativi, la quota di pazienti che hanno ricevuto almeno un trattamento per PU nel periodo di osservazione (58,1% prima e 65,1% dopo la data indice) si avvicina a quella trovata da Rayner e colleghi per l’anno 2017 nel DOPPS – fase 5 [2] tra gli assistibili in emodialisi e con prurito. Il DOPPS – fase 5 ha evidenziato, in particolare, che il 68% dei pazienti con prurito da moderato a grave hanno fatto uso di preparati topici e il 28% di terapie orali, mentre la fototerapia UVB è risultata raramente prescritta. Tra i farmaci orali, antistaminici, gabapentin, sedativi e corticosteroidi sono stati i più prescritti. In questo studio, la percentuale di pazienti trattati almeno una volta per PU nei periodi di osservazione non fa 100% e ciò è spiegabile dal fatto che la selezione dei pazienti con PU è stata fatta su 180 giorni (prima/dopo la data indice), mentre l’analisi dei trattamenti su un periodo più dilatato (365 giorni prima/dopo la data indice). In media, l’impatto economico diretto a carico del SSN dovuto al corrispettivo consumo di risorse sanitarie (ovvero, farmaci, ospedalizzazioni e prestazioni specialistiche ambulatoriali) è risultato maggiore per un paziente con PU rispetto a una persona non affetta da PU. Queste spese possono considerarsi leggermente sottostimate, soprattutto perché i database amministrativi non registrano l’acquisto privato dei servizi sanitari, considerato che l’automedicazione con farmaci da banco sembra particolarmente frequente [3], né i costi indiretti (quelli, per esempio, causati dalla perdita di produttività o dal supporto di un care-giver). Tuttavia, l’analisi dei costi risulta cruciale per comprendere il possibile percorso assistenziale dei pazienti con PU e per confrontarlo con gli assistibili in emodialisi ma senza prurito.

Le coorti con e senza PU hanno pesato in modo simile sul SSN, in termini di distribuzione percentuale dei costi per farmaci, ospedalizzazioni e specialistica ambulatoriale sulla spesa totale. In particolare, i farmaci concomitanti hanno costituito il totale della spesa farmaceutica per la coorte senza PU. Allo stesso tempo, la spesa leggermente maggiore per le altre terapie farmacologiche pagata per un paziente con PU contribuisce al dato di consumo riflettendo uno stato di salute più scarso di questa coorte, la cui correlazione diretta con il PU non è comunque fattibile solo tramite l’utilizzo dei dati amministrativi. Sempre l’analisi dei costi evidenzia un uso predominante di tecniche emodialitiche a livello ambulatoriale, come atteso rispetto alle attuali modalità operative. Tra queste voci, l’emodiafiltrazione ha mostrato il costo pro capite maggiore. Un miglioramento nella rimozione delle tossine uremiche utilizzando strategie dialitiche più efficienti è considerato dalla comunità nefrologica un passo preliminare per una riduzione di successo del prurito dopo la terapia emodialitica, come documentato da recenti evidenze epidemiologiche [2]. Ciò è ben dimostrato dal costo dei diversi ed eterogenei approcci emodialitici maggiore di quello generato dai trattamenti per PU. L’erogazione molto scarsa di terapie per PU, a sua volta, è in linea con la gestione graduale d’uso comune tra i professionisti valutati da Rayner e colleghi [2], che, in caso di prurito severo, preferiscono aumentare la dose della dialisi prima di prescrivere un trattamento farmacologico. La modifica della metodica dialitica, infatti, si basa sulla teoria dell’accumulo delle tossine, nonostante non abbia mostrato a oggi un reale miglioramento [8]. Al contrario, la dialisi ad alto flusso e l’emodiafiltrazione con emoperfusione o membrane a elevata permeabilità hanno dimostrato un sollievo significativo [911] dal prurito uremico rispetto alle tecniche convenzionali [9, 10, 24]. Al contempo, nonostante l’efficacia non chiara dell’aumento del tempo di dialisi [8], Sukul e colleghi [1] hanno mostrato che il tempo di recupero dal prurito dopo la dialisi aumenta con la gravità del prurito stesso, incrementando il già elevato impatto fisico e psicologico e la frequenza di sedute mancate e di interruzione della terapia dialitica, che sono risultate elevate tra i pazienti emodialitici. Si aggiunge la già precedentemente dimostrata potenziale perdita di autonomia nel raggiungere il centro dialitico che inevitabilmente aumenta la necessità di trasporto e i costi indiretti correlati alla dialisi stessa [26].

I risultati di questo studio sui costi sembrano evidenziare un approccio eterogeneo al paziente con PU, soprattutto caratterizzato dalla continua ricerca di un trattamento dialitico efficace. In particolare, l’uso non trascurabile dell’emodiafiltrazione suggerisce che il passaggio dall’emodialisi convenzionale all’emodiafiltrazione sia avvenuto nella speranza di controllare il prurito attraverso una migliore purificazione, probabilmente non sempre con successo. Dunque, la scoperta di un trattamento efficace porterebbe a raccomandare tale passaggio in un momento successivo e a risparmiare sulle terapie dialitiche ad alta efficacia, che contribuiscono maggiormente sul costo totale di un paziente con PU. Seppure descrittiva, questa analisi dei costi può implementare le molto scarse evidenze nel panorama del PU.

Forze e limitazioni

Diversi sono i limiti dovuti all’uso esclusivo di questo tipo di dati, che si aggiungono alla difficoltà nell’identificazione affidabile del PU, come precedentemente spiegato. Primo tra tutti, l’assenza di dati clinici (per es. il ciclo o la dose della dialisi), di informazioni sulla funzione renale e di altre rilevanti caratteristiche del paziente possono aver contribuito alla sottostima della coorte selezionata. Il database ReS non è ancora in grado di integrare i dati amministrativi con altri database, come i registri di dialisi, i database dei medici di medicina generale (MMG) o dei risultati di laboratorio o degli acquisti privati. In generale, alcuni pazienti con PU assistiti dai MMG e quelli che non ricevono assistenza a carico del SSN non sono stati individuati attraverso questa analisi. Inoltre, poiché la MRC è stata identificabile solo per mezzo dei codici di diagnosi e delle procedure, ospedaliere o ambulatoriali, la precisione di decodifica dipende altamente dalla correttezza di inserimento da parte del professionista. In ogni caso, i dati amministrativi sono in grado di analizzare grandi numerosità di assistibili non selezionati che rappresentano in modo affidabile la popolazione reale. Tanto che l’accuratezza dei database sanitari amministrativi nel ricercare i pazienti con MRC è stata dimostrata elevata [27].

 

Conclusioni

Questa analisi del database ReS ha fornito una fotografia del PU tra pazienti in emodialisi variamente distribuiti in Italia dal 2015 al 2017. Nonostante la coorte potenzialmente affetta da PU sia risultata sottostimata, a causa delle limitazioni sopra descritte, lo studio ha evidenziato alcune criticità tra le attuali strategie terapeutiche attuate dalla nefrologia italiana.

Esso ha confermato il diffuso uso di antistaminici in Italia, che sebbene raccomandati dalle linee guida per il trattamento del PU, manca a tutt’oggi di sufficienti evidenze a supporto di un tale utilizzo. Inoltre, uno scarso numero di pazienti con PU è stato trattato con gabapentin, che nonostante sia il trattamento per PU con le più forti evidenze, non è rimborsato dal SSN. Il tentativo di migliorare la rimozione di tossine uremiche per trattare il PU è fra le scelte iniziali più frequenti da parte dei nefrologi. Questo atteggiamento verrebbe confermato dall’uso significativamente superiore di terapie emodialitiche ad alta efficienza nel gruppo con PU di questo studio, con conseguente maggior costo.

Per i pazienti con PU esistono ancora molti bisogni inevasi. La ricerca deve essere favorita nel pubblico e nel privato, al fine di migliorare il trattamento, ma questo obiettivo può essere raggiunto soprattutto attraverso la consapevolezza dei professionisti e dei pazienti stessi. Infatti, di fronte alla scarsa conoscenza della patofisiologia del PU e degli effetti a lungo termine, i clinici tendono ancora a considerare il prurito come un aspetto secondario della persona in dialisi. Allo stesso tempo, il paziente ignora ancora la potenziale correlazione tra il sintomo e la terapia [12]. Risulta, quindi, fondamentale sensibilizzare e condividere le informazioni attraverso linee guida aggiornate e iniziative educazionali per i professionisti e i pazienti, ma anche produrre trial clinici di maggiore qualità su popolazioni più ampie ed eterogenee [24], al fine di colmare il vuoto tra la conoscenza e i bisogni e le priorità del paziente, e di trovare un trattamento efficace il prima possibile. Infine, i clinici dovrebbero essere incoraggiati a raccogliere la storia dettagliata del paziente in emodialisi che presenta prurito [7, 22], seguire le attuali evidenze sull’approccio graduale e ridurre l’eccessivo uso delle terapie dialitiche più costose.

 

Appendice: tabelle supplementari

Database amministrativo sanitario Descrizione
Malattie epatiche croniche e cirrosi
Ospedalizzazioni

Ospedalizzazione con diagnosi primaria/secondaria (codice ICD-9-CM):

571.x – Malattia epatica cronica e cirrosi

572.x – Ascesso del fegato e postumi di malattie

573.x – Altri disturbi del fegato

V42.7 – Fegato sostituito da trapianto

Codice esenzione

016 – Malattia epatica cronica (attiva)

008 – Cirrosi

Lupus eritematoso sistemico
Ospedalizzazioni

Ospedalizzazione con diagnosi primaria/secondaria (codice ICD-9-CM):

710.0 – Lupus eritematoso sistemico

Codice esenzione 028 – Lupus eritematoso sistemico
Vasculite atreriosa
Ospedalizzazioni

Ospedalizzazione con diagnosi primaria/secondaria (codice ICD-9-CM):

440.x – Aterosclerosi

441.x – Aneurisma dell’aorta e dissezione

442.x – Altri aneurismi

443.1 – Tromboangioite obliterante [Malattia di Buerger]

443.2x – Altre dissezioni delle arterie

444.x – Embolia e trombosi arteriosa

445.x – Ateroembolismo

447.x – Altri disturbi delle arterie e delle arteriole

e/o

Ospedalizzazione con una delle seguenti procedure (codice ICD-9-CM):

39.24 – Bypass aorto-renale

39.25 – Bypass aorto-iliaco-femorale

39.26 – Altri anastomosi o bypass vascolari intraddominali

39.50 – Angioplastica o aterectomia di altro/i vaso/i non coronarico/i

39.51 – Clipping di aneurismi

39.52 – Altra riparazione di aneurisma

39.54 – Intervento di dissezione dell’aorta

39.56 – Riparazione di vaso sanguigno con patch autologo

39.57 – Riparazione di vaso sanguigno con patch sintetico

39.58 – Riparazione di vaso sanguigno con patch di tipo non specificato

39.71 – Impianto endovascolare di graft nell’aorta addominale

39.72 – Riparazione endovascolare o occlusion dei vasi di testa e collo

39.73 – Impianto di graft endovascolare nell’aorta toracica

39.74 – Rimozione endovascolare di ostruzione da vaso/i di testa e collo

39.79 – Altra riparazione endovascolare (di aneurisma) di altri vasi

39.90 – Inserzione di stent non medicato in vaso periferico

Codice esenzione

002.440 – Affezioni del sistema circolatorio – malattie delle arterie, arteriole, capillari, vene e vasi linfatici (escluso: 453.0 sindrome di budd-chiari) – Aterosclerosi

002.441.2 – Affezioni del sistema circolatorio – malattie delle arterie, arteriole, capillari, vene e vasi linfatici (escluso: 453.0 sindrome di budd-chiari) – Aneurisma toracico senza menzione di rottura

002.441.4 – Affezioni del sistema circolatorio – malattie delle arterie, arteriole, capillari, vene e vasi linfatici (escluso: 453.0 sindrome di budd-chiari) – Aneurisma addominale senza menzione di rottura

002.441.7 – Affezioni del sistema circolatorio – malattie delle arterie, arteriole, capillari, vene e vasi linfatici (escluso: 453.0 sindrome di budd-chiari) – Aneurisma toracoaddominale senza menzione di rottura

002.441.9- Affezioni del sistema circolatorio – malattie delle arterie, arteriole, capillari, vene e vasi linfatici (escluso: 453.0 sindrome di budd-chiari) – Aneurisma dell’aorta sede non specificata senza menzione di rottura

002.442 – Affezioni del sistema circolatorio – malattie delle arterie, arteriole, capillari, vene e vasi linfatici (escluso: 453.0 sindrome di budd-chiari) – Altri aneurismi

002.444 – Affezioni del sistema circolatorio – malattie delle arterie, arteriole, capillari, vene e vasi linfatici (escluso: 453.0 sindrome di budd-chiari) – Embolia e trombosi arteriose

002.447.0 – Affezioni del sistema circolatorio – malattie delle arterie, arteriole, capillari, vene e vasi linfatici (escluso: 453.0 sindrome di budd-chiari) – Fistola arterovenosa acquisita

002.447.1 – Affezioni del sistema circolatorio – malattie delle arterie, arteriole, capillari, vene e vasi linfatici (escluso: 453.0 sindrome di budd-chiari) – Stenosi di arteria

002.447.6 – Affezioni del sistema circolatorio – malattie delle arterie, arteriole, capillari, vene e vasi linfatici (escluso: 453.0 sindrome di budd-chiari) – Arterite non specificata

Malattie e infiammazioni della cute e dei tessuti sottocutanei
Ospedalizzazioni

Ospedalizzazione con diagnosi primaria/secondaria (codice ICD-9-CM):

690 – Dermatosi eritemato-desquamative

691 – Dermatite atopica e affezioni correlate

692 – Dermatite da contatto e altri eczemi

693 – Dermatiti da sostanze assunte per via sistemica

694 – Dermatosi bollose

695 – Affezioni eritematose

696 – Psoriasi e affezioni similari

697 – Lichen

708 – Orticaria

Tabella suppl. I: Criteri di identificazione dei pazienti affetti da patologie che causano frequentemente prurito, al fine di escludere i pazienti che ne risultano affetti. La presenza di almeno uno dei codici identificativi della specifica patologia implica che il paziente ne sia probabilmente affetto.
Database amministrativo sanitario Descrizione
Farmaceutica

Erogazione di almeno uno dei seguenti farmaci raccomandati per prurito uremico

(codice ATC):

N03AX12 – gabapentin

N03AX16 – pregabalin

L04AX02 – talidomide

R06 – antistaminici per uso sistemico (in assenza di terapia antineoplastica *)

Prestazioni specialistiche ambulatoriali

Erogazione della seguente prestazione (codice di classificazione nazionale):

99.82 – Terapia a luce ultravioletta (Attinoterapia, Fototerapia, Fotochemioterapia)

Ospedalizzazioni

Ospedalizzazione con la seguente procedura (codice ICD-9-CM):

99.82 – Terapia a luce ultravioletta (Attinoterapia, Fototerapia, Fotochemioterapia)

* Per individuare la terapia antineoplastica, il paziente doveva presentare almeno uno dei seguenti criteri:
Ospedalizzazioni

Ospedalizzazione con una delle seguenti procedure (codice ICD-9-CM):

00.10 – Impianto di agenti chemioterapici

99.25 – Iniezione o infusione di sostanze chemioterapiche per tumore

99.28 – Iniezione o infusione di agenti modificatori della risposta biologica (BRM) come agenti antineoplastici

Prestazioni specialistiche ambulatoriali

Erogazione della seguente prestazione (codice di classificazione nazionale):

99.25 – Iniezione o infusione di sostanze chemioterapiche per tumore

Farmaceutica

Almeno una erogazione di farmaco specifico (codice ATC):

L01 – Agenti antineoplastici

Tabella suppl. II: Criteri di identificazione dei pazienti trattati con farmaci raccomandati per il prurito uremico. Un paziente si considera affetto da prurito uremico se presenta almeno uno dei criteri elencati in tabella, all’interno del database della farmaceutica e delle prestazioni specialistiche ambulatoriali/ospedalizzazioni nei 180 giorni precedenti e/o successivi la data indice.

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Atrial fibrillation, oral anticoagulation and nephroprotection: caution or bravery?

Abstract

Atrial fibrillation (AF) and chronic kidney disease (CKD) are strictly related and share several risk factors (i.e. hypertension, diabetes mellitus, congestive heart failure). As consequence, AF is very common among CKD patients, especially in those with end stage renal disease (ESRD). Moreover, patients with AF and advanced kidney disease have a higher mortality rate than patients with preserved renal function due to an increased incidence of stroke and an unpredicted elevated hemorrhagic risk. The adequate long-term oral anticoagulation in this subgroup of patients represents a major challenging issue faced by physicians in clinical practice. Direct oral anticoagulants (DOACs) are currently contraindicated in patients with ESRD while vitamin K antagonists (VKAs) are characterized by a narrow therapeutic window, increased tissue calcification and an unfavorable risk/benefit ratio with low stroke prevention effect and augmented risk of major bleeding. The purpose of this review is to shed light on the applications of DOAC therapy in CKD patients, especially in ESRD patients.

Keywords: atrial fibrillation, chronic kidney disease, warfarin, direct oral anticoagulants, end stage renal disease, left atrial appendage occlusion

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Introduzione

La prevalenza della fibrillazione atriale (FA) nella popolazione generale oscilla tra lo 0,5 e l’1% con punte massime pari all’8% nei pazienti over 80, nonché in alcune condizioni patologiche ben definite come la malattia renale cronica (CKD, cronic kidney disease) e, soprattutto, nei pazienti sottoposti a terapia renale sostitutiva [1]. Proprio a proposito della condizione di CKD, va ricordato come il paziente nefropatico sia inquadrato come paziente ad alto ovvero altissimo rischio cardiovascolare, come sottolineato dalle recenti linee guida della Società Europea di Cardiologia (ESC) [2]. Nei pazienti affetti da CKD, la prevalenza di FA può raggiungere picchi decisamente elevati e, nell’ambito della popolazione affetta da FA, il 40-50% dei pazienti presentano un qualche grado di compromissione della funzione renale [35], mentre fino al 15-20% dei pazienti con CKD è affetto da FA, soprattutto nei pazienti con malattia renale cronica terminale (ESRD, end-stage renal disease) [68]. Una caratteristica fondamentale dei pazienti affetti da CKD è quella di presentare un rischio elevato sia di fenomeni tromboembolici, sia di fenomeni emorragici [913], particolare che complica la gestione di una qualsivoglia terapia anticoagulante. Una percentuale non trascurabile di pazienti con valori di filtrato glomerulare stimato (eGFR) <30 ml/min presentano un importante rischio emorragico dovuto, in primo luogo, alla disfunzione quali/quantitativa della componente piastrinica [1416]. Tra l’altro, una delle maggiori criticità nella valutazione del rischio emorragico/tromboembolico dei pazienti con CKD ed ESRD risiede nel fatto che i calcolatori di rischio più impiegati (HASBLED e CHAD2VASC2) non considerano, per il punteggio definitivo, proprio quei parametri più strettamente legati alla disfunzione renale (alterazioni del sistema della coagulazione, variazioni dell’ eGFR per fare due esempi) [17].

Il rischio trombotico/emorragico nel paziente con CKD

Il primo elemento da prendere in considerazione in termini di fisiopatologia del rischio trombotico ed emorragico è quello relativo alla correlazione tra CKD e FA in termine di condivisione di fattori di rischio quali ipertensione arteriosa, diabete mellito (DM) e sindrome metabolica. Inoltre, come già accennato, il progressivo deterioramento della funzione renale si accompagna ad incremento del rischio di FA con un quadro clinico che si caratterizza per un elevato rischio emorragico e tromboembolico [4, 6]. La presenza contemporanea di FA e CKD delinea una condizione clinica caratterizzata da un rischio tromboembolico molto elevato (ictus cardioembolico, tromboembolismo sistemico e morte) e un inaspettato rischio emorragico elevato, soprattutto nei pazienti in dialisi [14, 15]. Il ruolo centrale della CKD nel rischio tromboembolico elevato è ben noto. Piccini et al. hanno dimostrato che l’alterazione della funzione renale è un importante fattore predittivo di ictus cardioembolico ed embolia sistemica [18]. Pertanto, per una migliore valutazione del rischio tromboembolico, hanno proposto di estendere il punteggio CHADS2 con altri 2 punti per i pazienti con eGFR <60 mL/min, il cosiddetto punteggio R2CHADS2 [18]. Diversi fattori aumentano la propensione alla formazione di trombi nei pazienti con CKD; come illustrato nella Figura 1, tutti gli elementi della triade di Virchow (anomalie nel flusso sanguigno, nella parete dei vasi e nei costituenti del sangue) appaiono anormali. Inoltre, un eGFR ridotto è un fattore predittivo indipendente di bassa contrattilità e velocità di flusso dell’auricola sinistra [19, 20]. Questi elementi promuovono la formazione nell’atrio sinistro di un denso contrasto ecocardiografico spontaneo, che è un indicatore di stasi sanguigna rilevante ed è associato a un aumento del rischio trombogenico [21]. D’altra parte, i pazienti CKD hanno una maggiore suscettibilità all’aterosclerosi con una maggiore velocità dell’onda sfigmica e una ridotta dilatazione endotelio-dipendente mediata dal flusso [22, 23]. Livelli endogeni più elevati di Endotelina-1 e di cAMP plasmatico negli individui affetti da CKD sembrano essere associati a una maggiore suscettibilità tromboembolica [24]. Infine, la CKD è associata a un aumento dei biomarcatori infiammatori e della coagulazione che aumentano l’attività piastrinica e la formazione di coaguli [25, 26]. Il ridotto metabolismo della proteina C-reattiva, l’espressione anomala della glicoproteina Ib, l’aumento dei livelli di proteine pro-infiammatorie (IL-1, TNF alfa, D-Dimero) e di fattori della coagulazione (VII, VIII, fibrinogeno, Von Willebrand, inibitore dell’attivatore del plasminogeno-1) e l’inibizione della plasmina grazie all’aumento dei livelli di lipoproteina(a) sono le più importanti anomalie ematologiche descritte nei pazienti CKD [2730]. Tali fattori sono anche coinvolti in un aumento del rischio emorragico [14]. In particolare, le anomalie piastriniche, le tossine uremiche, l’ipertensione non controllata, le ripetute incannulazioni per la dialisi e le procedure invasive contribuiscono a un rischio di sanguinamento notevolmente elevato (Figura 2). Soprattutto, le disfunzioni piastriniche sembrano essere predominanti e comprendono la riduzione dell’ADP intracellulare, il rilascio alterato della proteina alfa-granulare piastrinica, l’aumento del cAMP intracellulare, il metabolismo anomalo dell’acido arachidonico e l’attività della ciclo-ossigenasi, l’aberrazione dell’attività della GP IIb/IIIa e l’alterazione del fattore von Willebrand che promuove uno stato pro-emorragico [3133]. Inoltre, le tossine uremiche alterano il flusso sanguigno e aumentano la carenza di eritropoietina [33, 34].

Figura 1: Fattori che predispongono alla trombogenesi nei pazienti con CKD
Figura 1: Fattori che predispongono alla trombogenesi nei pazienti con CKD RAAS: sistema renina-angiotensina-aldosterone
Figura 2: Fattori che contribuiscono allo stato pro-emorragico nei pazienti con CKD
Figura 2: Fattori che contribuiscono allo stato pro-emorragico nei pazienti con CKD FANS: antinfiammatori non steroidei; NO: Ossido Nitrico.

 

Nefropatia da anticoagulanti e progressione della malattia renale

Nonostante il crescente uso di anticoagulanti orali negli ultimi 20 anni, solo nel 2009 Brodsky et al. hanno introdotto il concetto di “nefropatia correlata a warfarin” (WRN) [35]. La WRN è una forma particolare di danno renale acuto (AKI) senza alcuna causa sottostante evidente, in un paziente trattato con warfarin con un rapporto internazionale normalizzato (INR) >3,0 ed ematuria microscopica o macroscopica [35]. Brodsky et al. hanno eseguito biopsie renali in nove pazienti con AKI inspiegabile e INR sovraterapeutico; i campioni istologici hanno mostrato un pattern di accumulo eritrocitario diffuso e dismorfo sia nei tubuli renali, alcuni dei quali apparivano ostruiti e dilatati, sia nel glomerulo, soprattutto nello spazio di Bowman [35]. I due principali processi fisiopatologici che spiegano l’AKI sono la rottura della barriera di filtrazione glomerulare che provoca un’emorragia nello spazio di Bowman e l’aggregazione dei globuli rossi, formando dei calchi nei tubuli, che portano alla loro ostruzione e ischemia [35]. L’anticoagulazione sovraterapeutica sembra giocare un ruolo essenziale nell’indurre la WRN, ma è probabile che sia necessario un secondo fattore; un numero notevolmente ridotto di nefroni o un danno acuto ai glomeruli sembrano essere le condizioni che contribuiscono all’emorragia glomerulare in caso di anticoagulazione sovraterapeutica. Cause di danno acuto ai nefroni potrebbero essere l’insufficienza cardiaca congestizia, l’inizio recente di inibitori del sistema renina-angiotensina, la malattia renale tromboembolica, la glomerulonefrite endocapillare proliferativa o i coaguli vescicali che causano un’ostruzione ureterale. In uno studio caso-controllo che ha arruolato 15.258 pazienti che hanno iniziato il warfarin durante un periodo di 5 anni, una diagnosi presuntiva di WRN si è verificata nel 20,5% dell’intera coorte e nel 33,0% della coorte CKD [36]. La mortalità a 1 anno nei pazienti con WRN è stata del 31,1% rispetto al 18,9% nei pazienti senza WRN, il che rappresenta un rischio aumentato del 65% [36]. Nel complesso, la WRN può essere considerata non solo una complicazione comune della terapia con VKAs, ma anche un potente fattore prognostico negativo. Dal 2009, diversi studi hanno confermato l’ipotesi proposta da Brodsky che un’eccessiva anticoagulazione è associata a WRN [3740]. Golbin et al. hanno descritto la più grande serie di casi biopticamente provati di AKI indotta da altri VKAs, in particolare i primi casi di AKI da fluindione e acenocumarolo [41]. Da notare che non sono state riportate differenze cliniche o istologiche nei pazienti trattati con warfarin o fluindione/acenocumarolo [41]. La connessione tra AKI e anticoagulazione è stata estesa anche ai DOACs; pertanto, il termine WRN è stato gradualmente sostituito dal più inclusivo “nefropatia legata all’anticoagulazione” (ARN) [4245].

Data la scarsità di esiti renali riportati negli studi sui DOACs e la mancanza di dati limitati a lungo termine, è possibile che la vera incidenza dell’ARN sia sottovalutata. Due grandi studi retrospettivi hanno dimostrato che apixaban, dabigatran e rivaroxaban sono associati a un rischio inferiore di AKI rispetto al warfarin (Figura 3) [46, 47]. Nel complesso, la somministrazione di VKAs è ancora considerata un importante fattore di rischio per l’AKI, come risultato della calcificazione vascolare dovuta all’inibizione della proteina Gla di matrice (MGP) dipendente dalla vitamina K, come illustrato nella Figura 4 [4851]. Risultati simili sono stati riportati anche in una coorte di pazienti con FA sottoposti a intervento coronarico percutaneo; dopo la somministrazione del mezzo di contrasto, i pazienti che assumevano DOACs, in particolare dabigatran, hanno mostrato un migliore controllo della funzione renale rispetto ai pazienti in warfarin con una tendenza alla riduzione dell’incidenza di AKI [52]. Sebbene le nuove linee guida ESC della FA raccomandino l’uso dei DOACs per l’anticoagulazione orale a lungo termine, e i precedenti studi osservazionali abbiano dimostrato come questi farmaci debbano giocare un ruolo importante nella conservazione della funzione renale, un ampio studio che ha confrontato i DOACs in diversi stadi della funzione renale ha rivelato che la percentuale di pazienti che utilizzano i DOACs diminuisce parallelamente alla diminuzione della funzione renale [53]. Infatti, nei pazienti con eGFR ≥90 mL/min, un DOAC è stato prescritto nel 73,5% dei casi, mentre nei pazienti con eGFR tra 15 e 30 mL/min, un DOAC è stato prescritto solo nel 45,0% dei casi [53]. In particolare, non è stata riportata alcuna differenza in termini di mortalità tra i tre DOAC, e ognuno di essi ha mostrato un’efficacia e una sicurezza almeno equivalenti rispetto al warfarin in tutti gli stadi funzionali dei reni, confermando i risultati promettenti in questo particolare contesto di pazienti [53]. In conclusione, la progressione dell’insufficienza renale rappresenta un problema centrale nella gestione dell’anticoagulazione orale a lungo termine, soprattutto nei pazienti anziani in cui FA e CKD coesistono fino al 25% dei casi [3, 35]. La FA può deteriorare la funzione renale nel tempo, e il peggioramento dell’eGFR è un fattore predittivo indipendente di ictus ischemico/embolia sistemica [5456]. In questi pazienti ad alto rischio tromboembolico ed emorragico, la funzione renale dovrebbe essere monitorata regolarmente, preferibilmente dopo 1 mese inizialmente e almeno ogni 3 mesi in seguito [9].

Confronto tra DOACs e warfarin
Figura 3: Confronto tra DOACs e warfarin in termini di nefroprotezione CI: Intervallo di Confidenza; DOAC: Anticoagulanti Orali Diretti; HR: Hazard Ratio
Calcificazione vascolare, danno vascolare e renale indotto dalla inibizione
Figura 4: Calcificazione vascolare, danno vascolare e renale indotto dalla inibizione della MGP. BMP: proteina morfogenetica dell’osso

 

DOACs, diabete e malattia renale cronica

Per quanto riguarda la progressione della CKD, è fondamentale sottolineare la stretta relazione tra FA, DM e CKD; quasi il 25% dei pazienti con CKD sono anche diabetici [57, 58]. Come descritto nella Figura 5, le complicanze microvascolari nel DM potrebbero peggiorare la funzione renale e contribuire all’insorgenza della malattia renale diabetica (DKD), che colpisce circa un terzo dei pazienti con DM [5962]. La terapia anticoagulante a lungo termine nei pazienti diabetici affetti da FA e CKD può essere più impegnativa perché sia il DM che la CKD sono stati indipendentemente associati a un aumento del rischio tromboembolico e di sanguinamento, che deriva dallo stato pro-trombotico e pro-infiammatorio [6367]. Nei pazienti diabetici, le anomalie metaboliche predispongono le arterie all’aterosclerosi e aumentano la reattività piastrinica e la coagulabilità del sangue [68, 69]. Contemporaneamente, il progressivo peggioramento della funzione renale è associato a un aumento del tasso di FA e a un maggiore rischio di sanguinamento [16, 70]. Dati emergenti suggeriscono che i DOACs possono essere associati a una migliore conservazione della funzione renale rispetto al warfarin [37, 71, 72]. Come descritto in precedenza, i VKAs possono anche indurre un danno renale dovuto all’aumento della calcificazione vascolare derivante dall’inibizione della MGP dipendente dalla vitamina K [4850]. In uno studio di Fusaro et al., la MGP sembrava essere ridotta nei pazienti affetti da DM e CKD, predisponendoli a un outcome renale peggiore quando trattati con VKAs [48, 7377]. Al contrario, rivaroxaban può garantire la nefroprotezione diminuendo l’infiammazione vascolare attraverso la riduzione del signalling di PAR-1 e PAR-2 [78]. I pazienti diabetici con FA trattati con rivaroxaban hanno mostrato un tasso di incidenza inferiore di ospedalizzazione per AKI, progressione allo stadio 5 della CKD o emodialisi rispetto ai pazienti trattati con warfarin [78]. Inoltre, nell’analisi post-hoc ROCKET AF, il rivaroxaban ha mostrato una sicurezza e un’efficacia migliori rispetto al warfarin nei pazienti con FA e DM [79]. L’evidenza del mondo reale supporta i risultati che la funzione renale è meglio preservata nei pazienti con DM che ricevono DOACs piuttosto che warfarin. Un’analisi di sottogruppo dello studio RE-LOAD ha esaminato l’efficacia e la sicurezza del rivaroxaban rispetto al warfarin in pazienti con FA e DM; il rischio di AKI e ESRD è diminuito nei pazienti con DM che assumono rivaroxaban [78]. In un’analisi condotta da Yao W et al. su un’ampia coorte eterogenea di pazienti con FA e DM (Figura 6), il trattamento con DOAC è stato correlato a una minore incidenza di peggioramento della funzione renale, definita come un calo ≥30% dell’eGFR, raddoppio della creatinina sierica o AKI [46]. I dati dono stati poi confermati dallo stesso Yao in una nuova pubblicazione nella quale i pazienti sono stati anche stratificati in base ai livelli di filtrato glomerulare, evidenziando un maggior beneficio della terapia con DOACs (in modo particolare con Rivaroxaban e Dabigatran) rispetto al warfarin [53]. Ulteriori dati a conforto della maggiore efficacia dei DOACs rispetto a warfarin nella rallentare la progressione della malattia renale giungono anche da un recente lavoro pubblicato da un gruppo italiano il quale, non solo ha confermato l’effetto favorevole esercitato da Rivaroxaban sulla progressione delle calcificazioni valvolari cardiache ma anche sulla preservazione della funzione renale probabilmente anche correlata ad un’azione antiinfiammatoria della molecola, come documentato dall’impatto sui livelli sierici di citochine infiammatorie [8082].

Figura 5: Fisiopatologia della malattia renale diabetica ROS: Specie Reattive dell’Ossigeno
Confronto tra DOACs e warfarin
Figura 6: Confronto tra DOACs e warfarin in termini di nefroprotezione nei pazienti diabetici CI: Intervallo di Confidenza; DOAC: Anticoagulanti Orali Diretti; HR: Hazard Ratio

 

DOACs e malattia renale cronica terminale

L’aumento del rischio emorragico e la mancanza di prove certe per un efficace rapporto rischio/beneficio sono le ragioni principali per l’uso limitato degli anticoagulanti nei pazienti con CKD, specialmente quelli sottoposti a terapia renale sostitutiva (RRT) [83, 84]. Nei pazienti sottoposti a RRT, considerando che l’eliminazione dei farmaci è strettamente dipendente dalle dimensioni delle molecole, dalle percentuali legate alle proteine plasmatiche e dalle proprietà fisico-chimiche del filtro di dialisi, il warfarin e i DOACs sono entrambi scarsamente eliminati dalla clearance della dialisi. Mentre la superiorità dei DOACs rispetto al warfarin è ben documentata nei pazienti con funzione renale conservata o CKD moderata, mancano dati attualmente disponibili per i DOAC in pazienti con CKD avanzata o ESRD che possono portare a un aumento del rischio di sanguinamento [85]. Infatti, non ci sono dati di studi randomizzati controllati sull’uso dei DOACs per la prevenzione dell’ictus nei pazienti con FA con CKD grave o in RRT, poiché tutti gli studi di riferimento sui DOACs hanno escluso i pazienti con eGFR <30 mL/min (tranne alcuni pazienti con apixaban con eGFR 25-30 mL/min) [8689]. I dati principali sull’uso dei DOACs nei pazienti con RRT provengono da studi condotti negli USA. Dabigatran 110 o 150 mg due volte al giorno ha prodotto un’esposizione maggiore rispetto ai pazienti RE-LY standard (aumento dell’area sotto la curva da 1,5 a 3,3 volte); dabigatran 75 o 110 mg una volta al giorno ha prodotto esposizioni comparabili a quelle simulate nei tipici pazienti RE-LY. Questi dati sembrano suggerire che il regime a dose ridotta può essere più adatto ai pazienti in emodialisi [90, 91]. Sono disponibili informazioni più dettagliate sulle caratteristiche farmacocinetiche di apixaban. L’ESRD ha portato a un modesto aumento (36%) dell’area sotto la curva di apixaban senza aumento della concentrazione di picco [92]. Apixaban 2,5 mg b/die somministrato a pazienti in emodialisi ha determinato un’esposizione al farmaco simile a quella della dose standard (5 mg b/die) in pazienti con funzione renale conservata, mentre apixaban 5 mg due volte al giorno è associato a livelli sovraterapeutici nei pazienti con ESRD [93]. Inoltre, l’apixaban è altamente legato alle proteine, e in caso di un evento emorragico, si dovrebbe somministrare un concentrato di complesso protrombinico invece di tentare il trattamento con dialisi. Risultati simili sono stati riportati con rivaroxaban 10 mg/die in pazienti in emodialisi rispetto alla dose standard (20 mg/die) in pazienti con funzione renale normale [94]. Sorprendentemente, il deterioramento della funzione renale da grave a ESRD non sembra avere un impatto significativo sulla farmacocinetica di rivaroxaban e sull’effetto anticoagulante rispetto ai cambiamenti osservati con insufficienza renale moderata o grave [95]. Sebbene i dati attuali sull’efficacia e la sicurezza dei DOACs nell’ESRD siano limitati, sono molto incoraggianti (Figura 7) [96]. In uno studio retrospettivo di coorte, apixaban è risultato superiore nei pazienti ESRD sia in termini di sicurezza che di efficacia rispetto al warfarin; sia la dose standard (5 mg/bd) che quella ridotta (2,5 mg/bd) di apixaban erano associate a minori rischi di sanguinamento maggiore, ma solo la dose standard era associata a minori eventi tromboembolici e mortalità [97]. Miao B et al. hanno confrontato rivaroxaban e apixaban in pazienti ESRD. Non sono state riportate differenze significative in termini di rischio tromboembolico ed emorragico [98]; tuttavia, rispetto al warfarin, il rivaroxaban sembra essere associato a una riduzione del sanguinamento maggiore [99]. Inoltre, una meta-analisi che ha arruolato 71.877 pazienti in dialisi a lungo termine e con FA ha mostrato che i pazienti che ricevevano apixaban 5 mg due volte al giorno avevano un rischio di mortalità significativamente inferiore rispetto a quelli che ricevevano apixaban 2,5 mg due volte al giorno, warfarin o nessun anticoagulante e un rischio di sanguinamento inferiore rispetto a quelli che assumevano warfarin, dabigatran o rivaroxaban [100]. Nel complesso, tra i pazienti con CKD avanzata ed ESRD, l’uso di apixaban è stato associato a un minor rischio di sanguinamento maggiore rispetto al warfarin ed è stato efficace nel prevenire l’embolia sistemica [101]. Ad oggi, solo rivaroxaban 15 mg/die e apixaban 5 mg/bd (dose ridotta 2,5 mg/bd nei pazienti di 80 anni o più che pesano 60 kg o meno) sono approvati dalla Food and Drug Administration come anticoagulante orale nei pazienti ESRD. Nonostante la crescente evidenza sulla possibilità di usare i DOACs nei pazienti con eGFR <15 mL/min, le linee guida nefrologiche KDIGO raccomandano ancora il warfarin come farmaco di prima scelta e suggeriscono la possibilità di chiusura percutanea o chirurgica dell’auricola atriale sinistra [102]. Uno studio randomizzato che confronti DOACs e warfarin nei pazienti ESRD potrebbe essere appropriato per chiarire quale sia la terapia di prevenzione dell’ictus a lungo termine più sicura ed efficace nei pazienti ESRD e con FA. Sono in corso studi randomizzati controllati che confrontano i DOACs con il warfarin in pazienti con CKD avanzata o in dialisi. Lo studio AXADIA (Compare Apixaban and Vitamin-K Antagonists in Patients with Atrial Fibrillation and End-Stage Kidney Disease) sta randomizzando i pazienti ad apixaban 2,5 mg/bd o al fenprocumone regolato individualmente a un INR di 2,0-3,0; la data di completamento dello studio è prevista per luglio 2023 (NCT02933697) [103]. Tassi simili di eventi emorragici maggiori e non maggiori clinicamente rilevanti sono stati riportati nello studio RENAL-AF in cui i pazienti sono stati randomizzati ad apixaban 5 mg/bd o warfarin (NCT02942407). Purtroppo, lo studio è stato interrotto presto e ha arruolato solo 154 dei 762 pazienti previsti, quindi la piccola dimensione del campione e il basso tasso di eventi sono limitazioni significative dello studio. Molto incoraggianti i dati dello studio Valkyrie nel quale sono stati arruolati poco più di 100 pazienti suddivisi in tre bracci di trattamento: solo warfarin con target INR compreso tra 2 e 3, Rivaroxaban al dosaggio di 10 mg/die o Rivaroxaban 10 mg/die in associazione a vitamina K2 [104]. I risultati sono stati decisamente incoraggianti con un incremento della sopravvivenza nei pazienti trattati con l’inibitore del fattore Xa e ancor di più in coloro i quali facevano parte del gruppo trattato con Rivaroxaban in associazione a vitamina K2. Inoltre, sempre nei due gruppi trattati con Rivaroxaban, si è osservata una riduzione della progressione delle calcificazioni cardiovascolari, soprattutto a livello di aorta toracica e di circolo coronarico [104].

Confronto tra DOACs e warfarin nei pazienti con FA con malattia renale avanzata o dializzati
Figura 7: Confronto tra DOACs e warfarin nei pazienti con FA con malattia renale avanzata o dializzati CI: Intervallo di Confidenza; DOAC: Anticoagulanti Orali Diretti; HR: Hazard Ratio

 

Prevenzione non farmacologica dello stroke

Considerando la difficoltà della gestione della terapia con VKAs e le evidenze che depongono per un maggior tasso di mortalità nei pazienti trattati con VKAs, i pazienti con ESRD che necessitano di terapia anticoagulante potrebbero giovarsi di procedure interventistiche come, ad esempio, la chiusura dell’auricola dell’atrio sinistro. La chiusura percutanea dell’auricola sinistra (LAAO) è emersa come una potenziale alternativa all’anticoagulazione orale per tutta la vita, perché il 90% o più dei trombi durante la FA sono localizzati nell’appendice atriale sinistra, un residuo dell’atrio sinistro primordiale [105]. Questa strategia è attualmente limitata ai pazienti con un alto rischio tromboembolico e di sanguinamento che non sono idonei per gli anticoagulanti orali a lungo termine. Sulla base dei dati disponibili, l’uso della LAAO probabilmente crescerà enormemente nei prossimi anni perché il tasso di eventi avversi maggiori periprocedurali è molto basso nei pazienti con diverse comorbidità e alto rischio tromboembolico/emorragico [106113]. Nei pazienti con CKD avanzata, la LAAO percutanea sembra avere un rischio simile di complicazioni periprocedurali rispetto ai pazienti senza compromissione renale significativa [114, 115]. Inoltre, studi recenti hanno esplorato la sua efficacia per la prevenzione tromboembolica nei pazienti con malattia renale allo stadio terminale [58, 114, 116121]. Anche se non ancora confermato in studi di grandi dimensioni, questi risultati preliminari sono molto promettenti. Noi crediamo che la LAAO potrebbe essere una valida alternativa all’anticoagulazione a vita nei pazienti con CKD in stadio avanzato con FA, fornendo così un’efficace prevenzione tromboembolica senza aumentare il rischio di eventi emorragici pericolosi per la vita. Lo svantaggio principale della LAAO è il rischio di possibile formazione di trombi sul dispositivo di occlusione. Diverse strategie antitrombotiche sono state empiricamente adottate nella pratica clinica per evitare questa preoccupante complicanza [110, 122125]. Ad oggi, l’approccio più comune si basa sull’uso dell’aspirina, inizialmente con clopidogrel e poi da sola, per prevenire l’attivazione delle piastrine che entrano in contatto con la superficie atriale del dispositivo fino alla completa endotelizzazione [114, 116119, 126]. Sono necessari studi clinici randomizzati per identificare la migliore terapia antitrombotica per prevenire la trombosi legata al dispositivo ed esplorare l’efficacia della LAAO in popolazioni ad alto rischio con un ridotto margine di sicurezza tra la prevenzione dell’ictus e il rischio di sanguinamento (ad esempio, CKD allo stadio finale, anziani).

 

Conclusioni

I pazienti con CKD, specialmente con ESRD già in RRT, rappresentano una popolazione impegnativa per la scelta della terapia anticoagulante a lungo termine; tuttavia, la crescente evidenza suggerisce che i DOACs potrebbero essere un’alternativa migliore del warfarin come risultato della minore incidenza di AKI e WRN e un migliore rapporto rischio/beneficio.

 

Abbreviazioni

AKI: Danno Renale Acuto

ARN: Nefropatia Legata all’Anticoagulazione

BMP: Proteina Morfogenetica dell’Osso

CI: Intervallo di Confidenza

CKD: Malattia Renale Cronica

DKD: Malattia Renale Diabetica

DM: Diabete Mellito

DOACs: Anticoagulanti Orali Diretti

eGFR: Filtrato Glomerulare Stimato

ESC: Società Europea di Cardiologia

ESRD: End-Stage Renal Disease

FA: Fibrillazione Atriale

FANS: Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei

HR: Hazard Ratio

INR: Rapporto Internazionale Normalizzato

LAAO: Chiusura Percutanea di Auricola

NO: Ossido Nitrico

RAAS: sistema renina-angiotensina-aldosterone

ROS: Specie Reattive dell’Ossigeno

RRT: Terapia Renale Sostitutiva

WRN: Nefropatia Correlata a Warfarin

 

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