Management of Cast Nephropathy

Abstract

Myeloma cast nephropathy is the most common cause of acute kidney injury in patients affected by multiple myeloma. The mainstay of management of cast nephropathy is the clone-based therapy by reducing production and thereby precipitation of light chains. Adjuvant therapy consists of inducing high urine volume flow and alkalinisation, where possible. Extracorporeal removal of light chains is still debated and the advantages of these procedures are not established. The use of safe and low expensive membranes may encourage their use and address their utility.

Keywords: multiple myeloma, cast nephropathy, dialysis

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In corso di mieloma multiplo (MM) la probabilità di sviluppare un danno renale acuto è piuttosto elevata. Si stima infatti che l’incidenza di acute kidney injury (AKI) sia intorno al 35%, anche se in letteratura esistono dati discordanti perché in passato nelle casistiche ematologiche l’AKI veniva stimato attraverso il GFR e solo più di recente attraverso le classificazioni idonee [1]. Quando presente, l’AKI è spesso severa [1] e la sua presenza influisce negativamente sulla prognosi dei pazienti con MM [2].

Da un punto di vista eziologico l’AKI in corso di MM può essere schematicamente ricondotto a due gruppi di cause. Il primo gruppo è rappresentato dalle AKI secondarie a un danno provocato dall’immunoglobulina patologica o da una sua frazione. Tra queste la cosiddetta “myeloma cast nephropathy” (MCN) è la causa di gran lunga più frequente (oltre la metà dei casi). Altri quadri possibili sono l’amiloidosi, la light or heavy chain deposition disease, la sindrome di Fanconi, etc. Il secondo gruppo di cause di AKI in corso di MM è quello da eziologie indipendenti dalla proteina M, come l’ipercalcemia, la disidratazione, la lisi tumorale e soprattutto i danni iatrogeni (per es. da FANS, da inibitori del proteasoma, da bifosfonati, etc.).

La MCN è il quadro più tipico e frequente di AKI in corso di MM perché è l’espressione della massiva produzione di catene leggere (CL) che si depositano nei tubuli renali. È stato dimostrato che la MCN di fatto non si realizza se il paziente non presenta un livello sierico di CL di almeno 500 mg/L e di solito sono necessari valori sierici ben più alti [3]. Questo spiega come mai la MCN sia descritta sostanzialmente solo in caso di MM (o raramente in corso di altre patologie neoplastiche ematologiche come il linfoma linfoplasmocitico e la leucemia linfatica cronica) ma non nelle condizioni precancerose, come la cosiddetta monoclonal gammopathy of renal significance.

La presenza di alti livelli di CL è un requisito indispensabile ma non sufficiente allo sviluppo della MCN. È noto infatti come non tutti i pazienti con MM e alti livelli di CL sviluppino MCN. Inoltre i livelli di CL non correlano con la gravità dell’interessamento renale [3]. Il motivo è da ricercarsi nell’interazione tra le CL e l’uromodulina, elemento chiave per la deposizione dei cilindri di CL all’interno dei tubuli renali. L’interazione delle CL con l’uromodulina avviene attraverso il legame della regione ipervariabile cdr3 delle CL con una specifica sequenza di 9 aminoacidi dell’uromodulina [4]. Ne consegue che ogni singolo clone di CL abbia una sua specifica affinità per l’uromodulina e ciò giustifica la precipitazione per concentrazioni diverse. Inoltre è stato anche dimostrato come altri fattori quali il pH possano influire sulla precipitazione delle CL [5].

Da un punto di vista istologico il quadro della MCN è caratterizzato da cilindri con struttura lamellare e aspetto fratturato, spesso intensamente eosinofili. Questi cilindri determinano una reazione infiammatoria con cellule giganti nell’interstizio che può esitare nella rottura della membrana basale tubulare e quindi in fibrosi e atrofia tubulo-interstiziale [6]. È stato dimostrato che il numero di cilindri per mm2 di corticale renale correla con il danno renale a lungo termine e che tale informazione istologica non può essere desunta dai dati di laboratorio al momento della biopsia [7]. I dati ottenuti dalla biopsia renale ci consentono quindi non solo di chiarire quale sia l’eziologia dell’AKI in corso di MM, che come abbiamo visto non è sempre imputabile alla MCN [8], ma forniscono anche insostituibili informazioni di carattere prognostico.

Il trattamento più importante della MCN è costituito dalla terapia clone based. Tanto più rapidamente ed efficacemente questa terapia riesce ad abbattere la produzione di CL, portandone i valori sierici al di sotto della soglia di precipitazione, tanto più è probabile un recupero della funzione renale. Come misure adiuvanti si può tentare di ridurre il rischio di ulteriore precipitazione delle CL attraverso la diluizione in volumi urinari elevati, maggiori di 3 L, e possibilmente in urine alcaline [9]. Vanno evitati però i diuretici dell’ansa che favoriscono la precipitazione delle CL [5]. Inoltre è necessario correggere l’ipercalcemia laddove presente ed evitare l’utilizzo di farmaci nefrotossici. È evidente che in pratica clinica possa risultare in certi casi complesso ottenere volumi urinari elevati in pazienti con AKI severa senza utilizzare diuretici dell’ansa, così come indurre una diuresi alcalina evitando però di peggiorare l’ipercalcemia attraverso l’alcalosi metabolica.

Un altro aspetto da considerare è che l’emivita delle CL, normalmente piuttosto breve, è molto allungata in caso di AKI severa e quindi, anche in presenza di una chemioterapia tempestiva ed efficace, queste restano in circolo per diversi giorni a livelli sierici elevati potendo potenzialmente continuare a precipitare e aggravare il danno renale. Pertanto nei pazienti con AKI severa che richiedono emodialisi, il trattamento extracorporeo può essere sfruttato anche per rimuovere efficacemente le catene leggere.

Le prime esperienze pioneristiche in questo ambito sono state effettuate con la plasmaferesi [10], tecnica che tuttavia non abbina la depurazione renale e che è limitata nella rimozione delle CL dai bassi volumi di liquido trattati. Le CL infatti hanno un volume di distribuzione maggiore delle Ig intatte, ma dato il loro peso molecolare contenuto possono essere efficientemente rimosse anche da filtri con cut-off minore rispetto ai plasmafiltri. Per questo motivo sono stati impiegati in questo ambito i filtri cosiddetti high cut-off (HCO) [11]. Questi filtri sono in grado di rimuovere efficacemente le CL, sia kappa che lambda (quest’ultima normalmente dimerica e quindi di peso molecolare doppio, 45 KDa circa, rispetto alla monomerica kappa). L’impiego di questi filtri si è dimostrato efficace nei primi lavori sperimentali, consentendo una buona rimozione delle CL e anche un miglioramento sugli end-point clinici [12]. Tuttavia questi filtri sono gravati da una perdita di albumina abbastanza marcata, che ne richiede la supplementazione al termine di trattamenti intensivi come quelli previsti per la rimozione delle CL (di norma quotidiani e prolungati).

Sono stati quindi disegnati due grandi trial randomizzati e controllati, il MYRE [13] e l’EuLite [14], per validare l’impiego dei filtri HCO nel contesto di pazienti con MCN. Questi studi hanno reclutato solo pazienti con MCN istologicamente documentata, che sono stati randomizzati a ricevere dialisi tradizionale o con HCO in aggiunta alla terapia standard of care. Entrambi i trial hanno fallito nel loro end point primario, ovvero dimostrare un miglioramento della prognosi renale dei pazienti dopo 3 mesi. Nonostante questo era evidenziabile un trend favorevole nel braccio di trattamento, così come il raggiungimento di alcuni end points secondari. Si è quindi ipotizzato che i trial non fossero sufficientemente potenti per dimostrare il vantaggio fornito dai filtri HCO rispetto alle metodiche convenzionali. La mancanza di potenza è stata attribuita al fatto che tra i primi lavori con filtri HCO ai due trial menzionati prima, si è verificato un grande avanzamento nel trattamento del MM con l’introduzione in terapia degli inibitori del proteasoma. La disponibilità di terapie più efficaci e rapide nel contrastare il MM potrebbe aver reso meno rilevante il lavoro effettuato sulla clearance delle CL dai trattamenti extra-corporei. Di conseguenza per evidenziare un vantaggio clinico minore sarebbe stato necessario calibrare diversamente i trial rispetto a quanto fatto sulla base dei primi dati disponibili (i vantaggi sulla prognosi renale erano stimati intorno al 30%). Tuttavia dal trial EuLITE è emerso anche un aumentato rischio infettivo nel braccio di trattamento. Questo allarme, insieme alla mancanza di una chiara efficacia dei trattamenti, alla complessità di gestione e ai costi degli stessi ha limitato la diffusione dei filtri HCO per questa indicazione.

Nel frattempo ulteriori lavori hanno dimostrato che anche altre metodiche emodialitiche, sfruttando soprattutto il principio dell’adsorbimento e non solo della filtrazione, possono essere in grado di fornire una certa rimozione delle CL nei pazienti con MCN. Sono stati pubblicati diversi lavori, in particolare circa l’impiego di filtri a base di PMMA [15, 16] e delle resine di stirene [17], tutte metodiche in grado di adsorbire le CL. Nonostante i tassi di rimozione non siano allo stesso livello dei filtri HCO, queste metodiche presentano dei vantaggi relativi alla semplicità di gestione, alla sicurezza e ai costi. Nel nostro centro abbiamo utilizzato la metodica HFR-SUPRA col raggiungimento di buoni risultati sia in termini di riduzione delle CL che prognostici [18]. Un’altra alternativa potrà essere rappresentata dai filtri a medium cut off, introdotti nella pratica clinica più di recente e che non sono gravati da sostanziali perdite di albumina [19].

Se da un lato quindi non abbiamo dati conclusivi sull’opportunità di impiegare trattamenti specifici per la rimozione extra-corporea delle CL nei pazienti con MCN, dall’altro la possibilità di impiegare metodiche semplici e a basso costo, in pazienti comunque destinati al trattamento emodialitico, sembra una scelta logica e supportata da un razionale fisiopatologico chiaro. Inoltre, con il cronicizzarsi delle patologie oncologiche è sempre più frequente imbattersi in pazienti che presentano recidive e che impiegano seconde e terze linee di trattamento, a volte con tempi di azione più lunghi. La possibilità di impiegare in questi casi dei trattamenti efficienti e sicuri rappresenta una possibilità da non trascurare per limitare l’impatto del danno renale e quindi le sue conseguenze.

 

Bibliografia

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Chronic Kidney Disease and Cancer: Ethical Choices

Abstract

Cancer and chronic kidney disease prevalence both increase with age. As a consequence, physicians are more frequently encountering older people with cancer who need dialysis, or patients on dialysis diagnosed with cancer. Decisions in this context are particularly complex and multifaceted. Informed decisions about dialysis require a personalised care plan that considers the prognosis and treatment options for each condition while also respecting patient preferences. The concept of prognosis should include quality-of-life considerations, functional status, and burden of care. Close collaboration between oncologists, nephrologists, geriatricians and palliativists is crucial to making optimal treatment decisions, and several tools are available for estimating cancer prognosis, prognosis of renal disease, and general age-related prognosis. Decision regarding the initiation or the termination of dialysis in patients with advanced cancer have also ethical implications. This last point is discussed in this article, and we delved into ethical issues with the aim of providing a pathway for the nephrologist to manage an elderly patient with ESRD and cancer.

Keywords: Chronic Kidney Disease, Cancer, Dialysis, Ethic, Onconephrology

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Neoplasia e malattia renale

Al giorno d’oggi, a livello mondiale, le neoplasie rappresentano una delle principali cause di morte, così come la malattia renale cronica in stadio terminale (ESRD) interessa percentuali sempre più ampie di popolazione [1, 2].

A partire dagli anni ’70 la dialisi è diventata il trattamento salvavita per pazienti con insufficienza renale acuta o cronica in stadio terminale e negli ultimi decenni nei Paesi occidentali il numero di dializzati cresce del 5% annuo. Fra le principali cause vanno ricordate l’invecchiamento della popolazione generale e l’incidenza sempre più crescente di diabete mellito di tipo II, condizione frequentemente associata a deterioramento della funzione renale [2]. La terapia sostitutiva della malattia renale cronica permette una maggior sopravvivenza rispetto al paziente con malattia renale cronica terminale ma non dializzato, maggior sopravvivenza che può favorire la comparsa di neoplasie [3]. Nonostante siano stati riportati in letteratura risultati contrastanti tra i vari studi negli anni ’90 del secolo scorso, più recentemente sono stati pubblicati studi che hanno dimostrato una maggiore incidenza per alcuni tipi di tumore nei pazienti in dialisi [4, 5].

In uno studio di coorte retrospettivo del 2018, che ha utilizzato i dati del Taiwan National Health Insurance che copre circa il 99% della popolazione della nazione, è stato dimostrato come nei pazienti in dialisi si osserva un aumentato rischio di comparsa per alcuni tipi di neoplasia. Il rischio risulta aumentato indistintamente nei pazienti in dialisi peritoneale o in dialisi extracorporea versus l’incidenza nella popolazione generale che non presenta malattia renale. Tra le neoplasie riscontrate le più frequenti erano quelle a carico delle vie urinarie extrarenali, vescicali e renali, del fegato e della tiroide [6].

Uchida e collaboratori hanno valutato la sopravvivenza media a 3 anni dall’inizio del trattamento sostitutivo in 454 pazienti in emodialisi e in 120 pazienti in trattamento con dialisi peritoneale. Nella popolazione in dialisi extracorporea è stato riportato un tasso di sopravvivenza del 65% al termine dei 3 anni di follow-up. Le cause di morte erano le malattie cardiovascolari nel 52% dei decessi, infettive nel 25% dei decessi e per neoplasia nel 12% dei decessi [6]. Nei pazienti in dialisi peritoneale si è osservata una sopravvivenza a 3 anni dell’81%, mentre le cause di morte erano infettive nel 36% dei casi, cardiovascolari nel 24% e oncologiche nel 6% dei casi (p = NS per morte da neoplasie fra emodialisi e dialisi peritoneale). Va infine sottolineato come in letteratura sia riportato un tasso di sopravvivenza nei pazienti con ESRD e neoplasia inferiore a quello dei pazienti con malattia renale cronica terminale senza neoplasia [6] e un tasso di mortalità elevato anche nei pazienti oncologici con danno renale acuto [7, 8]. 

Il meccanismo attraverso cui la malattia cronica renale end-stage possa influenzare lo sviluppo del cancro non è ancora ben compreso e si ipotizza una eziologia multifattoriale: il danno ossidativo aumentato nei pazienti uremici che danneggia il DNA predispone a mutazioni genetiche [8] e altera la riparazione del DNA [9, 10], l’accumulo di agenti cancerogeni dovuto a ridotta escrezione renale quali ad esempio i prodotti finali della glicosilazione o l’omocisteina. Oltre a questi sono riportati fra i fattori favorenti la comparsa di neoplasia lo stato infiammatorio cronico determinato dall’utilizzo di sostanze bioincompatibili e gli stress meccanici [11], lo stato immunitario maggiormente compromesso nei pazienti con CKD e ancor più nei pazienti in dialisi che espone i pazienti a maggiore probabilità di infezioni croniche come HBV, HCV, EBV [12]. Non bisogna infine dimenticare che alcuni farmaci utilizzati per il trattamento delle glomerulonefriti o delle vasculiti, quali l’azatioprina o la ciclofosfamide, sono riconosciuti come sostanze potenzialmente cancerogene e associate a maggior rischio di sviluppo rispettivamente del cancro della cute, di linfomi e del cancro della vescica [13, 14].

 

ESRD e trattamenti antineoplastici

Come nefrologi ci troveremo sempre più spesso a trattare pazienti con ESRD o già in dialisi che sviluppano un tumore (degno di nota è che spesso la diagnosi di cancro viene fatta grazie ai programmi di screening per inserimento in lista trapianto) così come gli oncologi dovranno gestire pazienti oncologici con ESRD o in dialisi. Le prescrizioni dovranno essere adattate in termini di adeguamento del dosaggio e del tempo di somministrazione al fine di prevenire effetti collaterali renali e non, dovuti alla modifica della farmacocinetica dei farmaci antitumorali in pazienti con alterata funzione renale. La corretta conoscenza della farmacocinetica dei farmaci antineoplastici permetterà così di evitare gli effetti tossici dovuti ad accumulo del farmaco per la minore escrezione renale, così come l’inefficacia terapeutica dovuta alla somministrazione di una dose non adeguata e ridotta arbitrariamente a scopo precauzionale.

Si sa ancora poco sulla gestione dei farmaci citotossici in pazienti con ESRD e ancor meno sulla tempistica ottimale e sugli aggiustamenti di dosaggio necessari a seconda delle sessioni di dialisi.  La mancanza di conoscenza e dati riguardanti l’uso sistemico di questi farmaci può portare ad un uso improprio dei chemioterapici e ad effetti tossici fatali in questi pazienti. Pertanto, è importante monitorare attentamente anche tutti gli effetti extra-renali correlati alla dose durante l’uso di tali farmaci. In questi anni si è avuto un significativo progresso nella gestione delle patologie oncologiche nei pazienti con malattia renale; quindi, i pazienti con ESRD devono avere le stesse probabilità di trattamento che hanno i soggetti senza malattia renale cronica. Infatti, alcuni studi hanno riportato che la sopravvivenza mediana dei pazienti con insufficienza renale con mieloma multiplo era inferiore nei pazienti non trattati con chemioterapia rispetto ai pazienti trattati con vincristina, adriamicina e desametasone (2 mesi vs 10 mesi) e melfalan (2 mesi vs 12 mesi) [15, 16].

Sembra tuttavia che i medici siano riluttanti ad utilizzare farmaci antitumorali nei pazienti in trattamento dialitico cronico con diagnosi di neoplasia. I pazienti in dialisi richiedono un’attenzione specifica soprattutto per la gestione dei farmaci antineoplastici poiché, nonostante gli effetti renali non siano più un problema nel paziente dializzato, è altrettanto vero che sono più esposti agli altri effetti collaterali extrarenali correlati alla dose. Questo dipende dal fatto che la maggior parte dei farmaci citotossici sono escreti prevalentemente a livello renale in forma immodificata o come metabolita attivo e dunque tossici. Nello studio multicentrico CANDY (CANcer and DialYsis, 2012), i ricercatori francesi hanno analizzato le dosi/intervalli di farmaci antitumorali somministrati in 178 pazienti in dialisi cronica che avevano sviluppato un tumore, aggiustandone il dosaggio per la funzione renale/sessione di dialisi al fine di evitare l’eliminazione prematura del farmaco durante le sessioni di dialisi [17], dimostrando che con il dosaggio appropriato del farmaco antineoplastico i pazienti oncologici con malattia renale in trattamento sostitutivo possono essere trattati come i pazienti non dializzati. Pertanto, è fondamentale utilizzare i dati disponibili per regolare la dose di farmaci antitumorali per questi pazienti e programmarne la somministrazione in base alle sessioni di dialisi. Ad esempio, nei pazienti in emodialisi che ricevono i sali di cisplatino, le dosi iniziali di cisplatino devono essere ridotte del 50% per evitare sovradosaggio e problemi di tolleranza, che possono mettere a rischio la possibilità di proseguire il trattamento chemioterapico. Questo perché il cisplatino è irreversibilmente legato alle proteine plasmatiche mentre la dose di farmaco libera è dializzabile e per questo deve essere somministrato dopo le sessioni di dialisi o nei giorni di non dialisi. Per altri farmaci non rimossi dal trattamento dialitico, come la doxorubicina, il rituximab, la vinblastina o la vincristina, la somministrazione può essere effettuata in qualsiasi momento e non necessita di aggiustamenti di dose [17]. Dunque, l’ESRD non è da considerare una controindicazione assoluta alla somministrazione di farmaci antitumorali, ma questi richiedono una gestione specifica in termini di dosaggio e tempo di somministrazione rispetto alla seduta di dialisi.

 

Approccio multidisciplinare alle cure

È dunque necessario un approccio multidisciplinare che includa oncologi, nefrologi e farmacologi per gestire correttamente i pazienti oncologici che presentano ESRD e proporre quindi una strategia farmacologica antitumorale adattata a questi pazienti che sviluppano tumori piuttosto che controindicarla sistematicamente, utilizzando le scarse raccomandazioni che derivano prevalentemente da report basati su singoli casi clinici e non da studi con una significativa numerosità di pazienti dializzati (che pur essendo scarse sono le uniche disponibili) e raccogliere correttamente i dati osservati nei pazienti trattati per avere ulteriori strumenti a disposizione per il trattamento delle neoplasie nei pazienti con ESRD o in dialisi [18, 19].

Pertanto si rende sempre più necessario, alla luce anche della continua introduzione nella pratica clinica di nuovi farmaci antitumorali, poter disporre di algoritmi terapeutici basati sullo stato fisico del soggetto, sulla mortalità prevista per malattia renale, sul tempo di dialisi, sul tipo e stadio della neoplasia, sull’impatto che il trattamento potrà avere sul grado di autonomia del paziente e il risultato ottenuto dall’algoritmo potrà quindi essere di supporto al clinico nella scelta terapeutica  (sì terapia vs no terapia).

 

Scelte etiche

Alla luce dell’età media di inizio trattamento dialitico sempre più avanzata (nel mondo occidentale è attorno ai 69 anni), della possibile comparsa di neoplasia nel corso del trattamento  dialitico, delle attese dei pazienti e familiari in un epoca sempre più connessa e con informazioni non sempre attendibili,  è lecito che la comunità dei professionisti si chieda: “è giusto trattare i pazienti dializzati con riscontro di neoplasia quando anche in condizioni di “no neoplasia” hanno una minor sopravvivenza rispetto alla popolazione generale? Tratto tutti indistintamente, non tratto nessuno, quali strumenti posso utilizzare per supportarmi nella decisione?”.

La scelta decisionale in questo caso richiede, a nostro giudizio, il supporto della bioetica, branca della filosofia che nasce con lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie biomediche (la scoperta della struttura a doppia elica del DNA e la conseguente ingegneria genetica, la preparazione della pillola per la contraccezione ormonale, lo sviluppo del trapianto d’organo, il sostegno artificiale delle funzioni vitali, il concepimento in vitro, la clonazione come esempi di innovazioni che hanno generato grandi discussioni fra i clinici) e che si occupa dell’analisi razionale dei problemi morali emergenti nel campo delle scienze biomediche, proponendosi di definire criteri e limiti di liceità alla pratica medica e alla ricerca scientifica, affinché il progresso avvenga nel rispetto di ogni persona umana e della sua dignità.

Il termine bioetica, coniato agli inizi del ’900, fu utilizzato nella sua accezione comune dall’oncologo statunitense Van Rensselaer Potter che, nel 1970, lo inserì nel titolo del suo testo “Bioetica: la scienza della sopravvivenza” spiegando il termine bioetica come “la scienza che consente all’uomo di sopravvivere utilizzando i suoi valori morali di fronte all’evolversi dell’ecosistema” [19].

La bioetica nasce quindi dall’esigenza di integrare tra loro nuove conoscenze e nuovi saperi con l’obiettivo di definire in maniera forte e razionale i criteri di regolamentazione della prassi biomedica e garantire la libertà di ricerca scientifica nel rispetto dei diritti umani fondamentali. Si può quindi dire che questo nuovo approccio alle grandi questioni mediche nasce dal dialogo e dal confronto tra biologia, medicina, filosofia, teologia, sociologia, antropologia, economia, diritto, politica, bioingegneria e, in questi tempi anche dalla discussione sull’information technology. Partendo dalla descrizione del dato scientifico, biologico o medico, la bioetica esamina la legittimità dell’intervento dell’uomo sull’uomo, avendo come orizzonte di riferimento la persona in tutte le sue dimensioni: fisiche, psichiche e spirituali.

Il fine del giudizio bioetico non è solo quello di dire ‘come’ si deve agire, ma ‘perché’ si deve agire in quel modo.

Da notare che la bioetica è cosa ben diversa dall’etica poiché quest’ultima è una branca della filosofia che si occupa del comportamento umano, studia i fondamenti che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status normativo, ovvero distinguerli in buoni, giusti, leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti ingiusti, illeciti, sconvenienti o cattivi secondo un ideale modello comportamentale. Come disciplina affronta questioni inerenti alla moralità umana definendo concetti come il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, la virtù e il vizio, la giustizia e il crimine.

Mentre per Deontologia Professionale intendiamo l’insieme delle regole morali che disciplinano l’esercizio di una determinata Professione (regole che la stessa professione, attraverso un proprio codice, si è data).

Da qui l’importanza di comprendere che la Deontologia Professionale (concetto che nella medicina trova forma scritta nella sua carta fondamentale – il Codice Deontologico) risulta essere l’insieme di quelle connotazioni prescrittive vincolanti per ciascun medico, pena la censura o radiazione, che la categoria professionale si è data per meglio esercitare la professione (contro morale = immorali).  Va pertanto ribadito che il “Codice Deontologico” non è stato elaborato partendo da precetti etici, e infatti nel codice sono contenute alcune regole che possono contrastare con il giudizio etico di alcuni suoi membri (ad esempio le norme che disciplinano l’interruzione della gravidanza).

Queste regole hanno la finalità di rappresentare i binari entro i quali la Professione debba essere esercitata, ed allo stesso tempo cosa il cittadino può “aspettarsi” dal professionista. Ecco perché il Codice è soggetto a revisione periodica, essendo considerato un “patto” è come tale soggetto a revisione tra le parti.

Tornando ai concetti di bioetica, per quanto riguarda la sua applicazione in ambito medico, si sono individuati 4 principi, riconosciuti come finalità implicite di questa pratica, cui fare riferimento in senso regolativo. Essi sono:

  • Il principio di autonomia, con il quale si riconosce e si afferma il dovere di rispettare l’individuo nella sua autodeterminazione, il suo diritto ad avere opinioni, a compiere delle scelte e ad agire in base a valori e convinzioni personali, nonché il dovere di promuovere l’autonomia dei diversi soggetti coinvolti nel processo di cura;
  • Il principio di non maleficenza, con il quale si riprende il tradizionale principio ippocratico del primum non nocere e si afferma il dovere di non provocare intenzionalmente un danno;
  • Il principio di beneficienza, che possiamo vedere come versione positiva del principio di non-maleficenza, inteso alla prevenzione o rimozione di un danno e alla promozione del bene del paziente;
  • Il principio di giustizia, che sottolinea l’esigenza di equità e giustizia della pratica medica e sanitaria e introduce la dimensione socioeconomica e politica tra i fattori determinanti questo settore [20].

 

Percorso decisionale nei pazienti con ESRD e neoplasia

Ed ecco che alla luce di tali premesse, dinanzi ad un paziente oncologico con ESRD o in dialisi il medico dovrebbe proporre un piano di assistenza personalizzato che consideri la prognosi e le opzioni terapeutiche per ogni condizione, rispettando anche le preferenze del paziente. Il concetto di prognosi dovrebbe includere considerazioni sulla qualità della vita, lo stato funzionale e l’onere dell’assistenza.

La stretta collaborazione tra oncologi, nefrologi, palliativisti e geriatri è fondamentale per prendere decisioni terapeutiche ottimali e sono disponibili diversi strumenti per definire la prognosi della neoplasia, la prognosi della malattia renale e la prognosi generale correlata all’età. Prove emergenti mostrano che questi strumenti di valutazione geriatrica, che misurano i gradi di fragilità, sono utili nei pazienti con malattia renale cronica. Nella review pubblicata su Lancet nel 2021, si cerca di fornire strumenti ai medici per guidare il processo decisionale in merito all’inizio e alla fine della dialisi nei pazienti con cancro avanzato [21]. Lo scenario che possiamo avere di fronte è duplice: il primo scenario è che i pazienti con neoplasia nota possono sviluppare ESRD e richiedere la necessità di iniziare un trattamento sostitutivo; il secondo scenario è che i pazienti con ESRD in dialisi sviluppino una neoplasia che potrebbe richiedere di non continuare la terapia dialitica. Il problema di trattare o non trattare queste condizioni cliniche spesso si pone nei pazienti più anziani con ESRD associata ad altre comorbilità, una popolazione che inoltre in una percentuale sostanziale mostra una significativa compromissione funzionale e cognitiva [22, 23] oppure perde l’indipendenza personale entro i primi mesi o anni di dialisi [24]. 

Bisogna tener presente, tuttavia, che non vi è una sostanziale eterogeneità nel processo di invecchiamento, e ciò comporta importanti variazioni nei modelli di trattamento e nei risultati nei pazienti più anziani. Inoltre, ci sono poche prove su cui basare le decisioni terapeutiche per i pazienti anziani con tumore e malattia renale, perché questo gruppo è notevolmente sottorappresentato negli studi clinici [25, 26].

Poiché l’età cronologica da sola non è un buon indice descrittivo dell’eterogeneità nel processo di invecchiamento, è necessario un modo sistematico e basato sull’evidenza per valutare la salute e la resilienza di un individuo e per guidare le decisioni terapeutiche oncologiche. Per colmare questa lacuna è stato proposto come approccio la valutazione geriatrica completa (CGA) [27].

La CGA è definita come un processo diagnostico multidimensionale e interdisciplinare fornendo una solida base per un processo decisionale condiviso perché raccoglie informazioni sulle capacità e sui limiti funzionali e psicosociali che sono legati alla discussione di ciò che conta di più nella vita quotidiana del singolo paziente. Con queste informazioni raccolte obiettivamente, il team medico è in grado di sviluppare un piano coordinato e integrato per il trattamento e il follow-up a lungo termine [28, 29].

Dato il contesto complesso dovuto sia alla neoplasia che alla malattia renale (e della possibile fragilità), in questa popolazione è fortemente raccomandato di non utilizzare la sola valutazione geriatrica ma di utilizzare l’intero processo CGA per fornire la migliore assistenza e includere assistenti e infermieri del servizio dialisi nel team interdisciplinare CGA. I punteggi Performance Status e Karnofsky Performance Status dell’Eastern Cooperative Oncology Group (ECOG) sono rapidi e semplici da accertare, ma non hanno una sensibilità sufficiente per rilevare la fragilità in modo efficiente. Inoltre, queste misurazioni non danno informazioni dettagliate sull’esatta gravità dei problemi geriatrici nei diversi domini. In uno studio di Hurria e colleghi, il Karnofsky Performance Status non è stato in grado di prevedere la tossicità della chemioterapia, mentre i componenti della valutazione geriatrica hanno aggiunto un valore sostanziale nel predirla [30].

Diversi studi hanno dimostrato che la maggior parte dei componenti del CGA ha un valore prognostico indipendente per la sopravvivenza (es., stato funzionale [31, 32], stato nutrizionale [33-36] e salute mentale [31, 32]), con la nutrizione costantemente tra i più forti predittori di esito. Tuttavia, un CGA completo richiede tempo, quindi per selezionare i pazienti che trarrebbero i maggiori benefici dalla valutazione geriatrica, sono stati sviluppati numerosi strumenti di screening geriatrico (ad esempio, Geriatric 8 noto anche come G8 [37], l’indagine sugli anziani vulnerabili [38], e la versione fiamminga del Triage Risk Screening Tool [39]. 

Inoltre, nei pazienti con malattia renale avanzata, ci sono rapporti secondo i quali la valutazione geriatrica è utile per informare il processo decisionale condiviso in merito alla scelta della modalità e per massimizzare le opportunità di riabilitazione e mantenimento dell’indipendenza [40, 41]. È stato suggerito che la CGA dovrebbe essere eseguita, e dovrebbe essere applicata per la pianificazione avanzata dell’assistenza, al momento dell’inizio della dialisi e poi riveduta quando si verifica un cambiamento importante nella salute o nello stato funzionale di un paziente, come nel caso di un ricovero in ospedale [40].

Il trattamento dialitico è da considerarsi come “terapia salvavita”, ma in alcune situazioni può essere visto anche come un prolungamento sproporzionato della vita e che può peggiorare la qualità della vita del paziente attraverso l’aumento del carico di cure. Compito del clinico, pertanto, è di “dare vita agli anni, non anni alla vita”. Molti pazienti con ESRD sono fragili e hanno molteplici comorbilità e la loro sopravvivenza globale in dialisi cronica rimane bassa, con un tasso di sopravvivenza a 5 anni inferiore al 50%; tuttavia, vi è un’elevata variazione interindividuale a seconda dell’età, dello stato funzionale e della presenza di comorbilità specifiche al momento dell’inizio della terapia renale sostitutiva [42, 43]. Oltre alle complicazioni mediche, è ben noto che l’inizio della terapia renale sostitutiva è associato ad un improvviso declino funzionale e ad una diminuzione della qualità della vita [44, 45]. Lo stato funzionale è un risultato importante per i pazienti più anziani, la maggior parte dei quali dà priorità allo stato funzionale rispetto al prolungamento della vita [46]. Inoltre, vi è una maggiore probabilità per i pazienti in dialisi di morire in ospedale o in hospice e la maggior parte dei pazienti in dialisi riceve negli ultimi anni di vita un trattamento sproporzionato rispetto ai bisogni del soggetto [47]. 

Nella popolazione anziana, attraverso l’uso di questionari anonimi, si rileva un’alta percentuale di persone che prova rimpianto per aver iniziato il trattamento sostitutivo. Ad esempio, Saeed e colleghi hanno rilevato che il rimpianto decisionale si è verificato in 82 (21%) dei 397 pazienti sottoposti a dialisi cronica [48]. L’invecchiamento della popolazione, l’evoluzione dei pazienti anziani avviati al trattamento dialitico, l’aumento delle ospedalizzazioni legate al trattamento hanno nel tempo favorito il dibattito sull’utilizzo della gestione conservativa come alternativa al trattamento dialitico almeno nella gestione dei pazienti anziani e grandi anziani [47, 49]. Questo sviluppo è stato ben illustrato da Verberne e colleghi che hanno confrontato retrospettivamente i risultati della cura conservativa rispetto alla terapia renale sostitutiva in 311 pazienti olandesi di età pari o superiore a 70 anni [50, 51]. Sebbene questo studio abbia rilevato che questi pazienti di età pari o superiore a 70 anni sottoposti a terapia renale sostitutiva avevano una sopravvivenza significativamente più lunga rispetto a quelli che avevano scelto un trattamento conservativo (tempo medio di sopravvivenza dalla data della decisione sulla cura 3,1 anni vs 1,5 anni rispettivamente; log-rank p<0,001), non è stata osservata alcuna differenza significativa nel sottogruppo di pazienti di età pari o superiore a 80 anni (2,1 anni vs 1,4 anni rispettivamente, log-rank p=0,08). Inoltre, mentre i pazienti di età pari o superiore a 70 anni con comorbidità grave (ossia, punteggio di comorbidità di Davies ≥3) che hanno scelto la terapia sostitutiva renale hanno comunque vissuto significativamente più a lungo rispetto a quelli che hanno scelto la cura conservativa, la differenza di sopravvivenza è stata inferiore rispetto a quelli con meno comorbidità (1,8 anni mediani di sopravvivenza dalla scelta della decisione terapeutica vs 1,0, log-rank p=0.02) [50]. 

Non iniziare la dialisi, o interromperla, è quindi una valida opzione terapeutica anche nelle persone anziane con neoplasia, in particolare se la prognosi della neoplasia o la prognosi generale correlata all’età è sfavorevole. L’équipe medica ha l’obbligo etico nei confronti del paziente di delineare la diagnosi e di evidenziare l’opzione della dialisi senza omettere informazioni sul rapporto rischio-beneficio. Il paziente può anche decidere di provare la dialisi a tempo limitato, prendendosi il tempo necessario per prendere la decisione definitiva di interrompere o proseguire la dialisi. Allo stesso modo, dovrebbe essere descritta la possibilità alternativa di un approccio conservativo con cure palliative. I pazienti hanno il diritto di rinunciare a qualsiasi trattamento, ma non possono richiedere la somministrazione di una terapia che l’équipe medica ritiene futile [21]. 

Come precedentemente ricordato nella pratica clinica si possono prevedere diversi scenari: pazienti con neoplasia nota che sviluppano ESRD e pazienti con ESRD in dialisi che sviluppano una neoplasia. Nel primo scenario sarà importante per il paziente e per l’oncologo comprendere l’effetto dell’ESRD e elaborare un’ipotesi di prognosi con e senza dialisi, in modo che si possa prendere una decisione informata sull’inizio della dialisi. Nel secondo caso diventano rilevanti altre domande: quali sono le opzioni diagnostiche e terapeutiche e qual è la (probabile) prognosi della neoplasia? Qual è la prognosi del paziente, data la sua attuale fragilità, lo stato di salute generale e le comorbilità? In che modo questo è influenzato dalla neoplasia, con e senza trattamento? Quali saranno gli effetti delle possibili opzioni terapeutiche oncologiche per questo specifico paziente, dato il suo stato di fragilità? Cosa significa questo per la scelta del trattamento oncologico? Qual è la prognosi per la malattia renale allo stadio terminale, con e senza dialisi? Qual è l’effetto atteso del proseguo o della sospensione della dialisi in questo particolare paziente, dato il suo stato di fragilità? Cosa significa questo per la decisione terapeutica? Quanto dell’attuale stato di fragilità del paziente è determinato dai sintomi legati alla neoplasia o alla malattia renale e che potrebbero essere alleviati iniziando il trattamento? Cosa succede se il paziente non prosegue il trattamento dialitico oppure non inizia la terapia antitumorale?

Per guidare la discussione con il paziente, sono pertanto necessarie molte informazioni sulla futura evoluzione della malattia e, in particolare, informazioni da tre diversi punti di vista: quello oncologico, quello geriatrico e quello renale. Dal punto di vista oncologico, gli oncologi devono informare il paziente sullo sviluppo previsto della malattia, con e senza iniziare o continuare la terapia antitumorale. Dal punto di vista geriatrico, i geriatri sono nella posizione migliore per informare i pazienti sui possibili effetti sull’indipendenza, sulla funzionalità e sulla qualità della vita in generale per una persona della loro età e grado di fragilità. Dal punto di vista renale, la prognosi renale è un preambolo importante nelle discussioni con il paziente ed è determinata dalla funzione renale residua e dalla gravità della patologia renale sottostante. Anche se difficilmente esatta, il nefrologo può stimare l’evoluzione di una malattia (mesi/anni prima di necessità della terapia sostitutiva). Strumenti prognostici convalidati possono aiutare in questo contesto, ad esempio, l’Equazione del rischio di insufficienza renale [52,53]. Alla luce del declino cognitivo che può manifestarsi nel periodo successivo all’inizio della terapia sostitutiva, è pertanto importante iniziare le discussioni sull’inizio o la fine della dialisi il prima possibile nel decorso clinico del paziente, per consentire un processo decisionale informato e condiviso (équipe-paziente-familiari).

Fornire informazioni è essenziale ed i pazienti che decidono se iniziare o interrompere la dialisi devono essere informati della loro prognosi e del possibile carico di sintomi che si presenteranno alla sospensione del trattamento o al non avvio della terapia sostitutiva. L’alternativa al non avvio della terapia dialitica rimane la massima gestione conservativa, un approccio che comprende il trattamento di supporto per alleviare il carico dei sintomi nei pazienti con ESRD, oltre a misure per preservare la funzione renale residua [54]. Fra queste ultime ricordiamo la prevenzione di episodi di ipotensione prolungata (controllo idratazione, uso ragionato della terapia ipotensiva, presenza di vomito o diarrea), il non utilizzo di farmaci nefrotossici (quali ad esempio i farmaci antinfiammatori non steroidei o gli aminoglicosidici) e il corretto utilizzo delle procedure che richiedono l’uso del mezzo di contrasto per via endovenosa. Gli strumenti di valutazione dei sintomi sono importanti per guidare e valutare il trattamento scelto e attualmente sono disponibili per questo scopo una moltitudine di strumenti [55, 56]. Uno studio di Van der Willik e colleghi [55] ha esaminato 121 questionari per la valutazione dei sintomi e ha identificato l’indice dei sintomi della dialisi (DSI, Dialysis Symptom Index) come il migliore della sua classe [55]. 

Il delicato equilibrio tra il trattamento e la palliazione nel paziente nefropatico con neoplasia (sia nel paziente già in trattamento che in quello che deve iniziare trattamento dialitico) ha portato in questi ultimi anni all’individuazione di una nuova specializzazione in rapida evoluzione quale è l’onconefrologia, che centralizza le competenze oncologiche, nefrologiche e geriatriche per permettere la definizione del percorso di cura del paziente anziano e nefropatico con neoplasia [57].  Le decisioni terapeutiche vanno quindi condivise attraverso un confronto tempestivo tra pazienti, familiari o caregiver e professionisti, sui delicati argomenti della prognosi e delle preferenze del paziente. La pianificazione anticipata dell’assistenza delinea i confini della perseveranza terapeutica in base alle preferenze dei pazienti [57] e mira a preparare i pazienti e i loro caregiver al processo decisionale di fine vita, nel tentativo di migliorare la qualità della vita, senza necessariamente estenderla [58]. Al termine del percorso di confronto, che può richiedere anche momenti di interruzione per permettere una adeguata elaborazione delle informazioni ricevute al paziente e ai familiari, si definisce in maniera dettagliata la pianificazione dell’assistenza (escalation terapeutica, sospensione trattamento dialitico, palliazione). Condivisione, informazione corretta, tempo per l’elaborazione delle decisioni, supporto al paziente e ai familiari nel percorso decisionale sono step fondamentali perché il percorso di cura sia basato sulle conoscenze del clinico e sulle volontà del paziente e dei caregiver. 

Nei pazienti con malattia renale cronica, di solito c’è una relazione terapeutica di lunga data tra il nefrologo e il paziente, e questa relazione favorisce le discussioni congiunte. Nel caso di riscontro di neoplasia in un soggetto dializzato cronico deve essere valutato il peso del trattamento dialitico (sia in termini assistenziali che di impatto sulla vita del paziente) e il vantaggio di sopravvivenza che il trattamento dialitico può dare, valutazione che si rende particolarmente necessaria nei pazienti anziani fragili. Le informazioni predittive sulla sopravvivenza attesa con o senza un trattamento antineoplastico specifico sono importanti per i pazienti nel processo decisionale.  La complessità di questo contesto è che la prognosi globale (cioè il corso anticipato della convivenza con una malattia), è determinata da almeno tre fattori, in parte indipendenti: la prognosi della neoplasia, la prognosi associata alla fragilità (che include altre comorbilità, lo stato funzionale e le sindromi geriatriche) e la prognosi basata sulla malattia renale. Tuttavia, la prognosi è più della sola aspettativa di vita; una definizione più ampia è quella di considerare la prognosi come la visione anticipata della convivenza con una malattia [59].

Nel campo dell’oncologia, ci sono molti dati sui fattori prognostici di sopravvivenza in diversi tipi di tumore. L’età è spesso tra questi fattori prognostici, ma i fattori correlati al tumore (es., le caratteristiche del tumore, l’estensione della malattia) sono generalmente più importanti e la fragilità è raramente inclusa perché non è stata spesso misurata in studi precedenti. Successivi studi oncologici hanno iniziato a integrare i parametri di fragilità (misurati dalla valutazione geriatrica) quando si guarda alla prognosi e alla tolleranza al trattamento. La valutazione geriatrica nei pazienti anziani con neoplasia è in grado di rilevare problemi e rischi non identificati a cui possono essere applicati interventi mirati, prevedere esiti avversi (es., tossicità, declino funzionale o cognitivo, complicanze postoperatorie) [60]. Infine, per il paziente in terapia conservativa o in trattamento dialitico con la neoplasia in cura attiva è necessaria la presa in carico “continuativa e transmuraria (territorio-ospedale-territorio)”, sul modello delle cure simultanee, in questo caso “onco-nefro-palliative”.

Inoltre, il concetto di prognosi deve includere considerazioni sulla qualità della vita, lo stato funzionale, l’onere dell’assistenza e delle cure, le speranze e le preoccupazioni dei pazienti e la possibilità di eventi imprevedibili. Sulla base di tutte queste considerazioni, il medico può aiutare il paziente a prendere decisioni che abbiano senso per il paziente nella propria vita [61]. 

Ovviamente vanno garantiti alla persona con prognosi infausta il non abbandono (ageismo) garantendo un supporto base al paziente, il sollievo delle sofferenze attraverso l’attivazione delle cure palliative, il rispetto di tutti i diritti della persona (dignità) e il diritto alla verità/speranza attraverso un’informazione veritiera. 

Per alcuni pazienti la prognosi potrebbe essere principalmente determinata dalla fragilità, per altri dalla progressione della neoplasia e per altri dal problema renale. La CGA è un processo diagnostico multidisciplinare e multidimensionale in cui vengono valutate le capacità mediche, nutrizionali, funzionali e psicosociali. Questo modello di valutazione geriatrica può aiutare a rilevare problemi geriatrici non riconosciuti, consentire un intervento precoce e portare a strategie di trattamento sempre più individualizzate [62].

 

Documenti società scientifiche

Per aiutare nella decisione delle cure sempre più individualizzate sono stati elaborati diversi documenti condivisi sia a livello nazionale che internazionale. Fra i vari documenti, segnaliamo quelli elaborati a livello nazionale, che oltre alle basi scientifiche derivate dalla letteratura, riflettono anche il pensiero elaborato su queste problematiche in numerosi convegni fra nefrologi, giuristi, palliativisti, geriatri, medici legali. Il documento Grandi insufficienze d’organo end-stage: cure intensive o cure palliative?” è stato promosso dal Gruppo di Studio di Bioetica della Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) [63]. Il testo è stato elaborato dopo un intenso lavoro di circa due anni da esperti di varie specialità e professionalità impegnati nella gestione dei malati affetti da patologie cronico-degenerative in fase end-stage. L’obiettivo è quello di fornire strumenti di valutazione e un percorso decisionale per definire con maggiore appropriatezza etico-clinica il trattamento di tali malati che giungono nei dipartimenti di emergenza o che sono ricoverati nei reparti ospedalieri per acuti. In data 22 Aprile 2012 il presente documento è stato approvato ad unanimità dal Consiglio Direttivo della SIAARTI ed il 24 Maggio 2013 dal Consiglio Direttivo Nazionale Società Italiana Medicina Emergenza Urgenza (SIMEU).

Altro documento utile per la definizione condivisa del processo delle cure è il “Documento condiviso SICP-SIN” frutto del tavolo di lavoro intersocietario fra la Società Italiana Cure Palliative e la Società Italiana di Nefrologia, approvato da entrambi i consigli Direttivi al termine di un percorso di elaborazione durato tutto il 2015. Nel documento si possono trovare gli strumenti utili per l’identificazione precoce nel paziente con malattia renale cronica avanzata del bisogno di cure palliative, gli aspetti di natura etico-giuridica e le possibili opzioni terapeutiche.

Due documenti che pongono quindi le basi per una corretta e fattiva collaborazione fra i diversi professionisti, e che per quanto ci compete da un supporto particolare a noi nefrologi e ai palliativisti, aiutandoci nelle decisioni di cura che hanno, sempre più, aspetti etici oltre che clinici [64, 65].

 

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Management of Chemotherapy in Patients Subjected in Chronic Dialysis Treatment

Abstract

The incidence of tumors is increased in patients with chronic renal failure and even more in patients on dialysis. Dialysis can affect both therapy and prognosis of oncological patients. It increases both cancer-related and non-cancer-related mortality rates and is the main cause of a suboptimal use of therapies. In patients with renal impairment, the dosage of many chemotherapies should be reduced but, due to the lack of real knowledge of the pharmacokinetic and pharmacodynamic properties of these drugs in dialysis, dosage adjustments are often done empirically and most often avoided.

Although many papers are available in the literature regarding chemotherapy in dialysis, there is a lack of consensus regarding drug dosages and administration schedules. Furthermore, guidelines are absent due to the lack of “evidence” for most of these patients, usually excluded from experimental treatments.

Specific onconephrologic trials are therefore mandatory to decide how much, how, and when to use chemotherapy in patients on dialysis and thereby ensure adequate treatment for these patients.

Keywords: onconephrology, dialysis, cancer, chemotherapy

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I numeri del cancro in dialisi

Nell’ultimo decennio del ’900 era già chiaro che i pazienti con insufficienza renale cronica e, ancora di più, i pazienti in dialisi, avessero un rischio aumentato di sviluppare tumori[1-3]. Veniva riportato un rischio del 20% di sviluppare tumore nei pazienti con insufficienza renale cronica terminale (ESRD), con un rischio che aumentava in modo proporzionale al tempo in dialisi [1]. 

Questa aumentata incidenza sembra essere secondaria al fatto che insufficienza renale cronica (CKD) e cancro condividono alcuni importanti fattori di rischio (es. ipertensione, età >65 anni, fumo di sigaretta, obesità, alcol, sesso maschile, patologie cardiovascolari, esposizione ambientale, etc.) [4, 5] e agli eventi avversi secondari all’insufficienza renale avanzata (es. esposizione prolungata alle tossine uremiche, infiammazione cronica, aumento del rischio infettivo, sistema immunitario poco efficiente, malnutrizione, alterazione dei meccanismi di riparo del DNA, etc.) [6, 7]. 

Il miglioramento delle tecniche dialitiche ha portato, nel corso degli anni, a un incremento significativo della vita media del paziente dializzato, rendendo il trattamento del tumore in questa categoria di pazienti un tema di importanza sempre maggiore [6]. 

Negli ultimi anni sono stati pertanto condotti studi epidemiologici volti a una miglior identificazione della reale incidenza di tumore nei pazienti dializzati e dei principali fattori di rischio. 

In particolare, uno dei più grandi studi condotti fino ad ora sull’argomento è uno studio di coorte, retrospettivo, che aveva lo scopo di valutare l’incidenza di tumore in pazienti in trattamento dialitico cronico dal 1996 al 2009. Sono stati valutati 482.510 pazienti; di questi, 37.128 hanno sviluppato una neoplasia entro i 5 anni (prevalenza 7,65%), con un’incidenza cumulativa calcolata in 5 anni del 9,48%. Il rischio era più elevato per il tumore del rene, della pelvi renale e della vescica e i principali fattori di rischio individuati sono stati sesso maschile, razza non ispanica, età superiore ai 65 anni e una causa di ESRD diversa dal diabete [8]. 

Questi dati sono stati confermati da uno studio italiano, condotto da Taborelli et al., su 10.790 pazienti emodializzati. In questa popolazione sono stati registrati 367 tumori de novo in 330 pazienti evidenziando come il rischio di insorgenza di una neoplasia de novo sia di 1,3 volte maggiore nella popolazione dialitica rispetto alla popolazione generale. In questo studio non sono state evidenziate differenze tra i sessi, con un rischio maggiore in pazienti giovani. Il rischio è apparso essere più elevato nei primi tre anni, ed in particolare nel primo anno di dialisi [6]. 

Uno studio condotto in Oceania sempre negli stessi anni si è occupato invece di valutare il rischio di recidiva di malattia oncologica nei pazienti dializzati. Sono stati valutati 4912 pazienti che avevano avuto una precedente neoplasia. Di questi, 323 pazienti (6,6%) hanno sviluppato una recidiva di neoplasia, l’80% dei quali metastatica. 343 pazienti (7%) hanno invece avuto una diagnosi di nuova neoplasia. È stato registrato un tempo medio di recidiva di tumore dall’inizio della dialisi di 1,2 anni e un tempo di insorgenza medio per lo sviluppo di un nuovo tumore di 2 anni. È stato inoltre visto che la sopravvivenza media di questi pazienti era limitata: 1,3 anni per i pazienti che avevano sviluppato un tumore de novo, in particolare di rene, vie urinarie e polmone, e una sopravvivenza a 3 anni inferiore al 50% per i pazienti con recidiva di malattia. In questo caso i tumori più frequenti erano linfoma, vie urinarie, polmone e melanoma [9]. 

Tutti questi studi hanno confermato una stretta relazione tra funzione renale e cancro rendendo evidente la necessità di uno screening specifico e di un follow-up regolare nella popolazione dializzata con particolare attenzione ai pazienti con una storia oncologica e la necessità di rendere la terapia oncologica accessibile anche a questa categoria di pazienti [10]. 

 

Chemioterapia ieri e oggi

La chemioterapia citotossica è stata la prima classe di farmaci utilizzata per il trattamento dei tumori. Nel 1942 Louis Goodman e Alfred Gilman usarono per la prima volta le mostarde azotate in un paziente con linfoma non Hodgkin, dimostrando che la chemioterapia può indurre remissione del tumore [11].

Da allora l’utilizzo della chemioterapia si è diffuso notevolmente con un’esplosione del numero di farmaci utilizzati e il tipo di tumore trattati. Nel 1992, l’approvazione di Imatinib per il trattamento della leucemia mieloide cronica ha segnato l’inizio dell’era dei farmaci a bersaglio molecolare. L’introduzione di nuove classi di farmaci ha migliorato la sopravvivenza dei pazienti oncologici ma la chemioterapia resta ancora oggi molto utilizzata sia in monoterapia che in combinazione con altri chemioterapici o farmaci di altre classi (Tabella 1).

La gestione della chemioterapia nei pazienti in dialisi rappresenta ancora oggi una grande sfida per l’oncologo e per il nefrologo poiché molti chemioterapici sono escreti a livello renale anche solo in parte e la dialisi altera il metabolismo della maggior parte dei farmaci, anche quelli con un’escrezione renale ridotta o nulla [13].

Le principali sfide in questo ambito sono individuare la dose di farmaco da somministrare e il momento in cui somministrarlo rispetto alla seduta dialitica. È importante riuscire a ottimizzare al meglio entrambi i parametri poiché, se da una parte somministrare una dose eccessiva di farmaco può portare a over-esposizione del paziente alla sostanza tossica con un aumento degli eventi avversi e una riduzione della sopravvivenza, anche una riduzione della dose del farmaco eccessiva o una sua rimozione precoce dal circolo ematico porta a un sotto-trattamento e quindi a una riduzione di efficacia dello stesso [14].

Tipo di tumore Uso della chemioterapia Terapie “emergenti”
Polmone Riduzione globale ICI; ICI + CT; TA
Colon-retto Stabile TA + CT
Esofago-stomaco Stabile TA + CT
Pancreas Stabile TA + CT
Ovaio Stabile TA + CT
Endometrio Stabile ICI; TA + CT
Testa-collo Stabile ICI + CT; TA
Urotelio Stabile ADC, ICI
Mammella Riduzione importante ADC, TA
Prostata In aumento TA
Sarcoma Stabile TA
Linfoma/Leucemia Stabile CT + TA
ICI, inibitori di immune checkpoint; CT, chemioterapia; TA, Farmaci a bersaglio molecolare; ADC, antibody-drug conjugates
Tabella 1. Chemioterapia nella pratica clinica [12].

 

Studi clinici e raccomandazioni

Gli studi clinici fase I e II solitamente includono solo i pazienti con funzione renale normale o lievemente ridotta; il problema persiste negli studi di fase III dove soltanto in alcuni vengono arruolati pazienti con insufficienza renale cronica moderata. Per questo motivo i dati relativi a pazienti con insufficienza renale avanzata (eGFR <30 ml/min/1,73 mq), insufficienza renale cronica terminale (ESRD) o in dialisi sono particolarmente limitati o del tutto assenti prima dell’approvazione del farmaco. La presenza di dati limitati e l’inesperienza circa la sicurezza nell’uso dei farmaci in queste popolazioni fanno si che sulla scheda tecnica degli stessi appaia la dicitura “il farmaco è controindicato nei pazienti con insufficienza renale avanzata” [15].

I pazienti con ESRD vengono esclusi dagli studi clinici nonostante ci siano raccomandazioni specifiche da parte di EMA e FDA per l’arruolamento dei pazienti con CKD nei trial clinici a condizione che venga definito una metodica standard per stimare il filtrato glomerulare per tutta la durata dello studio e che vengano stabiliti degli adeguamenti della dose del farmaco in base al filtrato glomerulare standardizzati per lo studio [16, 17].

Uno studio condotto da Kitchlu et al. nel 2018 ha posto l’attenzione sulla grande problematica dell’esclusione dei pazienti con insufficienza renale dai triali clinici dei farmaci oncologici evidenziando come dei 310 triali clinici analizzati, condotti dal 2012 al 2017 su farmaci oncologici per il trattamento dei 5 tumori più comuni (vescica, seno, colon-retto, polmone, prostata) e i cui risultati sono stati pubblicati su riviste ad elevato impact-factor, l’85% escludeva a priori i pazienti con insufficienza renale cronica e il 100% i pazienti in dialisi [18]. Uno studio retrospettivo simile, volto a valutare la percentuale di trial clinici di fase III su farmaci oncologici sistemici che escludono pazienti con CKD, e relativi criteri d’esclusione, è stato pubblicato nel 2022 da Delaye et al.; dei 268 trial valutati, il 68% (185) presentavano almeno un criterio di esclusione basato sulla funzione renale [19].

Questi dati sono particolarmente rilevanti se si considera l’elevata incidenza di tumori nei pazienti con CKD. L’esclusione dei pazienti dai trial fa si che questi pazienti non vengano presi in considerazione per terapie oncologiche. È inoltre importante sottolineare che i pazienti con CKD non sono esclusi solo dai trial di farmaci con elevata potenzialità nefrotossica o per i quali ci sia un elevato rischio di eventi avversi a causa dell’eccessivo accumulo del farmaco nell’organismo in caso di ridotta escrezione renale, ma anche da quelli per i quali il rene non ha un ruolo determinante in farmacocinetica e farmacodinamica [18]. 

Nel 2020 Sprangers et al. hanno proposto delle misure da adottare per migliorare la cura oncologica nei pazienti con insufficienza renale. In particolare hanno suggerito la necessità che Agenzie Nazionali e Internazionali del farmaco come FDA ed EMA impongano l’inclusione dei pazienti con CKD nei trial clinici dei farmaci o che producano dati clinici separati ma specifici sui pazienti con insufficienza renale prima dell’approvazione dei farmaci stessi. Inoltre, raccomandano che vengano eseguiti almeno degli studi secondari, successivi all’approvazione dei farmaci, per i pazienti con CKD o ESRD; suggeriscono anche che i nefrologi vengano coinvolti nelle prime fasi dei trial clinici dei farmaci e nei team dedicati alla disfunzione d’organo per aumentare il reclutamento dei pazienti con CKD, e che vengano creati dei gruppi a livello nazionale con lo scopo di aumentare l’interesse per la problematica [20].

Proposte simili sono state avanzate da Delaye et al., i quali suggeriscono inoltre di stabilire un metodo di stima della funzione renale che possa essere usato in tutti i trial clinici, che le modifiche di dose necessarie per i pazienti con GFR ridotto vengano stabilite nelle prime fasi dei trial in modo da avere maggior facilità nella gestione dei pazienti con CKD nelle ultime fasi degli studi e limitare l’eventuale esclusione dei pazienti con ESRD dai trial clinici per i soli farmaci che, in base alle caratteristiche di farmacocinetica e farmacodinamica, potrebbero mettere a rischio il paziente [19].

I dati clinici disponibili sull’utilizzo dei chemioterapici in dialisi sono pertanto derivati da case report e case series o piccoli studi retrospettivi che raccolgono pazienti trattati con farmaci molto diversi tra loro e che pertanto non permettono di trarre conclusioni statisticamente significative e omogenee sulla dose di farmaco da somministrare, la tempistica di somministrazione rispetto alla seduta dialitica, il profilo di sicurezza e di efficacia [21-25].

Lo studio Candy [26], studio multicentrico retrospettivo condotto dal 1997 al 2010 su 178 pazienti emodializzati, aveva come obiettivo primario quello di dare indicazioni circa la gestione dei farmaci oncologici in pazienti dializzati che sviluppavano un tumore dopo l’inizio della dialisi (tempo medio tra l’inizio della dialisi e la diagnosi di tumore di 2,6 anni). Dei 178 pazienti, 50 erano stati trattati con chemioterapici per un totale di 96 prescrizioni e 36 diversi farmaci prescritti. Delle 96 prescrizioni il 45% richiedeva un adeguamento di dose sulla base dei pochi dati di letteratura o erano farmaci per i quali non erano disponibili raccomandazioni nei pazienti in dialisi; il 75% dei farmaci prescritti era stato somministrato dopo la seduta di dialisi. Dei 50 pazienti trattati, il 72% aveva ricevuto almeno un farmaco che richiedeva adeguamento di dose o per cui non c’erano raccomandazioni nei pazienti dializzati. In generale, dallo studio emerge che l’88% dei pazienti trattati con farmaci oncologici aveva avuto necessità di una gestione specifica della dose o del timing di somministrazione di almeno un farmaco senza però linee guida specifiche.

I principali limiti di questo studio sono l’assenza di indicazioni su come adeguare la dose del farmaco (viene indicato solo se sia necessario un adeguamento), non ci sono dati circa i pazienti trattati con dosi ridotte, e le informazioni sulla necessità di adeguamento di dose o di dializzabilità derivano da casi clinici singoli o piccole case series per la mancanza di evidenze di alto livello in questo setting di pazienti. Mancano inoltre i dati circa la risposta alla terapia.

Nel 2017 l’Associazione Italiana Oncologia Medica (AIOM) e la Società Italiana di Nefrologia (SIN) hanno pubblicato delle “Raccomandazioni” sulla gestione della chemioterapia nei pazienti dializzati basandosi sui dati presenti in letteratura, per stessa ammissione degli autori, nella maggior parte dei casi singoli, case report o piccole case series; nonostante siano state fornite indicazioni circa l’utilizzo della maggior parte dei principali chemioterapici, la mancanza di studi clinici sull’argomento impedisce di avere informazioni certe e quindi delle reali linee guida [27].

Nel 2022 è stata pubblicata una review che, ancora una volta, ha provato a riassumere le indicazioni circa la gestione dei farmaci nei pazienti oncologici in trattamento dialitico cronico. Sempre per una mancanza in letteratura di studi clinici, anche le indicazioni presentate dagli autori di questa review sono basate su una casistica limitata che, per la maggior parte, coincide con quella su cui si sono basati sui case series precedenti [13].

In letteratura è presente una sola review che ha raccolto i dati di pazienti in dialisi peritoneale; si tratta di una raccolta di 16 case report trattati con un totale di 18 regimi terapeutici (15 chemioterapia, 3 farmaci a bersaglio molecolare, no immunoterapia). Sulla base delle poche evidenze gli autori raccomandano l’adeguamento di dose dei farmaci utilizzati [28].

Sempre nel 2022 sono state pubblicate le “International Consensus Guideline for Anticancer Drug Dosing in Kidney Dysfunction (ADDIKD)” con l’obbiettivo di fornire indicazioni generali su come stimare la funzione renale nei pazienti oncologici e su come utilizzare questo dato per adeguare la dose dei farmaci oncologici. Vengono poi fornite indicazioni specifiche su come somministrare i singoli farmaci in base alla funzione renale dei pazienti. Le linee guida non forniscono indicazioni su come adeguare la dose dei farmaci nei cicli di terapia successivi al primo e informazioni specifiche sull’adeguamento di dose in pazienti con filtrato glomerulare inferiore ai 15 ml/min/1,73 mq in terapia conservativa o trattamento dialitico. Per queste categorie di pazienti viene suggerito un approccio multidisciplinare con nefrologi, oncologi/ematologi e farmacologi.

Ancora una volta, la mancanza di studi clinici specifici impedisce di avere linee guida chiare su come gestire i chemioterapici nella popolazione di pazienti dializzati [29].

Il mancato arruolamento dei pazienti con ESRD e in dialisi nei trial clinici dei farmaci non permette inoltre di avere dati circa la farmacocinetica e farmacodinamica in questi pazienti e, anche nei case report descritti in letteratura, spesso non sono state studiate queste caratteristiche dei farmaci. Questo rende ulteriormente difficile l’utilizzo dei farmaci in questa popolazione.

Infatti, nella popolazione generale le proprietà farmacodinamiche derivano dall’interazione del farmaco con i suoi recettori/target cellulari e l’attivazione del successivo pathway a valle e la farmacocinetica dei farmaci può invece essere descritta dall’acronico ADME: assorbimento, distribuzione, metabolismo ed escrezione (Figura 1) [13]. Questi parametri nei pazienti con ESRD o in dialisi possono essere modificati anche per i farmaci non eliminati primariamente dal rene ma i cui metaboliti lo sono; inoltre, le tossine uremiche possono alterare gli enzimi epatici coinvolti nel metabolismo dei farmaci [13]. Nei pazienti in dialisi la farmacocinetica e farmacodinamica dipendono inoltre anche da variabili specifiche della dialisi: ultrafiltrazione, tipo di membrana utilizzata e superficie, ritmo dialitico e durata del trattamento, peso molecolare dei farmaci, legame con le proteine, etc. [30, 31]; queste sono considerazioni da fare e non controindicazioni alla somministrazione di chemioterapia in dialisi.

Figura 1. La farmacocinetica nel paziente dializzato.
Figura 1. La farmacocinetica nel paziente dializzato.

 

La pratica clinica

Nella pratica clinica quotidiana, nonostante esista la possibilità, somministrare terapia oncologica sistemica ai pazienti in dialisi resta tutt’ora un’enorme sfida per il clinico; la conseguenza nella realtà è che non sempre viene somministrata. Uno studio retrospettivo condotto da Minegishi et al. ha mostrato come di 158 pazienti oncologici affetti da tumore del polmone afferenti a 22 ospedali giapponesi, solo 91 pazienti sono stati trattati con chemioterapia mentre 67 hanno ricevuto solamente cure di supporto a prescindere dallo stadio del tumore [32]. I dati francesi del CANDY study [23] riportano che solo il 28% dei pazienti dializzati con una neoplasia diagnosticata de novo vengono trattati con terapia oncologica sistemica, e uno studio giapponese riporta una percentuale ancora inferiore pari al 15% [33].

Se esiste già una tendenza al sotto trattamento nei pazienti con evidenza di malattia, il problema diventa ancora più rilevante nel setting adiuvante. In particolare, Ishii et al. hanno recentemente pubblicato i dati relativi a uno studio retrospettivo condotto su 99.761 pazienti sottoposti a chirurgia curativa per tumori di colon, polmone o mammella in ospedali giapponesi. Di questi, 1207 pazienti (1%) erano dializzati. Quello che è emerso dallo studio è la conferma che i pazienti dializzati vengono sottoposti a terapia adiuvante meno spesso dei pazienti non dializzati (24% vs 63%, p<0,001) e che, quando viene avviata, la terapia adiuvante è spesso più breve (138 vs 154 giorni, p<0,001), con regimi di terapia modificati senza omogeneità e con riduzioni spesso non necessarie della dose del farmaco (92% dei pazienti trattati in questo studio vs 72% in studi precedenti) [34].

 

Sopravvivenza dopo terapia

I pazienti oncologici con concomitate CKD hanno outcome peggiori rispetto ai pazienti normofunzione renale [18], è stato inoltre riportato un rischio di mortalità cancro-relata 1,5-2,9 volte superiore nei pazienti dializzati rispetto alla popolazione generale [34]. Per esempio, dallo studio di Minegishi et al. non emergono chiari benefici di sopravvivenza nel trattare i pazienti con chemioterapia e, pertanto, viene consigliata una valutazione attenta prima del trattamento di questi pazienti [32].

Se da un lato il peggioramento dell’outcome può essere spiegato dalle numerose comorbidità dei pazienti dializzati, un problema effettivo sembra essere rappresentato dal non trattamento o mal trattamento dei pazienti. Infatti, ai pazienti in dialisi, spesso viene negato un trattamento adeguato per un atteggiamento “nichilistico” da parte degli oncologi ma anche troppo spesso dei nefrologi, per la mancanza di una reale conoscenza della farmacocinetica e farmacodinamica di questi farmaci in dialisi e per la difficoltà gestionale di far coincidere terapia oncologica e seduta dialitica.

È emerso in studi condotti su pazienti con CKD che un adeguamento della dose del farmaco in base alla funzione renale corretto ed effettuato prima dell’inizio del trattamento porti a una miglior prognosi oncologica rispetto a un adeguamento di dose in corso di terapia [14, 35]. Nonostante non esistano al momento studi analoghi condotti su pazienti in dialisi è verosimile credere che l’andamento in termini di prognosi sia il medesimo.

 

Conclusioni

Nonostante in letteratura ci siano lavori riguardo la chemioterapia in dialisi, c’è poca uniformità per quanto riguarda la dose e i tempi di somministrazione, con informazioni a volte contraddittorie, e, al momento, non esistono reali Linee Guida ma solo raccomandazioni o consigli di esperti. È quindi evidente la necessità di trial clinici dedicati in ambito onconefrologico, poiché una conoscenza approfondita delle proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche è mandatoria per decidere quanto, come, e quando usare la chemioterapia in questi pazienti.

In conclusione, il cancro di un paziente in dialisi dovrebbe essere trattato allo stesso modo che in un paziente non in dialisi; facendo le opportune valutazioni sulla clearance renale del farmaco, il dosaggio e la sua dializzabilità [26] e considerando etica del trattamento, prognosi oncologica, qualità della vita, desideri e obiettivi del paziente.

 

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Sleep quality of patients in End Stage Renal Disease before and after starting chronic hemodialysis treatment: a longitudinal study

Abstract

Introduction: Sleep disorders are very common in patients with chronic kidney disease, with a prevalence of poor sleep quality of around 40%.
Objectives: The purpose of the study is to compare the sleep quality of ESRD patients before hemodialysis (Pre-HD), three months (Post-HD 1) and six months after the start of treatment (Post-HD 2) through the use of the Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI).
Methods: Patients in ESRD were recruited from the U.O.C. of Nephrology and Dialysis of the Maggiore Hospital in Modica and biographical and anamnestic data were collected. The PSQI was administered in-person at the Pre-HD stage and by telephone re-test at the three- and six-month follow-up.
Results: A total of 71 patients (males=62%, age 68 ± 16) were included. At Pre-HD assessment 93% reported poor sleep quality, the percentage increased to 98% during Post-HD 1 and it partially improved during Post-HD 2 with a prevalence of 95%. Analysis of variance (ANOVA) by repeated measures showed a difference in sleep quality between the three time points.
Conclusions: Sleep quality undergoes important changes during the transition from conservative to hemodialysis patient, highlighting a critical period related to the first three months of treatment. More attention to this phase may improve the patient’s quality of life and reduce the associated risk of mortality.

Keywords: sleep, quality, hemodialysis, life, dialysis

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Introduzione

Il sonno è un processo fisiologico universale e complesso, essenziale per uno stato di salute soddisfacente ed una buona qualità di vita [1]. Tuttavia, la riduzione delle ore di sonno e di conseguenza una scarsa qualità del sonno stanno diventando sempre più comuni nella popolazione generale [2]. I disturbi del sonno sono problemi frequenti tra i pazienti con malattia renale cronica (CKD) e sono associati al rischio di sviluppare patologie cardiovascolari, diabete, disfunzioni cognitive, eventi ictali e disturbi neuropsichiatrici oltre ad un più alto rischio di mortalità [27]. 

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The Nephrology School in Bari

Abstract

This article describes the origin and development of the Nephrology School in Bari, which has noble roots in the Italian Medical School. The narrative begins with the description of my initial interest in Internal Medicine, and later in Nephrology, highlighting the important role that a teacher has on their students during their university education.

The second section describes the creation and development of the Nephrology School in Bari, which was influenced by the knowledge gained abroad and by the international scientific relationships that have been developed over the years.

The third section describes the historical origins of the Nephrology School in Bari, which has grown considerably over the course of 30 years. Finally, after a brief mention of my family, I could not hide my passion for sports, particularly running and soccer. Cinema and theatre are also excellent means of reflection.

In conclusion, my heartfelt hope is that my students will always remember to pursue goals of scientific excellence and, when choosing someone to train as a potential young researcher in the future, to always observe the two founding principles of the School: professional and scientific reliability, respectively based on excellent clinical expertise and scientific production.

 

Keywords: Nephrology School, Nephrology, Dialysis, Transplant, Clinical Research

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La mia vita di nefrologo con la passione per la clinica e la ricerca

La passione per la medicina interna e la nefrologia

La mia passione per la Medicina Interna è iniziata nel 1962 quando fui conquistato dall’approccio didattico del Prof. Virgilio Chini, che svolgeva le lezioni di Clinica Medica al quinto e sesto anno del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia nell’Università di Bari, presentando e commentando casi clinici complessi. Il Prof. Chini era un allievo del Prof. Frugoni, Clinico Medico, prima nell’Università di Padova e poi in quella di Roma.

In qualità di studente interno venivo da un’attività svolta prima in Anatomia Umana con il Prof. Rodolfo Amprino per 2 anni e dopo in Patologia Speciale Medica con il Prof. Claudio Malaguzzi-Valeri per altri 2 anni.  L’attrazione per la Medicina Interna si concretizzò con un internato di 2 anni in Clinica Medica dove trascorsi molto tempo in corsia. Durante quel periodo preparai una tesi di laurea sulla proteinuria dal titolo “Studio elettroforetico e cromatografico delle proteine urinarie”. In quell’occasione conobbi il mio maestro Prof. Lorenzo Bonomo, allora Aiuto del Prof Chini, che mi introdusse allo studio della immunologia e protidologia. Nel luglio del 1964 conseguii la laurea con il massimo dei voti e la lode e ricevetti il premio di laurea Lepetit per l’ottima tesi sperimentale. Dopo due anni, con l’aiuto del mio maestro, i risultati della tesi furono oggetto della mia prima pubblicazione su una rivista internazionale. 

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Acute Kidney Injury Caused by Orellanic Syndrome: Case Report

Abstract

Orellanic syndrome is caused by fungi of the Cortinarius orellanus and speciosissimus (Europe) species, Cortinarius fluorescens (South America), and Cortinarius rainierensis (North America). Orellanic syndrome is characterized by initially nonspecific symptoms such as muscle and abdominal pain, and a metallic taste sensation in the mouth. After a few days, more specific symptoms appear, such as intense thirst, headache, chills without fever, and anorexia, followed by a phase of polyuria and then of oligoanuria. Renal failure occurs in 70% of cases and is often irreversible. The clinical case involves a 52-year-old man who developed acute renal failure from Orellanic syndrome, necessitating hemodialysis.

Keywords: Orellanic syndrome, Cortinarius mushroom, dialysis

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Introduzione

Esistono migliaia di specie diverse di funghi. L’effetto tossico dei funghi è dovuto a diversi fattori quali il tipo di veleno, la dose assunta, la concomitante assunzione di altre sostanze, il peso del soggetto. In base al tempo di comparsa dei sintomi le intossicazioni da funghi vengono suddivise in sindromi a breve, media e lunga latenza. Nelle prime la sintomatologia si manifesta entro 6 ore dall’ingestione, mentre in quelle a media-lunga latenza i sintomi compaiono tra le 6 e le 24 ore dall’ingestione, e a volte anche dopo qualche giorno.

Tra le sindromi a breve latenza che possono provocare un danno renale troviamo: la sindrome paxillica o citotossica allergica (Paxillus involutus e filamentosus) e la sindrome emolitica (Amanita rubescens, aspera, vaginata) che causano emolisi immunomediata. Tra le sindromi a media latenza di interesse nefrologico vi sono: la sindrome nefrotossica o norleucinica (Amanita smithiana Bas e Amanita solitaria) che comporta una grave insufficienza renale (a volte con necessità di trattamento sostitutivo extracorporeo renale), fortunatamente reversibile il più delle volte, e la sindrome rabdomiolitica (Thricholoma equestre, auratum e Russula subnigricans), che porta a una vera e propria rabdomiolisi. 

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Impact of remote monitoring in home dialysis: 5-year observation results

Abstract

Dialysis (hemodialysis and peritoneal dialysis) is one of the main therapeutic alternatives for patients with end-stage renal disease. It can be provided in different settings, including the home setting. Published literature shows that home dialysis improves both survival and quality of life, while producing economic advantages. However, there are also significant barriers. Home dialysis patients often report “abandonment issues” by healthcare personnel.

This work aimed at assessing the efficiency of the Doctor Plus® Nephro telemedicine system (adopted in the Nephrology Center of the P.O. G.B. Grassi di Roma-ASL Roma 3) in monitoring patient health status and improving the quality of care. From 2017 to 2022, N=26 patients were included in the analysis (mean duration of observation: 2.3 years). The analysis showed that the program was able to promptly identify possible anomalies of the vital parameters and activate a series of interventions aimed at normalizing the altered profile. During the study period, the system issued N=41,563 alerts (N=1.87 alerts per patient/day), of which N=16,325 (39.3%) were clinical and N=25,238 (60.7%) were missed measurements. These warnings ensured stabilization of the parameters, with clear benefits on patients’ quality of life. A trend of improvement was reported by patients, regarding their perception of the health state (EQ-5D questionnaire; +11.1 points on the VAS scale), the number of hospital admissions (-0.43 accesses/patient in 4 months), and of working days lost (-3.6 days lost in 4 months). Therefore, Doctor Plus® Nephro represents a useful and efficient tool for home dialysis patients’ management.

Keywords: chronic renal insufficiency, dialysis, hemodialysis, Doctor Plus® Nephro, remote monitoring

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Introduzione

L’insufficienza renale cronica (IRC) è una malattia severa che se non trattata adeguatamente può avere un impatto negativo sulla qualità e l’aspettativa di vita. Storicamente, i pazienti affetti da IRC dispongono di due alternative terapeutiche: il trapianto d’organo, attuabile in una casistica selezionata, e la dialisi (emodialisi e dialisi peritoneale) [13]. A livello globale, le stime del 2010 segnalavano una prevalenza di 2.050 milioni di soggetti dializzati, un numero destinato a raddoppiare, almeno, intorno al 2030 [4]. In Italia, si stima che il numero di pazienti attualmente in dialisi sia pari a circa 45-49.000 [2].

La dialisi può essere erogata in diversi setting, tra cui quello domiciliare. Nonostante questa pratica sia stata introdotta ormai da circa 60 anni, la dialisi domiciliare non è il setting utilizzato più comunemente in Italia, rappresentando circa il 15% [3]. 

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Hyperphosphatemic pseudotumoral calcinosis due to FGF23 mutation with secondary amyloidosis

Abstract

A 44 years old man was admitted for nephrotic syndrome and rapidly progressive renal failure. Two firm, tumour-like masses were localized around the left shoulder and the right hip joint. Since the age of 8 years old, the patient had a history of metastatic calcification of the soft tissues suggesting hyperphosphatemic pseudotumoral calcinosis. Despite treatment for a long time with phosphate binders the metastatic calcinosis had to be removed with several surgeries. The patient had also a history of recurrent fever associated with pain localized toward the two masses and underwent multiple antibiotic courses. Laboratory findings at admission confirmed nephrotic syndrome. S-creatinine was 2.8 mg/dl. Calcium was 8.4 mg/dl, Phosphorus 8.2 mg/dl, PTH 80 pg/ml, 25 (OH)VitD 8 ng/ml. Serum amyloid A was slightly increased. We performed renal biopsy and we found AA amyloid deposits involving the mesangium and the tubules. The bone marrow biopsy revealed the presence of AA amyloid in the vascular walls. During the next two months renal failure rapidly progressed and the patient started hemodialysis treatment. We performed genetic analysis that confirmed homozygous mutation of the FGF23 gene. After 14 months on hemodialysis, the patient’s lesions are remarkably and significantly reduced in dimension. The current phosphate binder therapy is based on sevelamer and lanthanum carbonate. Serum amyloid A is persistently slightly increased as well as C reactive protein. Proteinuria is in the nephrotic range without nephrotic syndrome.

Keywords: pseudotumoral calcinosis, tumoral calcinosis, FGF23, AA amyloid, renal failure, dialysis

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Introduzione

La calcinosi pseudotumorale iperfosfatemica è una rara condizione dovuta a deficit o resistenza all’azione del fibroblast growth factor 23 (FGF23). Dal punto di vista genetico, essa è associata a varianti patogenetiche a trasmissione autosomica recessiva, nei geni codificanti per FGF23 [21] e GALNT3. Quest’ultimo, a sua volta, codifica per una proteina responsabile della glicosilazione di FGF 23 [2123] e KL, regolatrici di KLOTHO, noto co-recettore fondamentale per la trasmissione intracellulare di FGF23 [3]. Ricordiamo che l’azione di FGF23 (Klotho-dipendente) si manifesta in modo simile a quella del paratormone (PTH) a livello del tubulo prossimale, dove inibisce i cotrasportatori sodio-fosforo IIa e IIc, con conseguente effetto fosfaturico. Sull’attivazione della Vit D3, invece, l’azione è opposta a quella del PTH, infatti FGF23 inibisce l’attività della 1-alfa idrossilasi e, quindi, causa una riduzione della 1-25 (OH) Vit D con conseguente inibizione, regolata dal cotrasportatore sodio-fosforo IIb, dell’assorbimento intestinale sia di calcio che di fosforo. In corso di calcinosi pesudotumorale iperfosfatemica, dunque, le mutazioni portano alla perdita della funzione fosfaturica dell’FGF23 con incremento del riassorbimento tubulare del fosforo e dell’1,25 diidrossi Vitamina D; il calcio di solito è normale-elevato e i livelli di PTH sono di solito normali o bassi. 

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Psychological evaluation of patient on chronic dialysis treatment: comparison between home and hospital replacement techniques

Abstract

The psychologist’s work at the Nephrology and Dialysis Unit of SS. Annunziata Hospital in Chieti begins at the early stages of chronic kidney disease and continues in pre-dialysis and after renal replacement therapy begins. Psychological intervention aims to provide support to patients and caregivers facing a chronic organ disease, as well as to the health personnel constantly exposed to chronic patients.

The perceptual and emotional experience of dialysis changes according to the different modalities of renal replacement therapy: hospital or home hemodialysis, peritoneal dialysis. These different emotional and perceptive experiences seem to emerge while the patient prepares for dialysis and influence the process of accepting and adapting to the disease and its therapy.

Keywords: psychology, nephrology, dialysis, psychological intervention, pre-dialysis

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Introduzione

La possibilità, nel campo delle nuove terapie, di migliorare la prognosi e prolungare la sopravvivenza dei pazienti sembra aumentare l’incidenza delle malattie croniche. Esse sottolineano i bisogni assistenziali dei pazienti, dei familiari coinvolti nella gestione delle cure e del personale sanitario. Le nefropatie rappresentano una delle principali malattie croniche in cui si evidenzia un forte impatto sociale, da ricondurre all’elevato numero di pazienti che ne soffre e alla progressione della malattia fino alla dialisi [1].

La malattia renale cronica (chronic kidney disease, CKD) e il conseguente trattamento dialitico comportano significative ripercussioni psicologiche sul paziente, sui familiari e sul personale sanitario di riferimento [2].

Gli aspetti psicologici derivanti dalla condizione di cronicità della malattia renale pongono l’esigenza di inserire la figura dello psicologo all’interno dell’equipe curante dell’Unità Operativa di Nefrologia e Dialisi. Il fine è quello di garantire la possibilità di un supporto specifico e professionale al paziente nelle diverse fasi che caratterizzano la malattia, ai familiari e al personale sanitario [3].

Il lavoro clinico condotto dal 2018 ad oggi presso l’Unità Operativa di Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale Clinicizzato SS. Annunziata di Chieti ha come obiettivo quello di porre le basi per creare un modello di cura integrato in cui rientri la dimensione medica, ma anche emotivo-affettiva, cognitiva e sociale del paziente con CKD e quindi del relativo contesto di cura. Questa collaborazione tra nefrologia e psicologia mira alla creazione di uno spazio per aiutare il malato cronico nel processo di accettazione dei limiti derivanti dalla malattia, rispetto al precedente stile di vita [4].

La presa in carico globale del paziente consente di occuparsi degli aspetti psicologico-relazionali e dei comportamenti collegati al trattamento dialitico cronico, componente essenziale nel favorire livelli di adattamento avanzati e nel mantenimento di una buona compliance [1,3].

 

Progetto di ricerca

Sulla base delle considerazioni esposte è stato sviluppato il progetto di ricerca “Analisi psicologica nel paziente nefropatico cronico” presso l’Unità Operativa di Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale Clinicizzato SS. Annunziata di Chieti. Specifico oggetto di studio la valutazione psicologica del paziente in trattamento dialitico cronico, con comparazione tra tecniche sostitutive domiciliari e ospedaliere.

Il lavoro dello psicologo inizia sin dalle prime fasi della CKD, proseguendo nella fase pre-dialitica e nell’avviamento alla terapia renale sostitutiva. La presenza dello psicologico accanto al nefrologo consente al paziente di individuare un punto di riferimento emotivo costante che può essere preso in considerazione a prescindere dalla scelta della metodica dialitica. Lo psicologo, infatti, affianca e accompagna il paziente in dialisi peritoneale, il paziente in emodialisi domiciliare e ospedaliera. Si occupa della preparazione psicologica al trapianto e dell’elaborazione del post trapianto e di supportare i pazienti in regime di ricovero con particolari difficoltà psicologiche in riferimento alla scoperta della malattia. L’obiettivo principale, perseguito in stretta collaborazione con il personale medico, è quello di fornire supporto psicologico ai pazienti che si trovino ad affrontare una malattia organica cronica e ai loro caregiver, nonché di realizzare interventi di rilevazione di bisogni e supporto al personale sanitario costantemente esposto a pazienti cronici [3].

 

Attività clinica

L’attività clinica psicologica si è concentrata sulle diverse fasi nel percorso della malattia del paziente nefropatico: dalla scoperta della patologia, alla preparazione della dialisi, la dialisi, il pre- e post-trapianto.

Pre-dialisi

Nel momento in cui si assiste ad un peggioramento della malattia renale e si accerta l’irreversibilità della CKD negli stadi 4-5 il paziente viene inserito nell’ambulatorio di pre-dialisi, come previsto dal Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale (PDTA) per la gestione integrata della CKD. In questa fase viene comunicata al paziente e ai familiari la necessità di programmare un trattamento sostitutivo della funzione renale. Il programma informativo, educativo e supportivo consente di accompagnare il paziente e favorire quindi il processo di adattamento psicologico ed emotivo alla malattia. Il tipo di lavoro condotto prevede l’affiancamento dello psicologo al nefrologo durante la fase pre-dialitica all’interno dell’attività clinica ambulatoriale. Ciò favorisce da parte del paziente il riconoscimento dello psicologo sin dall’inizio come figura di riferimento nel caso di difficoltà legate alla gestione e all’accettazione della malattia e della terapia dialitica. Così facendo è possibile individuare e contenere eventuali reazioni di rifiuto e accogliere reazioni emotive particolarmente intense al momento della comunicazione dell’inizio della dialisi, aprendo l’ascolto del paziente non solo ad aspetti medici ma anche alle aspettative e motivazioni legate alla metodica scelta [3]. Il percorso di accompagnamento psicologico diventa un supporto costantemente presente e ricercato dai pazienti [5,6].

Il paziente viene in seguito informato riguardo le possibili metodiche sostitutive della funzione renale, dialitiche ospedaliere o domiciliari, e il trapianto renale da vivente pre-emptive. Segue un periodo di riflessione ed elaborazione delle immagini acquisite, in cui l’intervento psicologico risulta fondamentale nell’accettazione dei cambiamenti e nell’adattamento, attraverso una serie di colloqui rivolti individualmente al paziente o in presenza dei familiari.  Questo approccio consente una buona aderenza terapeutica, ingrediente indispensabile affinché il paziente segua le prescrizioni necessarie a migliorare la qualità di vita [7]. Successivamente l’equipe si occupa di verificare le conoscenze acquisite dal paziente e di chiarire eventuali dubbi e paure. La condivisione della scelta è significativa per una buona motivazione e collaborazione del paziente nel percorso terapeutico.

La valutazione psicologica del paziente attivata in questa fase comprende l’esame della personalità, del senso di autoefficacia, del Locus of Control, e delle strategie di coping e meccanismi di difesa messi in atto rispetto alla cronicità della malattia. In base alla valutazione emersa, caratterizzata da colloqui e somministrazione di test, si procede nel definire il tipo di intervento, i tempi e le modalità di un percorso psicologico che, se avviato in una fase preliminare della terapia dialitica, favorisce l’avvio di un processo di adattamento psicologico, condizione sine qua non per il mantenimento del benessere psico-fisico del paziente nella fase successiva. La presenza dello psicologo durante questa fase ha consentito inoltre l’individuazione di situazioni di non aderenza alla terapia e difficoltà nel seguire costantemente le restrizioni dietetiche, rivelando così la necessità di lavorare sui sintomi di negazione alla malattia e disadattamento [3].

Il trattamento dialitico

Nella presa in carico dei pazienti sottoposti a trattamento dialitico sono emersi disturbi ansiosi, stati depressivi, vissuti somatici, disturbi del sonno e disturbi sessuali. Il lavoro psicologico prevede il sostegno psicologico del paziente, il coinvolgimento dei familiari e un empowerment dei livelli di compliance alla terapia, caratterizzata anche da un controllo dell’assunzione dei liquidi che incide sul peso interdialitico. Migliorare l’aderenza alla terapia consente, come vantaggio secondario, il miglioramento dello stile di vita e della qualità di vita legata alla salute del paziente [8]. È emerso come l’inserimento dei colloqui psicologici durante la fase pre-dialitica favorirebbe la presa in carico psicologica e lo svolgimento dei colloqui nella fase dialitica, preferibilmente condotti in uno spazio ambulatoriale che possa garantire la necessaria riservatezza.

Trapianto

Nella presa in carico di un paziente nefropatico dializzato non può mancare la preparazione psicologica all’evento trapianto. L’incorporazione nel proprio corpo di una parte del sé-corporeo di un altro individuo mette in luce un diverso aspetto della dipendenza rispetto a quello correlato alla macchina della dialisi. Forte è la connessione tra la possibilità di vita del paziente e la morte dell’altro (il donatore) nonché l’angoscia suscitata dal processo di incorporazione-integrazione psico-fisica di un organo altrui, un organo in grado di dare la vita in cambio di una esperienza di lutto per qualcun altro (la perdita di un organo per il donatore vivente o la morte di un’altra persona, nel caso di un trapianto da cadavere) [9,10].

Nella fase di pre-dialisi è importante prospettare al paziente l’opportunità di effettuare un trapianto renale da vivente pre-emptive, ossia precedente al trattamento dialitico (legge n. 328 del 10/06/2019). Una buona fase informativa, che consideri i vantaggi e i rischi per il ricevente e per il donatore, sembra favorire la comprensione e aumentare la probabilità di accettazione del trapianto. Il trapianto segna la via d’uscita alternativa alla dialisi e alla morte, ma richiede la presenza di un donatore che si offre per il bene del paziente. Nel caso del trapianto eseguito su donatore vivente, è importante considerare come questo rappresenti per i pazienti l’opportunità di evitare la dialisi. Risulta significativo in questa fase coinvolgere i familiari, aiutarli e guidarli nel processo di elaborazione dell’intervento, accogliendo paure, dubbi ed incertezze. I fattori importanti da considerare nella valutazione psicologica del donatore e del ricevente, che possono influire sui processi decisionali della donazione, riguardano: fattori cognitivi, struttura di personalità, qualità delle relazioni familiari e sociali, motivazione e aspettative. È stato creato inoltre un servizio per la valutazione psicologica dei donatori nei casi di trapianto da donatore vivente, al fine di creare un protocollo di follow-up di questi pazienti anche dal punto di vista psicologico.

Le visite psicologiche (anamnesi e colloquio psicologico), i controlli, i percorsi di sostegno attivati e i colloqui con i familiari hanno coinvolto 146 persone, di cui 27 in percorsi strutturati.

 

Attività di ricerca

Nonostante la consapevolezza delle molteplici strade da percorrere nell’indagine psicologica delle malattie renali, l’interesse preliminare è stato rivolto alla rilevazione del disagio psico-emotivo nei pazienti affetti da CKD stadio 5.

L’attività di ricerca ha coinvolto 72 pazienti, in pre-dialisi, trattamento dialitico, e portatori di trapianto renale. Le caratteristiche demografiche della popolazione oggetto di studio sono riportate nella Tabella I. I dati sono espressi come valore assoluto, percentuale, o medie ± deviazione standard.

Numero totale pazienti 72
Sesso 37 femmine (51%), 35 maschi (49%)
Età 12-88 anni (55.6 ± 16.8)
Professione 14 pensionati (19%), 58 in età lavorativa (81%)
Situazione familiare

29 vivono con coniuge/convivente

29 vivono con il proprio nucleo familiare

7 vivono da solitudine

7 vivono con altri parenti

Numero pazienti dializzati 45
Età di esordio malattia (range) 1 anno-81 anni
Anzianità dialitica (mesi) 3-228
Numero pazienti trapiantati 15
Anzianità trapianto (mesi) 6-204
Numero pazienti pre-dialisi 12
Tabella I: Caratteristiche demografiche della popolazione di studio

Lo studio si è avvalso dell’utilizzo di questionari autosomministrati, costruiti in modo specifico per indagare l’impatto dell’inserimento della figura dello psicologo nel presente contesto e la qualità di vita dei pazienti, in due differenti tempi di somministrazione (Tabella II).

Test di valutazione psicologica

Tempo di somministrazione

a) Questionario anonimo di valutazione delle aspettative

Zero – dopo 9 mesi

b) SF- 12 Questionario sullo stato di salute

Zero – dopo 9 mesi

Tabella II: Strumenti di valutazione psicologica impiegati

a) Questionario anonimo di valutazione delle aspettative

Per aspettativa si intende la qualità dell’intervento che ci si attende dall’inserimento della figura dello psicologo e dai cambiamenti attesi nel contesto di riferimento. I presenti questionari avevano lo scopo di indagare il livello di aspettative prima e dopo l’intervento psicologico. Ogni soggetto doveva indicare su una scala Likert a cinque punti (dove 1 era “molto d’accordo” e 5 “per niente d’accordo) il suo grado di accordo/disaccordo con sette affermazioni riguardanti la figura dello psicologo in un’Unità Operativa di Nefrologia e Dialisi (Tabella III). Alla luce delle sette domande e dei gradi di risposta, la Figura 1 riporta i cambiamenti significativi nel tempo, dall’inizio del progetto al termine dello stesso.

  Molto D’accordo Abbastanza d’accordo D’accordo Poco d’accordo Per niente d’accordo
È necessario inserire la figura dello psicologo all’interno dell’equipe curante dell’Unità Operativa di Nefrologia e Dialisi. 1 2 3 4 5
Il supporto psicologico può essere utile anche ai familiari dei pazienti. 1 2 3 4 5
Il supporto psicologico può essere utile anche al personale medico ed infermieristico. 1 2 3 4 5
Fondamentale è la possibilità di parlare con lo psicologo nella fase pre-dialisi. 1 2 3 4 5
L’impatto psicologico della dialisi influenza la terapia dialitica. 1 2 3 4 5
Lo psicologo può aiutare ad affrontare il percorso pre- e post-trapianto. 1 2 3 4 5
Il supporto psicologico può favorire l’accettazione e l’adattamento alla terapia dialitica. 1 2 3 4 5
Tabella III: Quesiti del questionario di valutazione delle aspettative
Figura 1: Percentuali a confronto sull'importanza della figura dello psicologo in Nefrologia e Dialisi
Figura 1: Percentuali a confronto sull’importanza della figura dello psicologo in Nefrologia e Dialisi

b) SF-12 questionario generale sulla salute

Pubblicato per la prima volta nel 1995 come parte del Medical Outcome Study (MOS), il SF-12 è composto da 12 “item” (ricavati dai 36 del questionario originale SF-36) che producono due misure relative a due diversi aspetti della salute: salute fisica (PCS-12) e salute mentale (MCS-12). L’SF-12 è formato da 4 scale (funzionamento fisico, ruolo e salute fisica, ruolo e stato emotivo, salute mentale) misurate da 2 item ciascuna e da 4 scale misurate ognuna da un item (dolore fisico, vitalità, attività sociali e salute in generale).

Al soggetto viene chiesto di rispondere su come si sente e su come riesce a svolgere le attività consuete, valutando la giornata in cui compila il questionario e le 4 settimane precedenti. Esempi di item del questionario sono: “La sua salute la limita attualmente nello svolgimento di attività di moderato impegno fisico, come spostare un tavolo, usare l’aspirapolvere, giocare a bocce, fare un giro in bicicletta?; nelle ultime 4 settimane, a causa del suo stato emotivo, ha reso meno di quanto avrebbe voluto?; nelle ultime 4 settimane, per quanto tempo si è sentito calmo e sereno?”.

Ciò che è emerso è una riduzione della percentuale della categoria più bassa (peggior percezione di salute fisica), con un aumento dei valori di PCS-12 (migliore percezione di salute fisica) nel tempo (Figura 2). In figura 2 è rappresentata per ogni classe di PCS-12, la percentuale di soggetti che hanno riferito di non avere nessuna limitazione a svolgere attività di moderato impegno fisico. Tale comportamento sembra riflettere l’impatto dell’intervento psicologico sul benessere fisico dei pazienti e la percezione che essi associano alle loro limitazioni dal punto di vista fisico.

Figura 2: Confronto tra le percentuali di casi in ogni classe di PCS-12 nel tempo
Figura 2: Confronto tra le percentuali di casi in ogni classe di PCS-12 nel tempo

Nel confrontare nel tempo le risposte che indicano il livello di salute psicologica percepita dai soggetti è emerso un aumento di rispondenti “sempre o quasi sempre” in accordo ai livelli di MCS-12: si passa dallo 0% della categoria più bassa (peggior percezione di salute mentale) al 13% di quella con valori di MCS-12 maggiori (migliore percezione di salute mentale) (Fig. 3). In figura 3 è stata tabulata, per ogni categoria di MCS-12, la percentuale di soggetti che hanno riferito di essere sempre o quasi sempre calmi e sereni. Tale comportamento sembra riflettere l’impatto dell’intervento psicologico sul benessere psicofisico dei pazienti e la percezione che essi associano ai loro stati mentali.

Figura 3: Confronto tra le percentuali di casi in ogni classe di MCS-12 nel tempo
Figura 3: Confronto tra le percentuali di casi in ogni classe di MCS-12 nel tempo

 

Discussione

L’inizio della dialisi espone il paziente affetto da CKD ad un’esperienza impattante dal punto di vista cognitivo-emotivo, ad uno stravolgimento dei ritmi di vita e uno sconvolgimento delle risorse personali, dei legami affettivi e dei progetti per il futuro.

L’attività psicologica specialistica si è inserita all’interno dell’equipe medica e infermieristica attraverso la strutturazione di forme di intervento rivolte a diverse tipologie di utenti: paziente nefropatico o dializzato, paziente trapiantato, familiari, equipe curante.

Paziente nefropatico o dializzato

L’attenzione psicologica al paziente nefropatico o dializzato verte sugli inevitabili vissuti percepiti dal paziente rispetto alla patologia cronica di cui è affetto e alla sua stessa diagnosi, alle inevitabili modificazioni della qualità della vita e alla irreversibilità di una condizione di salute. Il vissuto percettivo ed emotivo nei confronti della dialisi sembra differenziarsi in base alle molteplici tipologie di terapia: emodialitica, ospedaliera o domiciliare, e peritoneale.

I differenti vissuti emotivi e percettivi, riscontrabili attraverso un’analisi qualitativa proveniente dai colloqui clinici, sembrano delinearsi a partire dalla fase di preparazione alla dialisi. Nella scelta del trattamento dialitico, esplorata nella fase di pre-dialisi, emerge con forza, quando possibile, la preferenza della dialisi peritoneale, la quale consente la conservazione di una forma di autonomia e di controllo, la possibilità di dializzare nella propria abitazione, maggiore flessibilità e minori complicazioni nella gestione del lavoro, con conseguenti minori ripercussioni sul contesto familiare. Di contro, è emersa una certa ansia nei pazienti, rivolta al training per la sua applicazione.

Le tecniche dialitiche domiciliari, come la dialisi peritoneale e l’emodialisi domiciliare, consentono di contenere alcuni stati di ansia legati al tempo, favorendo una certa quota di flessibilità al paziente nella gestione della terapia. La sensazione di maggiore libertà e autonomia può facilitare l’adattamento e l’aderenza terapeutica da un lato, dall’altro può sviluppare aspetti di chiusura, di solitudine e di onnipotenza terapeutica che mettono a rischio una buona presa in carico del paziente e quindi una buona compliance. Inoltre, le terapie domiciliari richiedono uno sguardo attento alle dinamiche relazionali alla base dei rapporti di cura e interventi mirati alla preparazione dei partner che si occupano della cura dei pazienti, alla comunicazione tra operatori sanitari e familiari dei pazienti, e alle dinamiche relazionali nella diade membro della famiglia-paziente.

Nel caso specifico dell’Unità Operativa sede del progetto, la preparazione di un personale specializzato e la presa in carico globale del paziente costituiscono elementi fondamentali per l’acquisizione di un saper fare nella gestione della malattia e della cura e un livello di autonomia che presenta buone possibilità di riduzione e risoluzione dello stato di ansia anticipatoria presentato dai pazienti e dai loro familiari.

Nei pazienti in emodialisi ospedaliera il senso di costrizione, di non scelta e di rassegnazione è spesso dominante. Il trattamento sostitutivo eseguito in regime ospedaliero avviene tre volte a settimana e ha una durata media di quattro ore. Inevitabilmente ciò comporta una modificazione soggettiva del tempo, con soventi vissuti conflittuali verso una cura necessaria per vivere ma, allo stesso tempo, responsabile di una perdita della propria vita. Il ritmo della dialisi, lento e ripetitivo, richiede quindi una riorganizzazione del tempo a disposizione [3].

Familiari

L’attenzione psicologica rivolta ai familiari pone in luce come la costante gestione del paziente dal punto di vista sia fisico che emotivo esponga questi caregiver a diverse difficoltà: il pericolo di isolamento sociale, la minaccia del futuro, scarsi livelli di adattamento. Nei casi in cui l’impegno richiesto al caregiver risulti maggiore rispetto alle risorse presenti può emergere uno stato di disagio che si manifesta in un aumento del livello di stress e ansia, in situazioni conflittuali, movimenti regressivi, e talvolta stati di dipendenza, soprattutto tra coniugi, anche a livello simbiotico [11].

L’angoscia della dipendenza (dalla macchina e/o dal trattamento); l’ansia per la perdita del proprio status sociale, lavorativo e familiare; il vissuto di cambiamento dell’immagine di sé e del proprio schema corporeo; il senso di morte di parti di sé e la paura di morire, sono tra le difficoltà psicologiche più comuni nei pazienti in dialisi [12, 13].

 

Considerazioni finali

In base ai risultati esposti è doveroso sottolineare l’importanza e il valore del lavoro psicologico nell’ambito delle malattie renali croniche. I malati cronici, che vivono continue perdite ed esperienze di lutto, necessitano costantemente di ritrovarsi e di ri-significarsi nell’incontro con qualcuno che sappia ascoltare, soprattutto dalla fase pre-dialisi.

L’analisi presentata sui vissuti percettivi ed emotivi dei pazienti affetti da insufficienza renale cronica terminale nei confronti della dialisi e la reazione all’emodialisi ospedaliera, emodialisi domiciliare e peritoneale, rappresenta il punto di partenza nel disegno di un modello di assistenza psicologica da applicare nella comune pratica nefrologica. Questo modello organizzativo, educazionale ed informativo consente di mantenere una continuità comunicativa e relazionale del paziente con il nefrologo e lo psicologo ed una continuità comunicativa e relazionale con il contesto familiare di riferimento per tutto il ciclo del trattamento sostitutivo della funzione renale (pre-dialisi, dialisi, trapianto).

Alla luce dei risultati statisticamente elaborati è emerso un miglioramento generale del grado di accordo riguardo l’importanza della figura dello psicologo nei reparti di Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale SS. Annunziata di Chieti, in particolare per la categoria dei pazienti in fase pre-dialitica. Inoltre, dai risultati è possibile riscontrare una migliore percezione della salute mentale e fisica da parte di tutti i pazienti dopo la presa in carico e l’intervento psicologico.

L’attività clinica psicologica rivolta al paziente e ai familiari ha consentito il raggiungimento di vari obiettivi, tra cui il sostegno del paziente e dei suoi familiari nel processo di adattamento alla malattia e alla terapia, la possibilità di contenere la ricaduta negativa su outcome assistenziali e nei costi derivanti dal disagio e lo stress, l’applicazione di strategie di empowerment agli utenti al fine di migliorare l’autogestione post ricovero e l’opportunità di sostenere le difficoltà vissute dall’equipe curante, allo scopo di garantire e salvaguardare anche la relazione con il paziente.

Alla base dell’eziologia e lo sviluppo della patologia renale cronica è importante considerare l’integrazione di aspetti fisiologici, psicologici e sociali. Pertanto, un intervento psicologico strutturato con i pazienti affetti da insufficienza renale cronica può favorire la riduzione del distress emotivo, la gestione della sintomatologia ansiosa e depressiva, e migliorare quindi la percezione della qualità della vita connessa alla salute. Si evidenzia come depressione, ansia e supporto sociale percepito abbiano un impatto sulla qualità di vita e sull’evoluzione di diverse patologie croniche [3].

 

Bibliografia

  1. Boaretti C, Trabucco T, Rugiu C, et al. Dialysis, adaptation, quality of life, and family support. G Ital Nefrol 2006 Jul-Aug; 23(4):415-23. https://giornaleitalianodinefrologia.it/wp-content/uploads/sites/3/pdf/storico/2006/gin_4_2006/415-Boaretti-423.pdf
  2. Ripamonti CA, Clerici C. Psicologia e Salute, introduzione alla psicologia clinica in ambiente sanitario. Il Mulino (Bologna): 2008.
  3. Ratti MM, Delli Zotti GB, Spotti D, Sarno L. L’inserimento della figura dello psicologo all’interno dell’unità operativa di Nefrologia-Dialisi-Ipertensione. G Ital Nefrol 2014; 31(5). https://giornaleitalianodinefrologia.it/wp-content/uploads/sites/3/pdf/GIN_A31V5_00196_8.pdf
  4. Niu SF, Li IC. Quality of life of patients having renal replacement therapy. J Advanced Nursing 2005; 51(1):15-21.
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  8. Dialisi e qualità di vita. Atti XII Convegno Nazionale di Dialisi Peritoneale. Palermo, 2003.
  9. Trabucco G. Emodialisi e bisogni psicologici – Aspetti teorici, problemi psicologico-clinici. In: Ferretti R, Gentili MV. Quaderni di Psico-in. Modelli di intervento dello psicologo in ospedale, confronto di esperienze. 2005.
  10. Nesci DA, Ferro FM., Russo A, Tazza L, Luciani G. Prime esperienze di gruppo in un Centro di Emodialisi. In: Problemi psicologici e relazionali dei Centri Dialisi. Edizioni Milano: 1989, pp. 73-76.
  11. Gilbertson EL, Krishnasamy R, Foote C, Kennard AL, Jardine MJ, Gray NA. Burden of care and quality of life among caregivers for adults receiving maintenance dialysis: a systematic review. Am J Kidney Dis 2019; 73(3):332-343. https://doi.org/10.1053/j.ajkd.2018.09.006
  12. Bazzurri F, Troiano G, Cartocci A, Nante N. Emodialisi e assistenza infermieristica: uno studio pilota sulla qualità percepita dal paziente. G Ital Nefrol 2021; 38(4):38-04-2021-09. https://giornaleitalianodinefrologia.it/2021/08/38-04-2021-09/
  13. Khan WA, Ali SK, Prasad S, Deshpande A, Khanam S, Ray DS. A comparative study of psychosocial determinants and mental well-being in chronic kidney disease patients: a closer look. Ind Psychiatry J 2019; 28(1):63-67. https://doi.org/10.4103/ipj.ipj_23_19

Hemodialysis and nursing: a pilot study on patient-perceived quality

Abstract

Introduction: Dialysis is a form of renal replacement therapy that requires several changes in the relational, emotional, work, and family sphere. It can be a cause of stress due to various factors.

Objective: The purpose of our study has been to evaluate the perception of the nursing care received by dialyzed patients.

Method: In 2021, a cross sectional study was conducted in Perugia hospital by administering to dialyzed patients a questionnaire built on the Newcastle satisfaction with nursing scale.

Results: 30 patients participated in the study: the mean age was 68.9 ±15.1, 66.7% were male, 50% had a high school diploma, 86.7% were retired, and 50% were dialyzed for less than 5 years. Negative perceptions of the assistance received were mainly reported by women, younger patients, and patients who had been in therapy for only a few years.

Discussion: Our study highlights several aspects that are fundamental to improving the quality of nursing care. There also needs to be a greater attention to certain types of patients, to improve their experience and consequently their quality of life.

Keywords: nursing, quality, dialysis, questionnaire, Newcastle satisfaction with nursing scale

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Introduzione

L’insufficienza renale cronica (IRC) è una progressiva, e generalmente irreversibile, diminuzione della velocità della filtrazione glomerulare: si tratta di uno stato che alla fine richiede una terapia sostitutiva renale (dialisi o trapianto) [1,2, 3]. La dialisi è una forma di terapia sostitutiva renale. Il ruolo di filtrazione del sangue da parte del rene è integrato da apparecchiature artificiali per la rimozione di acqua, soluti e tossine in eccesso. La dialisi garantisce dunque il mantenimento dell’omeostasi [4]. L’emodialisi è il metodo attualmente più utilizzato.

Il tempo delle sedute emodialitiche varia dalle tre alle cinque ore e durante questo tempo il sangue viene prelevato dal corpo del paziente e restituito depurato (dializzato). Solitamente le sedute sono tre volte alla settimana, ma possono variare in base alle condizioni cliniche [5].

Il trattamento emodialitico impone diversi cambiamenti sul piano relazionale, emotivo, lavorativo e familiare e, di conseguenza, l’adattamento a questa nuova realtà diventa decisivo e può avere un impatto sulla qualità della vita (concetto utilizzato per indicare il benessere generale delle persone o delle società, inclusi gli elementi di ricchezza e occupazione, l’ambiente, la salute fisica e mentale, l’istruzione, la ricreazione e l’appartenenza a un gruppo sociale) [611].

Tra i diversi stress sopra ricordati, tra cui l’impegno stabile e continuativo in termini di tempo e le numerose difficoltà fisiche correlate al trattamento, come la puntura della fistola, i crampi muscolari, i dolori addominali e il prurito, si aggiungono il disagio causato dalle restrizioni alimentari, la difficoltà nel limitare l’assunzione di liquidi e, a livello psicologico, la perdita permanente della funzione renale, la dipendenza dalla macchina e dagli operatori e/o dai familiari, le frustrazioni istintuali, la paura della morte [5, 12].

Lo studio di Xhulia et al. [13] ha evidenziato i bisogni dei pazienti che devono fare emodialisi: il bisogno di supporto e guida, di essere informati dal personale medico e infermieristico, la necessità di essere in contatto con altri gruppi di pazienti e di comunicare con i parenti, la necessità di un trattamento individualizzato e il bisogno di fidarsi del personale infermieristico e medico. Per incoraggiare la partecipazione personale del paziente al suo trattamento, bisogna soddisfarne i bisogni emotivi (relativi ad ansia, paura, solitudine) e i bisogni fisici (relativi a rilassamento, sonno, migliori condizioni di trattamento). Occorre dedicare il tempo necessario, avere pazienza, considerare la cultura del paziente, affinché il paziente comprenda il perché della terapia, le cause, e venga ascoltato e accolto così da verificarne la reale comprensione [13, 14].

Scopo del nostro studio è stato quello di valutare, usando uno strumento validato quale la Newcastle satisfaction with nursing scale, come i pazienti dializzati valutino il livello di assistenza ricevuto, per individuare e approfondire eventuale criticità.

 

Metodi

Disegno dello studio e setting

Nel periodo 08/03/2021-13/03/2021 è stato condotto all’interno dell’ambulatorio emodialisi dell’Azienda Ospedaliera di Perugia uno studio cross sectional sugli assistiti che afferiscono ogni settimana all’ambulatorio. Lo studio è stato condotto usando un questionario basato sulla Newcastle satisfaction with nursing scale nella sua versione italiana [15], in maniera totalmente anonima e auto compilata.

Criteri di inclusione per lo studio sono stati la maggiore età e la insussistenza di cause di incapacità a partecipare allo studio (come demenza senile o malattie neurodegenerative)

Newcastle satisfaction with nursing scale

La Newcastle Satisfaction with Nursing Scale è una scala che è stata definita nel 1966 per indagare la qualità percepita dagli assistiti circa il personale infermieristico. Nel 2007 è stata realizzata anche la sua versione italiana, usata in questo studio [15].

È formato da 3 sezioni.

1. ESPERIENZE DELL’ASSISTENZA INFERMIERISTICA: una serie di 26 affermazioni su aspetti dell’assistenza infermieristica, che gli intervistati devono valutate tramite la scala Likert (1=sono completamente in disaccordo; 7=sono completamente d’accordo). Le risposte ai vari item vengono sommate e trasformate per produrre un range sull’esperienza che va da 0 a 100, dove 100 rappresenta il massimo risultato raggiungibile.

2. OPINIONI SULL’ASSISTENZA INFERMIERISTICA: gli intervistati valutano la loro soddisfazione riguardo vari aspetti dell’assistenza infermieristica; vi sono 5 possibili risposte utilizzando la scala Likert (1=per niente soddisfatto; 5=completamente soddisfatto). Questa sezione comprende 19 elementi. Le risposte ai vari item vengono sommate e trasformate per produrre un range sull’esperienza che va da 0 a 100, dove 100 rappresenta il massimo risultato raggiungibile.

3. INFORMAZIONI DEMOGRAFICHE: la terza sezione chiede informazioni di tipo demografico (età, sesso, anni di emodialisi) insieme alle domande “Nel complesso, come valuta l’assistenza infermieristica che ha ricevuto in questo reparto?” e “Nel complesso, come valuta tutto il suo ricovero in questo reparto?” (con punteggi da 1=pessimo a 7=ottimo) [15].

Statistica

I risultati ottenuti sono stati raccolti in un database ed esportati per l’analisi statistica. Sono stati poi valutati la mediana e il range interquartile, e indicato anche il range minimo/massimo.

Inoltre, sono stati fatti i Test U di Mann-Whitney per valutare la differenza dei punteggi tra 2 gruppi divisi per sesso, per età <65, e per anni di dialisi <5. Un p-value minore di 0,05 è stato considerato statisticamente significativo. Le analisi sono state ottenute con il software SPSS versione 27.

Nella Tabella I sono state rappresentate le caratteristiche socio demografiche dei partecipanti; in Tabella II i risultati ottenuti dal questionario; in Tabella III sono stati presentati i principali risultati del Test U di Mann-Whitney (in cui sono stati messi a confronto i risultati ottenuti rispetto a gruppi di pazienti suddivisi per età, genere e anni di dialisi). In Tabella IV i gruppi sono stati identificati in base alla risposta alla domanda “Nel complesso, come valuta l’assistenza infermieristica che ha ricevuto in questo reparto?”. In particolare, le risposte da “pessima” a “discreta” sono state raggruppate in “scarsa” (i.e. punteggi da 1 a 4) mentre le risposte da “buona” a “ottima” in “buona” (i.e. punteggi da 5 a 7).

 

Risultati

L’ambulatorio di emodialisi dell’AO Perugia accoglie 124 assistiti a settimana: 89 eseguono l’emodialisi 3 volte a settimana, 24 eseguono l’emodialisi 2 volte a settimana, 2 eseguono l’emodialisi 1 volta a settimana, 9 eseguono l’emodialisi tutti i giorni.

Sono stati esclusi 42 assistiti per evidente incapacità a partecipare allo studio (es. demenza senile e malattie neurodegenerative). Inoltre, 18 hanno rifiutato di partecipare. Dei 64 partecipanti candidati allo studio, solo 30 hanno completato il questionario distribuito.

La maggior parte dei pazienti erano maschi (66,7%), con un diploma di scuola superiore (50%), pensionati (86,7%), in dialisi da meno di 5 anni (50%); l’età media era 68,9 ±15,1 (si veda la Tabella I per ulteriori dettagli). I valori ottenuti dalle risposte al questionario sono riassunti in Tabella II.

  Frequenza (N) %
Sesso    
F 10 33,3
M 20 66,7
Titolo di Studio    
elementari 5 16,7
Laurea 3 10,0
Medie 7 23,3
superiori 15 50,0
elementari 5 16,7
Lavoro    
Dipendente 1 3,3
Libero professionista 2 6,7
Pensionato 26 86,7
Anni emodialisi    
<5 15 50,0
>25 1 3,3
10-15 6 20,0
20-25 1 3,3
5-10 7 23,3
Tabella I: Caratteristiche socio demografiche dei partecipanti
  Mediana IQR Minimo Massimo
(valore minimo 1=sono completamente in disaccordo; valore massimo 7=sono completamente d’accordo)
Gli infermieri mi mettevano facilmente di buon umore 6 1 1 7
Gli infermieri trattavano alcuni pazienti meglio di altri 2 4 1 7
Gli infermieri non mi hanno informato abbastanza sul mio trattamento 3 4 1 7
Gli infermieri prendevano le cose con troppa calma 3 4 1 6
Gli infermieri impiegavano molto tempo ad arrivare quando erano chiamati 2 4 1 7
Gli infermieri mi davano le informazioni di cui avevo bisogno proprio al momento giusto 6 1 1 7
Gli infermieri davano l’impressione di non sapere cosa stessi provando 4 2 1 7
Gli infermieri mi facevano fare alcune cose prima che io fossi pronto 2 3 1 7
Per quanto fossero occupati, gli infermieri trovavano sempre tempo per me 6 1 1 7
Vedevo gli infermieri come persone amiche 6 1 1 7
Gli infermieri dedicavano del tempo a confortare i pazienti che ne avevano bisogno 6 1 2 7
Gli infermieri controllavano regolarmente che non avessi bisogno di nulla 6 1 2 7
Gli infermieri non erano in grado di tenere sotto controllo alcune situazioni 2 3 1 6
Gli infermieri non si interessavano a me come persona 2 3 1 7
Gli infermieri mi informavano sui miei problemi di salute 6 2 1 7
Gli infermieri mi spiegavano cosa stavano per farmi 6 1 2 7
Gli infermieri sapevano cosa fare prima ancora di consultare i medici 6 2 1 7
A volte gli infermieri dimenticavano le richieste dei pazienti 3 3 1 6
Gli infermieri garantivano la riservatezza e il pudore dei pazienti 6 1 1 7
Gli infermieri avevano il tempo di fermarsi e parlare con me, quando ne avevo bisogno 6 2 1 7
Medici e infermieri lavoravano bene insieme, come una squadra 6 2 1 7
Alcuni infermieri davano l’impressione di non sapere cosa gli altri colleghi stessero facendo 2 3 1 7
Gli infermieri sapevano sempre quale fosse la cosa migliore da fare 6 1 1 7
In reparto c’era un’atmosfera serena grazie agli infermieri 6 1 1 7
  Mediana IQR Minimo Massimo
(valore minimo 1= per niente soddisfatto; valore massimo 5=completamente soddisfatto)
La quantità di tempo che gli infermieri le hanno dedicato 4 1 1 5
La competenza degli infermieri nel loro lavoro 4 2 1 5
La presenza di un infermiere vicino quando ne aveva bisogno 4 1 1 5
Le conoscenze degli infermieri sul suo caso 4 0 2 5
La prontezza con cui gli infermieri sono arrivati quando li ha chiamati 4 1 1 5
Il modo in cui gli infermieri l’hanno fatta sentire a suo agio 4 1 1 5
La quantità di informazioni che gli infermieri le hanno dato sulle sue condizioni di salute e sulla terapia 4 1 1 5
La frequenza con cui gli infermieri controllavano che lei stesse bene 4 2 1 5
L’aiuto ricevuto dagli infermieri 4 1 2 5
Il modo in cui gli infermieri le hanno spiegato le cose 4 2 1 5
Il modo in cui gli infermieri hanno rassicurato parenti e amici 4 1 1 5
Il modo con cui gli infermieri svolgevano il loro lavoro 4 1 1 5
Il tipo di informazioni che gli infermieri le hanno fornito sulle sue condizioni di salute e sul suo trattamento 4 0 1 5
L’essere trattato come persona dagli infermieri 4 1 1 5
Come gli infermieri hanno ascoltato le sue preoccupazioni e ansie 4 1 1 5
La disponibilità degli infermieri a rispondere alle sue richieste 4 1 1 5
La riservatezza e il pudore che gli infermieri le hanno garantito 4 1 1 5
La consapevolezza dei suoi bisogni da parte degli infermieri 4 2 2 5
Tabella II: Valori ottenuti dalle risposte al questionario

I punteggi sono stati successivamente confrontati in base al sesso, all’età (<65 anni vs >=65) e agli anni di dialisi (<5 anni vs. >=5). In Tabella III sono riportati solamente i risultati significativi. Possiamo notare che la differenza di risposte tra uomini e donne riguarda la sfera informativa, in cui le donne riportano punteggi peggiori rispetto agli uomini. Il numero di anni di terapia invece evidenzia una maggior comprensione dei processi interni al day service. Mentre i pazienti con pochi anni di terapia evidenziano una disparità di trattamento o l’inesperienza degli infermieri, questo non è confermato da chi svolge dialisi da molti anni. Anche la differenza di età è risultata una variabile significativa per alcune risposte.

Sesso
F M p-value
Gli infermieri mi davano le informazioni di cui avevo bisogno proprio al momento giusto 6 (2)

1-7

6 (1)

1-7

0,049
Per quanto fossero occupati, gli infermieri trovavano sempre tempo per me 6 (2)

1-7

6 (1)

4-7

0,049
La quantità di informazioni che gli infermieri le hanno dato sulle sue condizioni di salute e sulla terapia 3 (2)

1-4

4 (0)

3-5

0,017
Il modo in cui gli infermieri le hanno spiegato le cose 3 (1)

1-4

4 (1)

3-5

0,005
Il tipo di informazioni che gli infermieri le hanno fornito sulle sue condizioni di salute e sul suo trattamento 4 (1)

1-4

4 (1)

3-5

0.031
Come gli infermieri hanno ascoltato le sue preoccupazioni e ansie 4 (1)

1-58

5 (1)

3-5

0,022
Età
<65 >=65 p-value
A volte gli infermieri dimenticavano le richieste dei pazienti 5 (3)

1-6

2 (4)

1-6

0,043
Alcuni infermieri davano l’impressione di non sapere cosa gli altri colleghi stessero facendo 5 (3)

1-7

2 (3)

1-6

0,025
La quantità di tempo che gli infermieri le hanno dedicato 3 (1)

1-4

4 (2)

3-5

0,017
La competenza degli infermieri nel loro lavoro 4 (1)

1-5

4 (1)

2-5

0,022
Anni terapia
<5 >=5 p-value
Gli infermieri trattavano alcuni pazienti meglio di altri 6 (3)

1-7

6 (1)

1-7

0,019
Gli infermieri davano l’impressione di non sapere cosa stessi provando 4 (2)

1-7

2 (3)

1-5

0,009
Gli infermieri sapevano sempre quale fosse la cosa migliore da fare 6 (2)

1-7

7 (1)

4-7

0,009
Tabella III: Principali risultati del Test U di Mann-Whitney (In ciascuna casella: Mediana – IQR – Range Min – Max)

Dalla Tabella IV, invece, possiamo vedere quali sono i punti salienti che permettono di definire la qualità dell’assistenza infermieristica. Qui viene messo in evidenza che ci sono due aree principali che differenziano la qualità percepita dell’assistenza infermieristica: una è quella della sfera emotiva (“Gli infermieri trattavano alcuni pazienti meglio di altri”, “Gli infermieri davano l’impressione di non sapere cosa stessi provando”, “Vedevo gli infermieri come persone amiche”) e l’altra è la sfera organizzativa (“Gli infermieri impiegavano molto tempo ad arrivare quando erano chiamati”, “Gli infermieri non erano in grado di tenere sotto controllo alcune situazioni”, “Alcuni infermieri davano l’impressione di non sapere cosa gli altri colleghi stessero facendo”).

  Buona Scarsa p-value
Gli infermieri mi mettevano facilmente di buon umore 6 (1)

1-7

5 (3)

1-6

0,050
Gli infermieri trattavano alcuni pazienti meglio di altri 1 (3)

1-7

5 (3)

2-6

0,021
Gli infermieri non mi hanno informato abbastanza sul mio trattamento 2 (4)

1-7

4 (1)

2-5

0,402
Gli infermieri prendevano le cose con troppa calma 2 (4)

1-6

5 (1)

2-6

0,015
Gli infermieri impiegavano molto tempo ad arrivare quando erano chiamati 2 (3)

1-6

4 (3)

2-7

0,038
Gli infermieri mi davano le informazioni di cui avevo bisogno proprio al momento giusto 6 (1)

1-7

6 (4)

1-7

0,174
Gli infermieri davano l’impressione di non sapere cosa stessi provando 3 (2)

1-6

5 (1)

2-7

0,029
Gli infermieri mi facevano fare alcune cose prima che io fossi pronto 2 (3)

1-7

5 (3)

1-5

0,082
Per quanto fossero occupati, gli infermieri trovavano sempre tempo per me 6 (1)

4-7

6 (2)

1-6

0,057
Vedevo gli infermieri come persone amiche 6 (1)

5-7

6 (2)

1-6

0,006
Gli infermieri dedicavano del tempo a confortare i pazienti che ne avevano bisogno 6 (1)

4-7

6 (3)

2-7

0,402
Gli infermieri controllavano regolarmente che non avessi bisogno di nulla 6 (1)

2-7

6 (0)

2-7

0,494
Gli infermieri non erano in grado di tenere sotto controllo alcune situazioni 2 (2)

1-6

5 (1)

2-6

0,006
Gli infermieri non si interessavano a me come persona 2 (3)

1-7

5 (2)

2-7

0,021
Gli infermieri mi informavano sui miei problemi di salute 7 (1)

1-7

5 (1)

1-6

0,009
Gli infermieri mi spiegavano cosa stavano per farmi 6 (1)

4-7

6 (2)

2-6

0,050
Gli infermieri sapevano cosa fare prima ancora di consultare i medici 6 (1)

1-7

6 (2)

2-6

0,082
A volte gli infermieri dimenticavano le richieste dei pazienti 2 (4)

1-6

5 (1)

2-6

0,158
Gli infermieri garantivano la riservatezza e il pudore dei pazienti 6 (1)

1-7

6 (4)

1-6

0,033
Gli infermieri avevano il tempo di fermarsi e parlare con me, quando ne avevo bisogno 6 (1)

2-7

6 (2)

1-6

0,065
Medici e infermieri lavoravano bene insieme, come una squadra 6 (1)

1-7

5 (3)

1-7

0,432
Alcuni infermieri davano l’impressione di non sapere cosa gli altri colleghi stessero facendo 2 (3)

1-6

5 (2)

2-7

0,011
Gli infermieri sapevano sempre quale fosse la cosa migliore da fare 6 (1)

4-7

5 (4)

1-6

0,013
In reparto c’era un’atmosfera serena grazie agli infermieri 6 (1)

4-7

5 (4)

1-6

0,065
La quantità di tempo che gli infermieri le hanno dedicato 4 (2)

1-5

3 (1)

1-4

0,015
La competenza degli infermieri nel loro lavoro 4 (1)

3-5

3 (1)

1-4

0,001
La presenza di un infermiere vicino quando ne aveva bisogno 5 (1)

2-5

4 (2)

1-4

0,009
Le conoscenze degli infermieri sul suo caso 4 (0)

3-5

4 (2)

2-4

0,093
La prontezza con cui gli infermieri sono arrivati quando li ha chiamati 4 (1)

3-5

4 (1)

1-4

0,065
Il modo in cui gli infermieri l’hanno fatta sentire a suo agio 5 (1)

3-5

4 (2)

1-4

0,038
La quantità di informazioni che gli infermieri le hanno dato sulle sue condizioni di salute e sulla terapia 4 (0)

2-5

3 (1)

1-3

0,000
La frequenza con cui gli infermieri controllavano che lei stesse bene 4 (1)

3-5

3 (1)

1-5

0,044
L’aiuto ricevuto dagli infermieri 5 (1)

3-5

4 (1)

2-4

0,018
Il modo in cui gli infermieri le hanno spiegato le cose 4 (1)

3-5

4 (1)

2-4

0,093
Il modo in cui gli infermieri hanno rassicurato parenti e amici 4 (2)

1-5

3 (2)

1-4

0,025
Il modo con cui gli infermieri svolgevano il loro lavoro 5 (1)

4-5

4 (2)

1-4

0,003
Il tipo di informazioni che gli infermieri le hanno fornito sulle sue condizioni di salute e sul suo trattamento 4 (1)

2-5

3 (1)

1-4

0,015
L’essere trattato come persona dagli infermieri 5 (1)

4-5

4 (1)

1-4

0,002
Come gli infermieri hanno ascoltato le sue preoccupazioni e ansie 4 (1)

3-5

4 (1)

1-5

0,093
La disponibilità degli infermieri a rispondere alle sue richieste 5 (1)

3-5

4 (1)

1-4

0,006
La riservatezza e il pudore che gli infermieri le hanno garantito 4 (1)

3-5

3 (0)

2-4

0,025
La consapevolezza dei suoi bisogni da parte degli infermieri 4 (1)

3-5

3 (0)

2-4

0,004
Tabella IV: Assistenza infermieristica percepita (in ciascuna casella: Mediana – IQR – Range Min – Max). I gruppi sono stati identificati in base alla risposta sull’assistenza infermieristica ricevuta: è stata ritenuta buona l’assistenza per le risposte con valutazione ≥4 e scarsa per quelle <4

 

Discussione e conclusioni

La soddisfazione del paziente è definita come la percezione delle cure ricevute rispetto alle cure attese e rappresenta un equilibrio tra la percezione e le aspettative delle cure infermieristiche ricevute. I pazienti valutano così i servizi sanitari, così come i fornitori, dal loro punto di vista soggettivo [16, 17]. La soddisfazione del paziente è un indicatore importante della qualità dell’assistenza. Pertanto, la qualità del lavoro può essere valutata mappando la soddisfazione del paziente con l’assistenza infermieristica [18].

Nel nostro lavoro abbiamo usato la Newcastle satisfaction with nursing scale in un contesto diverso rispetto ad altri studi pubblicati in precedenza. Questo elemento può rappresentare sicuramente un aspetto innovativo dello studio, ma può rappresentare anche un bias legato alla difficoltà di confronto con altri dati nel medesimo contesto. Altro limite dello studio è rappresentato dall’esiguità del campione analizzato, che può non essere totalmente rappresentativo della popolazione che si sottopone a emodialisi; ad esso si associa anche un importante tasso di mancata adesione/drop out. Infine, è opportuno tener presente che questa valutazione è stata effettuata in un periodo storico particolare (marzo 2021), durante la pandemia da COVID-19, e non si può totalmente escludere che questo possa avere in parte impattato anche sulla qualità/modalità dell’assistenza infermieristica.

Dalle nostre analisi è emerso che nel complesso il livello di assistenza fornita è ritenuta abbastanza buona. Sicuramente vari fattori sono responsabili di differenze nella percezione della qualità da parte del paziente dializzato.

Ad esempio, le donne riportano punteggi peggiori rispetto agli uomini, evidenziando la necessità di fornire più attenzione a questo gruppo di pazienti. Pazienti in terapia da anni attribuiscono agli infermieri poca disparità di trattamento e poca inesperienza. Pazienti anagraficamente più giovani tendono invece ad avere percezioni più negative.

Alcuni di questi elementi influenzanti la qualità percepita dell’assistenza sono stati indagati anche in altri studi e in altri contesti. Uno studio precedente di Balouchi et al. è stato condotto con lo scopo di chiarire il concetto di qualità dell’assistenza infermieristica percepita dal paziente in emodialisi. In questo studio di meta-sintesi, i risultati hanno indicato una dimensione completa, profonda e interattiva sul concetto di qualità dell’assistenza infermieristica e hanno mostrato come la qualità percepita sia influenzata da una moltitudine di fattori (l’aspetto umano, le attrezzature, le condizioni ambientali, i monitoraggi continui, l’educazione del paziente e la comunicazione efficace) [19].

Lo studio condotto da Ahmed et al. ha mostrato come il livello complessivo di soddisfazione dei pazienti adulti è relativamente moderato nei confronti delle quattro dimensioni dell’assistenza infermieristica. La soddisfazione riguardo le informazioni fornite e l’ambiente di cura è inoltre inferiore rispetto alle altre dimensioni. Ciò dimostra che i pazienti sono meno informati sulla loro diagnosi, trattamento e prognosi da parte degli infermieri di quanto si aspettino, e ciò è essenziale per prendere decisioni relative alla loro cura. È anche evidente che i pazienti sono preoccupati per la pulizia della stanza e la privacy e libertà negli ospedali [20].

Nello studio pubblicato da Gutysz-Wojnicka et al. i livelli di istruzione non hanno influenzato le esperienze dei livelli di assistenza infermieristica (p = 0,2204) e la soddisfazione per l’assistenza ricevuta (p = 0,1075). L’età dei pazienti invece ha avuto un impatto statisticamente significativo sia sui risultati della scala “esperienze di assistenza infermieristica” (p = 0,0005) sia della scala “soddisfazione infermieristica” (p = 0,0194) [21].

Anche nello studio di Akin et al. i pazienti erano generalmente soddisfatti dell’assistenza infermieristica ricevuta. Gli elementi con la valutazione più positiva sono stati rispettivamente: la quantità di libertà che hanno ricevuto in reparto, la privacy che hanno ricevuto dagli infermieri e quanto velocemente gli infermieri hanno risposto alle loro richieste. Lo studio ha rilevato che le pazienti di sesso femminile, i pazienti più anziani e coloro che avevano un’assicurazione sanitaria erano i più soddisfatti [22].

Questi risultati confermano quanto abbiamo osservato nel nostro studio e quindi suggeriscono la necessità di una maggiore attenzione verso le pazienti femmine  fornendo loro informazioni più dettagliate e complete.

Occorre dedicare più tempo a chi è in dialisi da un minor numero di anni, rassicurandolo e fornendo tutte le informazioni necessarie anche quelle che a volte al personale sanitario risultano ridondanti o superflue. Sempre per quanto riguarda i pazienti maschi, essi rilevano un certo distacco nel rapporto con il personale infermieristico e, dal momento che questa sensazione potrebbe inficiare la fiducia verso i professionisti sanitari, si rende necessaria la riduzione della percezione di distanza tra le parti assumendo un comportamento più partecipativo. Gli stessi miglioramenti possono essere applicati a tutte le età, con un aumento di zelo nei riguardi dei pazienti più giovani che riferiscono più criticità nelle informazioni ricevute e nel rapporto con gli infermieri.

Per migliorare la percezione del livello di assistenza di alcuni, occorrerà che gli infermieri livellino il rapporto che hanno tra i vari assistiti, e che siano più solerti nell’ascoltare le varie necessità e rispondere alle informazioni richieste. Sarà utile essere maggiormente professionali e allo stesso tempo empatici. Bisognerà aumentare il livello e la quantità di informazioni date.

Non da meno, dal punto di visto lavorativo, è fondamentale assumere atteggiamenti più professionali che rendano, all’occhio di chi guarda, il modello di lavoro più omogeneo e lo standard perseguito più alto, evitando principalmente di mostrare ritrosie e perplessità sull’operato degli altri membri dell’equipe assistenziale.

Sicuramente il nostro studio ha evidenziato che esistono spazi per migliorare l’esperienza dell’assistito. Sapendo che l’assistenza infermieristica ha costantemente bisogno di cambiamenti per soddisfare le esigenze individuali, è necessario, ed estremamente importante, avanzare nel campo di ricerca per migliorare la qualità dell’assistenza infermieristica e, di conseguenza, la qualità della vita individuale [9, 23, 24].

 

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