Protected: Conservative Therapy in CKD: New Frontiers

Abstract

Chronic kidney disease (CKD) is an increasingly prevalent pathological condition. The global rise in the number of individuals affected by CKD is dependent on the ageing, as well as on the growing prevalence of obesity, diabetes and hypertension. The need for treatment strategies aimed at preventing the onset of CKD and slowing its progression has led to the implementation of combination therapy, consisting of a Renin-Angiotensin-Aldosterone System inhibitor (RAASi) and a sodium-glucose cotransporter-2 inhibitor (SGLT-2i), which has demonstrated efficacy in slowing CKD progression and reducing the occurrence of cardiovascular events. Updated guidelines recommend a tailored, multi-drug approach based on the residual cardiorenal risk of the individual patient. The KDIGO guidelines advocate for a stepwise approach in managing diabetes mellitus and CKD, with RAASi and SGLT-2i as first-line therapy, and GLP-1 receptor agonists (GLP-1 RA) and non-steroidal mineralocorticoid receptor antagonists (MRAs) as additional agents for further cardiorenal protection. Endothelin Receptor Antagonists (ERAs), a newer class of drugs, have shown antiproteinuric and nephroprotective effects in various trials. The objective of developing increasingly effective and personalized therapeutic strategies underscores the need to combine multiple drug classes that can act synergistically on different pathways.

Keywords: CKD, proteinuria, cardiovascular risk, diabetes mellitus, RAASi, SGLT-2i, MRAs, GLP-1 RA, ERAs

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Gliflozins: Proteinuria Control, and Nephroprotection

Abstract

In recent years, the prevalence of chronic kidney disease (CKD) has significantly increased, with an estimated 843.6 million individuals affected in 2017 [1]. This rise is closely linked to the growing incidence of risk factors such as diabetes mellitus and obesity. Patients with diabetic kidney disease (DKD), one of the most common complications of diabetes, are characterized by high cardiovascular morbidity and mortality. Recent evidence indicates that sodium-glucose cotransporter 2 inhibitors (SGLT2i) play a crucial role in reducing the progression of both DKD and CKD, thanks to its nephroprotective and cardioprotective effects. SGLT2i work by decreasing glomerular hyperfiltration, improving tubulo-glomerular feedback, and reducing blood glucose levels.

Keywords: CKD, SGLT2i, nephroprotection, proteinuria, hyperfiltration

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Introduzione

Attualmente, a livello globale, si stima una prevalenza di 537 milioni pazienti diabetici, numero destinato ad aumentare fino a 643 milioni entro il 2030 e a 783 milioni entro il 2045 [2]. L’obesità e il diabete rappresentano un riconosciuto fattore di rischio per la CKD e il link fisiopatologico che lega tali patologie, spesso coesistenti sul piano clinico, è rappresentato dall’iperfiltrazione [3]. Negli ultimi anni, numerose molecole sono state studiate al fine di rallentare la progressione della CKD, queste, sebbene differenti da un punto di vista biochimico, sono accomunate dall’effetto sull’iperfiltrazione. Tra queste, gli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2i) hanno rappresentato una vera e propria svolta grazie ai loro effetti nefro e cardio protettivi e attualmente sono farmaci di prima linea per il trattamento della DKD e della CKD. . Numerosi studi clinici, tra cui CREDENCE, DAPA-CKD ed EMPA-KIDNEY [4–6], hanno dimostrato l’efficacia degli SGLT2i nel ridurre il rischio di progressione della CKD nei pazienti diabetici e non diabetici. Inoltre, ricerche recenti suggeriscono che gli SGLT2i possano avere effetti benefici anche nei pazienti affetti da glomerulonefriti e nei trapiantati di rene. Questi risultati supportano l’impiego degli SGLT2i come trattamento di prima linea nella gestione della DKD e della CKD.

 

Il ruolo degli SGLT2i nella DKD e nella CKD

La nefropatia diabetica è una patologia multifattoriale che coinvolge diversi processi fisiologici, emodinamici e infiammatori. Tra i fattori che giocano un ruolo predominante nella DKD, vi è sicuramente l’iperglicemia, infatti, è stato dimostrato che i pazienti con emoglobina glicata in range di normalità non sviluppano DKD [7]. L’iperglicemia induce l’aumento dell’attività del cotrasportatore SGLT2, responsabile di circa il 90% del riassorbimento del glucosio e della maggior parte del riassorbimento del sodio nel tubulo prossimale. Questo meccanismo ha un ruolo centrale nello sviluppo della DKD, infatti, a livello renale, l’assorbimento di glucosio non è mediato dallo stimolo insulinico (come per muscoli, adipociti ed epatociti), ma aumenta in proporzione alla concentrazione di glucosio nel plasma. Nel contesto del diabete di tipo II, questo assorbimento non regolato di glucosio induce un aumento di glucosio nelle cellule glomerulari e dei tubuli renali e devia il glucosio verso vie non glicolitiche, con conseguente glicosilazione delle proteine ​​e generazione dei prodotti di glicazione avanzata. I prodotti finali di queste vie promuovono la disfunzione mitocondriale, lo stress ossidativo e l’infiammazione [8].

Nella fisiopatologia della DKD un ruolo fondamentale è rivestito anche dall’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) e attori fondamentali della nefroprotezione sono gli ACE inibitori e gli ARB [9,10]. L’effetto nefroprotettivo dei bloccanti del RAAS si esplica sia nella riduzione dell’ipertensione arteriosa ma, soprattutto, nella riduzione dell’elevata pressione intraglomerulare, e della conseguente iperfiltrazione, caratteristica della DKD [9–12]. Tuttavia, i bloccanti del RAAS non annullano completamente la progressione della DKD, probabilmente a causa del fenomeno dell’aldosterone breakthrough, che porta ad un aumento dell’attività della renina a seguito di una prolungata inibizione del RAAS [13]. Ormai numerose evidenze hanno dimostrato come gli SGLT2i abbiano un effetto additivo a quello dei bloccanti del RAAS nel ridurre la progressione della DKD [14,15].

Gli SGLT2i riducendo i livelli di glucosio plasmatico sia a digiuno che postprandiali [16], riducono il glucosio nelle cellule glomerulari e nei tubuli renali e la conseguente produzione dei prodotti di glicazione avanzata. Gli SGLT2i riducono la soglia renale per l’escrezione del glucosio da ~10 mmol/l (180 mg/dl) a ~2,2 mmol/l (~40 mg/dl) [17] e la glicosuria che ne risulta, oltre a ridurre la concentrazione media di glucosio plasmatico, migliora la glucotossicità, con conseguente miglioramento della funzione delle cellule β pancreatiche che si traduce in una maggiore sensibilità all’insulina [16–18].

L’azione degli SGLT2i si esplica attraverso il ripristino del feedback tubulo-glomerulare, infatti, è ormai noto come il rilascio del cloruro di sodio alle cellule della macula densa dell’apparato iuxtaglomerulare giochi un ruolo centrale nella regolazione della frazione di filtrazione glomerulare (GFR) e della pressione intraglomerulare [19,20]. Nello specifico, una riduzione nel rilascio di cloruro di sodio a livello nella macula densa, attraverso la vasodilatazione della arteriola afferente aumenta e la pressione intraglomerulare. Al contrario, un aumento del rilascio di cloruro di sodio nella macula densa riduce la GFR e la pressione intraglomerulare attraverso la riattivazione del feedback tubulo-glomerulare. Alcuni studi su modelli animali hanno dimostrato come il diabete scarsamente controllato, inducendo un aumento del carico filtrato di glucosio, porti a un aumento del riassorbimento del glucosio accoppiato al sodio da parte del tubulo prossimale e ad una diminuzione del rilascio di sodio alla macula densa [21,22]. Questa diminuzione dell’apporto di sodio alla macula densa determina l’attivazione intrarenale del RAAS, la vasocostrizione dell’arteriola efferente, l’ipertensione glomerulare e l’iperfiltrazione renale [19,21,22]. Inoltre, il ridotto apporto di sodio alla macula densa inibisce la conversione dell’ATP in adenosina che ha a sua volta un effetto vasocostrittore, questo genera la vasodilatazione dell’arteriola afferente e l’aumento del flusso plasmatico renale, con conseguente aumento della pressione intraglomerulare e dell’iperfiltrazione [23].

Anche a questo livello gli SGLT2i giocano un ruolo fondamentale, infatti, aumentando il ​​rilascio di sodio alla macula densa favoriscono la conversione dell’ATP in adenosina con conseguente vasodilatazione dell’arteriola efferente, diminuzione del flusso plasmatico renale, riduzione dell’ipertensione glomerulare e, a lungo termine, attenuano la progressione della DKD anche in pazienti con efficace inibizione del RAS [24]. Gli effetti sul feedback sono alla base del calo iniziale del GFR osservato nei pazienti che iniziano SGLT2i, e che risulta simile a quello osservato dopo l’inizio della terapia con antagonisti del RAS. La riduzione dell’iperfiltrazione si traduce in riduzione della proteinuria con conseguente miglioramento dell’outcome renale e cardiovascolare [25]. (Figura 1)

Figura 1. Azione degli SGLT2i sull’emodinamica glomerulare.
Figura 1. Azione degli SGLT2i sull’emodinamica glomerulare.

Ulteriori meccanismi sono coinvolti nella progressione della DKD tra cui: l’aumento dello stato infiammatorio, la disfunzione e la perdita sia delle cellule endoteliali che del podocita. In tutti questi meccanismi gli SGLT2i svolgono un ruolo protettivo fondamentale, infatti, alcuni studi hanno dimostrato la loro capacità di ridurre i markers di infiammazione [26,27], la disfunzione endoteliale e la perdita della funzionalità del podocita [9,28].

Negli ultimi anni diversi studi hanno dimostrato che gli effetti nefroprotettvi degli SGLT2i non si esplicano solo nella DKD ma anche nella CKD; infatti, gli effetti sull’emodinamica renale possono offrire una nefroprotezione efficace indipendente dai livelli ematici di glicemia [29]. L’iperfiltrazione secondaria all’alterazione del meccanismo di feedback tubuloglomerulare è infatti un meccanismo comune nella patogenesi sia nella CKD che nella DKD [30]. Nella CKD, l’iperfiltrazione rappresenta un meccanismo inizialmente di tipo adattativo secondario alla riduzione della popolazione dei nefroni funzionanti al fine di compensare le richieste metaboliche ma che diventa successivamente maladattativo favorendo la progressione del danno renale. In entrambe le condizioni patologiche, Il ridotto apporto di sodio alla macula densa induce la vasodilatazione dell’arteriola afferente e l’aumento della pressione intraglomerulare[31–33]. L’inibizione del SGLT2, anche nella CKD, aumenta il rilascio distale di sodio, che a sua volta promuove il feedback tubuloglomerulare portando al ripristino della pressione intraglomerulare.

 

La nefroprotezione mediata dagli SGLT2i nei trial clinici

Nell’ultimo decennio, gli SGLT2i sono stati studiati in numerosi trial clinici randomizzati con outcome primario incentrato sugli eventi cardiovascolari, dimostrando un’efficacia nella riduzione del rischio di eventi cardiovascolari maggiori nei pazienti trattati. Inoltre, le analisi secondarie di questi studi hanno dimostrato un effetto protettivo sulla progressione della DKD e CKD.

Lo studio CREDENCE, pubblicato nel 2019, ha rappresentato una vera svolta nella storia della CKD e degli SGLT2i, infatti, è stato il primo trial creato per valutare l’effetto degli SGLT2i, e precisamente del canaglifozin, sull’outcome renale. In questo studio vennero arruolati 4401 pazienti diabetici di tipo II con malattia renale cronica (eGFR di 30-90 mL/min/1,73 m2) e albuminuria (UACR di 300-5000 mg/g) già in terapia stabile con inibitori del RAS alla massima dose tollerata. La terapia con canaglifozin dimostrò, in un follow up medio di 2,6 anni, di ridurre significativamente il rischio dell’outcome composito (progressione della CKD fino allo stadio terminale, raddoppio della creatinina sierica o morte per cause renali) (HR [IC al 95%] 0,66 [0,53–0,81]) [4]. I risultati furono così incisivi da causare l’interruzione prematura per il raggiungimento dei criteri di efficacia prespecificati, inoltre, dopo la pubblicazione dello stesso, le linee guida KDIGO per la gestione del diabete nella CKD raccomandarono l’uso di SGLT2i come trattamento di prima linea associato alla metformina [34].

Dopo la pubblicazione dello studio CREDENCE, diversi studi hanno valutato l’efficacia degli SGLT2i nella CKD cercando di rispondere alla domanda se questi farmaci potessero avere un ruolo anche nei pazienti affetti da CKD non diabetici.

Nello studio DAPA-CKD, vennero arruolati 4.304 pazienti diabetici e non diabetici con CKD (eGFR di 25–75 mL/min/1,73 m2 e UACR da 200 a 5.000 mg/g) già in trattamento stabile con inibitori del RAS [46]. Lo studio dimostrò la netta superiorità del dapaglifozin, pari al 39%, nel ridurre il rischio dell’endpoint primario combinato (declino del GFR > 50%, malattia renale allo stadio terminale o morte per cause renali o cardiovascolari). Inoltre, la superiorità veniva mantenuta anche quando le componenti dell’endpoint primario venivano considerate separatamente (HR [IC al 95%] 0,56 [0,45-0,68]). Lo studio dimostrò, inoltre, che il dapaglifozin era efficace nel ridurre il rischio di endpoint primario (HR [IC al 95%] 0,50 [0,35-0,72]) anche nei pazienti con CKD non diabetici [5]. Anche questo studio venne interrotto precocemente dopo 2,4 anni per dimostrata efficacia.

L’azione nefroprotettiva degli SGLT2i è stata, inoltre, confermata dallo studio EMPA-KIDNEY. Questo trial, su 6609 pazienti con CKD (eGFR tra 20 e 90 ml/min/1,73 m2 e UACR >200 mg/g) diabetici e non con un follow-up medio di 2 anni, dimostrò l’efficacia dell’empaglifozin di ridurre il rischio dell’endpoint primario composito (diminuzione dell’eGFR ≥40% rispetto al basale, malattia renale allo stadio terminale o morte per cause renali) e morte cardiovascolare (HR [IC al 95%] 0,72 [0,64–0,82]) [6]. Inoltre, fu osservata una riduzione del rischio di progressione renale del 29% e una riduzione significativa dell’ospedalizzazione per qualsiasi causa (HR [IC 95%] 0,86 [0,78-0,95]). Inoltre, estendendo i criteri di inclusione fino alla CKD IV stadio ha dimostrato come l’effetto protettivo di questi farmaci si mantenga anche nei pazienti con malattia renale cronica avanzata [6].  (Tabella 1)

  CREDENCE DAPA-CKD EMPA-KIDNEY
Intervento Canaglifozin 100mg/die Dapaglifozin 10 mg/die Empaglifozin 10 mg/die
Popolazione 4.401 pazienti diabetici in terapia con RAAS inibitore 4.304 pazienti diabetici e non in terapia con RAAS inibitore 6.609 pazienti diabetici e non in terapia con RAAS inibitore
eGFR (ml/min) da 30 a 90 da 25 a 75

da 20 a 45

da 45 a 90 con albuminuria

Albuminuria (mg/gr) 300-5.000 200-5.000 >200
Outcomes primari

Composito:

ESKD, raddoppio della creatinina dal basale, morte per cause renali o cardiache

Composito:

Riduzione sostenuta del 50% dell’eGFR, insorgenza ESKD, morte per cause renali o cardiache

Progressione della malattia renale o morte per cause cardiache
Outcomes secondari

1.     Composito: ospedalizzazione per morte cardiaca o scompenso

2.     Composito: ESKD, raddoppio della creatinina dal basale o morte per cause

3.     Morte per cause cardiache

4.     Morte per tutte le cause

1.     Composito renale: Riduzione sostenuta del 50% dell’eGFR, insorgenza ESKD, morte per cause renali

2.     Composito cardiaco: ospedalizzazione per scompenso o morte cardiaca

3.     Morte per tutte le cause

Composito: ospedalizzazione per scompenso cardiaco, morte per cause cardiache, tutte le cause di ospedalizzazione, morte per tutte le cause
Tabella 1. Studi sugli SGLT2i con outcomes primari renali. ESKD (insufficienza renale terminale)

Un aspetto da considerare nei trial con SGLT2 è che in tutti è stato osservato un calo acuto del GFR (DIP), che successivamente si stabilizza. Un’analisi pre-specificata dello studio DAPA-CKD ha osservato una differenza tra dapaglifozin e placebo nel dip del GFR di 2,61 ml/min nei pazienti diabeti e di 2,01 ml/min per 1,73 m2 nei pazienti non diabetici [35]. Il declino acuto (DIP) del GFR si presenta circa intorno alla seconda settimana di trattamento con una stabilizzazione del GFR fino alla fine del follow up [36]. La riduzione nello slope (la pendenza del calo del filtrato) è maggiore nei pazienti con diabete di tipo 2, emoglobina glicata più elevata e UACR più elevata [36].

Infine, una metanalisi di 13 trial clinici randomizzati (SMART-C), su 90413 pazienti, ha confermato che l’introduzione in terapia degli SGLT2i riduce il rischio di progressione della malattia renale cronica del 37 %, questo effetto può essere osservato sia nei pazienti diabetici che no. Precisamente, l’aggiunta in terapia di un SGLT2i ha dimostrato di ridurre il rischio di progressione di malattia del 40% nei pazienti affetti da nefropatia diabetica, del 30% nei pazienti con malattia renale ischemica/ipertensiva, del 40% nei pazienti con glomerulonefrite e del 26% nei pazienti con CKD ad eziologia sconosciuta. Le analisi di sensitività hanno inoltre suggerito che questo beneficio non dipenda dalla funzionalità renale basale e dall’albuminuria, e che la terapia con SGLT2i protegga anche dal rischio di insufficienza renale acuta ed eventi cardiovascolari [37].

Questi dati sono stati confermati, nella real-life, anche da uno studio di coorte scandinavo, su 29887 pazienti che hanno intrapreso la terapia con SGLT2i, in cui è stato dimostrato che l’uso di questi farmaci, rispetto agli inibitori della dipeptidil peptidasi-4 (DPP4), è stato associato a un rischio ridotto di eventi renali gravi (2,6 eventi per 1.000 anni-persona vs 6,2 eventi per 1.000 anni-persona; HR 0,42 (IC 95%,  0,34  0,53), una riduzione della necessità di terapia sostitutiva renale [HR 0.32 (IC 95%, 0.22 0.47)],  di ospedalizzazione per cause renali [HR 0,41 (IC 95%, 0,32 0,52)] e di morte per cause renali  [HR 0,77 (IC 95%, 0,26  2,23)] [38].

 

Gli SGLT2i nel trattamento delle glomerulonefriti

I trial condotti con l’utilizzo degli SGLT2i nella CKD includevano anche un gran numero di pazienti con nefropatie glomerulari.

Nello studio DAPA-CKD, 270 pazienti erano affetti da nefropatia da IgA in terapia con inibitori del RAS, di questi solo il 14,1% era anche diabetico e l’eGFR e l’UACR medi erano rispettivamente 43,8 mL/min/1,73 m2 e 900 mg/g. Un’analisi secondaria prespecificata sui pazienti con IgAN confermata alla biopsia renale ha dimostrato che il dapagliflozin riduceva significativamente il rischio di progressione della CKD, insufficienza renale o morte per cause renali (HR [95% IC] 0,23 [0,09–0,63]) [39]. Come nello studio principale, questo effetto non differiva tra i sottogruppi definiti dalle categorie eGFR e UACR al basale. È stata inoltre osservata, nei pazienti randomizzati a dapaglifozin, una riduzione dell’UACR del 26% e un rallentamento della progressione della CKD, con una differenza di eGFR tra i bracci di trattamento di 2,4 ml/min/1,73 m2 per anno [39].

Al contrario, lo studio EMPA-KIDNEY non prevedeva di condurre analisi in sottogruppi con glomerulonefriti, ma nella popolazione di studio erano presenti 817 pazienti con IgAN. La metanalisi SMART-C, condotta successivamente, ha dimostrato, attraverso la combinazione dei risultati di EMPA-KIDNEY e DAPA-CKD, una riduzione del 51% del rischio di progressione della CKD nell’IgAN nei pazienti trattati con empaglifozin o dapaglifozin[37].

Per quanto riguarda l’impatto degli SGLT2i nei pazienti con glomerulosclerosi focale segmentale (FSGS) i risultati sono stati meno soddisfacenti. Nello studio DAPA-CKD sono stati arruolati 115 soggetti affetti da FSGS di cui il 90% con diagnosi istologica [40],  l’endpoint renale primario però non differiva significativamente tra i bracci di trattamento. Questo è probabilmente dovuto al basso numero di eventi, tuttavia, la differenza tra i gruppi nell’UACR è stata del 19,7% a favore di dapagliflozin, e i tassi di declino cronico dell’eGFR erano di -1,9 e -4,0 mL/min/1,73 m2 per anno rispettivamente nel braccio dapagliflozin e placebo [40].

In questo ambito è da sottolineare la post-hoc analisi dei dati dell’EMPA-REG, comprendente 112 pazienti con proteinuria in range nefrosico (definita come UACR ≥2200 mg/g al basale), che ha dimostrato un beneficio nella riduzione della progressione della CKD nei pazienti trattati con empaglifozin.  Infatti, è stata osservata una riduzione dell’UACR ≥ del 50%, rispetto al basale, più frequentemente nei pazienti trattati con empaglifozin rispetto a placebo [58,8% vs 26,2%; HR 2.48; (95% IC 1.27−4.84)]. Inoltre, l’outcome composito renale (raddoppio della creatinina sierica accompagnati da un eGFR di ≤45 mL/min/1.73 m2, inizio della terapia sostitutiva renale o morte per malattia renale) è stato osservato nel 20,6% dei pazienti trattati con empaglifozin rispetto al 33.3% dei pazienti trattati con placebo [28].

 

Gli SGLT2i nel trapianto di rene

Nonostante le numerose prove di efficacia e sicurezza dell’utilizzo degli SGLT2i nella popolazione generale con CKD secondaria a nefropatia diabetica e non, pochi studi sono stati effettuati nei pazienti trapiantati di rene con diabete di tipo II o diabete post-trapianto; infatti, persistono delle riserve relate soprattutto all’aumentato rischio di infezioni micotiche genitali e delle vie urinarie. Uno studio multicentrico osservazionale, su 339 pazienti trapiantati in terapia con SGLT2i, ha dimostrato, tra il basale e 6 mesi, una riduzione significative del peso corporeo [-2,22 kg (IC 95% da -2,79 a -1,65)], della pressione sanguigna, della glicemia a digiuno, dell’emoglobina [-0,36% (IC 95% da -0,51 a -0,21)]. Inoltre, seppur sia stata osservata una riduzione non significativa dell’UACR [da 164 mg/g (IQR 82–430) a 160 (IQR 80–347), p 0.006], quando i pazienti sono stati stratificati in base a un UACR al basale inferiore o superiore a 300 mg/g, è stato osservato un miglioramento significativo nei pazienti che avevano un UACR al basale ≥ 300 mg/g [da 760 mg/g (IQR 454–1594) a 534 (IQR 285–1092); p<0,001]. Il 26% dei pazienti ha avuto un evento avverso di cui il più frequente è stato l’infezione delle vie urinarie (14%); i fattori di rischio erano un precedente episodio di infezione nei 6 mesi precedenti [[OR] 7,90 (IC 3,63–17,2)] e il sesso femminile [OR 2,46 (IC 1,19–5,03)]. Da sottolineare che una post hoc analisi ha osservato che l’incidenza di infezione delle vie urinarie a 12 mesi era simile tra i pazienti trapiantati con SGLT2i e quelli non trattati (17,9% contro 16,7%) [41]. Questi dati sono stati confermati da uno studio randomizzato controllato su 44 pazienti trapiantati trattati con empaglifozin o placebo, in cui è stata osservata, nel gruppo di trattamento, una riduzione significativa dell’emoglobina glicata [-0.2% (-0.6, -0.1) vs 0.1% (-0.1,0.1), ‘p 0.025] e del peso corporeo [-2.5 Kg (-4.0, -0.05) vs +1 Kg (0.0, 2.0), p 0.014] ma non una differenza significativa in termini di eventi avversi, eGFR e livelli dei farmaci immunosoppressori [42].

 

Conclusioni

La terapia con SGLT2i, negli ultimi anni, ha rappresentato una rivoluzione nel trattamento della nefropatia diabetica e nella riduzione della progressione della malattia renale cronica. I profili di efficacia e sicurezza di questi farmaci sono stati testati in numerosi trial e confermati da evidenze di real-life, questi dati incoraggianti li hanno resi un pilastro delle strategie di nefroprotezione applicabili nella CKD.

La nuova sfida sarà quella di agire sulla progressione della CKD e della DKD attraverso un approccio incentrato su un intervento farmacologico mirato ai diversi meccanismi di progressione. L’associazione con nuove molecole come gli antagonisti dei mineralcorticoidi, gli inibitori dell’aldosterone sintetasi, gli antagonisti del recettore dell’endotelina e gli agonisti recettoriali del GLP permetterà di massimizzare ulteriormente l’efficacia nefroprotettiva degli SGLT2i.

 

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Correlation of Beta Trace Protein Levels with Serum Creatinine-Based Estimated Glomerular Filtration Rate Equations in Chronic Kidney Disease

Abstract

Background. Estimated GFR (eGFR) is calculated using serum creatinine (SCr) based equations which have their own limitations. Novel biomarkers like beta trace protein (BTP) are studied for eGFR estimation. The aim of this study is to determine the serum levels of BTP in healthy controls and chronic kidney disease (CKD) cases and to find out the correlation of BTP levels with that of SCr and SCr-based eGFR formulas.
Methods. The control group comprised of 20 healthy adults. The cases comprised of 20 patients each in CKD stages 3, 4, and 5, categorized based on eGFR calculated using MDRD formula. Baseline characteristics of the study population were recorded. BTP was measured by ELISA (Enzyme Linked Immunosorbent Assay) method and SCr by modified Jaffe’s method. The statistical analyses were performed with the SPSS for Windows, version 16.0.
Results. The median value of blood urea nitrogen (BUN) in the cases was 26.50 mg/dL (IQR 19.25-37) and for control it was 9.5 mg/dL (IQR 8-12). The median value of SCr in the cases was 2.75 mg/dL (IQR 1.725-4.45) and in the controls, it was 0.7mg/dL (IQR 0.6 -0.8). The median value of BTP in cases was 6389.25 ng/ml (IQR 5610.875-10713.75) and in controls, it was 1089.5 ng/ml (IQR 900.5-1309.75).
Conclusion. Serum BTP levels correlated with SCr levels and renal function. We could establish the relationship between the two biomarkers, SCr and BTP, and derive a regression equation.

Keywords: Beta trace protein, estimated GFR, CKD, correlation

Introduction

Any structural or functional abnormalities of the kidneys that persist beyond 3 months irrespective of the etiology is defined as chronic kidney disease (CKD) [1]. In clinical practice, renal function is assessed indirectly using serum creatinine (SCr) values and SCr-based glomerular filtration rate (GFR) equations. The ‘gold standard’ for GFR estimation, the inulin clearance cannot be used routinely, because of the difficult and cumbersome nature of the procedure. Serum cystatin C based equations have also been recently developed [2, 3]. Notable equations are Cockroft-Gault formula, Chronic Kidney Disease Epidemiology (CKD-EPI) equation and Modification of Diet in Renal Disease Study (MDRD) equation [46]. However, each equation has its own inherent limitations such as a lack of accuracy, precision, and variations with ethnicity [78].

Factors such as protein intake and muscle mass determine SCr levels. Due to lower muscle mass, SCr levels are lower in women and in older individuals. SCr level has a curvilinear relationship with GFR because of its tubular secretion in mild-to-moderate degrees of renal failure. A SCr value of 1.5 mg/dl could represent a GFR of anywhere between 30-90 ml/min. Such wide range of eGFR is not acceptable and hence, SCr-based assays are not considered ideal. The need for better biomarkers need not be overemphasized.

Beta Trace Protein (BTP) is a monomeric low-molecular-weight glycoprotein with 168 amino acids. The molecular mass of BTP is estimated to be between 23000 and 29000 daltons. It depends on N-glycosylation at three positions in its structure. BTP mRNA is expressed in the choroid plexus, pachymeninges, and oligodendrocytes. BTP synthesis occurs in testes, epididymis, and heart in small quantities. The elimination of BTP is by glomerular filtration. It is reabsorbed by the proximal tubular cells and actively degraded within the lysosomes. The t- 1/2 of BTP is about 1.2 hours [912].

Hence, BTP-based GFR equations could mitigate the limitations of SCr-based equations for GFR estimation. No studies on correlation of serum BTP levels with SCr-based eGFR are available yet from South Asian population.

 

Methods

This study was done as a cross-sectional study at Sri Ramachandra Institute of Higher Education and Research (SRIHER), after obtaining Institutional ethics committee clearance (Ethics Reg No: CSPMED/19/NOV/57/170). Informed consent in written form was obtained from all study participants prior to this study.
The control group was comprised of 20 healthy male and female adults. The ‘cases’ group comprised of 20 patients each in CKD stages 3, 4, and 5. The CKD stages were categorized based on eGFR calculated using MDRD formula. Baseline characteristics of the cases and controls such as age, gender, body mass index (BMI), and blood pressure were recorded. Based on the SCr levels, eGFR was estimated for both the cases and controls using existing formulae, MDRD and CKD-EPI. Blood pressure was measured using aneroid sphygmomanometer.
Renal failure patients of > 18 years of age in CKD stages 3, 4 and 5, who visited nephrology outpatient department were recruited for this study. Controls were healthy males and females who had attended master health check-up facility in the hospital. The study excluded paediatric and adolescent population, pregnant women and transplant recipients. A venous blood sampling was carried out by trained phlebotomist.
The quantitative estimation of urea was determined by Kinetic UV / Urease – GLDH method. The quantitative estimation of SCr was determined by modified Jaffe’s method. Both the assays were done in Beckman Coulter AU 5800 and AU 680 Automated Clinical Chemistry Analyzers. BTP was assayed by immunometric (sandwich) ELISA from Cayman chemicals – Prostaglandin D synthase lipocalin type human ELISA kit, Item no: 10007684.

Statistical analyses

The statistical analyses were performed with the Statistical Package for the Social Sciences (SPSS) statistical software package for Windows, version 16.0. Shapiro-Wilks test was used as test for normality. Mean and standard deviation were calculated for the age and BMI. Independent sample-t test was performed and a two-tailed ‘p’ value of < 0.05 was considered statistically significant. For parameters such as BUN, SCr, MDRD equation based eGFR, CKD-EPI equation based eGFR, serum BTP levels, systolic and diastolic BP that followed non-normal distribution, median and interquartile range (IQR) were calculated. Mann-Whitney U test and Kruskal-Wallis test were used for parameters of non-normal distribution and ‘p’ value of < 0.05 was considered statistically significant. One way ANOVA was performed for parameters of normal distribution and ‘p’ value of < 0.05 was considered statistically significant. Correlation analysis between BTP and BUN, Creatinine, MDRD eGFR, CKD-EPI eGFR, SBP and DBP was done by Spearman correlation in the study cohort and ‘p’ value of < 0.001 was considered statistically significant.

 

Results

This study cohort (n=80) included 48 males (60%) and 32 females (40%). The mean age of controls was 40.3±10.702 years and that of CKD cases was 55.53±15.285 years (p <0.05). The mean BMI of controls was 25.150±3.618 kg/m2 and that of cases was 26.88±5.297 kg/m2 (p 0.407). The median and IQR for systolic blood pressure (SBP) in the cases was 140 mm Hg (IQR 130 -140) and in the controls was 110 mm Hg (IQR 100-110). The median diastolic blood pressure (DBP) in the cases was 80 mm Hg (IQR 80-90), and in the controls it was 70 mm Hg (IQR 70-80). The blood pressure was significantly higher in all stages of CKD when compared to the control group (p <0.001).
The median value and IQR of BUN in the cases was 26.50 mg/dL (19.25-37) and in the controls was 9.5 mg/dL (8-12). The median value of SCr in the cases was 2.75 mg/dL with IQR (1.725-4.45), and in the controls it was 0.7 mg/ dL (IQR 0.6 – 0.8). The median value of eGFR using MDRD equation for cases was 23.950 ml/ min/1.73m2 (IQR 12.825-37.5), and for controls it was 105.6 ml/ min/1.73 m2 (IQR 100.8-115.875). Median value of GFR estimated using CKD-EPI for cases was 23.5 ml/min/1.73m2 (IQR 12-38.5) and for controls, it was 112.5 ml/min/1.73m2 (106.25-116.5) (Table I). BUN and SCr were significantly increased in the cases than in controls, as expected (p < 0.001). MDRD eGFR and CKD-EPI eGFR were significantly decreased in the cases than in controls (p <0.001).

Parameter CKD (n=60) Control (n=20) p-value

BUN

(mg/dL)

26.50

(19.25-37)

9.5

(8-12)

<0.001**

Creatinine

(mg/dL)

2.75

(1.725-4.45)

0.7

(0.6-0.8)

<0.001**

MDRD eGFR

(ml/min/1.73m2)

23.950

(12.825-37.5)

105.6

(100.8-115.875)

<0.001**

CKD-EPI eGFR

(ml/min/1.73m2)

23.5

(12-38.5)

112.5

(106.25-116.5)

<0.001**
Table I. Comparison of BUN, Creatinine, MDRD eGFR, and CKDEPI eGFR between chronic kidney disease patients (CKD group) and control group (normal healthy individuals).
Data represented as median with interquartile range. Comparison done via Mann-Whitney U test. *Statistically significant (p<0.05) * *Statistically significant (p<0.001)

The median value and IQR of BTP in ‘cases’ were 6389.25 ng/ml (5610.875-10713.75), and in controls it was 1089.5 ng/ml (900.5-1309.75). Serum BTP levels were significantly increased in all CKD stages when compared with the control group (p <0.001) (Table II).

Parameter CKD (n=60) Control (n=20) p-value

BTP

(ng/ml)

6389.25

(5610.875-10713.75)

1089.5

(900.5-1309.75)

<0.001**
Table II. Comparison of Beta trace protein (BTP) between chronic kidney disease patients (CKD group) and control group (normal healthy individuals).
Data represented as Median with interquartile range. Comparison done via Mann Whitney U test. *Statistically significant (p<0.05) * *Statistically significant (p<0.001)

The parameters were compared among groups CKD 3, CKD 4, CKD 5, and control group. Normal distribution was seen for parameters BMI, BTP, MDRD eGFR and CKD-EPI eGFR. Non-normal distribution was seen for parameters age, BUN, SCr, SBP and DBP. The median and IQR of BUN in CKD Stage 3 group was 19.5 mg/dl (15.25-22.5), in CKD Stage 4 group was 26 mg/dL (19.5-32), in CKD Stage 5 group was 38.5 mg/dL (34.25 -45) and in control was 9.5 mg/dL (8-12). The values are statistically significant, (p < 0.001) as calculated by Kruskal-Wallis test. BUN levels were significantly higher in all stages of CKD when compared with the control group. There was significant difference between stage 3 and stage 5 CKD cohorts, but significance was not demonstrated between stage 3 and stage 4, and stage 4 and stage 5 groups. The median and IQR of SCr in CKD stage 3 group was 1.6 mg/dL (1.4-1.775), in CKD stage 4 group was 2.75 mg/dL (2.43-3.15), in CKD stage 5 group was 5.2 mg/dL (4.35 – 5.775), and in control group it was 0.7 mg/dL (0.6-0.8). The values are statistically significant, (p < 0.001) as calculated by Kruskal-Wallis test. SCr levels were significantly higher in all stages of CKD when compared with the control group. There was significant difference in SCr levels between CKD stage 3 and 5 and also between CKD stage 4 and 5. There was no significance seen between stage 3 and stage 4 CKD cohorts.
The mean BMI of CKD stage 3 group was 27.24 ± 5.13 kg/m2, CKD stage 4 group was 27.63 ± 6.32 kg/m2, CKD stage 5 group was 25.77 ± 4.33 kg/m2, and in control group it was 25.82 ± 3.62 kg/m2. There was no statistical significance among the groups for BMI. The mean MDRD eGFR of CKD stage 3 group was 42.86 ± 7.42 ml/ min/1.73m2, CKD stage 4 group was 22.84 ± 4.37 ml/ min/ 1.73m2, CKD stage 5 group was 10.41 ± 2.63 ml/ min/1.73m2, and in control group it was 107.25 ± 8.88 ml/min/1.73m2. The mean CKD-EPI eGFR of CKD stage 3 group was 45.8 ± 9.73 ml/min/1.73m2, CKD stage 4 group was 23.75 ± 4.62 ml/ min/1.73m2, CKD stage 5 group was 10.3 ± 2.56 ml/min/1.73m2, and in control group it was 112.35 ± 8.29 ml/min/1.73m2. There was statistical significance among the groups for eGFR by MDRD and CKD-EPI equations. The mean BTP levels of CKD stage 3 was 5222.33 ± 900.15 ng/ml, CKD stage 4 was 6234.23 ±575.31 ng/ml, CKD stage 5 was 11628.3 ± 1695.39 ng/ml, and in control group was 1130.35 ± 314.42 ng/ml. BTP levels were significantly higher in the CKD groups when compared to the control group. BTP levels were significantly higher in CKD stage 5 when compared to CKD stage 3 and CKD stage 4. BTP levels were significantly higher in CKD stage 4 when compared to CKD stage 3 (Table III). 

Parameter CKD3 (n=20) CKD4 (n=20) CKD 5 (n=20) Control

(n=20)

p-value

BMI

(Kg/m2)

27.24

± 5.13

27.63

± 6.32

25.77

± 4.33

25.82

± 3.62

0.522

MDRD eGFR

(ml/min/1.73m2)

42.86

± 7.42

22.84

± 4.37

10.41

± 2.63

107.25

± 8.88

<0.001**

CKD-EPI eGFR

(ml/min/1.73m2)

45.8

± 9.73

23.75

± 4.62

10.3

± 2.56

112.35

± 8.29

<0.001**

BTP

(ng/ml)

5222.33 ± 900.15 6234.23

± 575.31

11628.3

± 1695.39

1130.35 ± 314.42 <0.001**
Table III. Comparison of BMI, MDRD eGFR, CKD-EPI eGFR and BTP among the groups CKD stage 3, CKD stage 4, CKD stage 5 and control group. Data represented as Mean ± standard deviation (SD). Comparison done by One way ANOVA test. *Statistically significant (p<0.05) * *Statistically significant (p<0.001).

The correlation analysis between BTP and BUN, SCr, MDRD eGFR and CKD-EPI eGFR was done by Spearman correlation in the study cohort (n=80) (Table IV). In the correlation analysis between BTP and BUN, the correlation coefficient (R-value) was 0.835, implying a positive correlation between the two parameters. The correlation was statistically significant (p <0.001). The correlation coefficient (R-value) for correlation analysis between BTP and SCr was 0.917 with p<0.001, implying a statistically significant positive correlation between these two parameters. In the correlation analysis between BTP and eGFR based on MDRD equation, the correlation coefficient (R-value) was –0.913 (p<0.001) and R-value for BTP and eGFR based on CKD-EPI equation was –0.909 (p<0.001). This showed a statistically significant negative correlation between eGFR based on MDRD equation and eGFR based on CKD-EPI equation with BTP.

Regression Equation

Using SCr values and BTP levels, we could establish the relationship between the two biomarkers and derive a regression equation.

Serum creatinine = 0.014 +0.422 × BTP / 1000

BTP scores over serum creatinine values in CKD stages 3, 4, and 5. BTP detects CKD (stage 3 and above) above the cut-off of 2818.5 ng/ml when compared to SCr (Figure 1).

Figure 1. Linear regression analysis between serum creatinine and BTP.
Figure 1. Linear regression analysis between serum creatinine and BTP.Fig

Discussion

Low-molecular-weight-proteins such as BTP and beta-2 microglobulin (B2M) are recently studied as new endogenous markers for GFR estimation [912]. BTP has been investigated for assessment of GFR in adult and paediatric population.

Pöge et al. developed eGFR equations from 85 adult kidney transplant recipients with mean age of 50 years and mean GFR 39 ml/min/1.73 m2. They developed two equations, which required SCr and blood urea levels in addition to BTP levels [13].

                   GFR1 = 89.85 × BTP-0.5541 × urea-0.3018

                   GFR2 = 974.31× BTP-0.2594 × serum creatinine-0.647

In another similar study, White et al. developed two GFR estimation equations from 163 adult kidney transplant recipients with mean age of 53±12 years and mean GFR of 59±23 ml/min/1.73 m2. Male population constituted 67% and whites 90% in this study cohort. They included a correction factor for females in their equation [14].

                   GFR1 = 112.1 × BTP-0.662× urea-0.280 × (0.880 if female)

                   GFR2 = 167.8 × BTP-0.758 × serum creatinine-0.204 × (0.871 if female)

Bhavsar et al. studied the role of BTP for predicting hypertensive CKD progression to ESRD in African Americans. They compared BTP levels and cystatin C with measured GFR using iothalamate clearance. 246 individuals reached ESRD and at the end of follow-up period of 102 months, it was demonstrated that BTP levels fared better in predicting ESRD when compared to other markers [15]. In a similar study by Katharina-Susanne Spanaus et al. in primary nondiabetic CKD, the investigators demonstrated that the diagnostic performance of all three biomarkers ‒ SCr, serum cystatin C, and serum BTP levels ‒ for detecting even minor degrees of deterioration of renal function was good. The study was done in 177 patients with 7 years follow-up. All 3 markers provided similar risk prediction for progression to CKD [16]. Foster et al. demonstrated that the use of multiple biomarkers improves risk prediction in individuals with moderate CKD. Serum levels of BTP and B2M might contribute in predicting additional risk information beyond conventional eGFR equations. The study was prospective cohort study, which included 3,613 adults from the Chronic Renal Insufficiency Cohort (CRIC) study. The mean age of the study cohort was 57.9 years. Females constituted 45%, diabetics 51.9% and non-Hispanic Blacks 41% of the study cohort [17].
Clinical investigations did not establish the superiority of BTP over conventional markers consistently. Natalie Ebert et al. in their study in 566 elderly (more than 70 years of age) participants concluded that BTP did not outperform serum creatinine and cystatin C levels in estimating GFR [18]. Karin Werner et al. demonstrated the superiority of GFR estimation using combined SCr and serum cystatin C levels over GFR estimation done using BTP and B2M levels. They concluded this from their validation study in 126 elderly participants aged between 72 years and 98 years with a mean measured GFR (mGFR) of 54 ml/min/1.73 m2. The mGFR was done using iohexol clearance [19].
Studies similar to those carried out in adults using BTP for GFR estimation were conducted in children by Abbinkwt al., Benlarmi et al., and Witzel et al. [2022]. It is to be noted that none of these BTP based equations have been validated in a large sample size for GFR estimation. Hence, clinicians still rely on SCr and SCr-based eGFR equations.
Measurement of BTP is done by nephelometric method or by ELISA [23]. Published studies on BTP have used mostly nephelometry-based assays. Bhavsar et al. in their study on the role of BTP for predicting hypertensive CKD progression used nephelometric assay for BTP estimation. [15] Nephelometric BTP estimation was also used by Katharina Susanne Spanaus et al. in primary nondiabetic CKD, where the investigators demonstrated that the diagnostic performance of all three biomarkers ‒ SCr, serum cystatin C, or serum BTP ‒ for detecting even minor degrees of deterioration of renal function was good [16]. The same nephelometric BTP assay was used by Lesley A. Inker and his colleagues when estimating GFR using BTP and B2M in CKD and dialysis population [24]. Natalie Ebert et al. and Karin Werner et al. used the same techniques for BTP estimation in their studies [18]. In our study, BTP levels were estimated using ELISA.
There was a significant positive correlation between BUN and SCr with BTP levels. Hebaha et al. have also reported a positive correlation among these parameters in their prospective cohort study comprising 40 Type II Diabetes mellitus patients and 10 controls [22]. Significant negative correlation between MDRD eGFR and CKD-EPI eGFR with BTP was seen in our study (Table IV).

Parameter Correlation coefficient (R-value) with BTP p-value
BUN 0.835 <0.001**
Creatinine 0.917 <0.001**
MDRD eGFR -0.913 <0.001**
CKD-EPI eGFR -0.909 <0.001**
Table IV. Correlation analysis between Beta trace protein (BTP) and BUN, Creatinine, MDRD eGFR and CKD-EPI eGFR. Spearman correlation; Correlation coefficient expressed as R-value. *Statistically significant (p<0.05) * *Statistically significant (p<0.001)

Although several studies on GFR estimation using serum BTP levels had been done in the West, no studies are available from South Asia. Even studies demonstrating the correlation between SCr and SCr-based eGFR with serum BTP levels are not yet available. This might be due to the fact that ‘normal’ values of BTP are not yet arrived and the values obtained from the studies have not been validated in a larger population to be accepted universally.
Our study has several advantages. To our knowledge, this is the first study of BTP level estimation using ELISA method in an Indian population. In our study, BTP levels correlated well with SCr levels and SCr-based eGFR formulas in CKD. We could derive a regression equation using SCr and BTP levels. Hence, serum BTP levels may be a useful and reliable biomarker for identifying the magnitude of renal dysfunction in CKD patients.
The main limitation of our study is that it is a single centre study and study population were only from Indian ethnicity. BTP levels were assayed by ELISA method only. BTP estimation using nephelometry in addition to ELISA technique would have added more value to the study.
Having demonstrated the correlation of BTP with SCr and SCr-based eGFR formulas, we recommend validating this study findings in a larger cohort. Development of an eGFR formula using BTP levels with or without SCr, cystatin C and B2M could be attempted. BTP can also be studied as a biomarker for adverse clinical outcomes including cardiovascular diseases in early stages of CKD [25]. Urinary BTP levels and its correlation with early GFR impairment in cases of acute kidney injury (AKI) and CKD could be explored in the future [26].

 

Conclusion

Serum BTP levels, estimated by ELISA correlates with SCr levels and renal function. As the renal function deteriorates in advanced stages of CKD, there is corresponding increase in serum BTP levels. A relationship between the two biomarkers, SCr and BTP was established and a regression equation was derived. BTP detects CKD (stage 3 and above) above the cut-off of 2818.5 ng/ml when compared to SCr. Serum BTP levels could be superior to SCr levels in diagnosing CKD in stages 3 to 5. Serum BTP is a potential biomarker for GFR estimation and could overcome the limitations of SCr-based eGFR equations.

 

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New Therapeutic Strategies in the Treatment of CKD Anemia: Hypoxia-Induced Factor Prolyl-Hydroxylase Inhibitors

Abstract

The link between chronic renal failure and anemia has been known for more than 180 years, negatively impacting the quality of life, cardiovascular risk, mortality, and morbidity of patients with chronic kidney disease (CKD). Traditionally, the management of anemia in CKD has been based on the use of replacement martial therapy, vitamin therapy, and the use of erythropoiesis-stimulating agents (ESAs). In recent years, alongside these consolidated therapies, new molecules known as hypoxia-induced factor prolyl-hydroxylase inhibitors (HIF-PHIs) have appeared. The mechanism of action is expressed through an increased transcriptional activity of the HIF gene with increased erythropoietin production. The drugs currently produced are roxadustat, daprodustat, vadadustat, molidustat, desidustat, and enarodustat; among these only roxadustat is currently approved and usable in Italy. The possibility of oral intake, pleiotropic activity on martial and lipidic metabolism, and the non-inferiority compared to erythropoietins make these drugs a valid alternative to the treatment of anemia associated with chronic kidney disease in the nephrologist practice.

Keywords: CKD, Anemia, Erythropoietin, HIF, Roxadustat

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Introduzione

Il link che intercorre tra malattia renale cronica (MRC) e anemia è ormai noto da più di 180 anni [1]. La Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO) definisce l’anemia come la presenza di valori di emoglobina sierica (Hb) < 13,0 g/dl per gli uomini e < 12,0 g/dl per le donne non in stato di gravidanza.

Ad oggi è ormai consolidato come al progredire della malattia renale incrementi anche la prevalenza di anemia, condizione che impatta negativamente sulla qualità di vita, sul rischio cardiovascolare, sulla mortalità e sulla morbidità di pazienti già con rischio aumentato per tutte queste condizioni [24].

L’anemia associata a malattia renale cronica è determinata da differenti meccanismi patogenetici. Oltre alla diminuita capacità del rene di produrre l’eritropoietina (EPO), si è visto come l’attività delle tossine uremiche sia capace di inibire i meccanismi deputati all’eritropoiesi e diminuire la sopravvivenza degli eritrociti. Accanto a questi meccanismi si aggiungono le alterazioni del metabolismo marziale, dove l’eccesso di epcidina risulta il principale attore impattando negativamente sull’assorbimento dietetico del ferro e sulla mobilizzazione dei suoi depositi corporei [5].

Tradizionalmente la gestione dell’anemia in corso di MRC si è basata sull’uso di terapia marziale di rimpiazzo e sull’uso di agenti stimolanti l’eritropoiesi (erythropoiesis-stimulating agents, ESAs) [68]. È proprio da questi ultimi agenti che, a partire dagli anni ’80, i pazienti hanno avuto il maggior beneficio tramite una riduzione dei sintomi relativi all’astenia e la liberazione dalla dipendenza di emotrasfusioni e delle correlate complicanze, tra cui sovraccarico marziale, infezioni e sensibilizzazioni che potenzialmente inficiavano le possibilità di trapianto. Secondo le principali linee guida, in pazienti con MRC, la presenza di valori di emoglobina compresi tra 9-10 g/dl necessita di correzione mediante la somministrazione di eritropoietine, fino al raggiungimento i valori compresi tra 11-12 g/dl, con una personalizzazione della terapia a seconda dei casi [2].

Se da un lato i benefici derivanti da tali terapie sono molteplici, bisogna considerare la presenza di effetti avversi. I pazienti sottoposti a terapia con ESAs presentano un aumentato rischio di ipertensione, convulsioni e coagulazione dell’accesso vascolare per emodialisi [9, 10]. Inoltre, gli ESAs non si sono dimostrati efficaci nel ridurre gli aventi avversi correlati all’anemia (mortalità, eventi cardiovascolari non fatali, ipertrofia ventricolare sinistra e progressione della malattia renale) in studi prospettici controllati e randomizzati [1113].
Recenti studi in pazienti affetti da CKD in emodialisi e pre-dialisi dimostrano un aumento del rischio di morte, di eventi avversi cardiovascolari ed ictus [14, 15]. Infine, questi agenti sono stati associati a progressione di malattie maligne e a morte in pazienti affetti da neoplasia [16].

La terapia marziale si colloca accanto alla terapia con ESAs nel trattamento dell’anemia secondaria a CKD. Il ferro è fondamentale non solo per implementare i depositi, ma anche per rendere più efficace l’azione degli ESAs [17, 18].

La progressiva riduzione di efficacia degli ESAs parallelamente alle preoccupazioni relative ai potenziali eventi avversi di questi farmaci, hanno progressivamente portato allo sviluppo di nuovi farmaci che presentassero una migliore sicurezza generale e cardiovascolare, superando l’iporeattività degli ESAs associata all’infiammazione.

Tra i nuovi approcci terapeutici compaiono gli inibitori del dominio prolil idrossilasi del fattore inducibile da ipossia (HIF-PHIs).

 

Meccanismo molecolare e farmacodinamica

I fattori indotti dall’ipossia (Hypoxia-inducible factors ‒ HIFs) sono dei fattori di trascrizione regolati dalla quantità di ossigeno presente nell’ambiente cellulare. Il fattore HIF fu originariamente identificato nel 1991 da Semenza e collaboratori [19].

HIF è costituito da una subunità α sensibile all’ossigeno e da una subunità β, formando una struttura etero dimerica [20].

In condizioni di normo ossigenazione cellulare, la subunità α di HIF viene idrossilata da una prolil-idrossilasi (PHD) con conseguente ubiquitinazione da parte della E3 ubiquitina ligasi (processo facilitato dal legame con la proteina di Von Hippel-lindau (VHL)) e successiva degradazione proteasomica. In condizioni di ipossiemia, invece, l’attività di PHD è ridotta e ciò consente la sopravvivenza e la traslocazione nucleare di HIF α dopo la sua dimerizzazione con la subunità β [21] determinando l’attivazione trascrizionale genetica.

Sono stati identificati tre distinti sottotipi di HIF-α: HIF-1α, HIF-2α e HIF-3α. HIF-1α è espresso in quasi tutte le cellule e la sua attività nucleare determina la trascrizione di numerosi geni coinvolti nel metabolismo energetico, glucidico e marziale, nell’angiogenesi e nell’infiammazione [22]. HIF-2α è principalmente espresso da cellule simil-fibroblastiche presenti nell’interstizio renale e dalle cellule endoteliali, anche se studi successivi hanno dimostrato la sua espressione negli epatociti, cardiomiociti, pneumociti e cellule gliali [23, 24]. Esso è principalmente coinvolto nella regolazione della produzione di eritropoietina (EPO) e nel trasporto marziale [25]. La funzione del sottotipo HIF-3α non è nota, ma si pensa possa essere coinvolta nella regolazione dell’espressione genica degli altri due sottotipi [23].

Mentre il rene rappresenta la principale fonte fisiologica di produzione di EPO nell’età adulta, il fegato risulta essere il sito principale di sintesi durante lo sviluppo embrionale. In ogni caso, nell’adulto, il fegato mantiene la sua capacità di sintesi in risposta ad una moderata o severa ipossia o in caso di attivazione farmacologica del fattore HIF [26]. Infatti, similmente al rene, il fegato risponde in presenza di ipossia severa incrementando il numero di epatociti EPO secernenti localizzati attorno alle vene centrali [27]. Va inoltre considerato come l’espressione di mRNA per EPO è stata riscontrata anche nelle cellule cerebrali, polmonari, cardiache, nel midollo emopoietico, nella milza e nel tratto riproduttivo [28].

Da quanto suddetto, la capacità dei farmaci che vengono qua descritti di determinare una correzione dei valori di emoglobina nel paziente con malattia renale cronica è legata all’inibizione delle prolil-idrossilasi (PHD) che, non potendo determinare l’ubiquitinazione e conseguentemente la degradazione del fattore HIF, fa sì che quest’ultimo possa traslocare nel nucleo ed avviare i processi trascrizionali descritti (Figura 1).

Figura 1. In questa figura è rappresentata la regolazione del fattore HIF in condizioni di normossia e ipossia, modulata dall’azione dei farmaci inibitori la prolil idrossilasi (PH) coinvolta nella degradazione proteasomica del fattore nucleare di trascrizione HIF.
Figura 1. In questa figura è rappresentata la regolazione del fattore HIF in condizioni di normossia e ipossia, modulata dall’azione dei farmaci inibitori la prolil idrossilasi (PH) coinvolta nella degradazione proteasomica del fattore nucleare di trascrizione HIF.

In tal modo si genera un’incrementata produzione di EPO che a livello midollare determinerà lo stimolo all’eritropoiesi. Dagli studi effettuati, l’attività di tali farmaci, però, non si limita solo all’incremento dell’EPO. L’azione sul fegato garantisce anche una soppressione dell’epcidina, un’aumentata espressione di ceruloplasmina, transferrina e recettori della transferrina, con incremento dell’assorbimento e biodisponibilità del ferro [2932], effetto sinergico con l’incremento dell’EPO nel correggere l’anemia in pazienti con MRC che, com’è noto, presentano uno stato infiammatorio cronico con carenza marziale cronica e frequente resistenza alla terapia con EPO [33].

Allo stato attuale sono disponibili diverse molecole inibitrici della prolil-idrossilasi del fattore ipossia indotto per il trattamento dell’anemia nel paziente con MRC dipendente o non dipendente da emodialisi. Tra queste si annoverano: roxadustat, daprodustat, vadadustat, molidustat, desidustat ed enarodustat. Il roxadustat ha ricevuto l’approvazione dalla EMA e dall’AIFA nel 2021, mentre l’FDA ha approvato il daprodustat nei primi giorni del febbraio 2023.

 

Farmacocinetica

Questi farmaci vengono assunti per via orale, il loro assorbimento è indipendente dalla presenza di cibo, ma può essere limitato dalla presenza di chelanti a scambio ionico. Dopo l’assorbimento subiscono un metabolismo di primo passaggio a livello epatico ad opera del citocromo P-450 e della uridina difosfato grucoronil transferasi. Il metabolita attivo circola nel plasma legato per il 99% a proteine plasmatiche per cui la sua biodisponibilità non è influenzata dal trattamento emodialitico.

L’eliminazione avviene con urine e feci in massima parte come metaboliti, in minima parte come farmaco non modificato [34].

 

Effetti collaterali

Al pari degli ESAs, anche gli HIF-PHIs possono presentare potenziali eventi avversi dipendenti da dose e farmacocinetica.

Poiché i fattori responsabili della produzione di eritropoietina sono altamente sensibili all’ipossia rispetto ad altri bersagli HIF (quali ad esempio il VEGF) [35], gli HIF-PHIs sono in grado di ottenere effetti pro-eritropoietici a dosi che non elicitano un più ampio spettro di risposte di HIF nei pazienti con CKD, compresa la stimolazione di pathway VEGF-dipendenti [36].

Gli eventi avversi gravi (SAE), riportati negli studi di fase 3, non sono stati considerati correlati al farmaco e rientravano nell’intervallo delle frequenze attese di SAE nei pazienti con CKD.

Tuttavia, le informazioni sulla prescrizione della Japanese Pharmaceutical and Medical Devices Agency includono un avviso di sicurezza relativo al rischio potenziale di tromboembolia, infarto cerebrale e miocardico, embolia polmonare e trombosi venosa profonda e degli accessi vascolari con HIF-PHIs [37]. Una maggiore incidenza di eventi tromboembolici (11,3% vs. 3,9%) è stata riportato con roxadustat rispetto a darbepoetina alfa nell’analisi di sicurezza degli studi aggregati di fase 3 nei pazienti in emodialisi [37].

I dati preliminari di 3 studi con roxadustat in pazienti dializzati non hanno riportato alcun aumento del rischio di mortalità per tutte le cause e per roxadustat rispetto a epoetina alfa, mentre il rischio insufficienza cardiaca o angina instabile, che richiede ospedalizzazione, è stato significativamente ridotto per roxadustat vs epoietin alfa [38]. Questo potrebbe essere dovuto ai potenziali effetti pleiotropici da parte di HIF-PHIs quali roxadustat e daprodustat che si sono dimostrati in grado di ridurre i livelli sierici di colesterolo totale, LDL e trigliceridi [3941]. L’effetto ipolipemizzante potrebbe essere spiegato dall’aumento dell’assorbimento HIF-dipendente delle lipoproteine e dalla riduzione della sintesi del colesterolo attraverso una maggiore degradazione della 3-idrossi-3-metil-glutaril-CoA reduttasi [42, 43].

L’iperkaliemia è un evento avverso segnalato frequentemente con roxadustat negli studi cinesi di fase 3 sia nei pazienti con CKD non dipendenti da dialisi (NDD-CKD) che in quelli in trattamento emodialitico (DD-CKD) [4447] e in studi di fase 2 in pazienti trattati con altri HIF-PHIs [48, 49]. Un ulteriore evento avverso segnalato in pazienti in terapia con roxadustat non in dialisi è l’acidosi metabolica, sebbene i meccanismi alla base non siano chiari, riportata nel 12% dei casi [45]. Vi sono poi da prendere in considerazione potenziali eventi avversi correlati agli effetti pro-angiogenici degli HIF-PHIs. In particolare, in pazienti con retinopatia vascolare [48], non vi è stato alcun aumento nell’incidenza di emorragia retinica, edema maculare o cambiamenti nella pressione intraoculare o nell’acuità visiva negli studi clinici con roxadustat o daprodustat [49, 50].

Poiché l’attivazione dell’HIF è evidente in molti tumori (soprattutto quando, in crescita, sperimentano l’ipossia e cooptano la via dell’HIF per l’adattamento metabolico e l’angiogenesi) sono state avanzate preoccupazioni relative alle capacità di questi prodotti di promuovere la crescita tumorale o facilitare le metastasi [51].  Tuttavia, ad oggi, gli studi sugli animali non hanno mostrato alcuna evidenza che l’esposizione prolungata agli HIF-PHI sia pro-oncogenica [52, 53]. A tal proposito sono necessarie osservazioni a lungo termine nell’uomo ed attualmente non ne è raccomandato l’uso in pazienti con storia di neoplasia a causa dell’esclusione negli studi effettuati di pazienti con neoplasie maligne attive o in anamnesi più recente di 2-5 anni.

Altre preoccupazioni includono il potenziale rischio di ipertensione arteriosa polmonare (poiché l’attivazione di HIF aumenta il tono vascolare nelle arterie polmonari [54, 55], eventi tromboembolici che sono stati osservati in pazienti con policitemia di Chuvash [5658], promozione della crescita delle cisti renali [56], eventi avversi sul metabolismo del glucosio e del fegato [59] e gli eventi avversi sulle calcificazioni vascolari e sui livelli dell’FGF23 [60, 61].

 

Trial e risultati

Roxadustat

Molteplici sono gli studi che hanno valutato l’efficacia ed il profilo di roxadustat sia in pazienti con malattia renale cronica non dipendenti da dialisi (NDD-CKD) che in pazienti dialisi-dipendenti o incipienti (DD- CKD, ID-CKD), ESA naive o già in trattamento con ESAs.

Nel 2019 Chen N. e collaboratori hanno pubblicato I risultati di due trial clinici condotti in Cina. In uno si valutava l’efficacia in 154 pazienti con MRC non in trattamento dialitico, randomizzati 2:1 a ricevere il farmaco o placebo. Nel gruppo trattamento si osservava un incremento di emoglobina di 1,9 g/dl a differenza del gruppo placebo in cui si osservava una riduzione di 0,4 g/dl. Inoltre, nel gruppo trattato si riducevano significativamente anche i livelli di epcidina e colesterolo [62]. Nel secondo trial invece gli autori hanno avviato terapia con roxadustat in pazienti in trattamento dialitico che da sei mesi effettuavano terapia con epoietina alfa e li hanno confrontati con un gruppo di pazienti che proseguivano terapia con EPO. In questo studio si evidenziava la non inferiorità del roxadustat rispetto all’epoietina alfa nel mantenere valori di emoglobina a target. Paragonato ad epoetina alfa, roxadustat determinava un incremento del valore di transferrina, una stabilità della sideremia ed un minor calo della saturazione della transferrina. In ultimo la riduzione del colesterolo e dell’epcidina era maggiore nel gruppo trattato con roxadustat [63].

Una pooled analysis su studi che hanno coinvolto pazienti in trattamento emodialitico in terapia con ESA randomizzati a proseguire EPO o assumere roxadustat (ROCKIES, PYRENEES, SIERRAS, HIMALAYAS) ha mostrato come roxadustat non sia inferiore all’eritropoietina nel correggere e mantenere i valori di emoglobina con profilo di sicurezza cardiovascolare simile [64].

Una pooled analysis riguardante gli studi ALPS, ANDES, OLYMPUS, in pazienti con MRC, non in trattamento emodialitico, randomizzati a ricevere roxadustat o placebo, ha evidenziato come il primo sia più efficace del placebo nell’incrementare i valori di emoglobina, con minore frequenza di trasfusioni e con stesso profilo di sicurezza o eventi avversi [65].

Nel 2021 Barratt J. e collaboratori hanno confrontato roxadustat con darbepoietina alfa in uno studio di non inferiorità che ha coinvolto 616 pazienti con MRC non in dialisi (DOLOMITES trial) [66]. I risultati mostravano come roxadustat avesse la stessa capacità della darbepoietina nel mantenere stabile i valori di emoglobina per 104 settimane. Nel 2022 Fishbane e collaboratori in un trial su 2133 pazienti in trattamento dialitico riscontravano una capacità di roxadustat di incrementare i valori di emoglobina con stessa incidenza di eventi avversi quando paragonato ad epoietina alfa (ROCKIES study) [67].

Daprodustat

Anche per questo farmaco vari sono i trial in letteratura che hanno analizzato, in confronto con le molecole di eritropoietina più comunemente usate nella pratica clinica, la capacità di controllare nel tempo i valori di emoglobina e gli eventi avversi correlati.

Sono stati disegnati ed effettuati due trial clinici i cui risultati sono stati pubblicati nel 2021 (ASCEND-D ed ASCEND-ND trial) che si sono rivolti a pazienti in trattamento dialitico e non in trattamento dialitico (MRC G3-G5) rispettivamente.

Nel primo trial venivano randomizzati 2964 pazienti in trattamento dialitico sostitutivo a ricevere daprodustat o ESAs (epoietina alfa in pazienti in trattamento emodialitico, darbepoietina alfa in pazienti in trattamento peritoneo dialitico) per 52 settimane. I valori medi di emoglobina, la somministrazione di ferro endovenoso, gli effetti sulla pressione arteriosa e gli eventi avversi, non differivano nei due gruppi di trattamento [68].

Nel trial ASCEND-ND, che ha arruolato quasi 4000 partecipanti, sono stati randomizzati pazienti con MRC non in trattamento emodialitico e in terapia con eritropoietine, a ricevere daprodustat o darbepoietina alfa. I risultati derivanti dall’indagine garantivano il mantenimento dei valori di emoglobina in entrambi i gruppi con stessi eventi avversi [69].

Nel 2022 è stata pubblicata una metanalisi coinvolgente 8 dei principali trial clinici indaganti daprodustat e 8245 pazienti. I risultati mostrano che, in comparazione con ESAs, daprodustat mantiene la stessa efficacia nell’incrementare i valori di emoglobina, riduce in misura maggiore i livelli di epcidina e gli eventi cardiovascolari maggiori [70].

Vadadustat

I due trial clinici principali che hanno valutato vadadustat come farmaco in grado di mantenere adeguati valori di emoglobina sono stati PRO2TECT e INNO2VATE, rivolti rispettivamente a pazienti con malattia renale cronica in trattamento conservativo ed emodialitico.

Il PRO2TECT ha comparato vadadustat con darbepoetina alfa in pazienti con MRC non in dialisi in due gruppi diversi: quelli con valori di emoglobina inferiori a 10 g/dl, non in terapia con EPO, e quelli con valori di emoglobina compresi tra 8 g/dl e 11 g /dl, in terapia con EPO.

In questi due gruppi i rispettivi 1751 e 1725 pazienti sono stati randomizzati a ricevere vadadustat o darbepoetina alfa. Dopo 52 settimane di follow-up i risultati ottenuti mostravano come vadadustat, comparato a darbepoietina alfa, raggiungeva il pre-specificato criterio di non inferiorità per l’efficacia sull’incremento dell’emoglobina, ma non su quello della sicurezza cardiovascolare, mostrando cioè un numero maggiore di eventi cardiovascolari nel gruppo di trattati con vadadustat [71].

Il trial INNO2VATE è stato eseguito su 3923 pazienti con MRC dipendenti da dialisi, randomizzati a ricevere vadadustat o darbepoetina alfa. In entrambi i gruppi sono stati valutati oltre all’efficacia di controllare i valori di emoglobina, anche gli eventi avversi cardiovascolari. Gli autori concludevano che il vadadustat non risultava essere inferiore alla darbepoietina alfa nel correggere e mantenere la concentrazione emoglobinica, con stesso profilo di sicurezza cardiovascolare [72].

Nel 2022 sono stati pubblicati i risultati di una metanalisi che ha incluso 4 trial randomizzati riguardanti la comparazione tra vadadustat e placebo e 6 trial randomizzati di confronto con eritropoietine per un totale di 8438 partecipanti. In questo lavoro si evidenziava come vadadustat rispetto ai gruppi placebo determinava un incremento dell’emoglobina, comparato con placebo e darbepoietina alfa determinava una riduzione dell’epcidina e della ferritina con aumentata capacità ferro legante. L’uso del vadadustat era invece correlato ad un maggior tasso di effetti avversi lievi-moderati come diarrea e nausea, ma non incrementava il rischio di eventi cardiovascolari maggiori e mortalità per tutte le cause [73].

Molidustat

Questo farmaco è stato testato come gli altri appartenenti alla classe in pazienti con MRC avanzata sia in trattamento dialitico che conservativo, sia in pazienti già in trattamento con eritropoietine, che naïve.

Il trial DIALOGUE comprendeva delle sottosezioni in cui molidustat veniva confrontato con placebo (in pazienti naïve per ESAs), oppure dopo sospensione della precedente terapia con epoietina alfa o darbepoietina alfa (DIALOGUE 1, 2, 4 rispettivamente) [74].

Il MIYABI program ha comparato l’efficacia del molidustat rispetto alla darbepoietina alfa in pazienti in trattamento emodialitico e già in terapia con EPO con un follow-up di 52 settimane [75].

In questi trial si dimostrava la non inferiorità di molidustat rispetto alla terapia standard eritropoietinica, la capacità di correggere l’anemia in pazienti naïve, con profili di tossicità non dissimili.

Desidustat

I due trial principali di investigazione sono stati il DRAEM-D [76] in pazienti con MRC in trattamento emodialitico ed il DREAM-ND [77], in pazienti MRC non in dialisi. Nel primo, sia pazienti in trattamento con EPO che naïve con livelli di emoglobina tra 8 ed 11 g/dl venivano randomizzati a ricevere desidustat o epoietina alfa. Nel secondo invece, pazienti con MRC in trattamento conservativo, con valori di emoglobina tra 7 e 10 g/dl, venivano randomizzati a ricevere desidustat o darbepoietina alfa.

In entrambi i trial si osservava una non inferiorità del desidustat rispetto alla terapia con EPO nel mantenere costanti i valori di emoglobina durante il follow-up, con un maggior tasso di responder nei gruppi desidustat. Nel secondo trial, inoltre si osservavano valori significativamente più bassi di epcidina e LDL nei pazienti trattati con desidustat.

Enarodustat

I trial SYMPHONY-ND [30] e SYMPHONY-HD [78] hanno valutato l’efficacia e la tollerabilità di enarodustat in due corti di popolazioni giapponesi rispettivamente in MRC conservativa ed in trattamento emodialitico.

Il SYMPHONY-ND ha randomizzato una popolazione di pazienti naïve per ESAs 1:1 ad assumere enarodustat o darbepoietina alfa con follow-up di 24 settimane. Il SYMPHONY-HD condotto su pazienti in emodialisi periodica ha randomizzato 1:1 a ricevere enarodustat o darbepoietina alfa, con follow-up di 24 settimane. In entrambi gli studi si dimostrava la non inferiorità di enarodustat a correggere e mantenere i livelli di emoglobina quando confrontato a darbepoietina alfa, con un profilo di tossicità non differente, con l’aggiunta capacità di migliorare l’assetto marziale [79, 80].

 

Roxadustat: attuali linee guida in Italia

Attualmente, in Italia, l’unica molecola disponibile è il roxadustat. In commercio sono presenti compresse da 20, 50, 70, 100 e 150 mg. La somministrazione deve essere fatta tre volte a settimana, in giorni non consecutivi, indipendentemente dall’assunzione di cibo. Per i pazienti che non assumono eritropoietine, la dose iniziale è di 70 mg 3 volte a settimana per pazienti con peso inferiore ai 100 kg, 100 mg per pazienti con peso maggiore di 100 kg. La dose può essere incrementata fino a 400 mg 3 volte a settimana (in pazienti in trattamento emodialitico) o 300 mg 3 volte a settimana (in pazienti non in dialisi), con controllo dell’emocromo ogni 2 settimane fino al raggiungimento dei valori target e successivamente ogni 4 settimane.

Nei pazienti in trattamento con eritropoietine è disponibile una tabella (Tabella 1) di conversione che permette di evitare un periodo di wash out per la terapia eritropoietinica, facendo assumere la prima compressa di roxadustat al posto della successiva dose di eritropoietina. Per i pazienti in trattamento emodialitico non è necessario un aggiustamento della dose del farmaco [81].

In attesa di nuove evidenze, come avviene per la ormai consolidata terapia con eritropoietine, per valori di emoglobina al di sotto di 9 g/dl si dovrebbe avviare terapia con HIF-PHIs, con raggiungimento di valori di mantenimento tra 11-12 g/dl.

È da considerare inoltre che, in caso di compromissione epatica è consigliato di dimezzare la dose in caso di compromissione moderata (Child Pugh-B) e di evitare la somministrazione in caso di compromissione severa (Child Pugh-C).

Dose di darbepoietina alfa endovenosa o sottocutanea (microgrammi/settimana) Dose di epoietina endovenosa o sottocutanea (UI/settimana) Dose di metossipoietilenglicole-epoietina beta endovenosa o sottocutanea (microgrammi/mese) Dose di roxadustat (milligrammi tre volte a settimana)
Meno di 25 Meno di 5000 Meno di 80 70
Da 25 a meno di 40 Da 5000 fino ad 8000 Da 80 fino a 120 inclusi 100
Da 40 fino ad 80 inclusi Da più di 8000 fino a 16000 incluse Da più di 120 fino a 200 inclusi 150
Più di 80 Più di 16000 Più di 200 200
In questa tabella sono riportati i dosaggi e lo schema terapeutico nel passaggio da ESA a roxadustat
Tabella 1. Dosi iniziali di roxadustat da assumere tre volte alla settimana nei pazienti che passano da un ESA a roxadustat.

Dagli studi effettuati si è visto come alcuni chelanti del fosforo quali acetato di calcio e sevelamer carbonato riducono la biodisponibilità della molecola, per tanto roxadustat deve essere assunto almeno un’ora dopo l’assunzione di tali chelanti. Per il lantanio carbonato invece non si sono osservate interazioni significative. Inoltre, roxadustat può determinare un incremento delle concentrazioni sieriche delle statine per cui, in caso di co-somministrazione è necessario valutare la possibilità di ridurre il dosaggio della stessa.

 

Conclusioni

Questa nuova classe di farmaci, utili al trattamento dell’anemia correlata a malattia renale cronica, dai numerosi studi eseguiti si è dimostrata non inferiore rispetto alla terapia standard con eritropoietine nel correggere e mantenere i valori di emoglobina in pazienti con malattia renale cronica, e potrebbe garantire, nel prossimo futuro, un’alternativa terapeutica. Un punto di forza di queste nuove molecole è rappresentato dagli effetti pleiotropici sul metabolismo lipidico e marziale. Com’è noto i pazienti con malattia renale cronica, a causa di uno stato infiammatorio cronico possono presentare alterazioni del normale metabolismo marziale con difficoltà al trattamento dell’anemia con l’eritropoietina. I farmaci HIF-PHIs grazie alla modulazione genica, determinando una soppressione dell’epcidina, un’aumentata espressione di ceruloplasmina, transferrina e recettori della transferrina, facilitano l’assorbimento e la biodisponibilità del ferro. Tale meccanismo potrebbe rendere tali molecole una valida opzione terapeutica alle anemie difficili da trattare a causa della flogosi [82, 83].

Altro vantaggio nell’utilizzo di queste nuove molecole risulta legato alla possibilità di una produzione più “fisiologica” dell’EPO endogena se confrontata ad una possibile disponibilità “sovrafisiologica” di eritropoietina ricombinante esogena necessaria per correggere l’anemia. Questo determinerebbe un minore feed-back negativo endocrino sugli organi eritropoietici con minori effetti collaterali, in particolar modo cardio-vascolari, rispetto alla classica terapia con eritropoietina che, in alcuni casi, per fenomeni di resistenza, necessita incrementi del dosaggio, esponendo il paziente a un maggior rischio di eventi avversi con valori di emoglobina a target [84, 85].

Presentando un buon profilo di sicurezza e limitati effetti avversi, con l’utilizzo su larga scala si potrà in futuro confermare queste iniziali evidenze, ma senza dubbio, questi farmaci andranno ad arricchire l’armamentario farmacologico del nefrologo.

 

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Methods for calculating the number of nephrons from ultrasound scans and kidney biopsies for nephrologists’ use

Abstract

The interest in determining the number of nephrons in the kidney dates back to the 1960s, when an influential laboratory method for determining ex vivo the number of nephrons in the kidneys was described by Bricker. Over the years, various methods have been developed to estimate the number of nephrons in living beings as accurately as possible. These modern methods combine data such as the glomerular density, the percentage of glomeruli in sclerosis calculated from biopsy samples, and the kidney volume, which can be precisely estimated from magnetic resonance, CT scan, or specific ultrasound methods. As the reduction in the number of functioning nephrons is closely connected with an increased risk of progression of renal disease (especially in patients with nephrotic syndrome) and hypertension, its introduction into clinical practice could allow a precise stratification of progression risk in patients with kidney disease and a better understanding of the mechanisms that contribute to the loss of functioning nephrons.

Keywords: nephrons number, kidney biopsy, CKD

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Introduzione

L’interesse nella determinazione del numero di nefroni del rene risale agli anni ’60, quando Damadian, Shawayri e Bricker misero a punto il primo metodo di laboratorio per la determinazione del numero di nefroni nei reni [1]. L’unità funzionale del rene, il nefrone, varia in numerosità fra varie specie, con caratteristiche che sono determinate da un adeguato sviluppo fetale [2]. Nell’uomo il numero complessivo di nefroni varia a seconda della stima: da 850.000 nefroni [3] a 1.429.000 [4], con variazioni in base all’etnia [5]. L’effetto del genere (maschile/femminile) sul numero di nefroni è meno evidente: in alcuni modelli murini (topi B6) le femmine hanno più nefroni dei maschi, mentre in altri ceppi (C3H) non vi sono differenze fra i due sessi [6]. Inoltre, variazioni nel numero di nefroni sono state associate a diverse condizioni cliniche come l’ipertensione: gli adulti ipertesi hanno infatti una media di 702.000 nefroni, inferiore a quella di soggetti normotesi con una media di 1.429.000 [4].

In corso di malattia renale cronica si verifica una perdita della funzione renale dovuta al danno di singoli nefroni e una ipertrofia ed iperfiltrazione dei nefroni residui. Quest’ultimo fenomeno può causare danno ai nefroni superstiti. Un possibile meccanismo dovuto all’iperfiltrazione consiste in un maggior fabbisogno energetico dei nefroni superstiti, una inadeguatezza dell’apporto vascolare con ipossia, ischemia, acidosi [7] (Figura 1).

malattia renale cronica
Figura 1: Nella malattia renale cronica, l’insufficienza continua dei singoli nefroni porta alla progressiva perdita della funzione renale. Questo processo risulta in parte da una risposta cellulare e molecolare alla lesione che rappresenta un tentativo di mantenere l’omeostasi ma avvia invece un programma che danneggia il nefrone. Man mano che i nefroni vengono persi, la compensazione da parte dei nefroni rimanenti esacerba la fisiopatologia glomerulare. Il fabbisogno energetico dei nefroni iperfunzionanti supera il substrato metabolico a disposizione del tubulo renale e l’inadeguatezza dell’apporto vascolare locale promuove l’ipossia/ischemia e la conseguente acidosi. In questo modo, i meccanismi attivati per mantenere l’equilibrio biologico portano alla fine alla scomparsa del nefrone.

Conoscere il numero di nefroni di un soggetto è rilevante alla luce della correlazione tra basso numero di nefroni alla nascita e un aumentato rischio di malattia renale cronica e ipertensione [7, 8], aggravato da uno stile di vita sedentario [9]. Inoltre, l’obesità, insieme ad altre condizioni alla base di lesioni renali acute o croniche, provoca una riduzione del numero di nefroni funzionanti e di conseguenza progressione della malattia renale [10]. Anche il diabete determina un deterioramento progressivo della massa nefronica [11].

Con l’età il numero di nefroni diminuisce e questo è uno dei meccanismi che determina la diminuzione della funzione renale età-dipendente [12]. Sulla base di una serie di autopsie, il tasso di perdita di nefroni per rene è stato stimato a circa 6.800 nefroni per rene all’anno [13]. Da un ulteriore studio effettuato su donatori viventi di rene, il tasso di perdita di nefroni risulta essere di circa 6.200 nefroni per rene all’anno con una velocità di perdita che aumenta con l’età [14].

Numerose condizioni, oltre all’obesità, portano ad un ridotto numero di nefroni. Forme congenite di basso numero di nefroni sono causate da basso peso alla nascita, sesso femminile (anche se, come discusso, questo dato non è replicato in modelli animali), bassa statura da adulti, reni ipoplasici, nascita pretermine, ridotta crescita intrauterina [15, 16]. Tutte le forme di malattia renale cronica (inclusa quella diabetica) si associano a una perdita di nefroni. Altri aspetti, invece, come l’ipertensione hanno una relazione causa-effetto meno chiara, poiché se l’ipertensione causa danno glomerulare, è anche noto che un ridotto numero di nefroni può causare ipertensione.

Numerosi sono stati i progressi, fino ad oggi, sulla determinazione del numero di nefroni. La micro-TAC con mezzo di contrasto permette, ad esempio, di visualizzare i singoli glomeruli (e quindi contare i nefroni) [17]. Tuttavia, è possibile avere un’adeguata stima del numero di nefroni conoscendo la densità di glomeruli da biopsie renali e il volume della corticale renale. Questa ultima è conoscibile tramite risonanza magnetica [18], ecografia e tomografia computerizzata [19].

Con la risonanza magnetica, il volume renale viene calcolato misurando i tre assi del rene, la cui forma viene approssimata a quella di un ellissoide; per impostazione predefinita vengono misurati i diametri longitudinale e trasversale del rene, e il volume renale è calcolato applicando la formula di approssimazione: volume = lunghezza × larghezza × profondità media × 0,5 [18]. Per quanto riguarda le tecniche ecografiche di calcolo del volume renale, una delle formule utilizzate è l’equazione dell’ellissoide (lunghezza × larghezza × spessore × π/6) e un’equazione aggiustata (lunghezza × larghezza × spessore × 0,674). Tale calcolo è stato validato dal confronto con tecniche di misurazione del volume renale che si servono della tomografia assiale computerizzata (TC) tramite il conteggio dei voxel, che è considerato il criterio standard [19].

Partendo dal volume renale che quindi può essere calcolato anche semplicemente tramite l’ecografia renale, si può facilmente ricavare il numero di nefroni, integrando i dati acquisiti con parametri bioptici quali la densità glomerulare e la percentuale di glomeruli sclerotici [20]. Il nostro scopo, infatti, è quello di chiarire l’importanza della determinazione di questo parametro e di proporne l’introduzione nella pratica clinica con il fine di avere un determinante in più, oltre al filtrato renale (eGFR) e ai marcatori di danno renale (proteinuria), per una più precisa stratificazione del rischio di pazienti affetti da malattia renale.

 

Storia del calcolo del numero di nefroni

Uno dei più antichi metodi per la conta dei nefroni fu messo a punto nel 1965 da Damadian, Shawayri e Bricker tramite un esperimento condotto su cani, allo scopo di quantificare i nefroni con glomeruli perfusi che non contribuiscono con il loro filtrato all’urina finale. Questi sfruttarono una tecnica a doppio marcatore per il rilevamento simultaneo in vivo della perfusione glomerulare e della filtrazione glomerulare. Come marcatore di perfusione è stato utilizzato l’inchiostro di china mentre l’emoglobina è stata usata come marcatore di filtrazione. I risultati con il metodo dell’inchiostro di china in vivo su reni normali sono stati confrontati strettamente con i valori ottenuti nei reni controlaterali con la tecnica standard di perfusione di ferrocianuro in vitro [1]. Nel 1972, Jean-Piere Bonvalet, Monique Champion, Frida Wanstok e Gu Berjal ripresero il metodo di Damadian: ratti sottoposti a un dosaggio letale di anestetico venivano nefrectomizzati, i reni venivano privati della capsula e successivamente macerati in una soluzione di acido cloridrico (HCl) al 50% a 37˚ C per 105 minuti, poi mantenuti in 250 ml di acqua distillata a 4˚ C per un giorno, prima di effettuare la conta. Il giorno seguente, ogni rene veniva posto in una fiala che veniva leggermente agitata a mano per ottenere una sospensione omogenea di glomeruli e frammenti di vasi e tubuli. Aliquote da 1 ml della sospensione venivano poi riposte in celle di plexiglas, e infine i glomeruli venivano contati con un microscopio a un ingrandimento di 40x.

Tale metodo è stato utilizzato con lo scopo di valutare se l’aumento del numero di nefroni fosse responsabile dell’ipertrofia compensatoria che si verificava in ratti nefrectomizzati. I risultati mostrano che l’aumento del numero di nefroni si verificava solo nei ratti nefrectomizzati nei primi 50 giorni di vita, suggerendo che la nefrogenesi sia conservata nei ratti più giovani ma non risulta più presente nei topi di maggiore età [21].

Il metodo di Damadian [1] per la conta del numero di nefroni è stato rivisitato con un protocollo sperimentale proposto da un gruppo dell’Università del Mississippi [22]. Entrambi i metodi si basano sulla tecnica di macerazione in acidi del tessuto renale. In breve, il rene viene sminuzzato e degradato mediante una soluzione di acido cloridrico. Questo porterà all’isolamento dei glomeruli che possono così essere diluiti in un volume noto, contati in un microscopio capovolto, così da poterne stimare infine il numero totale [22].

Con gli anni sono stati elaborati vari metodi per stimare nel modo più preciso possibile il numero di nefroni anche nei viventi [20]. Tali metodi moderni si servono di dati quali la densità glomerulare e la percentuale di glomeruli in sclerosi, calcolate da campioni bioptici [23], e del volume renale che può essere stimato a partire dalla risonanza magnetica con la formula dell’ellissoide che si serve delle misure dei tre assi dell’organo. Si tratta solo di una delle metodiche effettuate per calcolare il volume renale e tale formula, anche se molto utilizzata, tende a sottostimare sistematicamente il volume renale [18]. Un’altra formula che si usa per calcolare il volume renale partendo da risonanza magnetica è l’ellissoide KV-3, messa a punto da Higashihara nel 2015 con l’intento di avere una precisa stima del volume di reni policistici: ellissoide-KV3 = 84 + 1,01 x π/24 × Lunghezza × (somma di due misurazioni di larghezza) [24]. Tale calcolo è stato validato dal confronto con tecniche di misurazione del volume renale che si servono della tomografia assiale computerizzata (TC) ed il principio di Cavalieri. In pratica, conoscendo la distanza (d) fra le scansioni assiali, si calcola su ciascuna scansione (i) l’area del rene (Ai), ed il volume viene stimato tramite la seguente formula (principio di Cavalieri):

V = d * Σi Ai

Si sommano quindi le aree nelle varie scansioni e si moltiplica il tutto per la distanza fra una sezione e la successiva [19]. La limitazione di questa metodologia è che richiede l’uso di raggi X, è più costosa, e richiede tempo per l’analisi perché è necessario delimitare manualmente il profilo del rene su ogni immagine. Normalmente almeno dieci immagini sono necessarie per avere una stima valida del volume renale usando questa tecnica. Inoltre è possibile stimare il volume del rene con l’ecografia [25], anche se si tratta di una metodica operatore-dipendente e quindi più difficilmente riproducibile, ma sicuramente meno dispendiosa per il paziente.

 

Calcolo del numero di nefroni

L’interesse per il calcolo del numero di nefroni deriva principalmente dall’ evidenza che esistono diverse condizioni patologiche renali, come la sindrome nefrosica, nell’ambito delle quali il decadimento della funzione renale è spiegato in larga parte dalla riduzione del numero di nefroni funzionanti [20].

Per effettuare tale calcolo bisogna conoscere il volume della corticale renale (VRC). È possibile calcolare questo parametro partendo dal volume renale totale (VRT) misurato tramite ecografia usando la formula dell’ellissoide KV-3 proposta da Higashihara nel 2015: ellissoide-KV3 = 84 + 1,01 x π/24 × Lunghezza × (somma di due misurazioni di larghezza) [25]. Oltre al VRC è necessario ricavare dalle biopsie prima il volume dei glomeruli non sclerotici (Vnsg), quindi la densità del volume di glomeruli non sclerotici (DglomNSG) servendosi del modello stereologico proposto da Weibel-Gomez nel 1962 [26]. In questo modo è possibile avere una stima di informazioni tridimensionali partendo dalle immagini istologiche in due dimensioni. Una volta che si è in possesso del VRC e della DglomNSG, è possibile calcolare il numero totale di nefroni (TNN) con la formula seguente:

TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81 (Figura 2)

dove il denominatore 1.81 rappresenta un fattore di correzione del restringimento subito dal tessuto istologico per la perdita della perfusione sanguigna [20].

calcolo del numero di nefroni
Figura 2: Per effettuare il calcolo del numero di nefroni bisogna conoscere il volume della corticale renale (VRC), calcolato con l’ecografia renale. Oltre al VRC è necessario ricavare dalle biopsie prima il volume dei glomeruli non sclerotici (Vnsg), quindi la densità del volume di glomeruli non sclerotici (DglomNSG) con il modello stereologico proposto da Weibel-Gomez nel 1962 che permette di stimare informazioni tridimensionali partendo dalle immagini delle biopsie in due dimensioni. Una volta che si è in possesso del VRC e della DglomNSG, è possibile calcolare il numero totale di nefroni (TNN) con la formula seguente: TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81.

 

Numero di nefroni in differenti patologie del glomerulo

La formula descritta è stata utilizzata in una ricerca svolta dal nostro team e pubblicata [20] per stimare il numero di nefroni in diverse glomerulopatie mediante uno studio pilota trasversale retrospettivo su un campione di 107 pazienti che hanno effettuato una biopsia renale. I criteri di inclusione erano: (i) diagnosi istologica di glomerulosclerosi focale e segmentale (GSFS), nefropatia membranosa (MN), nefropatia diabetica (DN), nefropatia a lesioni minime (MCD), nefropatia da IgM (IgMN), nefropatia da IgA (IgAN), nefrite lupica; (ii) età compresa tra 20 e 60 anni. Tramite esame ecografico dei reni è stato calcolato il VRC sfruttando la formula ellissoide KV-3 e, successivamente, applicando la formula per il calcolo del numero totale di nefroni riportata di seguito: TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81. Dalle biopsie renali sono stati calcolati il Vnsg e la DglomNSG con la formula di Weibel-Gomez. I risultati mostrano che (i) il numero totale di nefroni è inversamente correlato alla pressione sistolica, (ii) nelle malattie caratterizzate da proteinuria, come la GSFS, MN e la DN, la variazione dell’eGFR è direttamente correlata al numero totale di glomeruli non sclerotici (NSG); (iii) di contro, nella sindrome nefritica, non abbiamo osservato una correlazione significativa tra il numero di nefroni e la diminuzione dell’eGFR. Ciò lascia quindi ipotizzare che le alterazioni dell’eGFR che si verificano nelle sindromi nefritiche come la nefropatia da IgA (IgAN) non possono essere spiegate sulla base del numero di NSG.

Probabilmente, la velocità di filtrazione glomerulare non è modificata in maniera significativa dal processo di fusione dei pedicelli dei podociti che si verifica tipicamente nelle malattie con proteinuria: quindi, nella sindrome nefrosica la variazione dell’eGFR dipende principalmente dal numero di nefroni funzionanti. D’altra parte, la riduzione della funzione renale che si verifica nelle sindromi nefritiche non può essere spiegata semplicemente sulla base del numero di NSG e probabilmente dipende soprattutto dal coinvolgimento dell’asse mesangiale.

 

Conclusioni

La riduzione del numero di nefroni funzionanti, che può essere connessa ad una nefrogenesi incompleta o a fattori ambientali, è strettamente connessa con un aumento del rischio di progressione di malattia renale (soprattutto nei pazienti con sindrome nefrosica) e di ipertensione [27]. Generalmente, quando i nefroni vanno incontro a perdita di funzione, i glomeruli dei nefroni residui subiscono una serie di modifiche disadattative diventando ipertrofici, un processo che può portare a un transitorio aumento dell’eGFR ma che, con il tempo, aumenta il rischio di progressione della malattia renale [8]. Il basso numero di nefroni alla nascita rappresenta quindi un chiaro fattore di rischio cardiovascolare nella vita adulta, e soprattutto di ipertensione. Tra i fattori che, durante la vita intrauterina, influenzano la nefrogenesi, ritroviamo fattori genetici e fattori ambientali, tra cui anche la dieta materna svolgerebbe un ruolo importante [28]. Anche la denutrizione materna, l’ipossia fetale e il basso peso alla nascita svolgono un ruolo importante nel determinare una nefrogenesi insufficiente e quindi basso numero di nefroni con aumentato rischio di sviluppare malattia renale cronica in età adulta [29].

Dal momento in cui il calcolo del numero di nefroni risulta essere poco dispendioso nei pazienti che vengono sottoposti a una biopsia renale e a un’ecografia renale, suggeriamo di introdurre nella pratica clinica il calcolo sistematico in questa popolazione con il fine di avere una più precisa stima del rischio di progressione della malattia renale in questi pazienti ed eventualmente mettere in atto strategie terapeutiche e/o preventive con tempistiche più adatte in modo di rallentare la progressione della malattia renale. Una strategia efficace potrebbe essere l’ottimizzazione della dieta e la riduzione al minimo dei fattori di stress ipossico/tossico nelle donne in gravidanza e nei bambini all’inizio dello sviluppo postnatale [29].

Le evidenze sulla popolazione adulta affetta da malattia renale cronica e/o ipertensione risultano, invece, ancora scarse. Sono necessari ulteriori studi per confermare l’efficacia del numero di nefroni come parametro utile per stratificare il rischio evolutivo in queste popolazioni e per elaborare scelte terapeutiche adeguate. Infine, sarebbe utile confermare con ulteriori trial clinici che la riduzione del numero di nefroni è un evento correlato soprattutto al danno podocitario, mentre sembra meno in relazione con le patologie renali non caratterizzate da sindrome nefrosica, come dimostrato da dati preliminari sull’argomento [20].

 

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Finerenone for the treatment of patients with chronic kidney disease

Abstract

Chronic kidney disease (CKD) is a clinical condition associated with a high risk of cardiovascular (CV) events, mortality and progression to most severe stage of the disease, also known as kidney failure (KF). CKD is characterized by a wide variability of progression, which depends, in part, on the variability of individual response to nephroprotective treatments. Thus, a consistent proportion of patients have an elevated residual risk both CV and renal events, confirmed by the evidence that about 70% of CKD patients followed by the nephrologist have residual proteinuria. Among the new therapeutic strategies, which have been developed precisely with the aim of minimizing this residual risk, a class of particular interest is represented by the new non-steroidal mineralocorticoid receptor antagonists (non-steroidal MRA). These drugs exert an important anti-fibrotic and anti-proteinuric effect and, unlike steroid MRAs, are associated with a much lower incidence of adverse effects. The non-steroidal MRA molecule for which the most data is available, which is finerenone, is potent and extremely selective, and this partly explains the differences in efficacy and safety compared to steroid MRAs. In clinical trials, finerenone has been shown to significantly reduce the risk of progression to KF. Furthermore, there is also evidence that the combination of non-steroidal MRAs together with SGLT2 inhibitors may represent a valid alternative to reduce the residual risk in CKD patients. Given this evidence, non-steroidal MRAs are gaining momentum in the care, and particularly in individualized care, of CKD patients.

Keywords: CKD, epidemiology, aldosterone, iperkalaemia, kidney failure, cardiovascular risk

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Introduzione

La malattia renale cronica (nota su larga scala come Chronic Kidney Disease, CKD) è una condizione clinica definita da una o più delle seguenti alterazioni confermate e persistenti per almeno 3 mesi: una riduzione del tasso di filtrazione glomerulare stimato (eGFR) <60 mL/min/1.73m2, un livello anomalo di albuminuria (o proteinuria) > 30 mg/die alla raccolta delle urine delle 24 ore (30 mg/g se misurata attraverso il rapporto albuminuria-creatininuria o ACR, sulle urine del mattino in estemporanea), una anomalia di funzione o struttura dei reni diagnosticata con esami strumentali o clinici [1, 2]. L’eGFR e la albuminuria sono cruciali nella definizione e quindi nella diagnosi della CKD e sono anche conosciute, data la loro importanza prognostica come “kidney measures” o “fattori di rischio non tradizionali” per distinguerle da altri fattori di rischio cardiovascolare tradizionale quali possono essere l’età, il fumo di sigaretta o i livelli di pressione arteriosa sistolica [3]. La presenza di CKD espone il paziente ad una prognosi sfavorevole, intesa come un aumento significativo del rischio di incidenza di eventi cardiovascolari (CV) fatali e non fatali (infarto del miocardio, ictus, scompenso cardiaco, vasculopatia periferica), rapida progressione del danno renale verso la kidney failure (KF) che viene definita come lo stadio più avanzato della CKD con ricorso alla terapia sostitutiva, e la mortalità da ogni causa [4, 5]. Tali eventi sono complessivamente considerati “eventi maggiori”, sia nella pratica che nella ricerca clinica, in quanto condizionano in modo sostanziale la qualità della vita. I pochi dati fin qui riportati acquistano ancora maggiore enfasi se si considera che la CKD ha una prevalenza in netto aumento nella popolazione generale a livello globale [6]. Per arginare tale fenomeno, il cui trend in ascesa è già da tempo evidente, un grande sforzo è stato rivolto all’individuazione di trattamenti farmacologici in grado di minimizzare il rischio sia di progressione renale che di eventi CV. I primi trattamenti che hanno portato ad una riduzione della progressione della CKD sono stati gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAASi), in particolare gli ACE inibitori ed i sartani [7]. Tuttavia, circa il 40% dei pazienti con CKD non risponde a questi farmaci, rimanendo ad un rischio elevato di eventi futuri sfavorevoli cardiovascolari e renali [8, 9].

Tra il 2010 e il 2020, sono stati condotti altri studi clinici randomizzati che hanno testato nuovi trattamenti farmacologici come gli inibitori degli SGLT2 (es. dapagliflozin, canagliflozin), gli antagonisti recettoriali delle endoteline (ERA es. atrasentan), e i nuovi antagonisti non steroidei dei recettori dei mineralocorticoidi (MRA, es. finerenone). I rispettivi studi di intervento hanno dimostrato un effetto additivo significativo di questi farmaci se combinati con i RAASi, che ad oggi sono considerati lo standard-of-care nel rallentare la progressione della CKD sia in presenza che in assenza di diabete. In questa Review prendiamo in esame i nuovi MRA. Sulla base delle evidenze scientifiche disponibili, presenteremo il razionale di utilizzo degli MRA,378982 l’entità dell’effetto nefro- e cardio-protettivo nel contesto della complessità del paziente con CKD.

 

Epidemiologia e prognosi della CKD

La CKD ha acquisito nelle ultime decadi le caratteristiche di un problema di Sanità Pubblica globale [10]. Sulla base dei Registri disponibili, la prevalenza della CKD nella popolazione generale varia tra il 7% e il 13%, corrispondente ad una frequenza che spesso supera quella del diabete tipo 2 [11]. Inoltre, osservando i dati del Global Burden of Disease (GBD), che riporta il trend epidemiologico tra il 1990 e il 2016, la prevalenza e l’incidenza della CKD sono aumentate globalmente dell’87% e 89%, rispettivamente, in questo arco temporale, con un tasso di mortalità da cause renali quasi raddoppiato [6]. Inoltre, la CKD è, tra le malattie non trasmissibili, quella a più rapido incremento di incidenza. Il trend epidemiologico della CKD è in parte spiegato dalle modifiche epidemiologiche globali. Da una parte si è osservato, negli ultimi anni, una riduzione della mortalità generale da cause CV. Considerando il 1940 come anno di riferimento, la mortalità annua per infarto del miocardio e ictus si è ridotta del 56% e del 70% alla fine degli anni ‘90 [12]. Tale riduzione del rischio di morte da cause CV è stata attribuita all’introduzione di terapie preventive come le statine e ad un migliore controllo dei fattori di rischio tradizionali come il fumo di sigaretta e la pressione arteriosa. Parimenti, la mortalità associata a malattie infettive si è ridotta con il miglioramento delle terapie antibiotiche e dei vaccini, garantendo un incremento medio della durata della vita media di circa 20 anni [13]. La diffusione, quasi pandemica, della CKD è anche in linea con l’incremento della dimensione globale del diabete tipo 2. Nel 2019, circa 463 milioni di persone (9.3 % della popolazione globale) era affetto da diabete, di cui il 90% era rappresentato dal diabete tipo 2. È stato stimato che circa 2 pazienti su 5 affetti da diabete tipo 2 siano allo stesso tempo affetti da CKD [14]. L’incidenza di CKD associata al diabete (anche nota come ‘diabetic kidney disease’ DKD) è aumentata negli ultimi 30 anni in tutte le fasce di età [15]. Tale evidenza è ancora più allarmante se si considera che il diabete tipo 2, per il coinvolgimento di specifici meccanismi eziopatogenetici, è la principale cause di CKD e di KF, complessivamente. Di per sé, l’incidenza di KF, a differenza del positivo trend di morte CV, non si è ridotta negli ultimi anni, restando una condizione che espone il paziente ad alto rischio di morte. Ciò è vero in particolare per i pazienti affetti da diabete tipo 2, dei quali meno del 50% sopravvive a distanza di 5 anni dall’inizio del trattamento emodialitico sostitutivo [16].

La CKD è riconosciuta come un fattore di rischio indipendente di mortalità ed eventi CV oltre che di progressione verso la KF. Il termine indipendente fa riferimento in particolare, a fattori come l’età, il sesso e la presenza di altre comorbidità [17, 18].  È stato ampiamente dimostrato che la presenza di albuminuria, è associata indipendentemente allo sviluppo di eventi CV e progressione della CKD nel tempo [19]. Ancora più intrigante è l’osservazione che non vi sia un vero e proprio cut-off di albuminuria al di sopra del quale il rischio di progressione della CKD (ed anche il rischio CV) aumenti. In una meta-analisi del CKD-Prognosis Consortium, che includeva i dati di quasi 1.000.000 di soggetti di popolazione generale o ad alto rischio CV, il rischio di progressione della CKD verso la KF era già 5 volte aumentato per un livello di ACR di 30 mg/g, ed aumentava di oltre 13 volte per un livello di ACR di 300 mg/g [20]. Degno di nota è che i livelli di 30 e 300 mg/g sono considerati i limiti, inferiore e superiore, della categoria di proteinuria definita come moderatamente aumentata dalle linee guida KDIGO [1]. In uno studio osservazionale che includeva 3.957 pazienti con CKD seguiti dallo specialista Nefrologo in Italia, il rischio di KF aumentava di 2-3 volte passando da un livello di proteinuria 0.5 a 1.0 g/24h, con un rischio leggermente più alto nello stadio G3 rispetto al G4 [21]. Una simile associazione è stata osservata tra la proteinuria e gli eventi CV fatali e non fatali [22]. Il eGFR è per definizione la somma dei tassi di filtrazione di tutti i nefroni funzionanti e rappresenta il principale marcatore di funzione renale [23]. Negli studi prognostici, il eGFR rappresenta il più robusto predittore di progressione renale ed eventi CV. Infatti, al ridursi dei livelli di eGFR < 75 mL/min/1.73m2, il rischio di KF è di circa 30 volte più alto per livelli di 45 mL/min/1.73m2, e di circa 400 volte aumentato per livelli di 15 mL/min/1.73m2 [20]. L’associazione tra eGFR ed eventi CV ha un andamento simile seppure con una minore forza di associazione [22]. Albuminuria e eGFR sono considerati due parametri fondamentali sia per la stratificazione del rischio dei pazienti con CKD che per monitorare la risposta ai trattamenti. Una riduzione della albuminuria a 6 mesi di tempo, di circa il 30% rispetto al livello basale, si associa ad una riduzione del rischio di poco meno del 30% di progressione della CKD [24]. La riduzione del eGFR del 40% e quella del 50% sono considerati due surrogati di KF sia negli studi osservazionali che di intervento [25]. Nonostante la robustezza e affidabilità delle ‘kidney measures’, altri fattori di rischio tengono conto della scarsa prognosi dei pazienti con CKD.

È noto che la CKD è una condizione patologica multifattoriale dove più fattori di rischio rendono conto dell’outcome cardiorenale del paziente. Tra questi, accanto a eGFR e albuminuria, ipertensione arteriosa, iperpotassiemia, alterazioni del metabolismo calcio-fosforo, anemia, acidosi metabolica e dislipidemia sono quelli più noti [26].

 

Variabilità prognostica nella CKD: il problema del rischio residuo

Una delle caratteristiche principali della CKD risiede nella sua variabilità, concetto discusso già in varie pubblicazioni [8, 2730]. La variabilità, nel contesto della CKD, ha un duplice significato: prognostico e predittivo. Per variabilità prognostica si intende che pazienti con lo stesso grado di severità della malattia (ad es. livelli basali di proteinuria e eGFR) hanno una progressione ed un rischio CV completamente diversi. Questo concetto è insito nella eterogeneità della patogenesi del danno renale. In alcuni pazienti l’insorgenza di diabete tipo 2 è di per sé sufficiente, dopo un certo intervallo di tempo dalla sua comparsa, a generare un danno renale progressivo e severo. In questo caso il diabete è una causa sufficiente della CKD. In alcuni pazienti, la presenza del diabete tipo 2 incide meno sullo sviluppo della CKD che, se presente, si manifesta in genere in forma più lieve ed è secondaria perlopiù al danno da nefroangiosclerosi [2]. In questo caso, il diabete tipo 2 è una causa componente (ma non sufficiente) per lo sviluppo del danno renale cronico. Dunque, il peso di un fattore di rischio non è lo stesso in soggetti diversi. Per variabilità predittiva si intende che non tutti i pazienti rispondono ugualmente agli stessi farmaci. Nell’ambito della CKD è stato già dimostrato che una proporzione notevole di soggetti (circa il 30-40%) non risponde ai RAASi [31, 32].  Una variabilità di risposta tra pazienti è presente verso gli SGLT2i, in termini di riduzione della emoglobina glicosilata, peso corporeo, pressione arteriosa e proteinuria con circa la metà dei pazienti che non mostra una riduzione di almeno il 30% della proteinuria nei primi mesi di trattamento [33]. Similmente, ci sono evidenze di variabilità di risposta interindividuale anche verso gli ERA, in particolare atrasentan, dipendendo questa da fattori come la biodisponibilità del farmaco che è variabile e dal profilo di rischio CV del paziente [34]. Questo vuol dire che una quota significativa di pazienti continua ad avere proteinuria nel tempo e di conseguenza un alto rischio residuo di eventi CV e renali.

I dati sul rischio residuo sono attualmente allarmanti. In uno studio di coorte che ha arruolato 2.174 pazienti CKD seguiti negli ambulatori di Nefrologia in Italia, e tutti in terapia con RAASi al massimo dosaggio tollerato, Minutolo et al. hanno dimostrato che il 70% dei pazienti aveva una proteinuria >0.150 g/die, rimanendo ad elevato rischio sia CV (tasso di incidenza: 4.86 per 100 pazienti/anno) che di progressione verso la KF (tasso di incidenza: 5.26 per 100 pazienti/anno) (Figura 1) [35]. Questo dato è più che allarmante se si considera che i pazienti riferiti al nefrologo sono in generale quelli più intensivamente trattatati (e con dimostrato beneficio) per le complicanze e la progressione della CKD [2, 36]. Il dato del rischio residuo emerge anche dagli studi randomizzati più recenti. Nello studio SONAR, che ha testato l’efficacia dell’ERA atrasentan, in aggiunta al trattamento con RAASi, nei pazienti con CKD e diabete tipo 2, il tasso di incidenza di eventi cardiorenali (composito di KF, raddoppio della creatinina, morte CV, infarto del miocardio e ictus), era di 5.2 per 100 pazienti/anno nel gruppo atrasentan e di 6.1 per 100 pazienti/anno del gruppo placebo [37]. A discapito della significatività dell’effetto del trattamento, è evidente che anche nel gruppo trattato con il farmaco sperimentale il rischio assoluto di eventi resta molto alto. Similmente, nello studio DAPA-CKD, il tasso di incidenza dell’outcome primario (declino del 50% di eGFR, KF, morte da cause renali o CV) era di 4.6 per 100 pazienti/anno, molto lontano dal considerarsi minimo o abolito. Complessivamente, nonostante l’effetto significativo sulla prognosi renale, gli SGLT2i lasciano il 61% di rischio residuo sugli endpoint renali [38]. Questo dato collima con una analisi post-hoc del CREDENCE, la quale evidenziava che il 60% dei pazienti nel braccio trattato con canaglifozin non mostrava una riduzione di almeno il 30% della albuminuria nei primi 6 mesi del trial, e maggiore era la albuminuria al mese 6 maggiore era il rischio renale [39].

L’impressione collettiva è che si è raggiunto un buon successo in termini di rallentamento della progressione della CKD e del rischio CV ad essa associato, ma che allo stesso tempo questo alto rischio residuo sia la spia del fatto che non si sta accuratamente trattando la malattia di base con il farmaco più appropriato e indicato possibile [7]. Come fase successiva della ricerca, ci si è quindi concentrati da una parte sulla individuazione di nuovi trattamenti, e dall’altra sulla possibilità di individuare su base scientifica rigorosa, quale sia il farmaco giusto per ogni singolo paziente data l’ampia, già descritta, variabilità.

Figura 1: Meccanismi fisiopatologici associati all’iperattivazione del recettore dei mineralocorticoidi.
Figura 1: Meccanismi fisiopatologici associati all’iperattivazione del recettore dei mineralocorticoidi. Il pathway che coinvolge la serum glucocorticoid kinase-1 (Sgk1) conduce alla regolazione della ritenzione di sodio e dell’efflusso di potassio dalle cellule tubulari renali. La regolazione genica alterata in risposta ad eccessivi livelli di aldosterone conduce alla generazione di stimoli pro-infiammatiori e pro-fibrotici.

 

I nuovi antagonisti recettoriali dei mineralocorticoidi

Una classe di farmaci che ha suscitato interesse nell’effetto di rallentamento della progressione della CKD è rappresentata dagli MRA. Questi farmaci agiscono antagonizzando essenzialmente l’azione dell’aldosterone, ormone sintetizzato dalla zona glomerulosa del corticosurrene che promuove, dopo stimolazione diretta da parte dell’angiotensina II, la ritenzione di sodio e la perdita di potassio e magnesio [40]. Il trasporto del sodio attraverso le cellule epiteliali nella porzione distale del nefrone è il principale meccanismo in cui è coinvolto l’aldosterone attraverso il recettore dei mineralocorticoidi (MR) e la cascata di fattori ad esso associati. Il recettore dei MR appartiene alla sottofamiglia dei recettori nucleari che agiscono sia come recettori intranucleari che come fattori di trascrizione dopo traslocazione nel nucleo cellulare [41]. L’attivazione del MR porta alla espressione di geni target, tra cui quello chiave è serum glucocorticoid kinase (Sgk1). Sgk1 fosforila ed inattiva la ubiquitin ligasi Nedd4-2 che regola a sua volta la degradazione dei canali ENaC tramite il sistema dei proteasomi. In presenza dell’aldosterone, l’attività di Nedd4-2 è bloccata da Sgk1 che quindi porta ad una aumentata espressione e funzione degli ENaC sulla membrana dalle cellule tubulari renali. Quando invece i livelli plasmatici di aldosterone sono ridotti (fisiologicamente o per blocco farmacologico), la degradazione degli ENaC è aumentata. Oltre al trasporto del sodio, il MR regola anche l’escrezione di potassio e idrogeno sia tramite un meccanismo passivo di cariche elettron-neutre associato al trasporto del sodio sia attraverso stimolazione diretta della N+/K+ ATPasi e i canali renal outer medullary potassium channel (ROMK) [42]. Oltre al suo ruolo fisiologico, è stato dimostrato che l’attivazione anomala del MR sia associata ad una serie di meccanismi fisiopatologici che interessano vari organi tra cui il rene (Figura 1).

Livelli incrementati di aldosterone, infatti, promuovono il generarsi di fibrosi a livello del cuore, dei vasi sanguigni e del rene. La scoperta dell’effetto pro-fibrotico degli ormoni mineralocorticoidi risale alla dimostrazione, nel 1943, che la somministrazione di desossicorticosterone acetato nel topo, in combinazione con un altro introito di sale nella dieta, conduceva allo sviluppo clinico di ipertensione maligna e alla comparsa di nefroangiosclerosi e ipertrofia cardiaca [43]. Inoltre, successivi studi hanno dimostrato che l’iperaldosteronismo associato all’ipertensione arteriosa era in grado di promuovere ipertrofia cardiaca con coinvolgimento dei fibroblasti cardiaci [44]. Riguardo ai meccanismi molecolari che conducono alla fibrosi, sembra che l’aldosterone sia in grado di promuovere la sintesi di citochine pro-infiammatorie, come ad esempio l’osteopontina 1, l’espressione macrofagica di TGF-β1 ed il PAI-1 (prothrombotic protein plasminogen activator inhibitor-1), essendo quest’ultimo coinvolto direttamente nella deposizione di collagene nella matrice extracellulare e nell’iniziare la fibrosi interstiziale [45]. Tali meccanismi assumono un’importanza fondamentale se si considera che i fattori scatenanti l’infiammazione e la fibrosi sono i principali target delle terapie di rallentamento della progressione della CKD, nel futuro [46]. Inoltre, ancora da un punto di vista fisiopatologico, è noto che nonostante il blocco del RAAS attraverso l’utilizzo degli ACE e ARB, non tutta l’attività dell’aldosterone è abolita (fenomeno di “escape” dell’aldosterone), fattore che perpetua l’effetto pro-infiammatorio e pro-fibrotico di questo ormone [47].

Sulla base di questi meccanismi, l’antagonismo farmacologico dei MR rappresenta di per sé un importante bersaglio farmacologico. La prima molecola appartenente alla classe MRA, sviluppata nel 1957, fu lo spironolattone. Successivamente, fu sviluppato l’eplerenone. Sia eplerenone che spironolattone vengono classificati, in base alla loro struttura molecolare, come MRA steroidei. I primi studi clinici randomizzati, il RALES con l’aldosterone e poi l’EPHESUS e l’EMPHASIS-HF con eplerenone, avevano dimostrato che questi due MRA conferivano una protezione dal rischio di morte nei pazienti affetti da scompenso cardiaco o cardiopatia ischemica [4850]. Studi meno corposi, in termini di numerosità campionaria, condotti su pazienti CKD avevano mostrato che lo spironolattone riduceva i livelli di proteinuria e pressione arteriosa nei pazienti affetti da CKD [51]. Tuttavia, gli MRA steroidei sono associati ad una serie di effetti collaterali potenzialmente gravi come l’iperpotassiemia, la ginecomastia e l’impotenza. Il rischio di iperpotassiemia associato all’uso di MRA è raddoppiato nei pazienti in CKD non in dialisi ed aumenta di ben tre volte nei pazienti in trattamento dialitico [52]. Questo ha spinto la ricerca e l’industria farmaceutica allo sviluppo di MRA potenti ma più selettivi, quindi con un miglior profilo di ‘safety’. Le nuove tecnologie di biologia molecolare hanno, in particolare, reso possibile lo sviluppo di una nuova classe di MRA, gli MRA non steroidei. Due molecole appartenenti a questa nuova classe di farmaci sono l’esaxerenone, introdotto in Giappone per la cura dell’ipertensione arteriosa, ed il finerenone, del quale sono disponibili le più ampie evidenze sia sperimentali che cliniche. Il finerenone blocca il MR in modo potente e selettivo a differenza degli MRA steroidei come spironolattone (blocco potente ma non selettivo) ed eplerenone (blocco meno potente ma più selettivo di eplerenone) (Figura 2) [52].

Figura 2: Meccanismo d’azione specifico degli MRA non-steroidei.
Figura 2: Meccanismo d’azione specifico degli MRA non-steroidei. L’interazione ligando-recettore porta alla protrusione dell’a-elica 12 (H12) del MR e questo ne determina la sua destabilizzazione e degradazione. L’interazione ligando-recettore coinvolge la formazione di legami idrogeno con residui specifici del MR come Ala773 e Ser810.

Questa differenza nel meccanismo molecolare di antagonismo, insieme ad altre differenze nella distribuzione tissutale e nella farmacocinetica, spiegano la differente risposta clinica tra gli MRA steroidei e non. Le differenze dettagliate tra le due classi sono riportate in Tabella 1.

MRA steroidei MRA non steroidei
Meccanismo molecolare di antagonismo del recettore mineralcorticoide (MR)

Spironolattone

(prima generazione)

Non selettivo e potente

Passivo

Eplerenone

(seconda generazione)

Meno selettivo e potente dello spironolattone

Finerenone

Selettivo e potente

Passivo e ingombrante

Distribuzione tissutale in modelli animali

 

Spironolattone

Rene > cuore

Eplerenone

Rene > cuore

Finerenone

Rene = cuore

Farmacocinetica

Spironolattone

Profarmaco di numerosi metaboliti attivi;

lunga emivita

Eplerenone

No metaboliti attivi;

emivita 4-6 ore

Finerenone

No metaboliti attivi;

breve emivita

Effetto in vitro sul reclutamento del cofattore in assenza di aldosterone

Spironolattone ed eplerenone

Agonisti parziali nel reclutamento del cofattore

Finrenonene

Agonista inverso

 

Effetto in vitro sul reclutamento del cofattore in presenza di aldosterone

Spironolattone ed eplerenone

Inibiscono il reclutamento del cofattore

Finerenone

Più potente ed efficace dell’eplerenone nel bloccare il legame con il cofattore del MR e indurre il legame con il corepressore.

 

Effetto sulla mutazione (S810L) del MR in vitro

Spironolattone ed eplerenone

Agonisti

 

Finerenone

Antagonista

Effetto sull’infiammazione e sulla fibrosi in modelli di cuore murino

 

Eplerenone

Effetto poco significativo sull’infiammazione e sulla fibrosi

Finerenone

Inibisce significativamente l’infiammazione e la fibrosi

Effetto sull’infiammazione e sulla fibrosi renale nel modello murino “salt-deoxycorticosterone acetate” con malattia renale cronica

 

Eplerenone

Significativa riduzione della pressione arteriosa; meno efficace nella riduzione della proteinuria e del danno renale

Finerenone

Significativa riduzione della pressione arteriosa solo ad alte dosi; significativa riduzione dell’espressione di fattori profibrotici, proinfiammatori e del danno renale.

Tabella 1: Principali differenze tra MRA steroidei e non steroidei.

Esperimenti in modelli animali hanno mostrato come il finerenone si distribuisca, a livello tissutale, equamente tra cuore e rene, a differenza di eplerenone e spironolattone che invece hanno una maggiore concentrazione a livello del rene comportando un maggiore effetto sul bilancio di sodio e potassio [53, 54]. Inoltre, il finerenone confrontato con gli MRA steroidei ha una breve emivita e non ha metaboliti attivi [55]. Lo spironolattone invece è pro-farmaco di metaboliti attivi, tra cui il canrenone, che possono essere individuati nelle urine fino a 4 settimane dopo la sospensione del trattamento ed essere attivi farmacologicamente fino a circa 2 settimana dopo la sospensione. Ciò spiegherebbe in parte la persistenza dell’effetto iperpotassiemico dopo interruzione dello spironolattone, con un profilo di maneggevolezza decisamente a favore di finerenone. È interessante osservare come ci siano delle differenze anche nella farmacodinamica tra MRA steroidei e non. Il finerenone, a differenza degli MRA steroidei, inibisce il reclutamento di cofattori ai vari domini del MR (che in genere dipende dai livelli di aldosterone) ed in questo modo riduce l’espressione di geni pro-infiammatori e pro-fibrotici [56]. Quindi la cascata di segnali a valle del recettore evocata da MRA steroidei e non steroidei è differente. Confrontato con eplerenone, il finerenone a parità di dose ha un maggiore effetto anti-fibrotico ed ha azione antifibrotica anche a dosaggi non ancora sufficienti a ridurre la pressione arteriosa [53]. Il finerenone è di fatto l’unico farmaco tra gli MRA che combina una eccezionale potenza e selettività. La IC50, cioè la concentrazione di farmaco richiesta per inibire del 50% l’attivazione del recettore, è pari a 17.8 per finerenone, ed è più bassa sia rispetto a spironolattone (24) che eplerenone (990). Peraltro, lo spironolattone ha una IC50 bassa anche per il legame con il recettore degli androgeni (77 vs > 10.000 di finerenone) e i glucocorticoidi (2410 vs >10.000 di finerenone). Invece la EC50, cioè la concentrazione di farmaco richiesta per attivare il 50% del recettore del progesterone, è pericolosamente più bassa per lo spironolattone (740 vs >10.000 di finerenone). Questi parametri spiegano, nell’insieme, come mai lo spironolattone sia un farmaco molto potente ma poco selettivo [57, 58].

 

Il finerenone nella realtà clinica del paziente con CKD

Gli MRA non steroidei hanno compiuto ampia strada nell’ambito della ricerca clinica raggiungendo la fase III della sperimentazione con gli studi Finerenone in Reducing Kidney Failure and Disease Progression in Diabetic Kidney Disease (FIDELIO-DKD) e Finerenone in Reducing Cardiovascular Mortality and Morbidity in Diabetic Kidney Disease (FIGARO-DKD) [59, 60]. Nel FIDELIO-DKD, sono stati arruolati pazienti affetti da DKD albuminurici e già in trattamento con RAASi.  Lo studio ha dimostrato per la prima volta nella storia degli MRA una diminuzione del 18% dell’endpoint composito primario (KF, riduzione persistente di almeno il 40% del GFR, morte da causa renale) nel corso dei 2.6 anni di follow up, e con un basso number-needed-to-treat, associata ad un marcato e persistente effetto antialbuminurico associato al trattamento (31% di riduzione rispetto al placebo dopo 4 mesi di terapia). Dal punto di vista nefrologico il trial risponde al principale “medical need” nella DKD, ossia come ridurre la progressione della nefropatia, e ha arruolato popolazione tipicamente presente negli ambulatori di Nefrologia, con l’86% di pazienti con eGFR compreso tra 60 e 25 mL/min/1.73m2 e albuminuria già in terapia con RAASi. Inoltre, lo studio è long-term consentendo pertanto una maggiore affidabilità sulla analisi della “effectiveness”.  Va notato inoltre che il trial è stato dimensionato sulla nefroprotezione; pertanto, si è definita una dimensione campionaria sufficiente per ottenere il 90% di potenza nella discriminazione del rischio dell’endpoint primario (progressione malattia renale). Ciò nonostante, è risultata significativa anche la riduzione del 14% nel rischio dell’endpoint secondario cardiovascolare (composito di eventi cardiovascolari fatali e non-fatali e ospedalizzazione per scompenso cardiaco). I dati di ‘safety’ testimoniano una buona tollerabilità del finerenone con una simile incidenza di eventi avversi nonostante la popolazione in esame sia per definizione fragile e ad alto rischio. D’altra parte, è stata registrata una maggiore incidenza di uscita dal trial a causa dell’iperkalemia, seppure bassa in assoluto, nel braccio finerenone (2.3% vs 0.9%).  Il maggiore rischio di iperkalemia con finerenone, seppure inferiore rispetto agli MRA steroidei, era quindi un dato atteso.

Un ulteriore dato di interesse per la comunità Nefrologica deriva dall’analisi post-hoc dei 254 pazienti dello studio che ricevevano finerenone “on top” non solo di anti-Angiotensina II ma anche di inibitori di SGLT2 [61]. Tale analisi, seppure limitata dal basso numero di pazienti, suggerisce un effetto nefroprotettivo nel lungo termine simile tra pazienti trattati e non trattati con inibitori di SGLT2 (p dell’effetto di interazione: 0.21). Altrettanto rilevante è il dato sulla risposta antiproteinurica, anch’essa simile tra i due gruppi (p dell’effetto di interazione: 0.31). Una ulteriore analisi pooled degli studi FIGARO-DKD e FIDELIO-DKD (FIDELITY in più di 13.000 pazienti con malattia renale diabetica), ha confermato l’efficacia del finerenone, indipendente dall’uso di inibitori di SGLT2 [62]. Il FIGARO-DKD ha testato l’efficacia del finerenone in aggiunta a trattamento con RAASi nel ridurre il rischio di eventi CV, essendo l’endpoint primario misurato il composito di morte CV, infarto del miocardio non fatale, ictus non fatale e ospedalizzazione per scompenso cardiaco. Il trial ha dimostrato, in un follow-up di 3.4 anni, una riduzione del rischio significativa, del 13%, dell’endpoint primario nel gruppo finerenone rispetto al placebo. L’incidenza di iperpotassiemia era maggiore nel gruppo finerenone che nel gruppo placebo (10.8 vs. 5.3%).

 

I nuovi MRA e la nefrologia di precisione

L’interesse verso i nuovi MRA non-steroidei sta progressivamente aumentando visti i risultati dei primi studi clinici randomizzati. Al contempo, lo sviluppo clinico degli MRA è stato anche portato nell’ambito degli studi di ‘medicina di precisione’. La medicina di precisione (o nefrologia di precisione nel caso specifico) è una branca relativamente recente della ricerca che mira ad elaborare dei disegni di studio che forniscano stime, sia prognostiche che di risposta alle terapie, individualizzabili al singolo paziente [8]. Ciò non deve essere confuso con lo studio del singolo individuo. Gli studi di medicina di precisione sono comunque svolti su una moltitudine di soggetti, partendo dal concetto statistico che le stime frequentiste (quelle quindi fornite insieme ad un intervallo di confidenza e ad un parametro di variabilità) sono il risultato della sommatoria di tante singole stime individuali. Nel campo nefrologico, gli avanzamenti più recenti, da questo punto di vista, sono essenzialmente due: il miglioramento dei disegni degli studi clinici randomizzati, ad esempio attraverso l’inclusione di pazienti più omogenei e/o la randomizzazione di coloro che rispondono efficacemente al trattamento sperimentale (es. i disegni di studio adattivi) [37]; l’acquisizione, anche da altre branche della medicina, degli studi cross-over: questi particolari disegni di studio consistono nell’esporre uno stesso paziente a più sequenze di trattamento intervallate da sequenze libere dal farmaco (wash-out) [26]. È stato di recente completato uno studio cross-over in pazienti affetti da CKD, diabetica e non, che ha incluso l’MRA eplerenone, lo studio ROTATE-3 [63]. Nel ROTATE-3 sono stati arruolati con eGFR compreso tra 30 e 90 mL/min, albuminuria ≥ 100 mg/24h, ed in trattamento con RAASi. I pazienti sono stati randomizzati, dopo un breve periodo di run-in mirato a confermare la stabilità della albuminuria, a ricevere in tre successivi periodi di trattamento delle durate di quattro settimane ciascuno (intervallati da quattro settimane di wash-out) eplerenone 50 mg/die, dapagliflozin 10 mg/die oppure la combinazione di eplerenone 50 mg/die + dapagliflozin 10 mg/die. L’endpoint primario dello studio è stato quello di valutare l’entità di risposta in termini di riduzione della albuminuria in base al tipo di farmaco somministrato, ed inoltre comprendere se i pazienti rispondessero similmente ai farmaci somministrati. Lo studio ha mostrato che la albuminuria si riduceva in media del 20% in seguito alla somministrazione di dapagliflozin, del 34% in seguito a eplerenone e di ben il 53% in seguito alla combinazione dei due trattamenti. Questa osservazione è stata importante in quanto per la prima volta si è compreso l’entità della risposta antialbuminurica di un MRA in associazione ad un inibitore di SGLT2, entrambi in aggiunta allo standard of care (RAASi). Inoltre, altro risultato importante dello studio è stata l’assenza di correlazione significativa tra le risposte alle tre fasi di trattamento. Questo dimostra che gli stessi pazienti non rispondono contemporaneamente al MRA ed al SGLT2 che hanno un meccanismo di azione differente e, ancora più importante, che coloro che non rispondono ad un farmaco, possono rispondere all’altro. L’assenza di correlazione spiega quindi la maggiore efficacia antialbuminurica quando usati in contemporanea.

Il ROTATE-3 si inserisce negli studi di combinazione farmacologica, studi sempre più evocati nel setting della CKD vista, come detto nelle precedenti sezioni, la necessità di modificare più target di trattamento contemporaneamente. Le combinazioni di più farmaci con diverso meccanismo di azione hanno un razionale scientifico robusto in CKD [64]. Gli MRA, sia steroidei che non, hanno un effetto opposto sulla potassiemia rispetto agli inibitori di SGLT2, i primi associandosi ad un incremento dei livelli mentre i secondi ad una riduzione per inibizione del riassorbimento tubulare. Nello studio ROTATE-3 il trattamento di combinazione eplerenone+dapagliflozin era associato ad un numero di episodio di iperpotassiemia significativamente inferiore rispetto al trattamento con eplerenone da solo (p=0.003), portando quindi non solo ad un aumento dell’efficacia antialbmunirica ma anche ad una riduzione dell’incidenza di uno dei più temibili effetti avversi. Inoltre MRA e SGLT2i hanno effetti sinergici di nefroprotezione riducendo entrambi la glomerulosclerosi e la progressione del danno renale. Simili effetti sinergici sono presenti tra MRA e ERA e tra ERA e SGLT2i (Tabella 2).

Classe del farmaco Meccanismo di azione Reazioni avverse Effetto sinergico con ERA
 

ERA (agonisti selettivi del recettore dell’endotelina tipo A)

 

Aumentano il flusso renale, riducono le alterazioni dei podociti, lo stress ossidativo, la sclerosi glomerulare e l’infiammazione.

 

 

Ritenzione di liquidi o ipervolemia e anemia.

RAASi (inibitori del sistema renina angiotensina aldosterone)

Riducono la pressione intraglomerulare tramite la vasodilatazione delle arteriole efferenti e l’incremento della produzione di prostaglandine.

Riducono la glomerulosclerosi, la proliferazione cellulare, la fibrosi tubulo-interstiziale e l’infiammazione.

Aumento dei livelli creatinina sierica, iperkaliemia, anemia e tosse.

Sia l’ATII che l’endotelina

(ET) -1 causano un aumento della produzione della matrice extracellualare e della fibrosi tubulo interstiziale.

L’ATII e l’aldosterone stimolano la produzione di ET-1 nei dotti collettori.

Aldosterone e ET-1 hanno un effetto opposto a livello dell’Enac.

Negli studi di fase due il trattamento combinato con ERA e RAASi ha dimostrato una migliore efficacia nel controllo della proteinuria rispetto al trattamento con solo RAASi.

 

SGLT2i (inibitori del cotrasporto sodio glucosio)

Riducono il riassorbimento di sodio e glucosio nel tratto prossimale del tubulo renale.

Aumentano l’apporto di sodio alla macula densa con conseguente normalizzazione del feedback tubulo glomerulare e riduzione dell’iperfiltrazione.

Infezioni del tratto genito-urinario, amputazione degli arti inferiori, cheto acidosi e insufficienza renale acuta.

La natriuresi indotta dagli SGLT2i può controbilanciare la ritenzione di fluidi (effetto avverso frequente del trattamento con ERA).

Sia gli ERA che gli SGLT2i riducono la rigidità vascolare, la disfunzione endoteliale, la sclerosi glomerulare, lo stress ossidativo e l’infiammazione.

 

Antagonisti del recettore mineralcorticoide (MRA) non steroidei Presentano una maggiore selettività e affinità per il recettore mineralcorticoide rispetto agli MRA steroiodei. Promuovono la degradazione e l’inattivazione dell’ENac con conseguente natriuresi. Iperkaliemia.

Gli MRA non steroidei e gli ERA causano rispettivamente un incremento e una riduzione dell’attività dell’ENac. La somministrazione sinergica potrebbe quindi ridurre la probabile ritenzione di fluidi conseguente al trattamento con ERA.

Sia gli ERA che gli MRA non steroidei determinano una riduzione della fibrosi e dell’infiammazione renale.

Tabella 2: Meccanismo di azione e potenziale effetto sinergico degli ERA in associazione con RAASi, SGLT2i e MRA non steroidei.

L’implementazione degli studi di associazione farmacologica in pazienti CKD sarà nel prossimo futuro una tappa importante per la ricerca clinica.  Relativamente ai nuovi MRA, è già in corso uno studio, il COmbinatioN effect of FInerenone anD EmpaglifloziN in participants with chronic kidney disease and type 2 diabetes using an UACR Endpoint study (CONFIDENCE), che valuterà l’efficacia antiproteinurica della combinazione finerenone+empagliflozin rispetto ai singoli trattamenti, in pazienti con CKD nelle fasi iniziali di malattia [65].

 

Conclusioni

La progressione verso la KF è uno dei principali “unmet clinical need” nella CKD, anche rispetto al rischio cardiovascolare che, negli ultimi anni, ha mostrato una progressiva diminuzione secondaria alla introduzione di terapie cardiovascolari più efficaci.

Il mancato miglioramento della prognosi renale dei pazienti con CKD è da attribuirsi in larga parte alla assenza in questi anni di nuovi farmaci nefroprotettivi.  Il rischio residuo nei pazienti trattati con la terapia standard, cioè i RAASi, resta infatti molto alto.  Ai RAASi, di recente, si sono aggiunti gli inibitori di SGLT2. Tuttavia, anche dopo uso combinato di queste due diverse classi di farmaci, il rischio di progressione della nefropatia verso la fase dialitica permane ancora significativo.

Il finerenone rappresenta un importante avanzamento nella storia della nefroprotezione in quanto va a riempire il vuoto della terapia mirata in primis a ridurre l’infiammazione e la fibrosi nella CKD con la minimizzazione degli eventi avversi tipici dei MRA steroidei, in particolare l’iperpotassiemia. I dati del FIDELIO-DKD dimostrano l’efficacia di finerenone sulla nefroprotezione a lungo termine in pazienti diabetici e con CKD ad alto rischio di progressione verso la fase dialitica anche se trattati con RAASi e inibitori di SGLT2.

 

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  62. Rossing P, Anker SD, Filippatos G, Pitt B, Ruilope LM, Birkenfeld AL, McGill JB, Rosas SE, Joseph A, Gebel M, Roberts L, Scheerer MF, Bakris GL, Agarwal R. Finerenone in Patients With Chronic Kidney Disease and Type 2 Diabetes by Sodium-Glucose Cotransporter 2 Inhibitor Treatment: The FIDELITY Analysis. Diabetes Care. 2022 Aug 15:dc220294. https://doi.org/10.2337/dc22-0294.
  63. Provenzano M, Puchades MJ, Garofalo C, Jongs N, D’Marco L, Andreucci M, De Nicola L, Gorriz JL, Heerspink HJL; ROTATE-3 study group; ROTATE-3 study group members. Albuminuria-Lowering Effect of Dapagliflozin, Eplerenone, and Their Combination in Patients with Chronic Kidney Disease: A Randomized Crossover Clinical Trial. J Am Soc Nephrol. 2022 Aug;33(8):1569-1580. https://doi.org/10.1681/ASN.2022020207.
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Which is the role of the oral iron therapies for iron deficiency anemia in non-dialysis-dependent chronic kidney disease patients? Results from clinical experience

Abstract

Iron deficiency afflicts about 60% of dialysis patients and about 30% of non-dialysis-dependent CKD patients (ND-CKD). The role of iron deficiency in determining anemia in CKD patients is so relevant that guidelines from the Kidney Disease Improving Global Outcomes (KDIGO) initiative recommend treating it before starting with erythropoiesis-stimulating agents. KDIGO guidelines suggest oral iron therapy because it is commonly available and inexpensive, although it is often characterized by low bioavailability and low compliance due to adverse effects.

A new-generation oral iron therapy is now available and seems to be promising. We therefore conducted a study to determine whether an association of iron sucrose, folic acid and vitamins C, B6, B12, can improve anemia in ND-CKD patients, stage 3-5. Our study shows that iron sucrose is a safe and effective oral iron therapy and that it is capable of correcting anemia in ND-CKD patients, although it does not seem to replete low iron stores.

Keywords: iron deficiency, chronic kidney disease, CKD, anemia, oral iron

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Introduzione

La carenza marziale, associata o meno all’anemia, rappresenta una delle condizioni più frequenti dei pazienti affetti da malattia renale cronica (MRC), siano essi in terapia conservativa o in terapia dialitica sostitutiva [1,2].

La carenza marziale è definita dalla Organizzazione Mondiale della Sanità come una condizione caratterizzata da una quantità di ferro insufficiente a mantenere la fisiologica funzione di sangue, cervello e muscoli. Essa non sempre si associa ad anemia, soprattutto se il deficit non è sufficientemente severo o è di recente insorgenza [3].

 

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Renal function performance in CKD stage 5: a sealed fate?

Abstract

Introduction and aims: Stages 4 and 5 of chronic kidney disease (CKD) have always been considered hard to modify in their speed and evolution. We retrospectively evaluated our CKD stage 5 patients (from 01/1/2016 to 12/31/2018), with a view to analyzing their kidney function evolution.

Material and Methods: We included only patients with longer than 6 months follow-up and at least 4 clinical-laboratory controls that included measured Creatinine Clearance (ClCr) and estimated GFR with CKD-EPI (eGFR). We evaluated: the agreement between ClCr and eGFR through Bland-Altman analysis; progression rate, classified as fast (eGFR loss >5ml/min/year), slow (eGFR loss 1-5 ml/min/year) and non-progressive (eGFR loss <1 ml/min/year or eGFR increase). We also evaluated which clinical-laboratory parameters (diabetes, blood pressure control, use of ACEi/ARBs, ischemic myocardiopathy, peripheral obliterant arteriopathy (POA), proteinuria, hemoglobin, uric acid, PTH, phosphorus) were associated to the different eGFR progression classes by means of bivariate regression and multinomial multiple regression model. Results: Measured CrCl and eGFR where often in agreement, especially for GFR values <12ml/min. The average slope of eGFR was -3.05 ±3.68 ml/min/1.73 m2/year. The progression of kidney function was fast in 17% of the patients, slow in 57.6%, non-progressive in 25.4%. At the bivariate analysis, a fast progression was associated with poor blood pressure control (p=0.038) and ACEi/ARBs use (p=0.043). In the multivariable model, only peripheral obliterative arteriopathy proved associated to an increased risk of fast progression of eGFR (relative risk ratio=5.97).

Discussion: Less than one fifth of our patients presented a fast GFR loss (>5 ml/min/year). The vast majority showed a slow progression, stabilisation or even an improvement. Despite the limits due to the small sample size, the data has encouraged us not to consider CKD stage 5 as an inexorable and short journey towards artificial replacement therapy.

 

Keywords: chronic kidney disease, CKD, disease progression, glomerular filtrate, chronic renal failure

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Introduzione

La malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD) colpisce oltre 850 milioni di persone nel mondo (11% circa della popolazione mondiale) [1]; di questi, 37 milioni sono negli Stati Uniti (pari al 15% della popolazione) [2], 38 milioni in Europa (il 10% della popolazione) [3] e circa 4 milioni in Italia, pari a circa il 7% della popolazione [4]. Numerosi studi hanno approfondito i fattori di rischio e progressione del danno renale cronico, spesso includendo nel campione fasi di CKD estremamente polimorfe come fenotipo clinico, rischio cardiovascolare e complicanze in corso di malattia [58].

Agli inizi degli anni ’90, Maschio [10] considerava un valore di creatininemia di circa 2 mg/dl come un “punto di non-ritorno” della storia naturale della CKD,  al di là del quale si prevedeva un inevitabile e progressivo peggioramento della funzione renale, nonostante gli interventi di tipo dietetico e terapeutico messi in atto. Tutt’oggi si ritiene che la malattia renale cronica abbia un andamento prevalentemente lineare con una progressione più rapida nelle fasi più avanzate. Recenti studi osservazionali [11, 12] hanno evidenziato invece come nelle fasi avanzate della CKD la modalità di progressione possa essere variabile, mostrando spesso un andamento non lineare e fortemente eterogeneo.

 

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Screening and management of HCV-positive CKD outpatients

Abstract

Background: Hepatitis C Virus (HCV) disease, which is commonly underdiagnosed, in addition to the well-known effects on the liver is also a risk factor for Cronic Kidney Disease (CKD) and End Stage Renal Disease (ESRD). It worsens the outcome at every stage of CKD; around 400.000 people worldwide die from HCV-related causes each year. The KDIGO 2018 Guidelines recommend that all patients be evaluated for renal disease when HCV is diagnosed and be screened for HCV when CKD is diagnosed, as the prevalence may be higher than in the general population. Effective screening is therefore necessary in order to establish early treatment. Aims of the study: We ran a systematic program of screening and management of HCV in nephropathic outpatients in order to improve Sustained Virological Response 12 weeks after the end of treatment (SVR 12) and renal functions such as GFR and proteinuria. Materials and methods: We considered outpatients not in dialysis and older than 18. The systematic, prospective observational study of HCV infection run over a period of 18 months. Results: Of 2798 nephropathic outpatients that came to our attention during this period, we identified 108 HCV-positive patients (prevalence: 3.85%). The test for HCV-RNA resulted positive in 78 patients and, after hepatological evaluation and informed consent to treatment, 51 of them underwent therapy with the new direct-acting antivirals (DAAs). 34 patients concluded the treatment during the 18-month period, all of them with 100% SVR 12. The average pre-treatment GFR was 40.5 ml/m’; after treatment resulted equal to 45 ml/m’ (p=0.01). The average value of pre-treatment proteinuria was 1.18 g/24 h; it was reduced to 0.79 g/24 (p=0.015). The remaining 17 patients were still under treatment/evaluation at the end of the 18 months. Conclusions: Treatment with the new DAAs has been confirmed safe and effective and is associated with an improvement of renal functions. Systematic screening of nephropathic patients may therefore contribute to achieving the WHO target of eliminating HCV by 2030.

Keywords: Hepatitis C Virus, HCV, cronic kidney disease, CKD outpatients

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Introduzione

L’infezione da Virus C dell’Epatite (HCV) è comunemente sottodiagnosticata. Vi sono ben note ripercussioni sul fegato, che vanno da cambiamenti istologici minimi a fibrosi estesa e cirrosi con o senza carcinoma epatocellulare (HCC) [1], ma è ormai risaputo che esistono altre manifestazioni cliniche che vanno “oltre il fegato” ed è stato introdotto il concetto di “Malattia da HCV”. Le sue manifestazioni includono malattie cardiovascolari, compromissione del metabolismo del glucosio, disfunzione neurocognitiva, vasculite crioglobulinemica, linfoma non-Hodgkin a cellule B e malattia renale cronica [2].

La malattia renale in corso di HCV è raramente il risultato di una glomerulonefrite: glomerulonefrite membranoproliferativa di tipo I (Type I MPGN), poliarterite nodosa (PAN), nefropatia membranosa (MN), IgA nephropathy (IgAN), glomerulosclerosi focale e segmentaria (FSGS) costituiscono meno del 10% dei casi. La malattia renale in corso di HCV è dovuta per lo più a CKD, acute kidney injury (AKI), o sindrome epatorenale [3]. Sempre maggiori evidenze indicano il virus dell’epatite C come un fattore di rischio, influenzato tra l’altro dalla durata dell’infezione, per la comparsa di proteinuria, malattia renale cronica ed ESRD nella popolazione adulta generale, al di là dei fattori di rischio tradizionali quali diabete, ipertensione, obesità e dislipidemia [48]. Inoltre, l’infezione da HCV peggiora l’outcome dei pazienti in ogni stadio della CKD, accelerando il declino della funzione renale soprattutto negli stadi 4° e 5° [911]; anche la mortalità cumulativa risulta aumentata [9,12]. È per questo che le Linee Guida KDIGO 2018 per l’Epatite C raccomandano che tutti i pazienti siano valutati per la malattia renale al momento della diagnosi di HCV (Grado 1 A), ovvero di sottoporre a screening per HCV tutti i pazienti giunti all’osservazione per CKD, poichè in questi ultimi la prevalenza dell’infezione da HCV può essere maggiore rispetto alla popolazione generale (Grado 1 C) [13].

 

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Vascular dysfunction in Cardiorenal Syndrome type 4

Abstract

The Cardiorenal Syndrome type 4 (CRS-4) defines a pathological condition in which a primary chronic kidney disease (CKD) leads to a chronic impairment of cardiac function. The pathophysiology of CRS-4 and the role of arterial stiffness remain only in part understood. Several uremic toxins, such as uric acid, phosphates, advanced glycation end-products, asymmetric dimethylarginine, and endothelin-1, are also vascular toxins. Their effect on the arterial wall may be direct or mediated by chronic inflammation and oxidative stress. Uremic toxins lead to endothelial dysfunction, intima-media thickening and arterial stiffening. In patients with CRS-4, the increased aortic stiffness results in an increase of cardiac workload and left ventricular hypertrophy whereas the loss of elasticity results in decreased coronary artery perfusion pressure during diastole and increased risk of myocardial infarction. Since the reduction of arterial stiffness is associated with an increased survival in patients with CKD, the understanding of the mechanisms that lead to arterial stiffening in patients with CRS4 may be useful to select potential approaches to improve their outcome. In this review we aim at discussing current understanding of the pathways that link uremic toxins, arterial stiffening and impaired cardiac function in patients with CRS-4.

 

Keywords: arterial stiffness, cardiorenal syndrome, chronic kidney disease, inflammation, intima-media thickness, uremic toxins

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Chiave di lettura

Ragionevoli certezze: I pazienti con insufficienza renale cronica muoiono più spesso per un evento cardiaco che per la ridotta funzione renale. Il riconoscimento di questo link ha portato all’identificazione della Sindrome Cardiorenale di tipo 4. Nel corso dell’insufficienza renale cronica, con la progressiva riduzione della funzione renale, si assiste ad un aumento delle tossine uremiche ed alla comparsa di infiammazione cronica e stress ossidativo. L’ambiente uremico causa l’aumento della rigidità arteriosa, un riconosciuto fattore di rischio cardiovascolare ed un endpoint cardiovascolare intermedio. L’aumentata rigidità arteriosa provoca, infine, alterazioni emodinamiche e pressorie che causano la disfunzione cardiaca cronica. Nei pazienti con insufficienza renale cronica, riducendo la rigidità arteriosa migliora l’outcome.  

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