Contrast Media Toxicity and Its Prevention

Abstract

Intravenous iodinated contrast media are commonly used in clinical practice, ranging from medical imaging to interventional radiology (IR) procedures and endovascular interventions. Compared with patients with normal renal function, nephropathic patients have an increased risk of acute kidney injury (AKI). Nevertheless, this condition cannot represent a limit to diagnostics or endovascular interventions.
Despite the literature of the last five years, conflicting management and approaches for nephropathic patients persist, including the use of contrast agents and treatments replacing renal functions, which are often mistakenly considered as part of preventive strategies. Though the issue has been widely discussed, specialists often cope with uncertainty in handling properly the administration of contrast media and renal counselling requests. Furthermore, there is a general difficulty in distinguishing the Post-Contrast Acute Kidney Injury (PC-AKI) from the Contrast-Associated Acute Kidney Injury (CI-AKI).
The present review aims to provide an update on the issue and examine strategies to reduce the acute kidney injury risk after the administration of contrast media. These strategies include the early identification of high-risk individuals, the choice of the contrast media and the proper dosage, the suspension of nephrotoxic drugs, the follow-up of the high-risk individuals, and the early identification of AKI.

Keywords: Constrast Medium, Acute Kidney Injury, Prevention, Hydration

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Introduzione

Il danno renale acuto (Acute Kidney Injury, AKI) è caratterizzato dal brusco declino, spesso reversibile, della velocità di filtrazione glomerulare (GFR) [1].

Nel novero degli agenti patogeni in grado di configurare l’AKI, l’impiego di mezzi di contrasto iodati è ben codificato.

La definizione di Post-contrast Acute Kidney Injury (PC-AKI) è il termine generico che dovrebbe essere usato quando si verifica un improvviso deterioramento della funzionalità renale entro 48 ore dalla somministrazione intravascolare di mezzo di contrasto iodato [2]. È da applicare a quelle situazioni in cui non è stata eseguita una valutazione clinica dettagliata per altre potenziali eziologie di AKI o in cui altre cause di AKI non possono essere ragionevolmente escluse. Tale definizione fa riferimento, dunque, all’incremento della creatinina o alle diminuzioni della velocità di filtrazione glomerulare stimata (eGFR) dopo l’esposizione al contrasto e che può o meno essere causato direttamente dal mezzo di contrasto [2].

Si preferisce, invece, l’uso della definizione “Contrast-induced acute kidney injury” (CI-AKI) per indicare le situazioni nelle quali il danno renale si verifichi entro le 48 ore dalla somministrazione del mezzo di contrasto iodato e sia causalmente collegato alla somministrazione di mezzo di contrasto. La presenza di un nesso causale tra esposizione al mezzo di contrasto e AKI può essere giudicata solo dopo un’approfondita valutazione clinica che permetta l’esclusione di altre potenziali cause di AKI. Se dopo tale valutazione non vengono identificate altre cause all’infuori dell’esposizione al contrasto, è appropriato in questi casi utilizzare il termine CI-AKI [2].

 

Scopo dello studio

Nonostante la letteratura prodotta nell’ultimo quinquennio, dal confronto con gli altri specialisti appaiono ancora controverse le modalità di gestione e di approccio ai pazienti nefropatici, dall’arruolamento all’uso di contrasto, all’utilizzo dei trattamenti sostitutivi la funzione renale, che spesso erroneamente vengono considerati come parte delle strategie di prevenzione.

Il nostro studio ha lo scopo di presentare una revisione aggiornata della letteratura sulla nefropatia legata al mezzo di contrasto, seguendo le linee Guida Internazionali PRISMA [3], dalla definizione alla fisiopatologia, epidemiologia e strategie di prevenzione, valutando l’entità del problema allo stato dell’arte attraverso il confronto con le linee guida Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO) [1], European Society of Urogenital Radiology (ESUR) [4], American College of Radiology (ACR) [5]; diversi articoli sono stati prodotti nell’ultimo periodo su questo argomento e l’evoluzione delle conoscenze fisiopatogenetiche così come  le modifiche apportate dalle ultime linee guida in riferimento alle strategie preventive per la CI-AKI hanno suggerito l’opportunità di produrre un manoscritto rivolto in particolare ai nefrologi clinici che giornalmente si confrontano con questa sentita problematica.

 

Materiali e metodi

Per la stesura di questa review è stata eseguita una ricerca bibliografica sui database di Pubmed, Scopus e Web of Science, utilizzando le parole chiave ((venous AND/OR arterial contrast media [Title/Abstract]) AND (nephropathy [Title/Abstract])).

Due revisori indipendenti (S.C. e G.D.) si sono occupati, in prima battuta, di selezionare i titoli attinenti all’argomento utilizzando i seguenti criteri di inclusione:

  1. pubblicazioni peer-reviewed con dati originali;
  2. lingua inglese o italiana;
  3. accesso ai dati principali del lavoro mediante testo completo o mediante abstract.

I criteri di esclusione sono stati:

  1. lingua diversa da inglese ed italiano;
  2. lavori degli stessi Autori ripetuti.

I due revisori indipendenti hanno dunque selezionato gli studi per l’inserimento nella revisione. I titoli sono stati valutati per rilevanza e i risultati delle due ricerche bibliografiche sono stati confrontati risolvendo, mediante dibattito tra i due revisori indipendenti, le eventuali controversie sui titoli da includere nella stesura finale della review. I lavori originali che presentavano i criteri di inclusione stabiliti sono stati selezionati per una revisione più dettagliata.

Il dibattito tra gli autori è stato espletato mediante metodo Delphi, utile per validazione del consenso della validità interna al fine di evitare possibili bias [6].

Nel corso del documento si farà riferimento a “mezzo di contrasto” intendendo il mezzo di contrasto iodato: il mezzo di contrasto paramagnetico e quello ultrasonografico esulano dagli scopi di questo lavoro.

 

Risultati

La ricerca, condotta attraverso i sopracitati motori di ricerca, ha permesso di identificare inizialmente 168 titoli. Sono stati identificati, inoltre, 59 titoli aggiuntivi a partire dalle referenze bibliografiche degli stessi articoli summenzionati.

Dopo lettura ed eliminazione degli articoli duplicati, degli articoli non focalizzati sul topic, non in lingua inglese o italiana, con dati non originali, sono stati riportati in discussione 163 articoli (Figura 1).

Figura 1. Risultati presentati secondo diagramma PRISMA.
Figura 1. Risultati presentati secondo diagramma PRISMA.

La riduzione del rischio di danno renale legato all’infusione di mezzo di contrasto rappresenta l’obiettivo degli specialisti nella quotidiana pratica clinica. Diversi autori concordano sulla necessità di individuare i fattori di rischio in grado di impattare sulla funzione renale e di stabilire un protocollo infusionale coerente con le esigenze volemiche del paziente che, senza compromettere la sua emodinamica, ponga in essere una valida strategia di prevenzione.

 

Limiti epidemiologici

L’epidemiologia relativa al danno renale da mezzo di contrasto iodato appare confusa e i dati forniti in letteratura sono spesso tra di loro discordanti, con una variabilità circa l’incidenza del danno renale che spazia dall’1,3% al 33,3% [7]. Tali differenze trovano giustificazione nell’inclusione o esclusione dagli studi di soggetti che presentano vari fattori di rischio concomitanti, e dal tipo e volume del mezzo di contrasto iodato somministrato. Non trascurabile fenomeno di confondimento che complica la dimensione del problema è l’utilizzo improprio, spesso in maniera indifferente, delle definizioni di PC-AKI e di CI-AKI, a causa della storica fusione dei due termini. Ampi studi retrospettivi condotti su coorti di pazienti ad alto rischio, sottoposti all’infusione di mezzo di contrasto iodato, hanno riportato un’incidenza di PC-AKI elevata, con incidenza maggiore per la via intra-arteriosa (procedure endovascolari, riperfusioni, coronarografie) e minore per la via venosa [8], mentre parallelamente l’incidenza di CI-AKI è risultata essere, nel complesso, trascurabile per valori di eGFR > 30/ml/1.73m2 [5].

 

Fattori di rischio

Numerosi sono i fattori di rischio che favoriscono l’insorgenza di AKI nei pazienti sottoposti ad infusione di mezzo di contrasto. Alcuni di essi sono legati alla storia clinica del soggetto da sottoporre all’infusione endovenosa di mezzo di contrasto e riguardano la funzione renale preesistente, le comorbidità associate e la concomitante terapia assunta. Altri, invece, riguardano le caratteristiche ed il volume del mezzo di contrasto (Tabella 1).  Ipertensione arteriosa, insufficienza renale, diabete mellito, storia di precedenti infarti del miocardio, età, frazione di eiezione ventricolare sinistra <40% sono noti fattori di rischio di AKI dopo esposizione a mezzo di contrasto iodato [9].

Fattori di rischio legati al paziente Fattori di rischio legati ad agenti chimici Fattore di rischio legato ad agenti nefrotossici
eGFR <30ml/min/1,73m2 Mezzo di contrasto ad elevata osmolarità Uso concomitante di sostanze nefrotossiche (NSAIDs, aminoglicosidi, ACEI, ARB, biguanidi)
Età>65 anni Quantità di mezzo di contrasto utilizzato
Ipertensione Infusioni ripetute di mezzo di contrasto
Anemia
Scompenso cardiaco
Stato settico  
Diabete    
Tabella 1. Fattori di rischio per danno renale da mezzo di contrasto.

Fattori di rischio legati alla storia clinica del paziente

Il rischio di PC-AKI aumenta con ogni aumento graduale dello stadio di chronic kidney disease (CKD), per cui il rischio di PC-AKI risulta di circa il 5% in pazienti con eGFR maggiore o uguale a 60; 10% a eGFR con 45-59; 15% con eGFR di 30-44; 30% con eGFR inferiore a 30 ml/min/1,73 m2 [5]. Il rischio di PC-AKI è molto più alto del rischio di CI-AKI in quanto include tutte le condizioni nelle quali si verifica una riduzione della perfusione renale, spesso conseguenza di insufficienza cardiaca, ipovolemia, instabilità emodinamica o di farmaci che influiscono sull’emodinamica renale [10] coincidenti con la somministrazione di mezzi di contrasto [5]. Nel già citato lavoro di Wilhelm-Leen et al. [11], la somministrazione di mezzo di contrasto è stata associata a un rischio più elevato di PC-AKI se coesistono i seguenti quadri patologici: sepsi (35,8% contro 32,9%), polmonite (16,3% contro 12,7%), infezione del tratto urinario/pielonefrite (17,4% contro 15,7%), peritonite (31,4% contro 28,9%), sanguinamento gastrointestinale (16,8% contro 13,8%), esacerbazione della broncopneumopatia cronica ostruttiva (16,3% contro 15,1%) e pancreatite acuta (16,4% contro 8,2%). In generale, le differenze di rischio tra i gruppi erano piccole: circa il 2-3% assoluto, 15-20% relativo. L’eccezione notevole è stata la pancreatite acuta: per questi pazienti la somministrazione di mezzo di contrasto è stata associata a un raddoppio del rischio di PC-AKI. Per molti altri stati patologici, i pazienti che hanno ricevuto il mezzo di contrasto hanno manifestato un tasso inaspettatamente più basso di PC-AKI: esacerbazione dell’insufficienza cardiaca (16,6% contro 19,0%), endocardite (16,4% contro 19,9%), sindrome coronarica acuta (SCA) (6,4% contro 17,4%), tromboembolismo venoso (6,9% contro 9,2%) e ictus/incidente cerebrovascolare (6,7% contro 7,5%). Lo studio retrospettivo monocentrico condotto da Hinsen et al. [12] eseguito su un totale di 82.729 pazienti sottoposti a TC con o senza mezzo di contrasto in 5 anni (dal 2009 al 2014), aveva come outcome primario l’incidenza di CI-AKI e come outcome secondario dialisi e trapianto renale a 6 mesi. In tale studio, l’incidenza di AKI è risultata paragonabile in tutti i gruppi. La somministrazione di mezzo di contrasto iodato non è stata associata ad una maggiore incidenza di AKI (odds ratio per i criteri di nefropatia indotta da mezzo di contrasto = 0,96, intervallo di confidenza al 95% da 0,85 a 1,08; e odds ratio per i criteri Acute Kidney Injury Network/Kidney Disease Improving Global Outcomes = 1,00, 95% intervallo di confidenza da 0,87 a 1,16) tra i vari sottogruppi, indipendentemente dalla funzione renale al basale. Inoltre, la somministrazione di contrasto non è stata associata ad una maggiore incidenza di malattie renali croniche, dialisi o trapianto renale a 6 mesi.

Il rischio di CI-AKI è sostanzialmente inferiore al rischio di PC-AKI, ma rimane incerto nei pazienti con End Stage Kidney Disease (ESKD) che rappresenta la più grave condizione clinica di rischio predisponente la CI-AKI; sebbene diversi studi osservazionali controllati non abbiano mostrato evidenza di CI-AKI indipendentemente dallo stadio di CKD preesistente [13], altri hanno trovato evidenza di CI-AKI solo in pazienti con funzionalità renale gravemente ridotta (eGFR <30 ml/min/1.73m2) [14]. L’incidenza di CI-AKI nella popolazione con funzionalità renale normale è molto bassa (cioè 0-5%), tuttavia è segnalata come 12-27% nei pazienti con CKD preesistente e fino al 50% nei pazienti allo stadio IV-V secondo KODQI [11].

Nella metanalisi di Mc Donald JS et al. [13], il rischio di CI-AKI, in assenza di fattori di rischio associati, è stato stimato essere trascurabile per eGFR maggiore o uguale a 45 ml/min/1,73 m2; 0-2% per eGFR di 30-44 ml/min/1,73 m2 e 0-17% per eGFR inferiore a 30 ml/min/1,73 m2. Questa metanalisi, comunque, presenta importanti limiti in quanto: non stratifica il rischio nei pazienti sulla base della preesistente CKD (gli autori stessi mettono in evidenza questo limite, verosimilmente legato ad un non omogeneo campionamento dei pazienti sulla base della CKD); sono osservazionali; molte delle analisi sui sottogruppi includono studi poco numerosi risultando, pertanto, probabilmente sottodimensionate.

Accanto all’insufficienza renale preesistente, altre condizioni patologiche quali il diabete, l’età avanzata (≥80 anni), l’ipertensione, l’insufficienza cardiaca congestizia, la sepsi e l’anemia possono aumentare l’incidenza di PC-AKI, le complicanze a breve e lungo termine e la mortalità dei pazienti [15].

Fattori di rischio legati al mezzo di contrasto iodato

Le proprietà fisico-chimiche del mezzo di contrasto, come la sua osmolalità e viscosità, svolgono un ruolo determinante alla patogenesi del danno renale correlato al mezzo di contrasto. L’osmolarità indica la concentrazione di particelle in una soluzione ed è espressa in osmoli di particelle di soluto per litro di soluzione (Osm/L). Con osmolalità, invece, si intende il numero particelle per unità di peso (mOsm/kg). Il mezzo di contrasto si divide in tre tipi in base alla sua osmolalità, ovvero ad alta osmolarità (HOCM), iso-osmolare (IOCM) e a bassa osmolarità (LOCM).

Nel corso degli anni il mezzo di contrasto ha subito una progressiva evoluzione. Per maggiore approfondimento si rimanda al lavoro di Wallingford [16].

I mezzi iso-osmolari sono l’ultima forma di contrasto utilizzata in quanto hanno la stessa osmolalità del siero umano e, sebbene vengano definiti da diversi autori come meno nefrotossici rispetto a quelli iper/ipo-osmolari [17], conclusioni simili non trovano il consenso unanime della letteratura.

Non ci sono differenze clinicamente rilevanti confermate dalla letteratura circa il rischio di PC-AKI tra i mezzi di contrasto a bassa osmolalità (LOCM) e i mezzi di contrasto a iso-osmolarità (IOCM) per applicazioni endovenose [18]. L’evidenza indiretta suggerisce che il LOCM iohexolo possa avere un rischio maggiore rispetto ad altri LOCM, sebbene la potenziale differenza di rischio non sia stata confermata [18].

Di avviso diverso sono, ad esempio, gli studi di Rudnick et al., che non hanno riscontrato differenze nell’insorgenza di PC-AKI dopo la somministrazione di IOCM rispetto al LOCM [19]. Davenport et al. [20], in un lavoro volto a determinare se il mezzo di contrasto iodato a bassa osmolalità somministrato per via endovenosa fosse associato a PC-AKI post-tomografia computerizzata (TC), hanno confrontato 19 covariate tra 17.652 individui, giungendo alla conclusione che il mezzo di contrasto iodato ipotonico ha un impatto significativo sull’insorgenza di AKI sia dopo TC che dopo angiografia (P=0,04) nei pazienti con preesistente insufficienza renale e creatinina sierica > 1,5 mg/dl.

Sulla base delle evidenze fornite dallo stesso Davenport, in una revisione sistemica del 2020, è probabile che qualsiasi differenza nel rischio di PC-AKI tra LOCM e IOCM non sia clinicamente significativa [5].

Differenze clinicamente significative sono state dimostrate, invece, negli studi randomizzati che hanno confrontato il comportamento di LOCM e IOCM nelle somministrazioni intra-arteriose ed endovenose [18]: nella somministrazione intra-arteriosa con esposizione renale di secondo passaggio, il mezzo di contrasto iniettato nel cuore destro e nelle arterie polmonari o direttamente nelle arterie carotidee, succlavia, brachiale e mesenterica, nonché nell’aorta sottorenale e nelle arterie iliache e femorali, raggiunge le arterie renali dopo la diluizione; questa somministrazione presenta lo stesso rischio della somministrazione endovenosa (più basso) [21]. Nella somministrazione intra-arteriosa con esposizione renale di primo passaggio, il mezzo di contrasto iniettato nel cuore sinistro, nell’aorta addominale toracica e surrenale e selettivamente nelle arterie renali, raggiunge le arterie renali durante il primo passaggio; i pazienti sottoposti a queste procedure presentano frequentemente comorbidità, per quanto sia difficile distinguere gli effetti dovuti alla somministrazione del mezzo di contrasto da quelli dovuti ad altre cause concomitanti, come, ad esempio, nelle procedure interventistiche endovascolari, il rischio di malattia ateroembolica renale [22, 23].

Per quel che concerne le eventuali differenze nella metodologia di somministrazione del mezzo di contrasto sul rischio di sviluppare una CI-AKI, in uno studio di McDonald et al. [24] viene riportata nei pazienti sottoposti a cateterismo cardiaco (somministrazione intra-arteriosa) un’incidenza sostanzialmente più elevata di AKI, dialisi e mortalità post-procedurale rispetto a quella di pazienti sottoposti a studio angiografico o a TC con mezzo di contrasto (somministrazione endovenosa). Inoltre, l’incidenza di AKI dopo la procedura è stata stimata essere del 10-50% [25], mentre l’incidenza generale di AKI dopo la TC con mezzo di contrasto è stata riportata tra il 5-20% [26]. È stato ipotizzato che questo possa essere dovuto all’utilizzo di una maggior quantità di mezzo di contrasto nelle procedure intrarteriose, a un maggior rischio di dislocazione di ateroemboli e, non ultimo, a maggiori comorbidità dei pazienti sottoposti a procedure intra-arteriose [27].

Nessuno studio ha confrontato direttamente il rischio di CI-AKI tra LOCM e IOCM: si ritiene che non vi siano differenze clinicamente rilevanti nel rischio di CI-AKI tra LOCM e IOCM [28].

Fattori di rischio legati ad agenti nefrotossici

Altro potenziale fattore di rischio di danno renale dopo somministrazione intra-arteriosa di mezzo di contrasto iodato è rappresentato dai farmaci nefrotossici. Tra questi farmaci annoveriamo:

  • gli antinfiammatori non steroidei (NSAIDs), che alterando l’emodinamica dei vasi renali causano fibrosi interstiziale renale;
  • gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone, come gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-i) e i bloccanti del recettore dell’angiotensina (ARB), gli inibitori del recettore dell’angiotensina-neprilisina (ARNI), gli antagonisti dei recettori dei mineralcorticoidi (MRA), i quali, provocando una riduzione del eGFR, rallentano la clearance del mezzo di contrasto. Inoltre, l’angiotensina II è in grado di indurre la produzione del transforming growth factor β1 (TGF-β1) che presenta attività potenzialmente protettiva sulla necrosi delle cellule tubulari prossimali renali, perde tale potere induttivo sul TGF-β1 (e quindi la conseguente nefroprotezione), una volta inibita dal sistema renina-angiotensina-aldosterone;
  • gli aminoglicosidi presentano diversi gruppi amminici sulla molecola che conferiscono loro una carica cationica a pH fisiologico. Di conseguenza, le molecole di aminoglicoside si legano prontamente ai fosfolipidi anionici all’interno della membrana plasmatica del tubulo prossimale in modo elettrostatico saturabile. L’affinità relativa di un aminoglicoside per la membrana plasmatica del tubulo prossimale è correlata alla nefrotossicità osservata nella pratica clinica [29].
  • la metformina; in questo caso l’eliminazione del farmaco avviene principalmente a livello renale tramite trasportatori localizzati nel tubulo prossimale. Per tale motivo la concentrazione plasmatica della metformina aumenta nel corso dell’insufficienza renale cronica. A livello urinario non sono stati rinvenuti metaboliti della metformina ma esclusivamente farmaco immodificato. La complicanza più temuta è l’acidosi lattica che consegue all’assunzione di tale farmaco nel contesto della malattia renale cronica [30].
    Le linee guida ACR del 2018 suggeriscono che, nei pazienti ritenuti ad alto rischio di CI-AKI in trattamento con metformina che devono essere sottoposti all’infusione di mezzo di contrasto iodato, il farmaco debba essere temporaneamente sospeso al momento dello studio o subito prima, e deve essere sospeso per almeno 48 ore [31]; tale indicazione è stata confermata – negli stessi termini – anche dalle linee guida ESUR, che peraltro precisano la possibilità di proseguire il trattamento con metformina dopo aver escluso alterazioni della funzione renale a 48 ore [4].

 

Fisiopatologia del danno renale

Il meccanismo fisiopatologico alla base del danno renale non è stato completamente chiarito. Diversi fattori agiscono attraverso molteplici pathways, sostenendo la genesi del danno renale (Figura 2).

Figura 2. Fisiopatologia del danno renale da mezzo di contrasto. NOS: ossido nitrico sintasi; Na+/K+: pompa sodio potassio.
Figura 2. Fisiopatologia del danno renale da mezzo di contrasto. NOS: ossido nitrico sintasi; Na+/K+: pompa sodio potassio.

Sicuramente il mezzo di contrasto ha effetti tossici diretti sulle cellule epiteliali tubulari renali e può indurre apoptosi e necrosi a causa delle sue proprietà fisico-chimiche. Il danno renale è caratterizzato dalla perdita di polarità cellulare dovuta alla ridistribuzione delle pompe Na+/K+, che sul fronte basolaterale delle cellule epiteliali tubulari diminuiscono mentre aumentano sul lato della superficie luminale, comportando l’incremento del trasporto di ioni sodio ai tubuli contorti distali (Figura 3) e così lo spasmo dei vasi sanguigni renali attraverso il feedback tubuloglomerulare. Come conseguenza si verificherebbe l’incremento della pressione intravasale, la diminuzione del GFR e l’ostruzione del lume tubulare.

Danno esercitato dal mezzo di contrasto sulla pompa Na+/K
Figura 3. Danno esercitato dal mezzo di contrasto sulla pompa Na+/K+. Il danno renale è caratterizzato dalla perdita di polarità cellulare dovuta alla ridistribuzione delle pompe Na+/K+, che sul fronte basolaterale delle cellule epiteliali tubulari diminuiscono mentre aumentano sul lato della superficie luminale, comportando l’incremento del trasporto di ioni sodio ai tubuli contorti distali e così lo spasmo dei vasi sanguigni renali attraverso il feedback tubuloglomerulare. Come conseguenza si verificherebbe l’incremento della pressione intravasale, la diminuzione del GFR e l’ostruzione del lume tubulare. MEZZO DI CONTRASTO: mezzo di contrasto; HCO3-: ione bicarbonato; A.C: anidrasi carbonica; CO2 anidride carbonica, ATP: adenosin-trifosfato; H+: ione idrogeno; Na+: ione sodio; K+: ione potassio; H2CO3: acido carbonico.

Altro meccanismo indiretto attraverso cui si determina il danno renale, risiede nella capacità del mezzo di contrasto di aumentare la produzione di radicali liberi dell’ossigeno (riducendo l’attività biologica cellulare) e di promuovere la perossidazione dei lipidi. Riducendo l’attività degli enzimi antiossidanti e della superossido dismutasi, favorisce la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS), che causano danni alle cellule epiteliali tubulari renali e alle cellule adiacenti. L’aumento dei ROS induce la produzione di agenti vasocostrittori (come l’endotelina) e determina l’inibizione dell’attività della ossido nitrico sintasi (NOS) e della prostaciclina sintasi, portando, così, alla riduzione di sostanze vasodilatatrici (come ossido nitrico, NO, e prostaciclina, PGI2) nel plasma e, di conseguenza, alla riduzione della perfusione renale e all’ipossia cellulare [33]. Per quanto la vascolarizzazione della corticale midollare renale rappresenti solo il 10% del flusso sanguigno renale, le cellule epiteliali nel segmento spesso ascendente dell’ansa di Henle svolgono un lavoro metabolicamente stressante rendendosi particolarmente suscettibili agli insulti ischemici ed ipossici che occorrono nel corso di tali fluttuazioni del circolo perfusorio. Inoltre, il mezzo di contrasto può aumentare la viscosità del sangue, rallentare il flusso sanguigno microcircolatorio e influenzare la pressione osmotica del sangue, riducendo così la plasticità dei globuli rossi e aumentando il rischio di microtrombosi [34].

 

Prevenzione del danno renale

La PC-AKI complica circa il 7% di tutti gli interventi coronarici percutanei (PCI). Nello 0,3% dei casi richiede l’avvio del trattamento dialitico, si associa all’incremento degli eventi avversi quali morte, infarto del miocardio e sanguinamento, che si traducono nell’allungamento della degenza media e nell’aumento dei costi negli USA (rispettivamente circa 3,6 giorni e $ 10.000) [35].

Idratazione fissa e idratazione controllata

L’idratazione costituisce il metodo di profilassi più diffuso nonché il più efficace nella prevenzione di PC-AKI e CI-AKI [36], in quanto il mantenimento dell’euvolemia impedisce l’iperattivazione del sistema nervoso simpatico e del sistema renina-angiotensina, contrastando la vasocostrizione renale esercitata dal mezzo di contrasto, diluendo quest’ultimo all’interno del lume tubulare renale, riducendo il tempo di contatto con le cellule tubulari renali [37].  È noto come la sola somministrazione di liquidi per os non sia sufficiente all’ottenimento di un’adeguata prevenzione di tale rischio: pertanto è necessario l’utilizzo di soluzioni per infusione endovenosa [38]. Le linee guida del 2015 sulla sindrome coronarica acuta, le linee guida della Società Europea di Cardiologia del 2018 sulla rivascolarizzazione del miocardio e diversi autori concordano nel dire che l’idratazione per via endovenosa è raccomandata nei pazienti con un eGFR <60 ml/min/1,73 m2 nelle 12 ore antecedenti e nelle 24 ore successive la procedura [39].

Ciononostante, persistono controversie circa la tipologia di soluzione da adottare nella terapia di idratazione e i volumi da infondere. Attualmente, la somministrazione di soluzioni all’1,4% di bicarbonato di sodio [40] e allo 0,9% di soluzione fisiologica rappresenta la prima scelta nella grande maggioranza delle situazioni. Seppure precedenti studi abbiano evidenziato come la somministrazione endovenosa di bicarbonato di sodio sia più efficace della soluzione salina nel ridurre l’incidenza di PC-AKI, nessuna differenza è stata identificata tra le due soluzioni in un recente studio multicentrico su un totale di 5.177 soggetti condotto da Weisbord et al. [41]. L’utilità e la praticità di impiego del bicarbonato trova giustificazione nelle meta-analisi di Meier [42] e in quella più recente di Zhang [43] dalle quali emerge il vantaggio dato dalla correzione dell’acidosi nelle condizioni in cui non è possibile eseguire un’idratazione prolungata, quali le procedure d’emergenza. Inoltre, l’impiego del bicarbonato di sodio rimane più efficace rispetto all’infusione di ringer [44]. Ulteriori controversie riguardano più specificatamente la dose da infondere. Diversi studi sono concordi su protocolli di idratazione fissa: il protocollo di idratazione a base di bicarbonato di sodio consiste in un’infusione di circa 150 mEq/l di soluzione di 3 ml/kg/h da somministrare in un’ora prima dell’esposizione del mezzo di contrasto e in un’infusione di 1 ml/kg/ h nelle 6 ore successive; tale protocollo si differenzia per durata da un tipico protocollo di idratazione salina con un’infusione di 1 ml/kg/h da 6 a 12 ore prima e un ulteriore infusione di 1 ml/kg/h per ulteriori 6-12 ore dopo l’esposizione al mezzo di contrasto [45], ma la necessità di tenere in considerazione anche le caratteristiche del singolo paziente, quali funzione cardiaca, equilibrio idro-elettrolitico, acido base e comorbidità, nonché i rischi di un’overload di fluidi, hanno portato alla necessità di sviluppare un nuovo approccio basato sul concetto di idratazione controllata [46]. È noto infatti come infusioni eccessive possano aumentare il rischio di insufficienza cardiaca, aritmia e morte a breve termine nei pazienti ad alto rischio. Tra le possibili modalità di implementazione di una strategia di idratazione controllata potrebbe figurare l’uso di parametri emodinamici quali la pressione venosa centrale (PVC), la pressione telediastolica del ventricolo sinistro (LVEDP), la collassabilità della vena cava [47], la bioimpedenzometria e il volume urinario [48]. A tal riguardo è estremamente stimolante il lavoro pubblicato da Azzalini et al. “LVEDP-Guided Versus UFR-Guided Hydration for CA-AKI Prevention: Should We Be Guided by Our Heart or Kidneys?” [35], che contrappone alla one-size-fits-all hydratation protocolli di idratazione personalizzati e basati sulla reale volemia del paziente.

Un’interessante mediazione tra l’esigenza di idratazione e il rischio di overload è rappresentato dal sistema RenalGuard (RenalGuard Solutions, Milford, Massachusetts), un dispositivo che consente di ottimizzare la resa dell’espansione volemica facendo corrispondere al volume infuso l’output urinario (urine flow rate [UFR]-guided hydration) [35]. Al priming del sistema fa seguito un bolo di soluzione salina (circa 3 ml/kg in 20-30 min) e furosemide (0,25 mg/kg), così che, mantenendo un’elevata produzione di urina, il mezzo di contrasto possa essere rapidamente eliminato, salvaguardando il tubulo dai suoi effetti deleteri. Al paziente viene somministrata la prima dose di contrasto quando la diuresi supera i 300 ml/h. Trial randomizzati controllati [49] hanno dimostrato una drastica riduzione in termini di PC-AKI e necessità di terapia sostitutiva con l’approccio basato sull’UFR, rispetto ai regimi di idratazione fissa. Briguori et al. hanno, inoltre, verificato che rispetto alla terapia di idratazione fissa, la terapia di idratazione controllata con sistema RenalGuard ha portato ad una ridotta incidenza di edema polmonare (RR: 0,56, IC 95%: 0,39-0,79, P=0,036) [50]. Lo stesso autore [51], in uno studio condotto su 4 centri italiani (REMEDIAL II) ha dimostrato che il trattamento con RenalGuard è superiore alla sola terapia con bicarbonato di sodio e alla N-acetilcisteina nella prevenzione del danno renale acuto indotto dal mezzo di contrasto nei pazienti ad alto rischio. Convergono verso lo stesso orientamento lo Studio Pilot [52], lo Studio Mythos [53] che conclude come lo stimolo diuretico associato a un’idratazione adeguata riduca significativamente il rischio di nefropatia da contrasto se paragonato alla diuresi indotta dalla sola cauta idratazione e lo Studio Modena [54].

Viceversa, nessuna differenza nella capacità di ridurre l’incidenza di PC-AKI rispetto ai protocolli standard veniva evidenziata nel trial randomizzato controllato monocentrico di Nissan et al. Gli autori concludevano che 8 pazienti su 307 (2,6%) non sottoposti ad idratazione controllata sviluppavano PC-AKI, vs 8 pazienti su 296 (2,7%) sottoposti ad idratazione controllata che sviluppavano PC-AKI: pertanto, l’idratazione controllata non sembrava ridurre l’incidenza di PC-AKI (P=0,4710) [55].

– Potenziali vantaggi dell’idratazione controllata

È di interesse la possibilità di impostare quanto il bilancio idrico debba essere positivo (in pazienti disidratati) o negativo (in pazienti con sovraccarico idrico). In assenza di un dispositivo che permetta di valutare oggettivamente i volumi di infusione e l’outcome urinario, la valutazione rimane soggettiva e dipende unicamente dall’intuito dell’operatore. Il ricorso a un’idratazione controllata, come riportato dai su citati studi di Briquori et al., porta alla riduzione dell’incidenza dell’edema polmonare e dell’aggravamento dei quadri di scompenso cardiaco.

La metanalisi condotta da Prasad et al., su 10 studi relativi all’uso di RenalGuard in pazienti ad alto rischio, ha mostrato come l’impiego dell’idratazione controllata oltre che essere associato ad una significativa riduzione del rischio di PC-AKI rispetto al gruppo di controllo, si associava alla riduzione della mortalità, della dialisi e degli eventi cardiaci avversi maggiori (MACCE) rispetto al controllo [56].

– Limiti dell’idratazione controllata

Tra i limiti all’impiego dell’idratazione controllata possiamo annoverare il costo elevato dei dispositivi che li rendono – qualora a disposizione nelle aziende – in numero estremamente esiguo rispetto alle reali necessità dei clinici.

Altre strategie di prevenzione

In seno alle strategie di prevenzione del danno renale conseguente all’infusione di mezzo di contrasto, la letteratura offre un’ampia rosa di possibilità, più o meno efficaci, sulle quali l’opinione degli autori sono spesso contrastanti.

– NAC

Tra tutte le molecole associate alla prevenzione per la nefropatia da contrasto spicca la N-acetilcisteina (NAC). Si tratta di un importante agente riducente contenente un gruppo sulfidrilico, noto per le spiccate proprietà antiossidanti in grado di promuovere la sintesi del glutatione e regolare il metabolismo cellulare. Essa possederebbe, quindi, poteri antiossidanti. Inoltre, NAC sembra promuovere il rilascio di NO e ridurre la produzione di angiotensina inibendo l’attività degli enzimi ACE (vedi Fisiopatologia del danno renale).

Le meta-analisi che esaminano la NAC come molecola protettiva nel corso di infusione di mezzo di contrasto hanno prodotto risultati discordanti che dimostrano come l’eterogeneità dei dati forniti dai vari autori possa essere correlata alle diverse definizioni di PC-AKI  / CI-AKI, alle compresenza di fattori di rischio e ai valori di creatinina di base della popolazione in studio.

Se da una parte è tangibile l’entusiasmo degli autori [57] che tributano alla NAC ampia fiducia nella profilassi del danno renale da mezzo di contrasto, si è assistito ad un graduale disamoramento fino a restare ai margini delle strategie di prevenzione per l’incoerenza dei dati ottenuti [58].

È opinione di Xie et al. che la NAC possa ridurre significativamente l’incidenza di AKI dopo l’angiografia (OR: 0,78, IC 95%: 0,68-0,90, I2 = 37,3%) [57]. Nessun dubbio sulla validità dei suoi poteri nefroprotettivi, da sola o accompagnata ad altre molecole quali vitamina C, sodio bicarbonato, statine, per Kaj et al. [59].

Di altro avviso è lo studio prospettico presentato da Palli et al. Gli autori hanno dimostrato che l’incidenza di nefropatia non differiva tra il gruppo NAC (1200 mg) e il gruppo placebo (P=0,81) [60]. Concorda con Palli il più ampio studio randomizzato pubblicato da Weisbord et al. che non ha dimostrato differenze significative tra i 4993 pazienti ad alto rischio di complicanze renali sottoposti ad angiografia, trattati con NAC orale rispetto al placebo per la prevenzione della morte o per la prevenzione del danno renale acuto da contrasto [41].

Anche il beneficio della NAC per via endovenosa rimane incerto e il confronto tra i vari studi è difficile a causa delle differenze nelle popolazioni di pazienti e del dosaggio o della mancanza di un gruppo di controllo adeguato. Il lavoro di Biernaka et al. elogia le proprietà nefroprotettive del NAC in somministrazione endovenosa nella prevenzione del danno renale nel contesto di infusione di mezzo di contrasto [61]. Secondo uno studio pubblicato da Marenzi et al., il 7% dei pazienti che hanno ricevuto alte dosi di NAC per via endovenosa ha sviluppato reazioni anafilattoidi [62]. Secondo Khatami et al., nei pazienti con malattia renale cronica, la somministrazione di NAC tanto per via endovenosa quanto per via orale non è superiore al placebo per prevenire il danno renale [63]. La somministrazione della NAC in associazione ad altre molecole è ancora oggetto di discussione e spesso non trova spazio nella sperimentazione umana. Per quanto riguarda l’associazione NAC ed acido ascorbico, valutata da Feng et al. [64], questa non suggerisce vantaggi rispetto alla sola somministrazione della NAC. L’associazione, invece, tra acido ascorbico e bicarbonato di sodio ha dimostrato effetti protettivi da CI-AKI nei pazienti sottoposti a cateterismo arterioso per coronarografia [65].

– Inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5

Minore eco nell’ambito della prevenzione della nefropatia da contrasto hanno avuto altre molecole che mai hanno raggiunto la dignità di un uso diffuso nella pratica clinica. Tra queste è possibile citare sildenafil e tadalafil: in uno studio pubblicato da Iodarche et al. [66], il pre-trattamento con sildenafil e tadalafil, testati sui ratti maschi Widar modulando lo stress ossidativo, ha ridotto il rischio di danno renale da contrasto suggerendo che gli inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5 (PDE5I) possono essere buoni candidati in base alla loro capacità di modulare l’equilibrio ossidante/antiossidante. Il febuxostat, un inibitore della xantina ossidasi indicato nel trattamento della gotta e dell’iperuricemia cronica, ha trovato espressione favorevole tra le strategie preventive del danno renale da mezzo di contrasto negli studi di Ma et al. [67]. Rimane controversa l’efficacia di alprostadil. Tale molecola svolge un ruolo nel mantenimento e nella ridistribuzione del flusso sanguigno intrarenale e nell’escrezione di elettroliti e acqua. Una metanalisi pubblicata nel 2019 ha messo a confronto trentasei articoli (5495 pazienti in totale) e sembra dimostrare che, per i pazienti trattati con alprostadil 48-72 ore prima della somministrazione di mezzo di contrasto, l’incidenza del danno renale risultava essere sensibilmente inferiore rispetto al controllo (6,56% vs 16,74%) [68]. Le speranze riposte sull’alfa-tocoferolo, come valido protettore della creatinina e del eGFR contro i danni cagionati dal mezzo di contrasto, sono state presto ridimensionate dallo studio prospettico controllato condotto su 201 pazienti con malattia renale cronica (eGFR <60 ml/min) sottoposti ad angiografia coronarica e presentato da Samadi et al. nel 2020, che ha dimostrato come la somministrazione di alfa-tocoferolo non abbia alcun effetto benefico additivo rispetto alla soluzione fisiologica isotonica nella prevenzione della nefropatia da contrasto, nei pazienti con insufficienza renale cronica [69]. Sebbene l’alcalinizzazione delle urine potrebbe avere un razionale come effetto protettivo nei confronti della CI-AKI, l’infusione di soluzioni a base di citrato Na/K non ha dato risultati utili a dimostrarne la validità [70].

La trimetazidina è stata descritta come un agente anti-ischemico cellulare in grado di prevenire gli effetti deleteri dell’ischemia-riperfusione sia a livello cellulare che mitocondriale ed esercitare un effetto antiossidante. Essa inibisce il rilascio eccessivo di radicali liberi dell’ossigeno, limita l’acidosi cellulare, protegge le riserve di adenosina trifosfato (ATP), riduce la perossidazione lipidica di membrana ed inibisce l’infiltrazione dei neutrofili. La somministrazione di tale molecola alla dose di 35 mg due volte al giorno per os, combinata ad una cauta idratazione oppure ad altre molecole come il Coenzima Q10, è entrata recentemente nel novero delle sostanze utili a prevenire o ridurre l’incidenza di CI-AKI nel contesto delle procedure di angiografia coronarica in pazienti con insufficienza renale lieve-moderata [71]. Rispetto alla sola idratazione convenzionale [72], la trimetazidina sembra ridurre significativamente l’incidenza di CI-AKI e il livello di creatininemia nel postoperatorio, suggerendo un potere protettivo superiore alla sola idratazione convenzionale per il trattamento della CI-AKI che sfrutta l’incremento del metabolismo del glucosio nel rene e la riduzione dell’ossidazione degli acidi grassi, con un effetto protettivo sul danno dei radicali liberi renali e sul danno da ischemia-riperfusione [73]. Tuttavia, a causa dell’esiguità campionaria degli studi presenti in letteratura, è ancora necessario condurre trial clinici multicentrici, randomizzati e in doppio cieco per confermare il ruolo svolto dalla trimetazina nella prevenzione della CI-AKI.

– Antagonisti del recettore dell’adenosina

Sul piano della prevenzione della CI-AKI, recentemente hanno trovato spazio i vasodilatatori, come gli antagonisti del recettore dell’adenosina [74], il sarpogrelato [75], la dimetilarginina asimmetrica e l’amlodipina, in quanto possono ridurre l’ischemia midollare renale indotta da mezzo di contrasto mitigando la vasocostrizione renale. Altro vasodilatatore descritto in letteratura nella prevenzione della CI-AKI è il Nicorandil [76].

– Statine

Un discorso a sé stante meritano le statine che, oltre al noto potere ipolipemizzante, possiedono effetti antinfiammatori interferendo con la produzione di ossigeno attivo ed eliminando i radicali liberi. Inoltre, sono in grado di attivare le cellule progenitrici endoteliali per proteggere i vasi sanguigni [77].

La rosuvastatina e l’atorvastatina sembrano ridurre l’incidenza di PC-AKI e possedere un analogo potere protettivo [78] se somministrate ad alte dosi (rosuvastatina 40 mg, atorvastatina 80 mg) [79].

Per quanto non sia possibile trovare un consenso unanime tra gli autori, nel complesso la letteratura supporta gli effetti pleiotropici benefici dell’uso di statine sulla PC-AKI, per quanto, comunque si rendano necessari ulteriori studi clinici randomizzati per confermarne l’utilità clinica [80].

– Altro

Altre molecole hanno raggiunto la dignità della pubblicazione, sebbene non abbiano mai trovato applicazione nella pratica clinica e i risultati prodotti non siano concordi. Tra queste gli agonisti del recettore dell’adiponectina (AdipoRon) [81], la pentossifillina [82], l’antitrombina III [83], l’inibitore della C1-esterasi umana ricombinante [84], il tolvaptan [85], il Terz-butil-idrochinone [86], la quercetina [87], il probucol [88], l’allopurinolo [89], la prostaglandina E1 [90], le erbe medicinali cinesi [91], la silimarina (silibina, silicristina, silidianina), principio attivo del Silimarin, estratto dalla pianta officinale Sylibum Marianum [92], il timochinone [93], la ligustrazina [94], la curcuma [95], il resveratrolo [96], gli omega 3 [97] e per ultimo l’agonista del glucagon-like peptide receptor Exentina-4 [98], una molecola simile alle incretine che si trova nel veleno del Mostro di Gila, uno strano sauro dalla coda tozza del nord America.

Da ultimo, il campo della prevenzione del danno da mezzo di contrasto subisce il fenomeno del Precondizionamento Ischemico Remoto, o Remote Ischemic PreConditioning (RIPC), riconosciuto in diversi trial come alternativa alla terapia standard in termini di miglioramento dei livelli di creatinina sierica dopo somministrazione del mezzo di contrasto in pazienti a rischio. Il fascino discreto del fenomeno RIPC, come strumento di prevenzione della CI-AKI, risiede nella possibilità di istruire a livello molecolare l’organismo, sottoponendolo, mediante brevi cicli d’ischemia/riperfusione, a stress e danno sub-letale, in modo da ottenere protezione qualora sopraggiungessero stimoli potenzialmente letali tramite l’induzione di un fenotipo stress-resistente [99].

– Ruolo della dialisi

Frequentemente accade che il nefrologo venga consultato non solo per la stratificazione del rischio di CIN e per consulto sulle strategie preventive, ma anche per concordare sedute emodialitiche supplementari o non programmate per pazienti sottoposti a procedura con mezzo di contrasto. In realtà, non esiste nessuna evidenza di migliori outcome nei pazienti sottoposti a seduta emodialitica post-contrastografica e questa pratica è scoraggiata da ultime linee guida ESUR [4].

 

Discussione

La letteratura, come è possibile documentare con il corposo numero di articoli portati in discussione in questo paper, è ricca di lavori scientifici dedicati al danno renale da mezzo di contrasto.  In nome della PC-AKI e del CI-AKI sono state investite incalcolabili risorse umane e finanziarie, volte sia allo studio di una eterogenea pletora di sostanze finalizzate alla prevenzione, sia alla gestione delle conseguenze collaterali relative ai pazienti cui viene negata la procedura diagnostica o terapeutica con mezzo di contrasto. La stima del rischio di nefropatia da mezzo di contrasto può essere sopravvalutata in letteratura e sopravvalutato dai medici. Stime più accurate del rischio di AKI che tengano conto delle comorbidità possono migliorare il processo decisionale clinico quando si tenta di bilanciare i potenziali benefici dell’imaging con mezzo di contrasto ed il rischio di AKI. Un’accurata raccolta anamnestica (CKD, AKI pregresse, diabete, scompenso cardiaco, ipovolemia, infarto miocardico, anemia, chirurgia renale, ablazione renale, albuminuria, terapie farmacologiche concomitanti, chemioterapia) rappresenta uno strumento efficace nella stratificazione del rischio [100]. Un aiuto nella stratificazione del rischio è rappresentato dal Mehran Score System (Figura 4), in grado di fornire una predizione in termini percentuali dell’insorgenza di PC-AKI, sulla base delle comorbidità, dell’età del paziente e del volume di mezzo di contrasto da somministrare nel contesto di coronarografie [8], tenendo conto che se per le TC con contrasto si impiegano in media  tra 70 e 110 ml di mezzo di contrasto su un uomo di 70 kg (i volumi sono comunque suggeriti dalle case produttrici), per le coronarografie non esistono veri e propri protocolli standardizzati e l’infusione di mezzo di contrasto, di solito empiricamente stimata intorno a 30 ml, dipende molto dal caso specifico e dalle necessità particolari dell’operatore.

Figura 4. Algoritmo per l’identificazione del rischio di PC-AKI secondo Mehran.
Figura 4. Algoritmo per l’identificazione del rischio di PC-AKI secondo Mehran.

I pazienti con AKI o eGFR inferiori a 30 ml/min/1,73 m2, compresi i pazienti sottoposti a trattamento emodialitico, rappresentano senza dubbio il vivaio di utenti maggiormente temuti al momento della somministrazione del mezzo di contrasto. Le linee guida ACR [32], ESUR [4] e i documenti intersocietari SIRM-SIN-AIOM [22] sottolineano come i valori di creatininemia, presi singolarmente, non rappresentino un buon indice della funzione renale del paziente; i suoi valori tendono ad aumentare in maniera significativa solo quando il GFR è ridotto di almeno il 50%. Nello screening dei pazienti a rischio è utile, pertanto, misurare la funzione renale mediante formula MDRD o con formula CKD-EPI, come suggerito dalle linee guida ESUR. In accordo con la Consensus Statements from the American College of Radiology and the National Kidney Foundation, si ritiene che l’insufficienza renale cronica sia il principale fattore di rischio nel paziente oncologico, ma solo per un eGFR <30 ml/minuto/1,73 m2 misurata con la formula di Cockroft-Gault. Per tali categorie di pazienti la pratica clinica si costella di fratricide guerre inter-specialistiche alla caotica ricerca di una comune good practice che, per quanto molto ben definite dalle linee guida ACR, ESUR e dai documenti intersocietari definiti da SIRM-SIN-AIOM [4, 22, 31], spesso è confusa, verosimilmente per antichi retaggi e falsi miti incentrati sulla salvaguardia della funzione renale residua ma che possono esitare nell’aggravamento della condizione clinica del paziente, differendo la diagnosi e ritardando le possibilità di intervento terapeutico. È necessario un appropriato utilizzo del contrasto per ottenere un’accuratezza diagnostica accettabile. Omettere il contrasto quando è indicato, al pari di somministrarlo quando non lo è, può portare a errori diagnostici e terapeutici, morbilità e costi inutili. Sui potenziali effetti del contrasto nei confronti del rene, il paziente ovviamente deve essere debitamente informato. Il consenso informato, teso alla crescita e alla consolidazione dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, rappresenta uno strumento utilissimo al medico e trova il suo fondamento nelle norme costituzionali, e più in particolare negli artt. 2-13 e 32. Più in particolare, l’art. 2 sottolinea che «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo…» e l’art. 32 «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». L’art. 32 (Acquisizione del consenso) dispone poi che il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente. Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca e formale della volontà della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all’art. 30. La radiologia contrastografica e/o interventistica, superando i limiti di un rischio sostanzialmente indeterminato, richiedono un consenso espresso in maniera esplicita dopo adeguata informazione. Appare opportuno che il consenso sia richiesto dal medico che ha la responsabilità della cura del paziente, sul quale medico ricade anche il dovere dell’informazione. Il radiologo dovrà comunque accertarsi che ciò sia avvenuto, integrando l’informazione con i dati specifici di sua esclusiva competenza [101]. In virtù di ciò, i pazienti con insufficienza renale cronica presentano una controindicazione relativa e non assoluta [31, 32] alla somministrazione dei mezzi di contrasto iodati. Se la somministrazione di mezzi di contrasto è necessaria per una diagnosi pericolosa per la vita, non dovrebbe essere rimandata sulla base della sola funzionalità renale. Se la somministrazione di mezzi di contrasto iodati per via endovenosa è clinicamente indicata, il suo utilizzo deve essere consigliato, informando il paziente dei potenziali rischi e benefici, nonché di strategie di imaging alternative [31, 32], provvedendo a intraprendere le strategie preventive riconosciute valide dalle linee guida. Il cardine della terapia preventiva è rappresentato dall’idratazione/espansione di volume. L’idratazione consente infatti di promuovere l’aumento del volume circolante agendo in maniera protettiva nei confronti della vasocostrizione renale indotta al mezzo di contrasto e, inoltre, l’aumento del volume urinario fa sì di ridurre la tossicità diretta sulle cellule tubulari renali. Ciò significa: per i pazienti sottoposti alla somministrazione endovenosa o intra-arteriosa con secondo passaggio renale con eGFR < 30 ml/min/1,73m2, l’infusione di sodio bicarbonato 1,4% a 3 ml/kg/ora per 1 h prima della somministrazione o l’infusione di soluzione fisiologica ad 1 ml/kg/h per le 3-4 h prima e le 4-6 h dopo la somministrazione del contrasto; per i pazienti sottoposti alla somministrazione endoarteriosa con primo passaggio renale e eGFR < 45 ml/min/1,73 m2, l’idratazione endovenosa con sodio bicarbonato 1,4% a 3 ml/kg nell’ora prima della somministrazione, mantenuta a 1 ml/kg/ora per 4-6 h dopo, o con 1 ml/kg di soluzione fisiologica per 3-4 h prima e per le successive 4-6 ore [21, 32]. I pazienti con un solo rene normale o parzialmente funzionante (agenesia renale, nefrectomia, trapianto) devono essere gestiti in modo simile ai pazienti con volume renale normale ed il rischio clinico deve essere determinato sulla base della funzione renale complessiva (eGFR) e delle circostanze cliniche. La presenza di un rene solitario funzionante non dovrebbe influenzare il processo decisionale relativo al rischio di PC-AKI o CI-AKI [5].

Inoltre, sebbene i dati correlati colleghino dosi più elevate di mezzi di contrasto a un rischio maggiore di PC-AKI o CI-AKI dopo somministrazione intra-arteriosa, non esistono dati analoghi che implichino una tossicità dose-range per la somministrazione endovenosa all’interno dell’intervallo delle dosi somministrate clinicamente [5]. Di conseguenza, anche se i mezzi di contrasto iodati vengono somministrati per studiare un paziente a rischio, deve essere utilizzata la dose diagnostica convenzionale (cioè, il volume tipicamente utilizzato per una singola dose diagnostica). Dovrebbero essere evitate riduzioni ad hoc della dose dei mezzi di contrasto come sforzo per mitigare il rischio di danno, poiché questa pratica può produrre uno studio non ottimale o non diagnostico. Se è stato dimostrato che dosi più basse di mezzi di contrasto sono sufficientemente diagnostiche con protocolli specifici, le pratiche dovrebbero considerare la possibilità di ridurre le dosi in tutti i pazienti sottoposti a imaging con tali protocolli, non solo nei pazienti con funzionalità renale ridotta [102].

Le linee guida ESUR, ACR e le linee guida SIAARTI (mutuate dal lavoro di Ronco et al.) [103] convergono nello stabilire che a causa della dimostrata mancanza di benefici e del rapporto rischi/costi, se sembra riconosciuto un possibile ruolo protettivo delle tecniche convettive continue, soprattutto se combinate con altre strategie preventive, il trattamento emodialitico intermittente ‒ profilattico o preventivo ‒ volto all’eliminazione del mezzo di contrasto per la prevenzione del CI-AKI nel paziente con insufficienza renale cronica IV o V stadio secondo K/DOQI, sono di bassa qualità e di incerto significato [5, 21, 31, 32, 103] e di fatto controindicate. Nei pazienti sottoposti a terapia emodialitica sostitutiva, la somministrazione di mezzo di contrasto iodato, potrebbe determinare un peggioramento della funzione renale con conseguente perdita della diuresi residua. Sebbene le linee guida ESUR non raccomandino di eseguire un’ulteriore seduta emodialitica per rimuovere il mezzo di contrasto, i pazienti sottoposti a dialisi peritoneale o a emodialisi che possono essere considerati non anurici corrono il rischio di perdere la funzione renale residua a seguito di esposizione nefrotossica con implicazioni negative sulla qualità della vita e sulla sopravvivenza globale. Pertanto, per tali pazienti vigono le stesse considerazioni espresse per i pazienti con AKI o eGFR inferiore a 30 ml/min/1,73 m2 non sottoposti a dialisi. Se la perdita della funzionalità renale residua è considerata clinicamente importante, è necessario considerare i rischi, i benefici e le alternative, e la necessità della procedura può richiedere una discussione tra il nefrologo e il radiologo [5].

 

Approccio pratico

Spesso la richiesta di consulenza nefrologica accompagna la richiesta di esame con mezzo di contrasto. Di fatto, lo specialista in nefrologia non possiede le skill per potere discernere tutti i casi per i quali si rende assolutamente necessario un esame contrastografico o per i quali è possibile optare per una metodica alternativa. In tali casi, quando il nefrologo viene consultato, è ragionevole discutere il caso con il medico prescrittore e con lo specialista radiologo, al fine di valutare l’efficacia diagnostica di metodiche parimenti valide con minore impatto sulla funzione renale.

Il coinvolgimento del nefrologo dovrebbe verificarsi nei casi in cui l’esame può essere differito; in condizioni d’urgenza non è possibile ipotizzare una strategia preventiva che necessita di tempo per potere essere praticata.

Qualora si dovesse rendere necessario un esame o una procedura quoad vitam, quoad valetudinem che preveda l’utilizzo mezzo di contrasto, il nostro approccio inizia dalla verifica della somministrabilità del contrasto (assenza di allergia), dal calcolo del filtrato secondo CKD-EPI e dalla valutazione delle comorbidità. In tal senso, sebbene tale score sia stato validato per la predizione dell’AKI post percutaneous coronary intervention (PCI), schematizza in maniera pratica ed immediata le principali concause in grado di peggiorare il rischio di CI-AKI.

Come secondo step, al paziente va rappresentato che l’infusione di contrasto potrebbe non portare alcun danneggiamento alla funzione renale, così come potrebbe esitare verso il peggioramento della funzione renale da modesto a severo fino al trattamento emodialitico. Pertanto, prima di procedere all’esame, il paziente va reso edotto del rischio potenziale di danno renale moderato o grave e del rischio che tale danno esiti verso il trattamento sostitutivo della funzione renale (emodialisi), così come dei rischi connessi ad una eventuale mancata diagnosi.

Nei casi in cui sia ritenuto possibile  (esame differibile, compliance cardiaca permissiva) il nostro approccio prevede per prima cosa di stimare l’eGFR del paziente e praticare l’idratazione secondo il seguente schema: se eGFR < 45 ml/min/1,73 m2, si procede con l’idratazione endovenosa con sodio bicarbonato 1,4% a 3 ml/kg nell’ora prima della somministrazione, mantenuta a 1 ml/kg/ora per 4-6 h dopo, o con 1 ml/kg di soluzione fisiologica per 3-4 h prima e per le successive 4-6 ore; se eGFR < 30 ml/min/1,73m2 si pratica l’infusione di sodio bicarbonato 1,4% a 3 ml/kg/ora per 1 h prima della somministrazione o l’infusione di soluzione fisiologica ad 1 ml/kg/h per le 3-4 h prima e le 4-6 h dopo la somministrazione del contrasto.

Ove possibile, va discusso con il radiologo la necessità di utilizzare la minore concentrazione possibile di mezzo di contrasto.

Nelle more di eseguire l’esame con contrasto si consiglia di evitare farmaci nefrotossici (FANS, antibiotici aminoglicosidi), ACE-i, ARB, metformina (Figura 5).

Figura 5. Algoritmo per l’approccio al paziente nefropatico da sottoporre a procedura/indagine con mezzo di contrasto.
Figura 5. Algoritmo per l’approccio al paziente nefropatico da sottoporre a procedura/indagine con mezzo di contrasto.

 

 

Conclusioni

Per decenni, l’osservazione di un declino della funzione renale dopo una procedura intra-arteriosa, trascurando l’impatto della malattia ateroembolica renale (AERD), ha rafforzato la convinzione che il contrasto iodato ne fosse il principale colpevole. Questa convinzione si è estesa anche al mezzo di contrasto iodato endovenoso, anch’esso ritenuto indubbiamente nefrotossico. La storica sovrapposizione nelle definizioni di CI-AKI e PC-AKI ha ragionevolmente contribuito a creare confusione e modus operandi non di univoco consenso (se non deleteri) per alcune categorie di pazienti, quali i nefropatici, che spesso rischiano il ritardo nelle diagnosi o di perdere le procedure endovascolari necessarie. Malgrado il notevole sforzo della letteratura, ricca di produzione scientifica in continuo aggiornamento, appare ancora oggi ragionevole la scelta di non alleggerire gli sforzi volti alla salute preventiva dei reni, soprattutto quando ritenuti vulnerabili, sfruttando il comune buon senso e facendo sì che il mezzo di contrasto non venga somministrato qualora non ci si aspetti alcun beneficio e l’imaging non potenziato risultasse già sufficientemente informativo, garantendo altresì, nei casi in cui esso rappresenti una necessità quod vitam, quod valitudinem, una corretta volemia, evitando la contemporanea somministrazione di farmaci nefrotossici quando è prevista una procedura con mezzo di contrasto.

 

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An Integrated Multidisciplinary Approach to the Care of Renal Cancer Patients Undergoing Nephrectomy

Abstract

Kidney cancer is one of the most common cancers globally, ranking 9th and 14th among men and women, respectively. Advances in diagnostic techniques have enabled earlier and potentially less invasive interventions, however, this progress poses a challenge in managing low-malignancy tumors that were previously undiagnosed. To navigate treatment pathways, a deep understanding of the bidirectional relationship between Chronic Kidney Disease (CKD) and Renal Cell Carcinoma (RCC) is essential, influenced by risk factors such as hypertension and obesity.
The debate between partial (PN) and radical nephrectomy (RN) continues to be fueled by a rich body of studies in the last two decades, aiming to determine the precise benefits of renal function preservation and overall survival. However, long-term monitoring remains inadequate. There is an urgent need for heightened clinical vigilance, urging meticulous periodic evaluations that include both eGFR and the urinary albumin-creatinine ratio, to identify potential deteriorations early.
Furthermore, non-neoplastic renal parenchyma requires equal attention, often overshadowed by the assessment of tumor mass. A nuanced analysis is necessary to identify a range of nephropathies that guide more effective therapeutic strategies. A collaborative strategy that brings nephrologists, urologists, nuclear radiologists, oncologists, and pathologists together on a unified platform, focusing on a personalized medicine approach grounded on a profound analysis of individual risk factors, is pivotal in shaping the future of management and prevention strategies.
This approach ensures a detailed therapeutic outlook and facilitates early interventions, marrying vigilance with interdisciplinary cooperation, thereby guarding against late diagnoses and offering patients a robust shield in their battle against kidney afflictions.

Keywords: renal cancer, acute kidney injury, acute kidney disease, chronic kidney disease, nephrectomy, partial nephrectomy, chemotherapy, targeted anticancer agents

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Introduzione

Il tumore del rene rappresenta a livello globale rispettivamente la nona e la quattordicesima causa principale di cancro tra gli uomini e le donne [1]. Le stime relative all’Italia indicano che sono stati diagnosticati 12.900 nuovi casi, con una predominanza significativa nel sesso maschile, mantenendo un rapporto di circa 2:1 rispetto al sesso femminile [2]. Analogamente, il numero di decessi registrati nel 2016 mantiene questa disparità di genere, attestandosi a 3.717. L’analisi dei tassi di sopravvivenza evidenzia che il 71% dei pazienti sopravvive oltre 5 anni dalla diagnosi, una percentuale che si riduce leggermente, al 66%, quando si considera un arco temporale di 10 anni [2, 3]. Questi dati, seppur indicativi di una situazione non facile, mostrano anche segni di speranza e di efficacia nelle strategie di trattamento adottate.

Appare incoraggiante l’aumento nel numero di sopravvissuti al cancro renale, passando da 129.200 nel 2018 a circa 144.400 [3]. Questo incremento, seppur positivo poiché indica un miglioramento nella gestione e nel trattamento della malattia, porta con sé anche la necessità di un focus aumentato sul follow-up a lungo termine e sulla gestione delle complicazioni post-trattamento e delle comorbilità.

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un marcato incremento delle diagnosi di neoplasie in vari organi, un trend che ha colpito specialmente i paesi sviluppati. Questo aumento può essere attribuito a diversi fattori, tra cui l’innovazione tecnologica nel campo diagnostico, una maggiore consapevolezza dei problemi legati alla salute e un accesso facilitato alle cure mediche. Parallelamente a questo, si è osservato il fenomeno della “stage migration” che si riferisce al cambiamento nel profilo dello stadio di diagnosi dovuto, ad esempio, all’introduzione di tecniche diagnostiche più avanzate che consentono la rilevazione di tumori in una fase più precoce e spesso meno avanzata spesso prima dell’insorgenza dei sintomi [4, 5]. Questa evoluzione verso una diagnosi precoce, benché permetta interventi terapeutici tempestivi e spesso meno invasivi, pone anche una serie di sfide, tra cui la gestione di tumori a basso potenziale maligno, che in passato sarebbero potuti rimanere non diagnosticati per tutta la vita del paziente. Il fenomeno della “stage migration” pertanto, se da una parte rappresenta un’opportunità, aprendo la porta a trattamenti potenzialmente meno aggressivi e a un più alto tasso di successo terapeutico, dall’altra pone interrogativi significativi sulla necessità di trattamento in determinate circostanze, alimentando il dibattito sull’opportunità della “vigilanza attiva” come approccio alternativo in casi selezionati [5].

In questo scenario, diventa pertanto fondamentale procedere con un’analisi attenta e ponderata, capace di distinguere tra i casi in cui un intervento precoce può effettivamente fare la differenza in termini di outcome e quelli in cui una strategia più conservativa potrebbe essere più appropriata. Appare inoltre fondamentale considerare che la possibilità di trattare, spesso in maniera risolutiva i pazienti affetti da eteroplasie renali, pone il clinico nella condizione di dover gestire le complicanze a breve e lungo termine del paziente nefrectomizzato.

 

Relazione tra malattia renale cronica e carcinoma renale

Esiste una correlazione bidirezionale tra la Malattia Renale Cronica (CKD) e il Carcinoma a Cellule Renali (RCC). Dati recenti indicano che il 26% dei pazienti affetti da cancro al rene aveva già sviluppato CKD prima dell’intervento di nefrectomia [6].

Alcuni fattori di rischio, quali ipertensione, diabete, fumo e obesità, si presentano come elementi indipendenti predisponenti sia allo sviluppo della CKD che del RCC [6, 7], delineando un quadro di reciproca incidenza e influenza tra le due condizioni patologiche.

Dopo interventi chirurgici, come la nefrectomia, si è registrato che il 39% dei pazienti presentava un tasso di filtrazione glomerulare (GFR) stimato inferiore a 60 ml/min [7], un dato che sottolinea una diretta correlazione tra la procedura chirurgica e una diminuzione della funzione renale. Inoltre, studi recenti hanno evidenziato come, in casi di CKD avanzata, il rischio di cancro sembra essere specifico per determinati siti [8]. Da una ricerca retrospettiva su una vasta coorte di individui adulti negli USA, è emerso che un eGFR ridotto (inferiore a 30 ml/min) era associato a un incremento del rischio di cancro renale e dell’urotelio, mentre non venivano riscontrate associazioni significative tra eGFR e cancro alla prostata, al seno, al polmone, al colon-retto, o altre forme di cancro in generale [9]. Questa osservazione apre la strada a ulteriori indagini, poiché emerge che il rischio di sviluppare un cancro al rene aumenta con la diminuzione della funzione renale, delineando un ciclo in cui CKD e RCC si influenzano reciprocamente in una spirale di deterioramento della salute del paziente.

Nel contesto della CKD, il diabete di tipo 2 emerge come un fattore di rischio significativo, essendo associato ad una maggiore incidenza di tumori in diversi organi, compreso il rene. Questa correlazione potrebbe essere influenzata da una serie di meccanismi, inclusa l’iperinsulinemia, che funge da fattore di crescita, la resistenza all’insulina e le citochine infiammatorie correlate all’obesità [10].

Comprendere in modo approfondito i meccanismi biologici sottostanti non solo potrebbe gettare nuova luce sulle intricate dinamiche che legano CKD e RCC, ma potrebbe aprire nuove strade per il trattamento e persino la prevenzione del carcinoma renale. La medicina personalizzata, basata sull’analisi approfondita dei fattori di rischio individuali, potrebbe rappresentare il futuro nella gestione delle malattie renali croniche e nella prevenzione del carcinoma a cellule renali.

 

La gestione pre-operatoria

Prima di procedere con interventi chirurgici o terapie ablative, è fondamentale identificare i pazienti ad alto rischio di sviluppare CKD e eventi cardiovascolari. Uno screening attento può essere effettuato stimando il tasso di GFR e misurando l’albuminuria, seguendo le indicazioni previste dagli standard globali per la classificazione della CKD.

L’attenzione del clinico in questa fase è focalizzata all’ottimizzazione preoperatoria del controllo glicemico e della pressione sanguigna, soprattutto per i pazienti già affetti da CKD, al fine di limitare il declino della funzione renale dopo la riduzione del parenchima a seguito dell’intervento. Una strategia efficace di prevenzione comprende inoltre l’evitare l’esposizione a nefrotossici e condizioni di ipoperfusione renale, fattori che potrebbero aumentare il rischio di perdita di GFR dopo l’intervento.

Un’attenta misurazione della funzione renale differenziale, comunemente effettuata attraverso scintigrafie nucleari, può aiutare a prevedere un possibile declino del GFR in seguito a una nefrectomia, sebbene tenda a sottovalutare il GFR nel rene preservato pre-nefrectomia. Dopo l’intervento, il GFR differenziale post-operatorio tende a riflettere più accuratamente i danni renali intraoperatori legati all’ischemia e alle dimensioni del tumore asportato.

Il quadro epidemiologico attuale evidenzia una prevalenza elevata di CKD tra i pazienti affetti da small renal masses (SRMs), variabile tra il 10% e il 52% [11]. Tale dato potrebbe essere spiegato dalla presenza di fattori di rischio comuni, quali età avanzata, sesso maschile, l’abitudine al fumo, diabete mellito e ipertensione. Non a caso, si è notata una presenza significativamente maggiore di diabete e ipertensione non solo in pazienti con pregressa CKD, ma anche in quelli con RCC, rispetto a controlli appaiati senza cancro.

A seguito della resezione chirurgica, la prevalenza di CKD aumenta, variando da un minimo del 10-24% a un massimo del 16-52% [12-14]. I fattori di rischio post-operatori per una nuova diagnosi o una progressione della CKD includono, oltre a quelli già citati, anche l’obesità [15], una riduzione del GFR [16], una maggiore dimensione del tumore e una corrispondente riduzione del volume renale [16], ipoalbuminemia [17] e danno renale acuto (AKI) post-operatorio [18].

Inoltre, l’albuminuria è associata alla presenza di tumori, e può rappresentare un fenomeno paraneoplastico, preludio di una prognosi sfavorevole, specialmente in presenza di tumori di grado o stadio avanzato [17].

Pertanto, i pazienti con RCC e fattori di rischio sottostanti per lo sviluppo di CKD post-operatoria dovrebbero beneficiare di un consulto nefrologico prima della nefrectomia, al fine di prevenire possibili complicanze e garantire un approccio terapeutico mirato e individualizzato.

 

La stima della perdita della funzione renale

Allo stato attuale, è fondamentale affrontare la crescente necessità di modelli predittivi efficaci che possano informare le decisioni riguardanti il trattamento dei pazienti con masse renali localizzate, in particolare nel contesto della scelta tra nefrectomia radicale (RN) e nefrectomia parziale (PN).

Studi recenti hanno sottolineato l’importanza di identificare i pazienti ad alto rischio di sviluppare CKD e AKI post-operatorie. In uno studio condotto dal nostro gruppo su 144 pazienti sottoposti a RN è stata riscontrata una significativa incidenza di AKI, pari al 64%. Le analisi hanno evidenziato che un più alto valore di eGFR basale e una minore presenza di restringimenti arteriosi pre-operatori erano associati a un maggiore rischio di AKI e a un declino dell’eGFR al follow-up di un anno [19].

Un altro studio ha cercato di sviluppare un modello predittivo per quantificare il rischio di declino dell’eGFR a ≤45 mL/min/1,73 m² dopo RN. Tra i 668 pazienti soddisfacenti i criteri di inclusione, 183 hanno sperimentato un tale declino. Il modello predittivo risultante, basato su variabili come età, sesso e livello di creatinina preoperatorio, ha dimostrato un significativo beneficio clinico nella facilitazione della decisione tra RN e PN, suggerendo che i pazienti con un rischio maggiore di riduzione dell’eGFR post-operatorio potrebbero beneficiare maggiormente della preservazione del nefrone [20].

Entrambi gli studi condividono una focalizzazione su misure pre-operatorie dettagliate, inclusa l’analisi istologica del tessuto renale sano e l’estimazione dell’eGFR, per informare le decisioni di trattamento. L’integrazione di questi dati in uno strumento quantitativo per identificare i pazienti a rischio di declino dell’eGFR post-operatorio potrebbe facilitare decisioni più informate nel contesto clinico.

Quindi, la combinazione di un’analisi istologica dettagliata e l’uso di un nomogramma predittivo che integra diversi fattori di rischio potrebbero rappresentare passi significativi verso un approccio più personalizzato e mirato nel trattamento dei tumori renali.

Al fine di mitigare i rischi e preservare la funzione renale, è essenziale considerare non solo gli obiettivi oncologici, ma anche le implicazioni a lungo termine di tali interventi sulla funzione renale dei pazienti.

 

La scelta della tecnica operatoria: nefrectomia parziale o nefrectomia radicale

La letteratura scientifica che indaga la funzione renale dopo l’intervento di nefrectomia è molto estesa e vanta oltre 300 studi pubblicati negli ultimi 2 decenni, principalmente focalizzati sulle conseguenze della nefrectomia sulla funzione renale a breve e lungo termine [21]. Nonostante ciò, una percentuale minima di questi ha condotto un monitoraggio dei pazienti per un periodo significativamente lungo; infatti, meno del 5% ha superato la media di cinque anni, e meno del 2% quella di 7,5 anni [21]. Un tema dominante in questi lavori è il confronto tra i benefici derivati dalla PN rispetto alla RN, sia per quanto riguarda la funzione renale post-operatoria che la sopravvivenza complessiva [22].

Se da una parte è riconosciuto che la PN permette una migliore conservazione della massa nefronica, risultando in una più alta funzione renale post-operatoria in media, dall’altra permangono dubbi riguardanti i benefici effettivi in termini di sopravvivenza. Nonostante diversi studi osservazionali ben strutturati abbiano evidenziato vantaggi in termini di sopravvivenza derivanti dalla PN rispetto a RN [21], altri, compreso lo studio clinico randomizzato condotto dall’European Organisation for Research and Treatment of Cancer Genito-Urinary Group (EORTC-GU), non hanno confermato questa affermazione [23]. Questa discrepanza ha alimentato un dibattito continuo sulla reale rilevanza clinica della riduzione della funzione renale indotta dalla nefrectomia derivante da cause mediche. L’analisi recente sullo sviluppo del CKD in seguito a nefrectomia evidenzia quindi un panorama clinico complesso e sfaccettato. A fronte della riduzione chirurgica della massa nefronica, anche individui in buona salute manifestano un rischio accresciuto di CKD progressiva, ESKD e una mortalità generale e cardiovascolare più alta. Le linee guida attuali, che identificano gli stadi del CKD sulla base di un eGFR <60 mL/min per 1,73 m², potrebbero non riflettere pienamente la gamma di rischi clinici presenti in questa popolazione. Nonostante non tutti gli individui con un eGFR inferiore a 60 sviluppino un CKD progressivo post-nefrectomia, emerge chiaramente una correlazione con un rischio maggiore di mortalità, paragonabile a quello dei pazienti con CKD di qualsiasi altra eziologia [24]. La fluttuazione degli indici di eGFR, a volte in modo altalenante o con remissioni, rende la diagnosi e il monitoraggio una sfida ancora maggiore.

È essenziale, dunque, che in ambiente clinico si mantenga un elevato grado di vigilanza: il paziente con un eGFR che oscilla intorno al valore soglia dovrebbe essere sottoposto a controlli periodici, che comprendano non solo la misurazione dell’eGFR, ma anche del rapporto albumina-creatinina urinario. In questo modo, eventuali deterioramenti possono essere prontamente identificati e affrontati, evitando ritardi nel riferimento a un nefrologo. Un approccio simile potrebbe non solo garantire un monitoraggio più attento, ma anche fornire una base più solida per affrontare il dibattito in corso sulla rilevanza clinica del CKD post-nefrectomia rispetto ad altre cause di CKD.

 

L’analisi del parenchima non neoplastico

L’attenzione nella valutazione patologica delle nefrectomie tumorali è stata storicamente centrata sulla massa renale. Tuttavia, ricerche recenti hanno messo in luce l’elevata incidenza di malattie renali non neoplastiche presenti nei reni affetti. Tra queste, la nefropatia diabetica è la più frequente, seguita da altre condizioni come la glomerulosclerosi focale segmentaria (FSGS) e la nefroangiosclerosi ipertensiva, oltre a una vasta gamma di altre nefropatie [25]. Nonostante l’importanza di queste scoperte, nel 60% dei casi queste importanti informazioni sono state trascurate nella prima lettura della biopsia [26], un aspetto che sottolinea l’urgenza di un approccio più oculato e dettagliato nella valutazione dei campioni bioptici.

Attualmente, negli Stati Uniti, vi sono più di 300.000 sopravvissuti al cancro del rene, e si stima che il 15% di questi, pari a circa 45.000 pazienti, abbia delle malattie renali mediche sottostanti, diagnosticabili solo tramite un’accurata analisi patologica [27].

In risposta a questo, dal 2010, il College of American Pathologists ha richiesto l’esame del parenchima renale non neoplastico nella relazione sinottica del cancro del rene [25]. Tuttavia, il cammino verso la piena adesione a questa normativa è ancora lungo, con una percentuale significativa di patologi che non seguono ancora tale indicazione, come evidenziato da recenti studi e sondaggi condotti in Europa.

La necessità di un intervento correttivo è ancora più accentuata considerando che una diagnosi accurata del parenchima non neoplastico non solo potrebbe portare all’identificazione di pazienti affetti da malattie glomerulari, tubulo-interstiziali o vascolari che richiedono una gestione medica addizionale, ma potrebbe anche evitare complicanze future, facilitando l’adozione di strategie terapeutiche più efficaci.

In questo quadro, è di fondamentale importanza che urologi e nefrologi collaborino attivamente con i patologi, insistendo per una revisione specifica e approfondita del parenchima non neoplastico, specialmente in presenza di pazienti con RCC che presentano diabete, ipertensione o proteinuria.

Lo sviluppo di una sinergia tra i diversi specialisti rappresenta non soltanto un argine nel limitare le diagnosi incomplete, ma anche un sostegno concreto per i pazienti, fornendo loro un quadro clinico più dettagliato e una prospettiva terapeutica più affidabile, riducendo inoltre il rischio di diagnosi tardive di patologie renali post-operatorie, data la frequenza non trascurabile di malattie renali sottostanti non diagnosticate.

 

Possibile sequenza di interventi nella gestione del paziente nefrectomizzato

Da quanto descritto nei paragrafi precedenti emerge la presenza di un gran numero di specialisti, coinvolti nel processo di cura del paziente nefrectomizzato. Tale processo, sintetizzato nella Figura 1, consta di una parte pre-operatoria che inizia al momento della diagnosi di una massa renale potenzialmente trattabile chirurgicamente. Il ruolo del nefrologo in questo contesto è finalizzato ad effettuare una prima valutazione della funzione renale al fine di ottimizzare l’impatto dei fattori di rischio clinici e terapeutici che possono contribuire alla progressione del danno e ipotizzare il decadimento della funzione renale a seguito dell’intervento. Per ottenere questo secondo obiettivo è importante l’interfaccia con i colleghi urologi che eseguiranno l’intervento e i medici nucleari grazie ai quali è possibile avere delle informazioni più precise in merito al contributo del singolo rene al raggiungimento della funzione renale complessiva. A seguito di questa collegialità sarà possibile pianificare la migliore strategia di intervento in un paziente adeguatamente preparato affinché possa risentire il meno possibile la perdita del parenchima.

Nell’immediato post-operatorio, la presenza di uno specialista nefrologo con competenza nella gestione dell’AKI o della malattia renale acuta (AKD) offre sicuramente un valore aggiunto per effettuare una diagnosi precoce di eventuali riduzioni del filtrato non dipendenti dalla riduzione del parenchima e per mettere in atto una adeguata terapia di supporto in questo contesto clinico. L’anatomopatologo è un altro specialista coinvolto in questo contesto clinico: la valutazione del parenchima renale non neoplastico appare fondamentale per pianificare il proseguo del percorso di cura, indipendentemente dalla severità della patologia oncologica di base. Con l’allontanamento progressivo dal momento dell’intervento chirurgico, assumerà un ruolo sempre maggiore il nefrologo, anche per valutare le conseguenze post intervento a lungo termine e integrare queste conoscenze in un eventuale percorso di cura oncologico.

Figura 1. Rappresentazione grafica dell’intervento multidisciplinare nella gestione pre-, intra- e post-operatoria del paziente nefrectomizzato per neoplasia.
Figura 1. Rappresentazione grafica dell’intervento multidisciplinare nella gestione pre-, intra- e post-operatoria del paziente nefrectomizzato per neoplasia.

 

Conclusioni

Il cancro al rene rimane una patologia non adeguatamente riconosciuta e studiata all’interno della comunità nefrologica. Nonostante sia una malattia frequentemente riscontrata nella pratica nefrologica generale e che la sua incidenza sia in aumento, è fondamentale che i nefrologi in attività possiedano una conoscenza approfondita della sua biologia e dei relativi trattamenti.

Nel corso di questa rassegna, abbiamo cercato di focalizzarci sulla gestione multidisciplinare di questa condizione sempre più frequente. L’evidente correlazione tra RCC e altre malattie renali, specialmente considerando le nefropatie frequentemente associate, sottolinea la necessità di un’attenzione focalizzata sul parenchima non neoplastico durante le valutazioni patologiche.

Guardando al futuro, auspichiamo pertanto una collaborazione più stretta e coordinata tra nefrologi, urologi, medici nucleari, patologi e oncologi, assicurando così una gestione più olistica e centrata sul paziente, dove il focus non sia soltanto sul tumore, ma anche sulle potenziali malattie renali coesistenti, aprendo la strada ad un approccio clinico più completo e arricchente per il benessere del paziente.

 

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AKI in hospitalized patients with COVID-19: a single-center experience

Dear Editor,

since December 2019, the COVID-19 pandemic is straining hospitals and nephrology services worldwide. Although this disease manifests mostly with pneumonia, acute kidney injury (AKI) is recognized as a common complication in patients with severe manifestations of COVID-19. The pathogenesis of COVID-19 is still unclear but recent evidence supports a multifactorial etiology [1]. Generally, kidney involvement following SARS-CoV-2 infection is proportionate to the gravity of the infection and is commonly diagnosed in hospitalized patients with lung involvement [2]. As in another clinical scenarios, kidney injury is independently associated with morbidity and mortality in patients with SARS-CoV-2 infection [3,4].

The distribution of AKI in patients with COVID-19 is extremely variable across countries [5]. The first reports from China described a low prevalence of AKI in hospitalized patients [6] but subsequent evidence, coming from the USA and Europe, suggested a higher kidney involvement, especially in the intensive care setting [7] and among vulnerable patients [8]. Few studies have estimated the rate of AKI in hospitalized patients admitted to non-intensive care units in Italy. It ranges between 13.7-22.6% [911] and is similar to the prevalence detected in other European countries (4.5-22%) [1214]. In order to broaden the knowledge of this phenomenon, we report the data on the prevalence and clinical characteristics of AKI in COVID-19 patients.

We evaluated a cohort of 792 COVID-19 patients hospitalized at the University Hospital of Modena, Italy, between February 25 and December 14, 2020 for severe symptoms of COVID-19. The diagnosis of COVID-19 was performed through reverse transcriptase-polymerase chain reaction (RT-PCR). We excluded patients aged <18 years (n=2), patients on dialysis (n=5), and patients without serum creatinine on admission (n=19). The diagnosis of AKI was defined according to the Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO) criteria [15], without considering the urine output criteria. Baseline serum creatinine (sCr) coincided with sCr at admission. All the enrolled patients were discharged or died at the end of the follow-up.

According to the Istituto Superiore di Sanità (ISS), the coronavirus pandemic in Italy can be subdivided in three waves during 2020: first wave (February-May), transitional period (June-August) and second wave (September- December) [16]. As a result, the study population was subdivided into three groups: wave-1 (n=389), transitional period (n=57) and wave-2 (n=346).

Data are expressed as mean ± standard deviation or a percentage (%). Statistical differences were tested using Student’s t-test or Chi-square as appropriate. Cox regression analysis evaluated the influence of AKI on the hazard of death. The study was approved by the regional ethical committee of Emilia Romagna (n. 0013376/20).

In a cohort of 792 hospitalized patients, 122  cases (15.4%) of AKI were diagnosed. Patients with AKI were older (77.4 vs 64.3 years; P=<0.001) and had a higher baseline sCr (1.37 vs 0.96 mg/dl; P=0.004) than non-AKI patients (Table I). As expected, patients with AKI showed increased levels of inflammatory markers (CRP; P=0.001), tissue damage (LDH; P=0.01) and hypoxia (PO2/Fi02;P=<0.001). We detected a higher burden of morbidity and comorbidity compared to non-AKI patients, as indicated by a higher SOFA (P=<0.001) and Charlson score (P=<0.001), respectively. In particular, AKI patients had a high rate of non-invasive ventilation (NIV; P=0.001), high flow nasal oxygen (HFNO; P=<0.001), mechanical ventilation (P=0.001) and, consequently, ICU admission (P=0.01). Given the burden of multiorgan dysfunction, AKI patients experienced a prolonged hospital stay (22.4 vs 13.2 days; P=0.008).

AKI stage 1 was the most frequent event (n=82; 67.2%) followed by AKI stage 2 (n=15; 12.2%) and AKI stage 3 (n=25; 20.4%). In this latter group, renal replacement therapy was necessary for 11 patients (44%).

The overall mortality rate was 19.1% and it increased up to 61.5% in patients with an acute worsening of kidney function (Figure 1). AKI was an independent risk factor for death after adjustment for age, sex, PO2/FiO2, baseline creatinine, BMI, LDH, CRP, diabetes and cardiovascular disease (HR, 3.39; CI95% 1.032-11.1; P=0.04). Of the survivors with AKI, 40.4% did not recover kidney function at discharge.

Variable All patients (n=792) No AKI (n=670) AKI patients (n=122) p-value
Age 66.3±16.1 64.3±16.18 77.4±10.92 0.012
Males (%) 511 (64.5) 425 (63.4) 86 (70.5) 0.15
White blood cells (cell/mm3) 8587±7170 7657.1±5696.6 9737.7±7380.5 0.053
Hemoglobin (gr/dl) 12.7±1.8 12.6±1.8 13.1±1.6 0.084
Platelets (103/mm3) 253.7±116.3 261.8±111.2 207.8±133.5 0.85
CRP (mg/dl) 8.9±8.2 8.3±7.89 12.3±9.6 0.001
LDH (U/L) 648.9±991.9 592±283.4 950±238.9 0.01
Baseline sCr (mg/dl) 1±0.71 0.96±0.25 1.37±0.08 0.004
sCr peak (mg/dl) 1.2±1.1 1.01±0.65 2.72±1.76 <0.001
sCr at discharge (mg/dl) 1±0.89 0.84±0.44 2.23±1.57 <0.001
MAP 90.3±13.2 88.8±12.2 95.5±14.2 0.12
PO2/FO2 250.6±105.2 261.11±101.3 184.87±106 <0.001
SOFA score 2±2 1.7±1.6 3.5±2.7 <0.001
Charston score 3.4±2.9 3 ±2.8 5.1±3.1 <0.001
Comorbidities§ (%)
COPD (%) 32 (14.5) 22 (12.1) 10 (26.3) 0.04
Diabetes (%) 75 (31.9) 61 (31.1) 14 (35.9) 0.576
Hypertension (%) 182 (65.9) 150 (64.7) 32 (72.6) 0.386
CVD (%) 50 (22.5) 30 (16.5) 20 (50) <0.001
CKD (%) 35 (15.8) 24 (13.1) 11 (28.9) 0.025
BMI>30 (%) 113 (32.2) 99 (33.6) 14 (25) 0.275
ACE inibitors (%) 102 (12.9) 90 (13.4) 12 (9.8) 0.307
FANS (%) 21 (2.7) 17 (2.5) 4 (3.3) 0.550
Nephrotoxic antibiotic (%) 20 (2.5) 15 (2.2) 5 (4.1) 0.216
Use of chonic diuretic therapy (pre-AKI) (%) 259 (32.7) 182 (27.2) 77 (63.1) 0.001
Antiviral (%) 253 (31.9) 215 (32.1) 38 (31.1) 0.91
IV hydratation with cystalloids pre-AKI (%) 233 (29.4) 189 (28.2) 44 (36.1) 0.085
Steroid (%) 287 (38.5) 232 (36.7) 55 (48.7) 0.021
Immunotherapy  (%) 326 (43.4) 275 (43.4) 326 (43.7) 0.758
O2 therapy (%) 537 (67.8) 454 (67.8) 83 (68) 1
HFNO (%) 101 (18.5) 71 (15.4) 30 (35.7) <0.001
NIV (%) 172 (31.3) 128 (27.8) 44 (49.4) 0.001
Mechanical ventilation (%) 91 (12.2) 59 (9.3) 32 (28.3) 0.001
ICU admission (%) 153 (20.5) 111 (7.5) 42 (37.2) 0.001
BMI 28.5±5.3 28.5±5.1 28.1±6.2 0.109
Time elapsed from admission to AKI (day) 11.8±9.34 NA 11.8±9.34 0.063
Hospitalization (day) 14.7±13.7 13.28±11.3 22.45±21.38 0.008
Death (%) 151 (19.1) 76 (11.3) 75 (61.5) <0.001
Legend: CRP, C-reactive protein; LDH, lactate dehydrogenase; MAP, mean arterial pressure; sCr, serum creatinine; SOFA, Sequential Organ Failure Assessment; COPD, chronic obstructive pulmonary disease; CVD, cardiovascular disease; CKD, chronic kidney disease; BMI, body mass index; HFNO, high-flow nasal oxygen; NIV, noninvasive ventilation; AKI, acute kidney injury; ICU, intensive care unit.
Table I: Demographics and clinical manifestation of COVID-19 patients
Figure 1: Kaplan Mayer curves showing survival of AKI and non-AKI patients with COVID-19
Figure 1: Kaplan Mayer curves showing survival of AKI and non-AKI patients with COVID-19

From an epidemiological point of view, the prevalence of AKI remained similar during the first (15.9%) and the second wave (14.7%) (P=0.89) (see Figure 2). The rate of ICU admission (P=0.42) was similar in these two groups but during the second wave AKI patients were more frequently treated with steroids (P=0.007), HFNO (P=0.001) and required less mechanical ventilation (P=0.019) compared to patients admitted during the first wave. Nevertheless, the mortality of AKI patients did not change between the first (59.7%) and the second (70.6%) wave of COVID-19 (P=0.243).

Figure 2: AKI prevalence during the first wave, the trasitional period and the second wave
Figure 2: AKI prevalence during the first wave, the trasitional period and the second wave

The findings of this study provide new information on the epidemiology of AKI in COVID-19. We found that the overall rate of AKI in unvaccinated hospitalized patients with COVID-19 accounted for 15.4% and that the prevalence of AKI remained relatively steady (about 15%) during the three phases of the COVID-19 pandemic that hit Italy and Europe during 2020. These data are in line with the results of a recent metanalysis, reporting a comparable pooled incidence (15.4%) among 25,566 patients, enrolled in 39 studies [17]. However, the distribution of AKI is not homogeneous among the published studies, where prevalence ranged from 0.5%-60%. Multiple factors may have affected this epidemiological variability including the surge capacity of the healthcare system, how the care was delivered (publicly or privately) and the method of patients selection (e.g. criteria for hospital admission).

In our study, subjects with AKI showed different demographic and clinical characteristics compared to non-AKI patients. Kidney injury was indeed experienced by elder patients affected by a more severe disease than non-AKI patients. COVID-19 patients with kidney involvement had a higher rate of morbidity (lung involvement, ICU admission, length of stay) and a 3.4-fold increase in mortality than non-AKI patients. No clear differences were detected in terms of AKI prevalence between the first and second wave, despite some therapeutic improvements (steroids, remdesivir, immunomodulant) were made in the management of these patients.

Since AKI is an independent risk factor  in COVID-19, many efforts should be made to identify and correct predisposing factors for kidney injury. From a practical point of view, the prevention measures that we put in place were not different from those we follow for AKI from other causes in critically ill patients [15,16]. These were based mainly on surveillance of kidney function, maintenance of normovolemia and avoidance of nephrotoxic agents.

In conclusion, our study confirms that AKI is a common event (15.4%) in COVID-19 and its prevalence was stable through 2020. AKI was more common in older patients who experienced a severe COVID-19. The outcome of patients with AKI was poor, as more than half died at the end of the follow-up and 40% of survivors had not recovered kidney function at hospital discharge. The heterogeneity of COVID-19-associated AKI in terms of incidence and etiology presents many challenges to its prevention and management. Further studies are required to investigate the effects of new virulent SARS-CoV-2 variants on the development of AKI, the impact of vaccination in the prevention of kidney involvement and the long term consequences of AKI.

 

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Droghe d’abuso e rene

Abstract

Here we present a case of acute renal failure needing dialysis in a heroin addict patient chronically treated with Metadone.  This give us the opportunity to review the renal effects of the main drugs of abuse, highlighting the shift occured from the four “old sisters” (Marijuana, Cocaine, Heroin and Amphetamine) to the news synthetic drugs (chiefly  Synthetic  Cathinones and Cannabinoids), that poses problems due to  large diffusion, easy  procurement, legal  non-regulation and difficult analytical identification,  raising medical and forensic questions. From a Nephrological point of view is essential to take great care over the need to diagnose this kind of pathology and to widen the search trying anyway to recognize the substances potentially involved.

Key Words: Acute Kidney Injury; Acute renal failure; Illicit drugs; Rhabdomyolysis.

Sorry, this entry is only available in Italian.

Introduzione

Per definire i rapporti tra droghe di abuso e rene è  necessario innanzitutto caratterizzare e definire le proprietà delle sostanze di cui andiamo a trattare. Come vedremo per alcune di queste i confini tra farmaco e sostanza di abuso sono labili, definiti  talora soltanto dal setting di utilizzo della sostanza.

Cerchiamo allora per un primo inquadramento di utilizzare gli strumenti moderni di ricerca medica  che utilizziamo ogni volta che facciamo una ricerca bibliografica.

Se utilizziamo PubMed con la definizione di ingresso di “street drugs/recreational drugs” il vocabolario MESH ci restituirà “Illicit Drugs” e spiegherà che si tratta di “sostanze prodotte, ottenute  o vendute illegalmente”,  sottolineandone poi la frequente “grossolana  impurità fonte di tossicità inaspettate” [1].  Il termine è stato introdotto fin dal 1977, ma la voce è stata modificata recentemente  (2020) eliminando i riferimenti alle motivazioni che inducono all’ uso in precedenza riportate nella definizione, concentrandosi sulla illiceità di tali sostanze.  Il termine precisa inoltre che la natura illegale può scaturire anche dal fatto di essere farmaci forniti in assenza di prescrizione. Da questo punto di vista nella letteratura si può distinguere in effetti un utilizzo improprio (“misuse” di farmaci prescritti , ad esempio analgesici, in dosi non appropriate) da un abuso  (“abuse” cioè l’uso ai fini di ottenere un effetto psicotropo: euforia o alterato stato mentale o evitare la crisi di astinenza).

Il sito italiano dei Carabinieri, quindi di una capillare forza pubblica impegnata nella prevenzione e repressione del fenomeno, riporta la definizione WHO che definisce sostanze stupefacenti “sostanze di origine vegetale o sintetica che agendo sul sistema nervoso centrale provocano stati di dipendenza fisica e/o psichica” sottolineando quindi l’ effetto centrale ed i fenomeni di dipendenza e tolleranza [2]. A partire dall’ effetto sul SNC ne deriva la suddivisione in droghe deprimenti, stimolanti ed allucinogene (tabella 1).

OPPIACEI

STIMOLANTI DEPRESSIVI ALLUCINOGENI CANNABIS e derivati

Oppio

Cocaina

Barbiturici Mescalina Marijuana
Morfina Amfetamine Tranquillanti L.S.D. Hashish
Eroina Crack 2,5-Dimethoxy-4-methylamphetamine

(DOM)

Olio di hashish
Metadone Ecstasy o M.D.M.A.

Tabella 1 (modificata da http://www.carabinieri.it)

L’alcool etilico ha un ruolo di primo piano essendo una droga legale, socialmente accettata, con una diffusione amplissima ed una severa sequela di patologie principalmente a carico del SNC ed epatiche, ma anche cardiache e, con minore impatto e meno sottolineate, renali [3; 4].

 

Il caso clinico

Maschio di 37 anni seguito dal SERT in trattamento con Metadone.  A domicilio comparsa di febbre ed agitazione psicomotoria con possibile crisi comiziale che lo induce a presentarsi in Pronto Soccorso. Esegue TC cranica priva di reperti patologici. All’ EEG: discreti segni di sofferenza encefalica diffusa; assenza di grafoelementi irritativi tipici. Gli esami urgenti eseguiti evidenziano  glicemia 271 mg/dl, Urea 21 mg/dl, creatininemia 1,1 mg/dl; sodiemia 138 mEq/l, potassiemia  3,64 mEq/l;  bilirubina totale 0,52 mg/dl; AST (GOT)  22 U/l; ALT (GPT) 19 U/l; PCR 3,2 mg/l. Veniva inoltre eseguita una rachicentesi  (rivelatasi un poco indaginosa) che al esame chimico-fisico mostrava un liquor torbido, rosato;  glucosio 96 mg/dl, proteine 107 mg/dl, con 75/ul elementi nucleati per il 72% polinucleati e 28% mononucleati (insieme con la segnalazione di numerose emazie e possibili elementi figurati dal sangue per probabile contaminazione).  Il colturale era poi risultato negativo mentre la colorazione di Gram mostrava emazie (++) e leucociti (+). La Nested Multiplex PCR per batteri (Pneumococco, Meningococco, Streptococcus Agalactiae, Listeria, E.Coli, Haemofilus Influenzae), per virus (CMV, Enterovirus, Herpes Simplex 1 e 2, Human Herpesvirus 6, Human parechovirus, Varicella Zoster)  e Torula Neoformans era negativa.

Le sierologie per Borrelia e per HCV risultavano negative mentre del pattern per il Virus B della Epatite erano positivi soltanto gli anticorpi anti HBsAg ad alto titolo (858 mUI /ml), esito di verisimile vaccinazione.

Ricoverato in Reparto semiintensivo già il giorno seguente,  a diuresi conservata,  la creatininemia saliva rapidamente (5,45 mg/dl); Urea 65 mg/dl; AST (GOT) 133 U/l; ALT (GPT)  33 U/l; PCR 49,9 mg/l; Procalcitonina 0,81 ng/ml; CK totali 12615 U/l; Mioglobina 11414,5 ug/l. Il quadro era a questo punto suggestivo di una sepsi e diagnostico di rabdomiolisi associata inducendo ad iniziare una una CRRT isovolemica previo cateterismo venoso femorale. Un esame a fresco del sedimento urinario da parte del Nefrologo mostrava massiva cristalluria di urati con presenza di cellule tubulari molto danneggiate spesso raccolte a formare cilindri; l’esame chimico-fisico urinario mostrava marcata positività per  emoglobina in assenza di emazie.

Già in Pronto soccorso era stati eseguiti i dosaggi di Benzodiazepine urinarie (1264 ng/ml; coerenti con la terapia della crisi convulsiva), Metadone urinario (>1000 ng/ml; coerente con la terapia cronica in atto), Cannabinoidi urinari (>100 ng/ml; <50 negativo) mentre negative risultavano le ricerche urinarie di Oppiacei, Cocaina, Barbiturici e Anfetamine.

Il giorno seguente gli indici di miolisi apparivano in ulteriore incremento (CPK 75218 U/l; mioglobinemia 11414,5 ug/l; AST (GOT) 565 U/l) con quadro emodinamico stabile e diuresi attiva in terapia con diuretico.

In terza giornata proseguendo CRRT creatininemia 4,43 mg/dl; Urea 64 mg/dl; AST (GOT) 495 U/l; ALT (GPT) 127 U/l; CK Totali 49818 U/l; Mioglobinemia 6910 ug/l. PCR 25 mg/l. Hb 10,1 g/dl; GB 15000/ul.

In quinta giornata proseguendo terapia sostitutiva con HD intermittente veniva trasferito in Nefrologia  ed in 8^ giornata veniva sottoposto ad agobiopsia renale sx ecoguidata real time: la manovra era priva di complicanze.

Questa mostrava frustoli di parenchima renale comprendenti, nei vari livelli istologici esaminati, sino a 27 glomeruli con aspetti ischemici e congesti. Il quadro morfologico era dominato (Fig.1) da fenomeni di necrosi tubulare con aspetti rigenerativi, detriti cellulari endotubulari ed un intenso infiltrato tubulo/peritubulare linfo-monocitario ed eosinofilo in presenza di cilindri pigmentati (mioglobina).  Minima fibrosi interstiziale. I vasi arteriosi, specialmente quelli di piccolo calibro, presentano note di ispessimento parietale. L’esame tramite immunofluorescenza diretta (IFD) ha evidenziato alcuni aspetti aspecifici (deboli depositi capillari di IgA e focali deboli depositi capillari di C3 e IgM) ed è apparso negativo per C1q, C4, IgG e per le catene leggere (Kappa e Lambda). L’insieme dei reperti, anche in considerazione dei dati clinici, appare riferibile ad una necrosi tubulare acuta (esotossica) associata a mioglobinuria.

Seguiva una breve fase poliurica con miglioramento della funzione renale che consentiva la sospensione del trattamento dialitico e la rimozione del cvc femorale. Il decorso ulteriore era complicato da una broncopolmonite basale destra trattata la quale in 20^ giornata veniva dimesso con creatininemia 2,0 mg/dl. A 30 giorni dalla dimissione la creatininemia era 1,24 mg/dl e l’ esame urine era privo di alterazioni.

Il caso presentato è insieme classico di una frequente forma di tossicità renale in corso di abuso di sostanze psicotrope (NTA con cilindruria in corso di mioglobinuria) ma negative erano le ricerche delle droghe d’abuso più classiche coinvolte in questi quadri (Oppiacei, Cocaina, Anfetamine).

Cerchiamo prima di tutto di esaminare le sindromi renali associate all’abuso di droghe.

 

OPPIACEI:

Dalla incisione della capsula immatura del papavero da oppio (Papaver Somniferum), originario della Anatolia, si ottiene un lattice che si rapprende all’ aria formando una massa gommosa brunastra che può essere formata in pani o per ulteriore essicazione trasformata in polvere: è questo l’oppio grezzo il cui primo uso medico era stato il trattamento della dissenteria. L’ oppio grezzo può già essere fumato senza ulteriori trasformazioni e questo utilizzo si era diffuso principalmente in oriente nel XVIII° secolo; esso contiene circa una trentina di alcaloidi naturali, di cui il più potente è la morfina (estratta da Sertürner nel 1806). La sua azione è mediata dal legame a recettori specifici nel SNC (Recettori Oppioidi i cui normali ligandi sono i cosiddetti oppioidi endogeni: endorfine, encefaline e dinorfine) appartenenti a tre tipi diversi (m, il principale;  k e d). La morfina può essere sottoposta ad un processo chimico di acetilazione ottenendo la diacetil-morfina o Eroina che si caratterizza per la maggiore liposolubilità con più rapida penetrazione nel tessuto nervoso con intenso effetto psicotropo. Il Metadone, oppioide sintetico, è caratterizzato da efficacia per via orale analoga alla morfina e lunga durata di azione nella soppressione dei sintomi da astinenza; la crisi da astinenza di questo farmaco è a sua volta caratterizzata da sintomi più lievi ma di maggiore durata.  I farmaci morfinosimili inducono analgesia, sonnolenza, cambiamento del umore e obnubilazione; alcuni provocano euforia. La prima somministrazione di morfina può essere peraltro spiacevole associandosi a nausea e vomito. Sono caratterizzati da tolleranza e dipendenza fisica; la intossicazione acuta da coma, miosi pupillare e depressione respiratoria.

L’ Eroina, principale oppiaceo di abuso, non ha applicazioni terapeutiche; per la sua assunzione può essere sniffata, assunta per os, fumata, iniettata in vena da sola o associata alla cocaina, iniettata sottocute (skinpopping). Data la sua linea di produzione completamente illegale si caratterizza per la impurità sia chimica per la presenza di additivi ed adulteranti (mannitolo, saccarosio, glucosio, lattosio, caffeina etc.) che microbiologica con possibilità di trasmettere nel uso parenterale Epatite B e C, HIV, endocarditi batteriche e fungine, infezioni cutanee e sepsi da piogeni.

Le complicanze renali del uso di oppiacei sono numerose (tabella 2) e comprendono la Rabdomiolisi con insufficienza renale acuta in corso di mioglobinuria; questa è in genere determinata dalla perdita di coscienza con lunga permanenza a terra con ischemia dei muscoli, vasi muscolari e nervi sottoposti a pressione diretta.

Quadri renali associati con l’abuso parenterale di Eroina:

1)  Glomerulosclerosi Focale e Segmentaria (FSGS) 5) Nefrite interstiziale (anche granulomatosa)
2)  Glomerulonefrite Membrano Proliferativa (MPGN) 6) Amiloidosi
3)  Glomerulonefrite a lesioni minime 7) Vasculiti
4)  Glomerulonefrite a depositi mesangiali di IgA 8) IRA mioglobinurica
Tabella 2: Quadri renali segnalati in letteratura come associati al abuso parenterale di eroina

Tuttavia i quadri renali segnalati sono tanti e diversi e tra essi è interessante rivalutare la storia della glomerulonefrite associata (Heroin Associated Nephropathy o HAN), una forma  ampiamente proteinurica con sindrome nefrosica descritta per la prima volta nel 1970 [5]. Nell’abstract erano riportati tre casi (2 eroinomani ed un cocainomane) con apparenti lesioni minime; successivamente ad una seconda biopsia uno sviluppa una glomerulonefrite membranosa.

Le segnalazioni  successive mostrano tuttavia quadri di volta in volta diversi: GNMP con depositi di IgM e complemento, GN con aspetti di GN  acuta, GSFS, glomerulosclerosi  globali.

Dal punto di vista clinico quando strettamente definita si caratterizzava per una massiva proteinuria, più spesso con S. Nefrosica, che compariva  dopo protratto uso di eroina (anni). Si trattava di una forma resistente alla terapia immunosoppressiva, spesso con presenza all’ esordio di IRC e rapida evoluzione verso l’ uremia in 6-48 mesi.

In realtà nel tempo la descrizione della HAN deviava decisamente tra le due sponde del Atlantico.

Negli Stati Uniti viene segnalata con grande prevalenza in questo quadro una  GSFS; si tratta soprattutto di pazienti di razza nera [6]. Il quadro appare  privo di aspetti proliferativi, di solito senza depositi immuni ma talora con IgM e C3 focale e segmentario. Un ulteriore confondente viene ad essere in seguito la positività HIV.

In Europa viceversa a prevalere è una GNMP [7]; si tratta di pazienti di razza bianca, caratterizzati da positività per HCV, talora HBsAg ed HIV.

Nel tempo si è assistito alla scomparsa quasi completa alla fine degli anni ’80 dei casi di HAN. A ciò avrebbero contribuito l’ epidemia di HIV con l’ incremento di casi di HIVAN, le misure igieniche correlate all’ HIV stessa, la migliore purezza della eroina, il riconoscimento che le forme di GNMP in pazienti HCV + erano evidentemente correlate all’ infezione (crioglobulinemiche o meno che fossero) [8].

Dagli studi sperimentali effettuati nel tempo emerge che le cellule mesangiali  non sono in grado di metabolizzare l’ eroina [9]; tuttavia la morfina riduce l’ attività delle 72 kDa metalloproteinasi riducendo la degradazione della matrice mesangiale, stimola la proliferazione delle cellule mesangiali e la sintesi di collagene [10]. Riduce l’ efficacia della fagocitosi delle macromolecole ed aumenta la deposizione di IC nel mesangio [11].

Un’altra rara complicanza renale del abuso parenterale di oppiacei  severamente proteinurica e di solito con IRC evidente già all’ esordio è la Amiloidosi; si tratta di una Amiloidosi AA associata ad infezioni croniche,  soprattutto cutanee negli  “Skin Poppers”. La prognosi è pessima sia dal punto di vista del rene che per quanto riguarda la sopravvivenza complessiva [12] con il 65% dei pazienti in dialisi entro un mese dalla diagnosi ed una mortalità per sepsi vicina al 50% con una mediana di sopravvivenza di 19 mesi.

Un nuovo problema emergente nasce ora dalla prescrizione medica di farmaci psicotropi , benzodiazepine ma anche  oppiacei per il trattamento del dolore,  in pazienti anziani  che tende a trasformarsi successivamente in abuso [13]. Si tratta più spesso di donne anziane, che vivono sole con molteplici problemi di salute e spesso trattate con polifarmacia, talora con precedenti psichiatrici.

La riduzione del filtrato glomerulare in questo quadro può essere un fattore aggravante se si confronta l’uso dei FANS vs l’uso degli oppiacei, associato con un aumento delle ospedalizzazioni e della mortalità complessiva [14].

 

COCAINA:

Estratta dalle foglie di un arbusto sudamericano, più esattamente Boliviano,  (Erytroxylon Coca) è attualmente la droga più usata negli USA.

Si calcola che 23 milioni di americani l’abbiano provata almeno una volta; 3,6 milioni sarebbero i consumatori abituali. Uno studio sulla popolazione universitaria ha mostrato un 6% di users [15].

Possiamo distinguere due forme di Cocaina: la Cocaina Idrocloruro, solubile in acqua e instabile al calore, somministrabile per via orale, endovenosa e per inalazione e la Cocaina alcaloide (Freebase, Crack),  ottenuta per alcalinizzazione del sale,  non idrosolubile e stabile al calore che deve essere fumata. La prima inizia il suo effetto in 1-5 minuti e raggiunge il picco in 20-60 minuti mentre il Crack inizia il suo effetto in secondi raggiungendo il picco in un minuto.

La Cocaina agisce con effetto simpaticomimetico per blocco del reuptake di Dopamina per combinazione col recettore deputato al riassorbimento per cui il mediatore resta nello spazio sinaptico più a lungo prolungando così l’effetto dopaminergico sulla cellula postsinaptica [15].

L’attivazione simpatica si traduce in un effetto stimolante ed euforizzante.

Ne possono conseguire effetti collaterali importanti a livello sistemico (tachicardia, ipertensione arteriosa, tachipnea, ipertermia, midriasi, agitazione, delirio, reazioni psicotiche) Cardiaco (Scompenso ventricolare sx, Endocardite, Miocardite, dissecazione aortica, Infarto, aritmie, arresto cardiaco) Neurologico (agitazione, iperattività, TIA, Ictus, convulsioni)  Respiratorio (edema polmonare acuto, ipertensione polmonare, polmonite interstiziale, emorragie, infarti) del Tratto Gastroenterico (ischemia mesenterica, epatite, necrosi epatica) Vascolari (vasculiti, trombosi, tromboflebiti) e, non ultima, la Rabdomiolisi [16].

A livello Renale gli effetti della Cocaina sono mediati dal rilascio di catecolamine e dal incremento dello stress ossidativo che aumentano il fabbisogno metabolico mentre la contemporanea attivazione del RAS e del sistema delle endoteline e la inibizione della vasodilatazione indotta da Ossido Nitrico induce un vasospasmo e conseguente ischemia; su questo si sovrappone ed integra un effetto procoagulante e di aggregazione piastrinica attivati attraverso incremento del trombossano  e riduzione della antitrombina III.

La cocaina è in effetti un potente vasocostrittore che agisce attraverso la inibizione centrale dell’ uptake sinaptico di catecolamine, il blocco del re-uptake di noradrenalina nelle terminazioni periferiche ed il rilascio di catecolamine dalla midollare surrenale.

Non sorprende allora che nel quadro della tossicità acuta domini essenzialmente la insufficienza renale acuta in cui rabdomiolisi, ipertensione maligna e microangiopatia trombotica fanno la parte del leone anche se talora può esserci anche una più rara nefrite interstiziale acuta [17] a sostenere il quadro.

La possibilità del raro infarto renale deve essere sempre tenuta presente in questo setting,  annunciato da dolore lombare e/o al fianco, macroematuria  incremento della creatininemia e delle LDH [18; 19].

La rabdomiolisi da cocaina  presenta eziologia multifattoriale; il sospetto deve sorgere principalmente in presenza di ipertermia, convulsioni, agitazione o ottundimento del sensorio. La diagnosi si basa sul incremento degli enzimi muscolari (CPK, LDH) nel siero [19]; un’altra chiave diagnostica è il rilievo di positività degli stick urinari per l’emoglobina in assenza di globuli rossi al esame microscopico delle urine, che può corrispondere alla presenza di mioglobina.

Nella Insufficienza Renale Cronica l’uso di cocaina si associa peraltro a scarso controllo pressorio, progressione più rapida delle nefropatie con IRC, aumentata morbilità e mortalità, aumentata incidenza di infezioni nei dializzati [15]. E’ descritto un aumento della sclerosi/fibrosi a livello glomerulare che troverebbe giustificazione nella inibizione della sintesi della metalloproteinasi-2 con ridotta degradazione della matrice mesangiale, incremento dello stress ossidativo per riduzione del contenuto in glutatione nelle cellule renali in coltura e la attivazione del RAS con stimolo della produzione di TGF-b [20].

Infine la cocaina sembra accelerare l’aterogenesi sia a livello renale che a livello sistemico nell’animale da esperimento e nel uomo [15-17; 21-23].

 

CANNABIS:

Al  genere Cannabis appartengono piante di specie diverse (Cannabis Indica, Cannabis Sativa) (Figura 1)  che erano coltivate in passato per ottenerne fibre tessili (Canapa).

FIGURA 1 Coltivazione di Cannabis
Figura1: Coltivazione di Cannabis

Esistono numerose cultivar a diverso contenuto di TetraHidroCannabinolo (THC), che insieme al Cannabidiolo costituiscono i più abbondanti fitocannabinoidi;  dalla resina della pianta si ricava l’ Hashish, più potente, mentre dalle infiorescenze femminili si ottiene la Marijuana. Vengono più spesso fumate con completa combustione oppure riscaldate e vaporizzate, anche attraverso sigarette elettroniche, ed assorbite per via respiratoria ma possono anche essere assunte per ingestione con effetto più lento ma di maggior durata. Gli effetti dei fitocannabinoidi sono mediati da due diversi recettori: CB1 e CB2. Il THC, principale componente psicoattivo della cannabis,  è parziale agonista di entrambi [24]. Il rene presenta recettori CB1 e CB2 i cui effetti fisiologici sono poco conosciuti; CB1 è stato identificato nell’ uomo nelle cellule dei tubuli convoluto prossimale, distale e collettori mentre CB2 è stato identificato in coltura sulle cellule mesangiali, tubulari prossimali ed in alcuni casi sui podociti in coltura [25]. I cannabinoidi avrebbero inoltre un effetto vasodilatatore sulla vascolatura renale non mediato da un meccanismo recettoriale.

Da oltre 10 anni in Italia i medici possono prescrivere preparazioni magistrali contenenti sostanze attive vegetali a base di cannabis per uso medico da prepararsi in strutture preposte; dal 2007 è possibile l’importazione di diversi farmaci registrati altrove contenenti fitocannabinoidi. Dal 2014 lo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze produce una canapa indicata come FM2.   Non esistendo indicazioni autorizzate la prescrizione avviene sotto responsabilità del medico che deve raccogliere il consenso informato e indicare sulla ricetta le esigenze particolari che ne giustificano l’utilizzo. Come previsto dal Decreto Ministeriale del 9 novembre 2015 , la prescrizione di cannabis “a uso medico” in Italia è limitata al suo impegno nel dolore cronico principalmente neurogeno e quello associato a sclerosi multipla oltre che a lesioni del midollo spinale; alla nausea e vomito causati da chemioterapia, radioterapia, terapie per HIV; come stimolante dell’appetito nella cachessia, anoressia, perdita dell’appetito in pazienti oncologici o affetti da AIDS e nell’anoressia nervosa; effetto ipotensivo nel glaucoma resistente alle terapie abituali; riduzione dei movimenti involontari del corpo e facciali nella sindrome di Gilles de la Tourette [26].  Ne è stato anche preconizzato l’ utilizzo per trattare alcuni sintomi presenti nella insufficienza renale cronica terminale e per ridurre l’ utilizzo di oppioidi in questo quadro [27]. Quanto alla possibile patologia renale acuta o cronica nei consumatori abituali i dati sono al momento attuale non indicativi [28] se si escludono le forme in genere pre-renali secondarie alla peraltro rara “Cannabinoid Hyperemesis Syndrome” [29]. Perfino nel problematico campo del trapianto di rene né l’uso nel ricevente [30] né nel donatore vivente [31] pare avere effetti sulla sopravvivenza del paziente, del donatore o del rene trapiantato.

 

ALLUCINOGENI: LSD E PSILOBICINA:

Se la Dietilamide del Acido Lisergico  (LSD), potente serotoninergico, è attualmente studiata per le sue potenzialità di utilizzo come farmaco psichiatrico [32] tuttavia l’interesse nefrologico appare  trascurabile salvo una segnalazione di rabdomiolisi associata più al uso della camicia di forza come contenimento di uno stato di agitazione dissociativa che alla sostanza  in sé [33].

Più interessanti per il nefrologo appaiono i funghi del genere Psilocybes (Magic Mushrooms) di cui i più noti interessano le americhe essendo famoso lo Psilocybes Cubensis  un fungo sudamericano già conosciuto dagli Aztechi. Sono segnalati infatti casi di rabdomiolisi associata con l’assunzione [34, 35]. Bisogna sapere che in Italia esiste una varietà della specie, spontanea (Psilocybe Semilanceata ) o funghetto comune che ha le stesse proprietà.  Altri prodotti d’ abuso sono i solventi che, sniffati in colle, vernici etc. danno sintomi simili alla intossicazione alcoolica con anche brevi fenomeni allucinatorii. In particolare il Toluene è stato associato a numerose manifestazioni renali  ( principalmente interstiziali dalla Sindrome di Fanconi alla acidosi tubulare distale ma anche forme glomerulari proteinuriche e fino alla sindrome di Goodpasture) [36].

 

ANFETAMINE E ECSTASY:

L’anfetamina (MDA: 3,4 Metilen Dioxy Anfetamina) è un farmaco con proprietà anoressizzanti e psicostimolanti. Agonista indiretto del sistema catecolaminergico, agisce soprattutto a livello centrale inibendo la ricaptazione di noradrenalina e dopamina dalla fessura sinaptica. La sua azione si traduce quindi in una maggiore permanenza di neurotrasmettitore a livello sinaptico.

Molto simile (differisce dalla MDA soltanto per la presenza di un metile sul gruppo amminico) la MDMA  (3,4-metilenediossimetamfetamina),  più comunemente nota come Ecstasy è una metanfetamina dagli spiccati effetti eccitanti ed entactogeni (aumenta la socialità e la emotività), anche se non propriamente allucinogeni [37].

Sono farmaci di sintesi, assunti per via orale, spesso in “rave party” con balli di gruppo protratti; l’iperattività fisica in ambienti caldi può condurre ad ipertermia. Inoltre nell’animale da esperimento l’MDMA può dare febbre. Effetti indesiderati lievi sono anoressia, nausea, vomito, cefalea, trisma, e crampi. Più severi convulsioni, iperpiressia, disfunzione epatica, rabdomiolisi, coagulazione intravascolare disseminata ed IRA.

 

NUOVE DROGHE SINTETICHE: CATINONI E CANNABINOIDI:  

Il qat (Catha edulis), è una  pianta originaria dell’Etiopia diffusa nella penisola Arabica. La sua coltivazione e l’ uso sono molto presenti in Yemen.

Le foglie contengono un alcaloide (Catinone) dall’azione stimolante, che causa stati di eccitazione e di euforia, e provoca dipendenza. La sostanza, simil-anfetaminica, ha spiccato effetto psicotropo, euforizzante e spegne fame e fatica; ha anche un importante effetto analgesico.

I Catinoni sintetici [38] sono sostanze prodotte chimicamente che riproducono questi effetti; ne esistono un numero molto grande (Methcatinone, Methedrone, Methylone etc.) ed anzi per essere più chiari ne vengono sintetizzati continuamente di nuovi. Non sono conosciuti e quindi non sono formalmente illegali; vengono commercializzati per uso animale e comunque non umano, prodotti il più spesso in Asia e facilmente reperibili in Internet  indicati con nomi di fantasia o con nomi generici (Salt Baths). Il fatto di essere sostanze sempre nuove e diverse fa si che non siano comunemente dosate nei liquidi biologici.

La tossicità è per alcuni versi simile a quella delle anfetamine (tachicardia, ipertensione, agitazione psicomotoria, aggressività etc.) mentre a livello renale si possono avere incrementi della creatininemia con quadri di insufficienza renale acuta, iposodiemia, iperpotassiemia, iperuricemia; si può avere un danno muscoloscheletrico fino alla rabdomiolisi.

Allo stesso modo i cannabinoidi sintetici [39] sono anche essi prodotti chimicamente ed interagiscono con i recettori dei cannabinoidi con potenza simile o anche  di molto superiore al prodotto naturale ed hanno strutture diverse tali da non essere rilevati dagli abituali dosaggi. Sono indicati con nomi generici (legal Highs; Erbal Highgs; spices), talora con sigle (K2, K3) o nomi di fantasia e possono essere facilmente ottenuti in Internet, indicati il più spesso come misture di vegetali cui sono stati addizionati “non per uso umano” , che possono essere fumati ma anche come compresse, capsule o polveri ingeribili oppure liquidi da utilizzare nelle “sigarette elettroniche”  [40]. Se ne conoscono oltre 200 e se ne sintetizzano continuamente di nuovi; la loro diffusione è stata ampia soprattutto tra i giovani. Gli effetti sono spesso “individuali” dipendendo da dosi e vie di somministrazione. Comprendono sedazione, atassia, midriasi, tachicardia, euforia, agitazione psicomotoria ma anche allucinazioni, deliri, convulsioni, rabdomiolisi, depressione respiratoria, insufficienza renale acuta [41]. Ancora una volta i comuni esami tossicologici (compreso il dosaggio del THC) risultano negativi.

 

LA KETAMINA:

La Ketamina è un anestetico dissociativo che induce depressione del sistema talamo-corticale e attivazione del sistema limbico; la sua indicazione è principalmente per piccoli interventi  in cui induce una ridotta inibizione respiratoria con anche il mantenimento di riflessi protettivi delle vie aeree (specie uso pediatrico e veterinario).  L’uso è limitato dalla induzione nella fase di risveglio di uno stato sognante vivace (piacevole o spiacevole) fino a veri e propri stati allucinatorii. Ha effetti antidepressivi e sono in corso sperimentazioni per l’utilizzo in psichiatria e del tutto recentemente un suo enantiomero è stato infine approvato dalla FDA per l’ utilizzo nelle depressioni resistenti alle usuali terapie [42].

Con dosi inferiori a quelle per uso anestetico somministrate per via endovenosa, intramuscolare, attraverso la mucosa nasale o aggiunte al fumo può essere utilizzata come droga d’abuso per esaltare l’esperienza sessuale in rave parties e per ottenere effetti di estraniazione (K-hole) con sensazione di “uscita dal corpo” [43]. Gli effetti acuti della Ketamina includono tachicardia, ipertensione, aumento  della frequenza o depressione respiratoria, aumento delle secrezioni bronchiali, nausea e vomito. Può associarsi a rabdomiolisi inducendo ipertono muscolare e agitazione psicomotoria [44].  Nell’uso cronico presenta in particolare una tossicità gastroenterica probabilmente diretta  che si esprime con dolore epigastrico, dilatazione delle vie biliari e colestasi. Per il Nefrologo sono però soprattutto interessanti  i danni a carico del tratto urinario causati dal abuso cronico. Il primo report di una sindrome urologica risale al 2007 [45]; da allora numerosi sono i report in letteratura. I sintomi riportati comprendono disuria, pollchiuria, urgenza, incontinenza e macroematuria. La vescica è l’ organo più spesso coinvolto e la cistoscopia può evidenziare eritema, edema ed ulcerazioni mentre le biopsie possono mostrare infiltrati eosinofili ed infiltrazione di mastcellen. La radiologia può dimostrare una vescica di volume ridotto con parete ispessita con l’ infiammazione che si estende a livello perivescicale.A livello renale vi può essere evidenza di idronefrosi e insufficienza renale. Anche in questo caso prevale l’ ipotesi di una tossicità diretta del farmaco e/o dei metaboliti. Il tempo necessario sarebbe di 1-4 anni.

 

Tornando al caso clinico

Nel tentativo di chiarire il più possibile il quadro del nostro paziente abbiamo esteso i dosaggi alle droghe non comunemente ricercate.

Abbiamo inviato pertanto un campione urinario raccolto al inizio della nostra storia ad un laboratorio specializzato per la ricerca di Catinoni Sintetici; questa risultava negativa; il laboratorio però precisava nel suo referto che le analisi eseguite non potevano essere considerate esaustive per tutti i catinoni continuamente immessi sul mercato clandestino. Inoltre segnalava che nel contesto delle analisi eseguite era emersa invece la presenza di Ketamina e del suo metabolita Norketamina.

 

Conclusioni

Il caso presentato era paradigmatico di come sia mutato il quadro del abuso di sostanze a scopo voluttuario negli ultimi 20 anni; non più solo le sostanze note ben classificate e sottoposte a controlli che possiamo dosare facilmente nei nostri presidi  ma una pletora di nuove sostanze che sfuggono ai controlli e che non risultano nemmeno formalmente illegali. Il problema che ne scaturisce è enorme in quanto si continuano a dosare le quattro “vecchie sorelle”  ovvero Marijuana, Cocaina, Eroina e Anfetamine mancando così di poter rivelare le droghe di abuso più diffuse attualmente.

Se pensiamo soltanto  ai test di controllo obbligatori per molte professioni ci rendiamo conto di quanto sia pericolosa questa condizione di “invisibilità” delle droghe sintetiche. Oltretutto le droghe sintetiche possono rappresentare porte di ingresso a sindromi psichiatriche severe.

Naturalmente gli “abuser” sono il più delle volte consumatori di molteplici sostanze ed anche per questo in presenza di patologie suggestive non ci si deve fermare alle sostanze più “classiche”.

Dal punto di vista più strettamente nefrologico l’ invito deve essere a intensificare il più possibile le ricerche nei casi sospetti di nefrotossicità da sostanze d’abuso in quanto questi pazienti spesso sono esposti a sostanze diverse e molteplici sono i danni possibili correlati ad esse.

 

Aspetti di danno tubulare correlati con mioglobinuria
Figura 2: Aspetti di danno tubulare correlati con mioglobinuria. 1) cilindro ialino endotubulare con detriti cellulari ed assottigliamento di parete in presenza di aspetti infiammatori acuti tubulari e peritubulari. EE 20X. 2) infiltrato linfo-monocitario e granulocitario anche eosinofilo peritubulare con aggressione della parete del tubulo. PAS 40X. 3) cilindri granulari eosinofili (mioglobina) EE 40X. 4) danno tubulare con aree di rarefazione ed assottigliamento epiteliale ed altre di rigenerazione. PAS 40X

 

Bibliografia

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Rhabdomyolysis: have you considered food poisoning from quails?

Abstract

Rhabdomyolysis (R) is a complex condition involving the rapid dissolution of damaged or injured skeletal muscle. This leads to the direct release of intracellular components, including myoglobin, creatine kinase, aldolase, and lactate dehydrogenase, as well as electrolytes, into the bloodstream and extracellular space. Clinically, R shows a triad of symptoms: myalgia, limb weakness, and myoglobinuria without hematuria, while myoglobin has been recognized as playing a part in the development of acute kidney injury.

Coturnism is a relatively rare disease, mostly found in the European countries bordering the Mediterranean Sea, characterized by acute R. It follows the consumption of Coturnix coturnix, a species of quails common in Europe, that have ingested the toxic substances (and especially coniine) present in the herbaceous plant called hemlock (Conium maculatum). Coniine may be lethal at a dose of 150 mg but it has neurotoxic effects at smaller doses, with acute R and acute kidney injury. Freezing and cooking the meat does not inactivate the alkaloids present in the birds’ flesh and digestive tract. The clinical course of coturnism includes neurotoxicosis, tremor, vomiting, muscle paralysis, respiratory paralysis/failure, R and acute kidney injury. In appropriate geographical and temporal settings, it should be considered when diagnosing patients with acute R. The genetic, biochemical and epidemiological characteristics of coturnism are not yet fully known, while we wait reliable data from experimental studies.

 

Keywords: hemlock, coniine, coturnism, acute kidney injury, quails, rhabdomyolisis

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Introduzione

La rabdomiolisi (R) (letteralmente dissoluzione del muscolo striato) è una condizione medica complessa che comporta la rapida dissoluzione del muscolo scheletrico danneggiato. L’interruzione dell’integrità del muscolo scheletrico porta al rilascio diretto di componenti intracellulari, tra cui mioglobina, creatina chinasi (CK), aldolasi e lattato deidrogenasi, nonché elettroliti, nel torrente ematico e nello spazio extracellulare [1]. La lesione muscolare si manifesta generalmente con un danno diretto del sarcolemma e/o una riduzione di ATP cellulare che porta ad un incremento intracellulare di calcio (generalmente immagazzinato nel reticolo sarcoplasmatico tramite pompe ATP-dipendenti), distruzione della struttura fibrillare e successiva morte dei miociti. Questo provoca la liberazione delle sostanze intracellulari, in particolare della mioglobina, presente in concentrazione elevate [1].

 

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Choice and management of anticoagulation during CRRT

Abstract

Continuous renal replacement therapies (CRRT) are widely used in the treatment of acute kidney injury. Several causes, related to the treatment itself or to the patient’s condition, determine the coagulation of the extracorporeal circuit. These interruptions (or down-time) have a negative impact on the effectiveness of the treatment in terms of solute clearance and fluid balance. Historically, the choice of anticoagulant has fallen on unfractionated heparin because it is cheap and easy to use. Today, the use of citrate is recommended in most instances because of its high efficacy and safety. Several studies demonstrate the superiority of citrate in terms of filter survival. The reduction of down-time results in a reduction of the delta between the prescribed dialysis dose and the dose that is actually administered (ml/Kg/hour of collected effluent). The literature also agrees that there is a reduction in the incidence of major bleeding events when citrate is used instead of heparin, although there is no impact on mortality rates.

Some technical and clinical complexities, secondary to citrate action both as anticoagulant and buffer, still exist in the use of regional citrate anticoagulation. However, complications due to citrate use, such as acid-base balance disorders and hypocalcaemia, are rare and easily reversible.

There is not much data about the costs and benefits of using citrate instead of heparin; according to the experience within our own Unit, we have observed a reduction in costs when the data is normalized for 35 ml of effluent administered. Appropriate protocols, accurate surveillance and the automated management of regional citrate anticoagulation thanks to dedicated software make this technique safe and effective.

Keywords: anticoagulation, citrate, acute kidney injury, CRRT

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Introduzione

Le terapie sostitutive della funzione renale con metodiche extracorporee continue (CRRT) sono diffusamente utilizzate nel trattamento del danno renale acuto in area critica. Durante CRRT coesistono diverse potenziali cause di attivazione della cascata coagulativa e delle piastrine che possono contribuire alla coagulazione del circuito. Alcuni fattori sono relativi allo stesso trattamento extracorporeo e alle modalità con cui viene condotto (contatto del sangue con le superfici sintetiche per quanto biocompatibili, contatto aria-sangue, flusso turbolento o stasi, emoconcentrazione). Altri fattori dipendono invece in maniera più specifica dalle condizioni del paziente, con particolare riferimento alle alterazioni dell’omeostasi coagulativa secondarie allo stato flogistico sistemico di cui il danno renale può essere conseguenza o concausa [1]. 

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Differential diagnosis of acute kidney injury in critically ill patients: the nephrologist’s role in identifying the different causes of parenchymal damage

Abstract

The management of acute kidney injury in the critical area is complex and necessarily multidisciplinary, but the nephrologist should maintain a pivotal role, both in terms of diagnosis and of indication, prescription and management of extracorporeal replacement therapy.

The most frequent causes of AKI in the critically ill patients are correlated to sepsis and major surgery, but the incidence of different causes, of strict nephrological relevance, is probably higher than the estimate.

Nephrologists have the competence to evaluate data relating to renal functions, urinary electrolytes, urinary sediment, and to identify which specific examinations can be useful to define the cause of AKI. A nephrological consultation will therefore improve the clinical management of AKI by guiding and integrating the diagnostic path with traditional or more advanced assessments, useful for the identification of the different causes of acute kidney damage and consequently of the most appropriate therapy.

The etiological diagnosis of AKI will also be crucial in defining the renal prognosis and therefore an appropriate nephrological follow up.

Keywords: Acute kidney injury, differential diagnosis, critical care nephrology

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Introduzione

Il danno renale acuto nei pazienti critici ricoverati in terapia intensiva è frequentemente gestito, in Italia come in altri Paesi, dai Rianimatori. Questo ha una forte ricaduta sia sulle competenze nefrologiche, che sulla gestione clinica del paziente.

La letteratura disponibile riguarda, con poche eccezioni, due ambiti prevalenti: il riconoscimento del danno renale acuto, inteso come quantificazione della riduzione della capacità escretoria renale, e la gestione della terapia extracorporea eventualmente necessaria. 

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Acute kidney injury and rhabdomyolysis after cocaine overdose: case report and literature review

Abstract

Cocaine, a natural alkaloid derived from the coca plant, is one of the most commonly used illicit drugs.
Cocaine abuse causes systemic adverse effects like stroke, myocardic infarction, arterial dissection, vascular thrombosis and rhabdomyolysis.
Cocaine use is, also, associated with renal complications such as acute kidney injury, vasculitis, acute interstitial nephritis, chronic kidney disease, malignant hypertension with thrombotic microangiopathy.
Acute kidney injury may or may be not associated to rhabdomyolysis.
Rhabdomyolysis caused by cocaine abuse is multifactorial, involving tissue ischemia secondary to vasoconstriction and cellular damage caused by the drug.
We report a 50-year-old man with history of chronic hepatitis C and substance abuse admitted to our unit with severe rhabdomyolysis and acute kidney failure after nasal insufflation of cocaine overdose. Renal function recovered after several treatments of dialysis.
We conclude that cocaine adversely impacts kidney function; in addition cocaine and rhabdomyolysis are the double danger for acute kidney injury. Medical management of cocaine toxicity requires a multisystem approach, with close monitoring cardiac, neurological and renal function.

Keywords: Acute kidney injury, rhabdomyolysis, cocaine

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Introduzione

La cocaina, un alcaloide del tropano presente nelle foglie della pianta di coca di eritroxilone, nota come il più potente stimolatore di origine naturale, esalta e prolunga gli effetti della stimolazione simpatica inibendo il reuptake delle catecolamine nelle terminazioni nervose (1, 2). 

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Nephrologist and ICU: the need of new expertise

Abstract

Episodes of dialytic Acute Kidney Injury (AKI stage III KDIGO) can lead to chronic kidney disease (CKD), even after a long time. Prelimary data indicate that the relationship between AKI and CKD is affected by dialysis technical modalities and factors in part modifiable, such as an early dialysis timing, dose adeguacy, continuous treatment, use of biocompatible membranes and regional citrate anticoagulation. However, in most ICUs involvement of nephrologist consultant is marginal. Of more, nephrological follow-up after discharge, which allows to slow down the progression rate of CKD even just by a correct pharmacological and dietetic approach (sartans, ACEis), is an uncommon practice. Indeed, a better organ survival could lead to a delay of the dialytic treatment, reducing the costs sustained by the National Health Service.  To face such challenges locally, in Piedmont and Aosta Valley the Dialysis Units were required to put themselves at disposal for ICU needs both in terms of dedicated staff and resources. Additionally, since many years consultant nephrologists have established the “Acuti” work-group, which has been able to provide an high level of professional expertise, while incentivizing innovation and training in ICU environment. In order to cope with these new requirements a redefinition of the nephrologist’s role in ICU through a constant exchange with the intensive care background is needed.

Key words: Acute kidney injury., Critical Care nephrology, Organization, Work group

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La gestione della RRT in Area Critica

La gestione della terapia renale sostitutiva (RRT) in Area Critica è un mondo vario, in cui la pratica clinica è ampiamente differente da paese a paese in termini di operatori coinvolti, tipo di dialisi, prescrizione dialitica, durata della dialisi, timing e dose. Essa è frutto di consuetudini consolidatesi negli anni, e risente molto delle situazioni e dinamiche locali. Tuttavia, nella maggioranza dei casi il trattamento sostitutivo è a carico delll’intensivista, con una dialisi continua standard. Il ruolo rivestito dal consulente nefrologo è marginale. In una recente survey internazionale (271 ICUs, 218 in Europa e 54 extra UE), nel 92.6% dei casi l’intensivista era responsabile del trattamento, e nell’88% dei casi la RRT era prescritta come CRRT (1). Solo nel 7.4% dei casi la responsabilità era in carico al nefrologo, e nel 8.8% condivisa tra intensivista e nefrologo. Riguardo ad esperienze europee mirate, nel Regno Unito una recente survey ha messo in evidenza come su un campione di 167 ICUs ospedaliere in cui esisteva un servizio di Nefrologia e Dialisi in sede, solo nel 25% dei casi l’Intensivista contattava “sempre” o “di solito” il nefrologo prima di iniziare una RRT. Nel 40%dei casi non lo contattava “mai”, o ”raramente” (2). In Germania su un campione rappresentativo di 423 ICUs, nel 53% dei casi l’indicazione alla RRT era data dagli intensivisti. Solo nel 22% delle ICUs il nefrologo era coinvolto nei processi decisionali (3).  

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Complement factor B mutation in atypical hemolytic uremic syndrome. Rare cause of rare disease

Abstract

Hemolytic uremic syndrome (HUS) is a rare disease characterized by microangiopathic hemolysis, platelet consumption and multiple organ failure with predominant renal involvement. In the most of cases (85-90%), it is associated with enteric infection due to Shiga-toxin or verocytotoxin (STEC-VTEC)-producer Escherichia coli. Rarely, in about 10-15% of cases, HUS develops in the presence of a disorder of alternative complement pathway regulation and it is defined atypical (aHUS).

We describe the case of a 65-year-old man who came to our attention with a clinical presentation of aHUS and a clinical course characterized by rapidly progressive acute renal failure (ARF), which required renal replacement treatments, and by a stable clinical picture of hematological impairment as a marker of a non-severe and self-limiting form. The clinical and laboratory course allowed us not to perform specific therapies such as plasma exchange and/or block of the complement with eculizumab. Less than two weeks after hospital admission, there was a gradual recovery of renal function with spontaneous diuresis and hematological remission.

Genetic screening has revealed a heterozygous mutation in the complement factor B (CFB) that is not described in the literature and therefore not yet characterized in the genotype/phenotype correlation, also for the extreme rarity of the forms associated with CFB alteration. In conclusion, the presence of a new mutation in the CFB, such as the one described in our case, is probably associated with the development of aHUS but has not led to a poor prognosis, as generally reported in the literature for known variants of the CFB.

Key words: Acute kidney injury., Atypical hemolytic uremic syndrome, Complement factor B mutations, Thrombotic microangiopathy

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Introduzione

La Sindrome Emolitico-Uremica (SEU) è una patologia rara caratterizzata sul piano clinico da emolisi microangiopatica, consumo piastrinico e danno multiorgano con prevalente interessamento renale e sul piano istologico da una microangiopatia trombotica sistemica (1).

Nella maggior parte dei casi (85-90%), la SEU è associata a un’infezione enterica da ceppi di Escherichia coli produttori di Shiga-like o verocitotossine (STEC-VTEC); tale forma interessa prevalentemente l’età pediatrica e viene definita come forma “tipica” (2).

Più raramente, in circa il 10-15% dei casi, la SEU non è causata da batteri produttori di verocitotossine ed è definita atipica (SEUa); essa riconosce, più spesso, come meccanismo patogenetico un disordine della regolazione della via alternativa del complemento. Questa forma può manifestarsi a qualsiasi età della vita e si presenta maggiormente in forma sporadica e solo nel 20% in forma familiare. In più della metà dei casi, la SEUa è associata a mutazioni in eterozigosi a carico dei geni che codificano per le proteine regolatrici del complemento come Fattore H (CFH), Fattore I (CFI), Cofattore proteico di membrana (MCP), Fattore B (CFB) e C3 (3 – 5). In aggiunta a tali mutazioni genetiche, la SEUa può essere causata da anticorpi anti-FH (AbAnti-FH) che interferiscono con la regione C-terminale del CFH determinando una deficienza funzionale acquisita del CFH; lo sviluppo di tali anticorpi è associato a una delezione in omozigosi del gene CFHR1, responsabile della sintesi di una molecola altamente omologa al CFH (6, 7). Inoltre, nelle SEUa sono state identificate mutazioni anche a livello del sistema di attivazione della coagulazione con particolare riguardo alla trombomodulina (8) e al plasminogeno (9) e, recentemente, a carico della diacil-glicerolo-chinasi epsilon (DGKe), una chinasi espressa a livello endoteliale con funzione regolatrice nell’attivazione piastrinica e nella coagulazione, caratterizzate da una precoce manifestazione, generalmente entro il primo anno di vita (10).
 

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