Nefropatia cronica del trapianto: focus sul ruolo della microinfiammazione

Abstract

La nefropatia cronica del trapianto è una condizione patologica multifattoriale presente in una larga percentuale di reni trapiantati la cui comprensione è stata accelerala dall’estesa applicazione della biologia molecolare e dall’impiego della biopsia protocollare in molti centri nefro-trapiantologici. Grazie a queste innovazioni, si è compreso che questo processo può comparire molto precocemente nel post-trapianto e che la microinfiammazione parenchimale gioca un ruolo chiave. Molte condizioni patologiche, anche precoci (come il danno da ischemia/riperfusione, la presenza di rigetti cellulari e umorali, e le infezioni virali e batteriche) possono contribuire alla genesi della fibrosi renale. Da un punto di vista prettamente biologico, il danno cronico inflammatorio-mediato del graft è orchestrato da cellule immunitarie (principalmente macrofagi, cellule dendritiche, linfociti) e cellule effettrici che mediano la deposizione di matrice extracellulare (ECM) e la fibrosi. Molti degli elementi chiave di questi pathway biologici potrebbero rappresentare in futuro ottimi bersagli terapeutici. Al momento, però, non esiste una terapia specifica per arginare questa condizione, ma appare evidente che l’impiego di una immunosoppressione sostenibile (utilizzo combinato di più farmaci alle più basse dosi possibili) e l’attenzione alle comorbidità (dedicando sufficiente tempo al follow-up clinico e incrementando il network multi-specialistico) sia la via da perseguire per ottenere un accettabile rallentamento della progressione delle lesioni croniche del graft e una sua maggiore sopravvivenza.

Parole chiave: Nefrologia, Trapianto renale, Microinfiammazione, Fibrosi, Immunosoppressione

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Introduzione

Sebbene la sopravvivenza ad un anno del rene trapiantato sia significativamente migliorata, quella a lungo termine è ancora non ottimale con un’incidenza di perdita del graft dopo 15-20 anni di circa il 40-50% [1].

Per anni la genesi del danno cronico del rene trapiantato è stata attribuita principalmente agli inevitabili e cronici effetti nefrotossici degli inibitori della calcineurina (CNI, ciclosporina e tacrolimus). Questo assioma è stato ampiamente validato dallo Studio Symphony che ha sottolineato come l’utilizzo di basse dosi di CNI (principalmente tacrolimus) fosse associato ad una migliore sopravvivenza del graft a 3 anni [2]. Questi risultati avevano innescato nella comunità trapiantologica internazionale la tendenza a minimizzare la terapia immunosoppressiva (spesso anche in pazienti a maggiore rischio immunologico).

Tuttavia, negli ultimi anni, grazie all’utilizzo della biologia molecolare (in particolare delle scienze omiche) [3] e allo sviluppo di programmi di biopsie protocollari [4], si è compreso che questa strategia aveva importanti limitazioni e il danno cronico da CNI coinvolgeva un numero di pazienti meno ampio rispetto a quanto si pensasse in passato e non tendeva ad evolvere molto rapidamente [5]. Inoltre, si è chiarito che il danno cronico del graft può comparire anche molto precocemente nel post-trapianto e avere connotazioni fisiopatologiche molto complesse [6].

Infatti, la fibrosi del rene trapiantato (meglio definita come infiammazione interstiziale/atrofia tubulare, IF/TA) non rappresentava più una semplice “cicatrizzazione parenchimale”, ma un processo complesso, inevitabile, dinamico e progressivo indotto da molti fattori patologici e caratterizzata da un significativo rimodellamento dell’interstizio associato ad un’eccessiva produzione/deposizione di matrice fibrillare extracellulare (ECM) [7] con conseguente alterazione della normale architettura del tessuto renale e della microperfusione che portava allo sviluppo di insufficienza d’organo (fino all’end-stage renal disease).

L’IF/TA è diagnosticabile istologicamente in circa il 40% dei reni trapiantati 3-6 mesi dopo il trapianto [8, 9] e coinvolge circa il 65% degli organi a 2 anni [10].

Dati della letteratura hanno poi sottolineato che questa condizione ha un drammatico impatto sull’outcome. Infatti, la sopravvivenza del trapianto a 10 anni è del 90-95% nei pazienti con istologia normale, dell’80-85% nei pazienti con IF/TA (senza vasculopatia) e del 40-45% nei pazienti che sviluppano IF/TA associata a vasculopatia [4].

In questo contesto fisiopatologico, inoltre, la microinfiammazione dell’organo svolge un ruolo chiave e può contribuire ad accelerare lo sviluppo delle lesioni parenchimali croniche e del danno funzionale dell’organo trapiantato [11]. L’infiammazione nelle aree cicatriziali/fibrotiche è stata ampiamente riconosciuta dalla classificazione Banff che ha coniato il termine di IF/TA con infiammazione (i-IF/TA). In particolare, i-IF/TA rispecchia il grading di Banff i (con soglie uguali), ma viene applicato solo al parenchima corticale cicatrizzato [12].

Questa condizione, segnalata per la prima volta nel 2009, è associata ad una peggiore sopravvivenza dell’organo trapiantato e rappresenta una risposta al danno tissutale acuto derivante da molte forme di insulto parenchimale (come rigetti acuti e cronici mediati da cellule T e anticorpi) innescato spesso da uno stato di sotto-immunosoppressione farmacologica [13,14].

 

Cenni di biologia del danno fibrotico del rene trapiantato associato alla microinfiammazione parenchimale

Da un punto di vista prettamente biologico, nel danno fibrotico associato alla micro-infiammazione, le lesioni iniziali coinvolgono diversi tipi cellulari (come macrofagi, cellule dendritiche, linfociti) [15] e implicano il coinvolgimento di cellule effettrici che mediano la deposizione di matrice extracellulare (ECM) e la fibrosi come i miofibroblasti (derivati ​​da cellule mesenchimali residenti), i fibroblasti, i fibrociti (derivati dal midollo osseo), le cellule epiteliali, le cellule endoteliali e i periciti attivati ​​da citochine pro-fibrotiche e fattori di crescita secreti dai linfociti dopo danno dell’endotelio [16, 17].

I fattori alla base dello sviluppo rapido di questa condizione sono molteplici, tra cui: 1) gli inevitabili effetti del danno da ischemia-riperfusione; 2) le infezioni virali (principalmente BK virus) e batteriche (spesso ricorrenti); 3) l’insorgenza e il numero di episodi di rigetto acuto cellulare ed umorale (anche forme subcliniche e borderline).

Come ampiamente riportato in letteratura [15, 17, 18], il processo fibrotico dell’organo trapiantato è indotto da una rete biologica multifattoriale e finemente regolata. Nella fase iniziale l’infiammazione intra-parenchimale, parte integrante dei meccanismi di difesa dell’ospite in risposta al danno, si attiva e, se non risolta, può portare allo sviluppo di un danno fibrotico [19]. In questo contesto, diverse citochine pro-infiammatorie, pro-fibrotiche e molecole di adesione vengono prodotte/secrete causando cambiamenti del microambiente locale e inducendo un reclutamento di cellule immuno-infiammatorie che, interagendo con diversi tipi cellulari nel rene, possono perpetuare la risposta fibrotica [19]. Inoltre, gli infiltrati infiammatori (inclusi neutrofili, macrofagi e linfociti T e B), potenziano il processo fibrotico e, attivando le cellule endoteliali capillari peri-tubulari, possono facilitare il reclutamento di nuove cellule mononucleate [11] che, infiltrando i tessuti, secernono citochine fibrotiche (come il TGF-β1).

Altre citochine coinvolte nel reclutamento di cellule infiammatorie sono: la proteina chemiotattica dei monociti-1 (MCP-1), la proteina infiammatoria dei macrofagi-1 (MIP-1) e la proteina infiammatoria dei macrofagi-2 (MIP-2) [20]. La sovra-espressione di queste molecole rilasciate dalle cellule tubulari danneggiate crea un gradiente di infiltrazione di monociti/macrofagi infiammatori e cellule T nei siti interessati dal processo patologico che alimenta il pathway immuno-infiammatorio (e pro-fibrotico).

In una successiva fase di attivazione, il network biologico descritto porta all’attivazione dei miofibroblasti, un ampio gruppo di cellule coinvolte nella produzione di componenti dell’ECM e che derivano da molteplici fonti, tra cui fibroblasti, fibrociti, cellule epiteliali renali che subiscono transizione mesenchimale (EMT) e periciti [16].

Durante questa condizione, poi, le cellule subiscono profondi cambiamenti morfologici e funzionali tra cui: iper-espressione dei marcatori mesenchimali (vimentina, α-actina del muscolo liscio, fibronectina), rilascio di metallopeptidasi della matrice (MMP) -9 e -2, aumento della motilità, riduzione della citocheratina e della E-caderina [21] e cambiamento nella composizione dei proteoglicani eparan solfato (HSPG) [22].

L’HSPG più abbondante nelle cellule epiteliali tubulari renali è il sindecano-1 che promuove la riparazione e la sopravvivenza tubulare renale dopo danno, e la cui funzione sembra essere correlata al miglioramento funzionale nel trapianto renale sottoposto a danno da I/R [23]. Diversi fattori possono modulare il sindecano-1, tra cui l’eparanasi (HPSE), un’endo-β-D-glucuronidasi che scinde le catene di eparan solfato in frammenti da 4 a 7 kDa e che è stata implicata nella patogenesi di diverse malattie renali [24] tra cui la nefropatia diabetica e la patologia cronica del graft [25].

Come recentemente dimostrato dal nostro gruppo, l’HPSE risulta iper-espressa e attivata dopo danno da I/R ed è in grado di rimodellare la matrice extracellulare, di indurre EMT e di controllare alcune delle complesse interazioni tra cellule tubulari renali e macrofagi (principalmente pro-infiammatori M1) che si infiltrano nel trapianto dopo il danno [26-29]. Questo crosstalk tra i macrofagi M1 e le cellule epiteliali tubulari renali, che coinvolge anche l’apoptosi, la produzione di pattern molecolari associati al danno (DAMP) e l’up-regulation del Toll-Like Receptor (TLR)-2 e TLR-4 nelle cellule epiteliali tubulari e le cellule endoteliali vascolari [30,31], promuove il rilascio di mediatori proinfiammatori, facilita la migrazione e l’infiltrazione dei leucociti, attiva le risposte immunitarie innate e adattative e potenzia la fibrosi renale [32].

Nella genesi e progressione del danno fibrotico infiammatorio-mediato del graft, come nel rene nativo, comunque, entrano in gioco anche le principali comorbidità (come malattia cardiovascolare, diabete, dislipidemia, obesità) che direttamente, o attraverso l’attivazione del pathway infiammatorio intra-parenchimale, possono indurre fibrosi e danno cronico del graft.

 

Potenziali approcci terapeutici

Strategie attuali

Per poter garantire una migliore sopravvivenza del graft e rallentare la progressione del danno cronico (soprattutto infiammatorio-mediato) è necessario gestire in maniera ottimale la terapia immunosoppressiva.

Nell’ultimo ventennio, una serie di studi clinici ha analizzato l’impatto della terapia immunosoppressiva (in particolare dei CNI) sulla genesi della fibrosi del rene trapiantato e sullo sviluppo della disfunzione cronica del trapianto (CAD) [33]. Tuttavia, l’esatto meccanismo biologico alla base del danno fibrotico farmaco-indotto non è stato ancora completamente definito.

I CNI sembrano causare fibrosi d’organo inducendo vasocostrizione renale e sistemica attraverso un aumento del rilascio di endotelina-1 [34], l’attivazione del sistema renina-angiotensina, una maggiore produzione di trombossano A2 e una ridotta produzione di vasodilatatori come l’ossido nitrico e la prostaciclina [35].

Questi farmaci possono anche causare stress ossidativo attraverso il disaccoppiamento della fosforilazione ossidativa mitocondriale, l’inibizione del ciclo di Krebs e l’attivazione della glicolisi anaerobica nel citosol [36]. Inoltre, l’IF/TA associato alla tossicità da CNI è correlato all’aumento dell’espressione di mRNA di TGF-β intrarenale [37]. Il TGF-β può promuovere la fibrosi interstiziale diminuendo la degradazione e aumentando la produzione di proteine ​​della matrice extracellulare [38].

Comunque, i CNI a dosi più elevate rappresentano una possibile soluzione allo sviluppo delle lesioni indotte dal sistema immune e che si concretizzano con la genesi della chronic active antibody mediated rejection (CAMR). È evidente, però, che una strategia di potenziamento dei CNI può incrementare lo sviluppo di comorbidità (malattia cardio-vascolare, neoplasie, malattie infettive) riducendo potenzialmente la sopravvivenza del trapianto.

Pertanto, è indispensabile pensare a trattamenti terapeutici multi-farmacologici che permettano la minimizzazione o la sospensione dei CNI. In questa filosofia terapeutica gli inibitori di mammalian target of rapamycin (mTOR-I, Everolimus, Sirolimus) possono avere un ruolo chiave.

Bisogna, però, tenere presente che, anche per questa categoria farmacologica, la dose ha un ruolo chiave. Stanno, infatti, emergendo evidenze cliniche che sottolineano un possibile effetto duale ed opposto dose-correlato degli mTOR-I. Secondo recenti studi biomolecolari, basse dosi di questi farmaci possano avere effetti protettivi (o neutri) sulla fibrosi del trapianto, mentre a concentrazioni elevate possono indurre fibrosi principalmente attraverso EMT delle cellule tubulari renali [39-41].

Pertanto, visti questi studi, sarebbe auspicabile proporre una strategia terapeutica “sostenibile” che contempli l’utilizzo delle più basse dosi possibili di più farmaci immunosoppressori somministrati contemporaneamente (incluso gli mTOR-I).

Questa filosofia è stata recentemente riportata nello studio Transform [42]. Questo ampio studio osservazionale, prospettico, e retrospettivo, internazionale multicentrico ha dimostrato la non inferiorità del trattamento combinato di mTOR-I a basse dosi con CNI a basse dosi versus la classica triplice terapia immunosoppressiva (Dosi standard di CNI associate a citostatici) e il positivo impatto sullo sviluppo di comorbidità (come le infezioni virali).

Resta implicito che l’impiego di altri preparati farmacologici come il Belatacept possa essere un’utile strategia per raggiungere questo target [43].

In aggiunta, il controllo delle comorbidità (anche attraverso la modulazione della terapia immunosoppressiva) può aiutare a rallentare la progressione della fibrosi. Negli ultimi anni, gli inibitori dei trasportatori sodio-glucosio tipo 2 (SGLT2) hanno mostrato interessanti potenzialità cardio-nefro-protettrici candidandosi a possibili nuove armi terapeutiche da sfruttare in ambito trapiantologico [44].

Nuovi potenziali agenti anti-fibrotici

Sulla base di recenti osservazioni, un gran numero di farmaci innovativi sono stati proposti per rallentare la progressione della fibrosi renale in nefrologia [45] (anche se scarsamente sperimentati in campo trapiantologico): (a) anticorpi neutralizzanti contro diverse isoforme di TGF-β [46]; (b) pirfenidone (5-metil-1-fenil-2(1H)-piridone), un derivato della piridina disponibile per via orale che inibisce la formazione di collagene e che mostra proprietà antifibrotiche in una varietà di modelli in vitro e animali di fibrosi epatica e renale [47], e usato per trattare la fibrosi polmonare idiopatica [48]; (c) tranilast (e i suoi derivati ​cinnamoyl antranilati), un farmaco antiallergico che inibisce il rilascio di mediatori chimici dai mastociti [49]; (d) THR-123 (Thrasos Therapeutics, Canada), un piccolo agonista peptidico della bone morphogenetic protein (BMP)-7, somministrato per via orale, funziona attraverso la segnalazione della activin-like kinase (ALK3) per sopprimere l’infiammazione, l’apoptosi e l’EMT, e la fibrosi in diversi modelli murini di danno renale acuto e cronico [50]; (e) pentossifillina, inibitore della fosfodiesterasi (PDE) che ha dimostrato di inibire l’espressione di connective tissue growth factor (CTGF) indotta da TGF-β1 così come l’espressione di collagene di tipo I e α-SMA [51]; (f) inibitore di Nox1/4, GKT137831 (Genkyotex) che ha soppresso la produzione di ROS e l’espressione genica fibrotica e ha attenuato la fibrosi (principalmente nel modello animale con nefropatia diabetica) [52].

Tuttavia, al momento, nessuno di loro è stato testato nel trapianto di rene. Pertanto, dovrebbero essere intrapresi più studi e sperimentazioni cliniche per valutare meglio la loro efficacia terapeutica e tossicità in questo contesto clinico.

 

Conclusioni

La nefropatia cronica del trapianto è un evento che può iniziare molto precocemente nel post-trapianto e che, in una larga percentuale dei casi, è associato all’attivazione di un pathway immuno-infiammatorio intra-parenchimale. Al momento, sono in corso una serie di studi finalizzati all’analisi e all’identificazione di nuovi elementi potenzialmente coinvolti nell’ esteso pathway pro-fibrotico del rene trapiantato, ma non dobbiamo dimenticare che fattori come la terapia immunosoppressiva, l’ipertensione, l’anemia e l’obesità sono ancora implicati nella genesi del danno cronico “non immuno-infiammatorio” del graft. In attesa di innovativi agenti terapeutici, l’utilizzo “ragionato e personalizzato” degli attuali farmaci antirigetto (principalmente CNI+mTOR-I) e l’attenzione alle comorbidità (non dimenticando di dedicare tempo al follow-up e incrementare il network multi-specialistico) è una via da perseguire per ottenere un accettabile rallentamento delle lesioni croniche del graft. Tutte queste considerazioni, affrontate nel Congresso Nefrologico di Grado del 2022, hanno infine fatto emergere che c’è ancora tanto da fare non solo per comprendere le basi fisiopatologiche del danno cronico del rene trapiantato, ma anche per individuare biomarkers predittivi e nuovi target terapeutici utili per arginare l’evoluzione di questa condizione clinica.

 

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Long-term efficacy and safety of treatment with cinacalcet in hypercalcemic persistent secondary hyperparathyroidism in renal transplant

Abstract

Introduction: persistent hypercalcemic secondary hyperparathyroidism (PSHPT) in kidney transplantation (KTx) can expose renal transplant recipients (RTRs) to a series of complications. Cinacalcet has been shown to be effective in controlling hypercalcemic PSHPT. Therefore, we evaluated the efficacy and tolerability of cinacalcet, over a period of 3 years, in the treatment of hypercalcemic PSHPT in a group of RTRs.

Patients and Methods: eight patients with a kidney transplant age > 12 months, parathyroid hormone (PTH) levels > 120 pg/ml and total serum calcium (TCa) levels > 10.5 mg/dl, were treated with cinacalcet at an initial dose of 30 mg/day. Hypercalcemic PSHPT picture must have been present for at least 6 months before the start of treatment with cinacalcet. Every 6-8 weeks were determined: estimated glomerular filtration rate (eGFR), PTH, TCa, serum phosphorus, fractional excretion of calcium (FECa), tubular maximum reabsorption rate of phosphate (TmP/GFR), serum tacrolimus. Annually all patients underwent to ultrasound control of the transplanted kidney. The main endpoints of the study were the reduction of PTH levels > 30% from baseline and the normalization of TCa levels (<10.2 mg/dl).

Results: the results are shown as median ± interquartile range (IQR). At follow-up PTH levels decreased from 223 (202-440) to 135 pg/ml (82-156) (P < 0.01), with a percentage decrease of -54 (-68;-44), TCa levels decreased from 11.0 (10.7-11.7) to 9.3 mg/dl (8.8-9.5) (P < 0.001). Serum phosphorus levels increased from 2.7 (2.0-3.0) to 3.2 mg/dl (2.9-3.5) (P < 0.05). Fractional excretion of calcium did not change, while TmPO4/GFR increased even not significantly. Renal function and serum levels of tacrolimus did not change throughout the observation period. At end of the study the average cinacalcet dosages were 30 mg/day (30-30). Ultrasound scans of the transplanted kidney showed no development of nephrocalcinosis and/or nephrolithiasis. Conclusions: cinacalcet has proved effective and well tolerated in the treatment of hypercalcemic PSHPT in RTRs.

Keywords: cinacalcet, hypercalcemia, persistent hypercalcemic secondary hyperparathyroidism, renal transplant.

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Introduzione

Il trapianto renale (RTx) rimane il trattamento di scelta nel paziente con insufficienza renale terminale (ESRD) in quanto ne migliora la sopravvivenza e la qualità di vita rispetto ai pazienti che rimangono in dialisi. La sopravvivenza del rene trapiantato è andata progressivamente migliorando nel corso degli anni, risultando di un anno in oltre 93% dei pazienti trapiantati (RTRs) e di cinque anni in oltre il 72% [1]. Il buon funzionamento del rene trapiantato migliora alcune delle alterazioni del metabolismo minerale presenti nella ESRD, tuttavia nel 30-50% dei RTRs l’iperparatiroidismo secondario (IPS) può persistere anche dopo diversi anni dalla riuscita del RTx [2, 3]. I principali fattori di rischio per la persistenza dell’IPS nel post-RTx sono rappresentati dalla lunga durata dell’età dialitica e dall’entità della sua gravità nel periodo di terapia sostitutiva [3, 4]. L’iperparatiroidismo secondario persistente (IPSP) del post-RTx si caratterizza per la presenza di elevati livelli di paratormone (PTH), associati o meno ad ipercalcemia e/o ipofosforemia [5]. L’ipercalcemia associata ad IPSP si riscontra nel 10-40% dei RTRs [6] ed è secondaria ad un aumentato riassorbimento osseo, ad una ridotta escrezione urinaria del calcio, all’aumentata produzione di calcitriolo da parte del rene trapiantato, che a sua volta aumenta l’assorbimento intestinale del calcio [3]. Elevati livelli di calcemia possono aumentare il rischio che si sviluppino calcificazioni nel rene trapiantato con conseguente riduzione della funzione renale e si associano ad una riduzione della sopravvivenza del paziente [6, 7]. Inoltre, l’aumentata secrezione di PTH determina un ridotto riassorbimento tubulare dei fosfati con conseguente ipofosforemia [8]. Inoltre, l’IPSP può ridurre la massa ossea aumentando il rischio di fratture, nonché favorire la progressione delle calcificazioni vascolari [9, 10].

Attualmente la terapia dell’IPSP si basa sull’impiego del calcitriolo, degli analoghi della vitamina D e del cinacalcet, e nelle forme gravi sulla paratiroidectomia [11]. Tuttavia, tanto l’impiego del calcitriolo quanto quello degli analoghi della vitamina D è gravato dal rischio di ipercalcemia e quindi di calcificazioni vascolari e mortalità cardiovascolare [12]. Inoltre, l’impiego del calcitriolo nei RTRs è stato associato ad un significativo incremento della calciuria, cosa che se protratta nel tempo può esporre il rene trapiantato al rischio di sviluppare nefrocalcinosi [13]. Sebbene l’utilizzo del cinacalcet si sia dimostrato efficace quanto la paratiroidectomia nel normalizzare la calcemia nell’IPSP ipercalcemico nei RTRs [14], il suo impiego nei RTRs non è stato ancora approvato ufficialmente. Tuttavia anche l’impiego del cinacalcet è gravato da potenziali effetti collaterali quali l’aumento dell’escrezione urinaria di calcio che può associarsi allo sviluppo di nefrocalcinosi e/o nefrolitiasi del rene trapiantato e riduzione della funzione renale [15, 16]. Inoltre il cinacalcet può potenzialmente interferire con il metabolismo degli inibitori delle calcineurine e quindi con conseguenti possibili ripercussioni sulla funzione renale [17]. La paratiroidectomia dovrebbe essere riservata a casi selezionati e comunque soltanto dopo un periodo di osservazione non inferiore ai 12 mesi dal RTx [11]. Infatti, anche se con tempi non prevedibili, spesso l’IPS risolve spontaneamente nel tempo [18]. Inoltre, la paratiroidectomia è stata associata ad un peggioramento della funzione renale e può essere seguita da una recidiva dell’IPS [19]. Quindi, da quanto riportato in letteratura, nel caso di IPSP ipercalcemico il trattamento di scelta, quando non ci siano evidenti indicazioni cliniche alla paratiroidectomia, sembrerebbe essere quello con il cinacalcet, quanto meno per il controllo dell’ipercalcemia [2022]. Nel presente studio abbiamo valutato nel lungo termine l’efficacia e la tollerabilità del cinacalcet nel trattamento dell’IPSP ipercalcemico in un gruppo di RTRs.

 

Materiali e Metodi

Questo studio di natura retrospettiva è stato condotto in un singolo centro ed ha avuto una durata di 36 mesi. Nel periodo tra gennaio 2012 e dicembre 2016 sono stati selezionati 8 RTRs tra una popolazione ambulatoriale di 120 pazienti. I principali criteri di selezione erano rappresentati dalla presenza stabile nei sei mesi antecedenti l’arruolamento nello studio di livelli di PTH > di 120 pg/ml (v.n. 9-63 pg/ml) e livelli di calcemia totale > 10.5 mg/dl (v.n. 8.5-10.2 mg/dl). Altri criteri di inclusione erano una età del RTx > 12 mesi, un filtrato glomerulare stimato (eGFR) stabilmente > 15 ml/min/1.73 m2 e negatività per storia di pregressa paratiroidectomia. Il trattamento con cinacalcet (Mimpara, Sensipar, Amgen Inc., Thousand Oaks, USA) veniva iniziato al dosaggio di 30 mg/die; il dosaggio veniva quindi aggiustato in base all’andamento dei livelli della calcemia totale (CaT) e del PTH. Gli obiettivi principali dello studio erano la normalizzazione della CaT (<10.2 mg/dl) e la riduzione dei livelli del PTH > 30% rispetto ai valori basali. Nel corso del trattamento, se la calcemia totale si riduceva a livelli sierici < 8.5 mg/dl veniva associato il paricalcitolo ad un dosaggio iniziale di 1 µg a giorni alterni, se l’ipocalemia era sintomatica la somministrazione del cinacalcet veniva temporaneamente sospesa. Ogni 6-8 settimane venivano determinati: CaT, fosforemia, PTH, fosfatasi alcalina totale (t-ALP), eGFR, proteinuria, creatininuria, calciuria e fosfaturia delle 24 ore, livelli sierici del tacrolimus. Dove necessario la CaT veniva determinata con una frequenza maggiore. La pressione arteriosa veniva rilevata ad ogni visita ambulatoriale. Il filtrato glomerulare stimato veniva calcolato utilizzando la formula Chronic Kidney Disease Epidemiology Collaboration (CKD-EPI) [23]. La frazione di escrezione urinaria del calcio veniva calcolata con la formula (calciuria 24 ore/calcemia)/(creatininuria 24 ore/creatininemia) × 100. Il riassorbimento tubulare massimo dei fosfati (TmPO4) rapportato al filtrato glomerulare (TmPO4/GFR) veniva calcolato con la formula fosforemia – (fosfaturia x creatininemia/creatininuria). La proteinuria veniva espressa in milligrammi per grammo di creatinina urinaria (mg/gCr). I principali parametri biochimici venivano determinati con metodiche di laboratorio standard. Il paratormone veniva dosato con tecnica di immunochemiluminescenza di seconda generazione (Architect Intact PTH, Abbott). I risultati sono stati espressi come mediana ± scarto interquartile (IQR) per le variabili continue, dopo aver verificato la non normalità della distribuzione dei loro valori, attraverso un test statistico che conta sia dell’asimmetria sia della curtosi. La significatività statistica della differenza tra i valori misurati al basale e nei successivi periodi di follow-up (6, 12, 18, 24, 30, 36 mesi) è stata valutata attraverso il test non parametrico di uguaglianza delle mediane; un valore di P < 0.05 è stato considerato statisticamente significativo. L’analisi statistica è stata eseguita con Stata (Stata Corp. 2017. Stata Statistical Software: Release 15. College Station, TX: StataCorp LLC).

 

Risultati

L’età media dei pazienti era di 58 ± 9 anni, quella dialitica di 63 ± 47 mesi e quella del RTx 61 ± 69 mesi. Al momento della diagnosi di IPSP ipercalcemico i livelli medi della CaT erano 10.8 mg/dl (10.6-11.8) e quelli del PTH 202 pg/ml (175-378).  Il trattamento con cinacalcet veniva iniziato mediamente a 60 ± 61 mesi (range 15-180 mesi) dal RTx. Tutti i pazienti erano in terapia immunosoppressiva combinata con tacrolimus, micofenolato mofetile e steroide. Prima del RTx, quando ancora in terapia sostitutiva, tutti i pazienti erano in terapia combinata con cinacalcet al dosaggio medio di 36 ± 13 mg/die (range 30-60 mg/die) e paricalcitolo al dosaggio medio di 10.7 ± 1.9 µg/settimana (range 10-15 µg/settimana). All’inizio del trattamento con cinacalcet nessuno dei pazienti era in terapia con calcitriolo o analoghi della vitamina D. Il dosaggio iniziale del cinacalcet era di 30 mg/die fino ad un dosaggio massimo di 60 mg/die. Nel corso dello studio in 2 pazienti, al terzo ed al dodicesimo mese di terapia con il cinacalcet, veniva introdotto il paricalcitolo al dosaggio di 1 µg a giorni alterni e quindi di 1 µg/die al fine di mantenere la calcemia a livelli > 8.5 mg/dl, non venivano utilizzati sali di calcio. I livelli del PTH si riducevano significativamente soltanto dopo 21 mesi dall’inizio del trattamento con cinacalcet (140 ± 34 pg/ml; -49 ± 18%; P < 0.05 vs basale) e si mantenevano significativamente più bassi rispetto al basale per tutto il resto della durata dell’osservazione, al F-U la riduzione percentuale dei livelli del PTH era di -54 (-68;-44) (Tabella 1 e Figura 1a – 1b).

Abbreviazioni: vedi testo; P vs basale: ° < 0.05; * < 0.01; ^ < 0.001.

Variabile Mesi
-6 Basale 6 12 18 24 30 36
mediana (IQR) mediana (IQR) mediana (IQR) mediana (IQR) mediana (IQR) mediana

(IQR)

mediana (IQR) mediana

(IQR)

eGFR, mL/min/1.732 56 (35–64) 53 (37-67) 52 (39-65) 47 (38-74) 53 (42-71) 52 (37-71) 51 (36-71) 52 (35-63)
Calcemia, mg/dL 10.8 (10.6-11.8) 11.0 (10.7-11.7) 9.9 (9.5-10.4) ^ 9.9 (9.0-10.8) 9.7 (9.4-10.6) ° 9.4 (9.1-10.0) ^ 9.4 (9.3-9.8) ^ 9.3 (8.8-9.5) ^
Fosforemia, mg/dL 2.4 (2.0-3.0) 2.7 (2.0-3.0) 2.8 (2.3-3.4) 3.0 (2.5-3.1) 2.8 (2.5-3.0) 3.1 (2.4-3.5) 3.1 (2.9-3.1) 3.2 (2.9-3.5) °
PTH, pg/Ml 202 (175-378) 223 (202-440) 166 (85-294) ° 154 (81-260) 155 (117-254) ° 142 (98-199) ° 134 (94-195) * 135 (82-156) *
Decremento % PTH, % -50 (-56;-20) -51 (-62;-29) -40 (-51;-32) -53 (-61;-35) -52 (-59;-35) -54 (-68;-44)
t-ALP, mU/mL 114 (63-213) 104 (67-216) 73 (67-151) 86 (66-123) 78 (63-120) 71 (62-95) 82 (68-94) 83 (71-84)
FECa, % 0.016

(0.009-0.025)

0.015

(0.008-0.024)

0.018

(0.014-0.047)

0.019

(0.017-0.031)

0.022

(0.014-0.026)

0.018

(0.012-0.023)

0.027

(0.013-0.035)

0.018

(0.012-0.031)

TmPO 4/GFR, mg/dL 1.5 (1.1-2.0) 1.8 (1.4-2.0) 1.9 (1.4-2.8) 1.8 (1.4-2.3) 2.0 (1.9-2.2) ° 2.4 (1.7-2.8) 2.2 (1.9-2.5) ° 2.2 (1.8-2.8)
Proteinuria, mg/grCr 108 (104-113) 117 (108-233) 119 (105-224) 115 (108-367) 114 (113-197) 122 (112-156) 116 (110-153) 110 (83-117)
PAM, mmHg 97 (90-102) 94 (89-100) 93 (92-97) 94 (90-97) 93 (87-95) 95 (93-100) 92 (89-99) 94 (90-99)
Tacrolimus, ng/mL 8.8 (6.7-11.6) 7.1 (5.2-8.7) 6.7 (6.0-9.1) 7.5 (5.7-10.3) 5.5 (3.9-6.4) 5.9 (4.7-8.7) 6.5 (4.6-8.4) 6.3 (5.0-8.2)
Cinacalcet, mg/die 0 30 (30-30) 30 (30-30) 30 (30-30) 30 (30-30) 30 (30-30) 30 (30-45) 30 (30-30)
Paricalcitolo, µg/settimana (n° pts) 0 0 0 (0-0) (1) 0 (0-0.5) (1) 0 (0-0.25) (2) 0 (0-0.25) (2) 0 (0-0.25) (2) 0 (0-0.25) (2)
Abbreviazioni: vedi testo; P vs basale: ° < 0.05; * < 0.01; ^ < 0.001.
Tabella 1: Andamento dei principali dati clinici nel corso del trattamento con cinacalcet dell’iperparatiroidismo secondario persistente ipercalcemico nei pazienti portatori di trapianto renale
Figura 1: Andamento dei livelli del PTH (a) e decremento percentuale dei livelli del PTH (b) nel corso del follow-up
Figura 1: Andamento dei livelli del PTH (a) e decremento percentuale dei livelli del PTH (b) nel corso del follow-up

I livelli della CaT si riducevano significativamente già dopo soli tre mesi dall’inizio del trattamento con cinacalcet (-1.3 mg/dl; P < 0.01 vs basale), nel corso dell’osservazione si registrava un’ulteriore riduzione dei suoi livelli che al termine dello studio era pari a – 2.0 mg/dl con normalizzazione dei suoi valori (Tabella 1 e Figura 2a).

Figura 2: Andamento dei livelli della calcemia totale (a) e della frazione di escrezione urinaria del calcio (b) nel corso del follow-up
Figura 2: Andamento dei livelli della calcemia totale (a) e della frazione di escrezione urinaria del calcio (b) nel corso del follow-up

I livelli della fosforemia mostravano un progressivo incremento nel corso dello studio, tuttavia questo risultava statisticamente significativo soltanto al termine dell’osservazione ed era pari a +0.6 mg/dl (Tabella 1 e Figura 3a).

Figura 3: Andamento dei livelli della fosforemia (a) e del riassorbimento tubulare dei fosfati in rapporto al filtrato glomerulare (TmPO4/eGFR) (b) nel corso del follow-up
Figura 3: Andamento dei livelli della fosforemia (a) e del riassorbimento tubulare dei fosfati in rapporto al filtrato glomerulare (TmPO4/eGFR) (b) nel corso del follow-up

I livelli di t-ALP si riducevano da 104 (67-216) a 83 mU/mL (71-84), tuttavia questa riduzione non risultava statisticamente significativa (Tabella 1). In quattro pazienti che al basale presentavano livelli di t-ALP francamente elevati questi si normalizzavano al termine dell’osservazione. La frazione di escrezione del calcio mostrava un incremento già nei primi mesi di terapia con il cinacalcet, pur non risultando statisticamente significativo, per poi ritornare già dal nono mese a valori sovrapponibili a quelli basali (Tabella 1 e Figura 2b). L’iniziale incremento della FECa coincideva con la significativa riduzione della calcemia (Tabella 1). Il riassorbimento tubulare dei fosfati mostrava un costante e progressivo incremento che tuttavia al termine dello studio non risultava statisticamente significativo (Tabella 1 e Figura 3b). Il progressivo incremento del riassorbimento tubulare dei fosfati era seguito da un aumento dei livelli della fosforemia (Tabella 1). I controlli ecografici del rene trapiantato, eseguiti annualmente, risultavano negativi per nefrolitiasi e/o nefrocalcinosi. Il filtrato glomerulare stimato, la proteinuria ed i livelli sierici del tacrolimus non subivano variazioni significative nel corso di tutto il periodo di osservazione (Tabella 1 e Figura 4a – 4b). Il profilo di sicurezza e tollerabilità del cinacalcet si dimostrava soddisfacente, infatti nel corso del trattamento non abbiamo registrato episodi di ipocalcemia sintomatica o effetti collaterali riconducibili al farmaco che abbiano richiesto, neanche temporaneamente, la riduzione del suo dosaggio o la sua sospensione.

Figura 4: Andamento del filtrato glomerulare stimato (eGFR) (a) e dei livelli sierici del tacrolimus (b) nel corso del follow-up
Figura 4: Andamento del filtrato glomerulare stimato (eGFR) (a) e dei livelli sierici del tacrolimus (b) nel corso del follow-up

 

Discussione

Dalla nostra esperienza, seppur limitata, emerge che nei RTRs con IPSP ipercalcemico il trattamento con cinacalcet non solo controlla l’ipercalcemia, già a pochi mesi dall’inizio del trattamento, ma è anche in grado di ridurre i livelli del PTH ed aumentare quelli della fosforemia, sebbene nel lungo termine. Il trattamento con cinacalcet non sembra influenzare l’escrezione urinaria di calcio, se non nel breve termine. Inoltre il cinacalcet si è dimostrato ben tollerato anche dopo un lungo periodo di trattamento.

Diversi studi prospettici e retrospettivi hanno esaminato i potenziali effetti del cinacalcet nell’IPSP ipercalcemico, ma soltanto quattro di questi hanno avuto una durata ≥ 3 anni [2022, 24]. Tra questi studi soltanto in uno [21] c’è stato il monitoraggio non solo dei principali parametri bioumorali del metabolismo minerale ma anche di quelli urinari, e pochi hanno valutato l’andamento dei livelli sierici degli inibitori delle calcineurine, in particolare quelli del tacrolimus. In ultimo, ma non meno importante, è il fatto che in questi studi i criteri di arruolamento sono stati quanto mai dissimili. Infatti in alcuni di questi sono stati arruolati pazienti nell’immediato post-RTx, con livelli di PTH appena al disopra della norma, calcemie borderline ed escrezione urinaria del calcio espressa non in rapporto al filtrato glomerulare. Al contrario, nel nostro studio i criteri di selezione sono stati particolarmente rigidi. Infatti la durata dell’osservazione in corso di terapia con cinacalcet non doveva essere inferiore ai tre anni, i livelli del PTH a 12 mesi dal RTx dovevano essere stabilmente al disopra di due volte i limiti alti della norma, i livelli della CaT dovevano essere ben al disopra dei nostri valori di normalità, tutti i pazienti dovevano avere un adeguato monitoraggio della escrezione urinaria di calcio e fosforo e dei livelli sierici del tacrolimus. L’iperparatiroidismo secondario persistente è una complicanza comune nel post-RTx, riscontrandosi ad un anno da questo nel 30-50% dei RTRs, e nel 10-40% dei casi si associa ad ipercalcemia [6]. Nella nostra popolazione ambulatoriale, costituita da circa 120 RTRs, ad un anno dal RTx l’IPSP ipercalcemico era presente nell’8.5% dei pazienti. Il trattamento di questi pazienti con cinacalcet è stato seguito da un rapido e significativo decremento della CaT e concomitantemente da un incremento, seppur non significativo, della escrezione urinaria di calcio. Nel tempo la CaT è andata ulteriormente riducendosi, mentre l’escrezione urinaria di calcio a nove mesi dall’inizio del trattamento con cinacalcet è ritornata ai valori basali. Questo andamento della calciuria in corso di terapia con cinacalcet è stato già descritto in precedenti esperienze e in maniera analoga alla nostra soprattutto nelle prime fasi del trattamento [21, 2529]. Ciò potrebbe essere ricondotto all’azione diretta del cinacalcet sui calcium-sensing receptor (CaSR) a livello renale [30] con riduzione del riassorbimento tubulare renale del calcio, e successivamente alla riduzione dei livelli del PTH. In rari casi clinici all’incremento della calciuria indotto dal cinacalcet è stato ricondotto lo sviluppo di nefrocalcinosi e nefrolitiasi del rene trapiantato con associato peggioramento della funzione renale [31, 32]. Tuttavia questi potenziali rischi non sembrano essere stati confermati nello studio, ben condotto, da Courbebaisse et al., in cui un gruppo di RTRs con IPSP ipercalcemico veniva trattato con cinacalcet per 12 mesi. Gli autori hanno osservato che a fronte di un significativo incremento della escrezione urinaria di calcio non vi era un aumento delle calcificazioni a livello del rene trapiantato, come testimoniato dalle biopsie renali ripetute nel tempo, rispetto ai controlli [26]. Nel nostro studio, anche se soltanto ecograficamente, non abbiamo riscontrato evidenze macroscopiche di nefrocalcinosi e/o nefrolitiasi del rene trapiantato. L’andamento della CaT che abbiamo osservato nel corso del trattamento, ossia l’ulteriore progressiva riduzione dei suoi livelli a fronte della normalizzazione della FECa, potrebbe essere ricondotto alla più tardiva riduzione del turnover osseo secondaria alla riduzione dei livelli del PTH. Pur essendo i livelli del PTH scarsamente predittivi del turnover osseo [17], non possiamo escludere che nei nostri pazienti l’IPSP ipercalcemico fosse associato ad una patologia ossea ad alto turnover, vista la loro storia clinica di IPS grave nel periodo del trattamento sostitutivo. Parte dei nostri pazienti al momento di iniziare la terapia con cinacalcet presentavano livelli di t-ALP elevati o ai limiti alti della norma. L’associazione di livelli di t-ALP e di PTH elevati possono, con una discreta approssimazione, essere in grado di differenziare una patologia ossea ad elevato turnover da una a basso turnover [33]. Nello studio di Borchhardt et al., condotto su un gruppo di RTRs con IPSP ipercalcemico trattati con cinacalcet, gli autori hanno osservato che la riduzione del turnover osseo era più evidente a 20 mesi dall’inizio della terapia [34]. Questo dato confermerebbe quanto da noi osservato, ossia che l’ulteriore calo dei livelli della calcemia, così come quello dei livelli del PTH e della t-ALP, era più evidente proprio a due anni dall’inizio della terapia con cinacalcet. La tardiva e significativa riduzione dei livelli del PTH in corso di terapia con cinacalcet da noi riportata è stata già descritta in precedenti studi [2022]. Questo comportamento del PTH potrebbe essere ricondotto alla possibile presenza di iperplasia diffusa delle ghiandole paratiroidee, ovviamente non di tipo nodulare, che in alcuni studi condotti nei RTRs con IPSP ipercalcemico, quando presente, è stata sempre associata ad una mancata risposta al trattamento con cinacalcet [27, 36]. La presenza di iperplasia delle ghiandole paratiroidee, in particolare quella di tipo nodulare, si caratterizza per una ridotta espressione dei CaSR [36], tuttavia nei pazienti in emodialisi affetti da IPS grave con iperplasia diffusa delle paratiroidi è stato descritto che il trattamento con cinacalcet, per un periodo non inferiore ai 12 mesi, è stato seguito da una aumentata espressione dei CaSR e dalla mancata progressione dell’IPS, al contrario di quanto accadeva nei pazienti con iperplasia nodulare [37]. Di conseguenza possiamo ipotizzare che nei nostri pazienti la tardiva riduzione dei livelli del PTH sia da ricondurre ad una aumentata espressione dei CaSR, ma soltanto dopo un lungo periodo di terapia con cinacalcet, che ha consentito una migliore risposta terapeutica. L’ipofosforemia di entità lieve-moderata è un reperto estremamente comune nei primi mesi del post-RTx, tuttavia in alcuni casi questa può perdurare nel tempo probabilmente a seguito dell’IPSP [38]. Sebbene l’ipofosforemia, soprattutto nei primi mesi del post-trapianto, possa essere ricondotta all’azione del fibroblast growth factor-23 (FGF23) e non solo del PTH [39], nella nostra esperienza il significativo incremento della fosforemia e dei valori del TmP/GFR si è registrato soltanto nelle fasi finali dell’osservazione allorché vi è stata una significativa riduzione dei livelli del PTH. Questi dati suggeriscono che l’incremento della fosforemia sia principalmente da ricondurre alla riduzione dell’effetto fosfaturico indotto dal PTH e probabilmente all’incremento dei livelli di 1,25-diidrossicolecalciferolo. Ovviamente non possiamo escludere un potenziale ruolo della riduzione dei livelli del FGF23 anche se diversi studi hanno dimostrato che la normalizzazione dei suoi livelli sierici avviene già nei primi 12 mesi del RTx [39], normalizzazione a cui potrebbe contribuire anche il trattamento con cinacalcet [40]. L’impiego del cinacalcet è stato associato, seppur sporadicamente, ad un peggioramento della funzione renale [31]. Tuttavia in uno studio condotto su RTRs con IPSP ipercalcemico trattati con cinacalcet dove la funzione renale veniva determinata con tecniche molto sensibili, quali la clearance dello ioexolo e dell’inulina, questa non subiva modificazioni [26]. Nel nostro studio, sebbene la valutazione della funzione renale sia stata effettuata soltanto con l’eGFR, non abbiamo registrato variazioni del filtrato glomerulare per tutta la durata dell’osservazione. Il trattamento con cinacalcet potrebbe interferire, seppur modestamente, con la farmacocinetica del tacrolimus riducendone i livelli sierici, tuttavia senza conseguenze di rilievo sulla funzione renale [41]. Analogamente a precedenti esperienze condotte nel lungo termine [20, 22], non abbiamo registrato significative variazioni dei livelli sierici del tacrolimus. In ultimo, il trattamento con cinacalcet è stato ben tollerato e privo degli effetti collaterali più comuni legati al suo impiego risultando in una buona aderenza terapeutica, infatti nei nostri pazienti non vi è mai stata la necessità di ridurre il dosaggio del farmaco o sospenderne la somministrazione, neanche temporaneamente. Il nostro studio ha diversi limiti, il principale è sicuramente rappresentato dalla scarsa numerosità dei pazienti selezionati dovuta alla bassa percentuale di pazienti con IPSP ipercalcemico presente nella nostra popolazione ambulatoriale, questo ha determinato l’altro limite, ossia l’impossibilità di costituire un gruppo di controllo. Altro limite dello studio è la sua natura retrospettiva dovuta al reclutamento dei pazienti in tempi diversi. Questi limiti tuttavia sono comuni in molti dei lavori fin qui pubblicati. A fronte di quanto premesso, il nostro studio ha anche qualche pregio. Infatti, diversamente da quanto fatto nella maggior parte dei precedenti lavori, non ci si è limitati a monitorare solo l’andamento dei parametri sierici del metabolismo minerale, ma anche di quelli urinari per un periodo di osservazione particolarmente lungo. Inoltre, cosa riscontrabile in pochissimi altri studi, nel nostro è stato valutato anche il comportamento dei livelli sierici del tacrolimus in corso di terapia con cinacalcet.

 

Conclusioni

Il presente studio ha mostrato che nei RTRs con IPSP ipercalcemico il trattamento a lungo termine con cinacalcet è efficace nel controllo tanto dei livelli della CaT quanto di quelli del PTH, senza influenzare la funzione renale ed i livelli sierici del tacrolimus. Il trattamento con cinacalcet è risultato non solo efficace ma anche ben tollerato. La nostra esperienza ha inoltre confermato che la combinazione di lunga età dialitica, elevati livelli del PTH e necessità di un trattamento dell’IPS più aggressivo con cinacalcet in associazione agli analoghi della vitamina D nel periodo di terapia sostitutiva rappresenta uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di IPSP ipercalcemico nel post-RTx. Questa considerazione dovrebbe invitarci a rivedere l’atteggiamento terapeutico nell’IPS grave del paziente in dialisi, soprattutto quando in lista d’attesa per il RTx, che con l’avvento dei calciomimetici nel tempo è divenuto sempre più conservativo. In ultimo sarebbe opportuno valutare, con trials clinici randomizzati condotti nel lungo termine, se il trattamento dell’IPSP ipercalcemico con cinacalcet nei RTRs possa migliorare alcuni hard outcomes e se sia comparabile a quello della paratiroidectomia.

 

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Lymphocytic leukopenia in two patients affected by polycystic kidney disease waiting for renal transplantation

Abstract

Autosomal dominant polycystic kidney disease (ADPKD) is the most common hereditary kidney disease, responsible for 10% of patients on renal replacement therapy. The disease is well known to be associated with many extrarenal manifestations. Leukopenia may also be present, even if it is not commonly identified as a typical extrarenal manifestation.

Herein we describe two case reports of ADPKD patients with leukopenia. The first case is about a 47-year-old patient affected by ADPKD, regularly treated with peritoneal dialysis, who showed a progressive reduction of white blood cell count, mostly of lymphocytes. Lymphocytic leukopenia was so severe that, when he was called for transplantation from a deceased donor, he was considered temporarily not eligible. We then describe a second ADPKD patient regularly treated with peritoneal dialysis, who had stable lymphopenia for years. Six years after starting PD, it was necessary to perform bone marrow aspirate to investigate the simultaneous presence of hypogammaglobulinemia together with M-protein and to exclude monoclonal gammopathy.

All the exams performed did not show any significant results, the patients were re-included in the waiting list and one of them was transplanted. Given our experience and what is reported in the literature, there seems to be enough evidence to consider leukopenia as an extrarenal manifestation of ADPKD.

However, the clinical significance of leukopenia in ADPKD patients is not known. It could be interesting to investigate the leucocytes’ function and if ADPKD patients with leukopenia are more susceptible to infection, or not. Moreover, it would be very useful to analyze the relationship between such manifestation and genotype/phenotype.

Keywords: ADPKD, lymphopenia, leukopenia, kidney transplant, chronic kidney disease

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Introduzione

La malattia del rene policistico (ADPKD) è la malattia genetica renale più comune nei pazienti affetti da insufficienza renale cronica (IRC), presente nel 10% dei pazienti in terapia sostitutiva renale [1]. I geni principalmente implicati sono PKD1 e PKD2 responsabili della malattia nel 72-75% e nel 15-18% dei casi rispettivamente, mentre il 7-10% dei casi restano geneticamente irrisolti (GUR). La patologia è associata a una grande variabilità fenotipica inter ed intra-familiare, perlopiù legata alla estrema variabilità genetica [1].

La progressione della patologia è caratterizzata dallo sviluppo ed espansione inesorabile di cisti nel parenchima renale, causa della progressiva perdita di funzione renale e della conseguente insufficienza renale cronica terminale, che solitamente avviene intorno alla quinta-sesta decade di vita. La malattia è tipicamente caratterizzata da manifestazioni extra-renali quali l’ipertensione arteriosa, le cisti epatiche e pancreatiche, gli aneurismi cerebrali, la diverticolosi del colon e il prolasso delle valvola mitrale [2].

In alcuni studi osservazionali l’ADPKD è stata inoltre associata a diverse forme di leucopenia, in particolare alla riduzione della concentrazione dei linfociti [3,4]. I primi ad evidenziare questa correlazione sono stati Banerjee et al.[3], i quali hanno analizzato i parametri ematologici di 360 pazienti in trattamento emodialitico. La conta totale dei globuli bianchi risultava significativamente ridotta nei 26 pazienti affetti da ADPKD rispetto ai 334 pazienti affetti da altre patologie (6,03 ±1,66 vs. 7,20 ±1,96×109/l). Non avendo a disposizione la formula leucocitaria di questi soggetti, hanno analizzato una seconda coorte di pazienti in cui questo dato era disponibile, riscontrando che i pazienti con ADPKD (n=11) avevano in media 0,61×109/l (40%) linfociti in meno rispetto ai controlli dello stesso genere ed età non affetti da ADPKD (n=33). Nei pazienti ADPKD di questa seconda coorte anche la conta dei monociti e degli eosinofili risultava ridotta, mentre non venivano riscontrante differenze nella conta dei neutrofili, dei basofili e delle piastrine.

Successivamente Van Laecke et al. [4] hanno condotto uno studio trasversale caso-controllo analizzando anch’essi due coorti di pazienti: la prima costituita da pazienti affetti da IRC stadio 5 candidati a trapianto di rene, la seconda da pazienti affetti da IRC stadio 1-5. I pazienti sono stati stratificati per età, sesso, valori di Proteina C Reattiva (PCR) e stima del filtrato glomerulare (eGFR) ed è risultata, rispettivamente, una conta linfocitaria in media minore di 0,26×109/l (prima coorte) e di 0,35×109/l (seconda coorte) nei soggetti affetti da ADPKD rispetto ai soggetti affetti da altre patologie. In particolare, nella prima coorte sono state riscontrate minori concentrazioni di linfociti T CD8 e linfociti B oltre che una conta minore di neutrofili, monociti e piastrine nei pazienti affetti da ADPKD rispetto ai non affetti. Nei pazienti ADPKD della seconda coorte è stata osservata una simile riduzione di linfociti, monociti e piastrine, ma nessuna differenza nella conta dei neutrofili. Gli autori concludono che l’ADPKD sembrerebbe caratterizzata da varie forme di citopenia, specialmente da linfopenia, indipendentemente dalla funzione renale e da altri fattori confondenti quali età, sesso e stato di infiammazione.

L’eziologia della linfopenia in questi pazienti non è nota. Diverse sono le ipotesi formulate, tra cui il sequestro dei globuli bianchi da parte degli organi affetti o l’intossicazione uremica nei pazienti affetti da IRC. Non è inoltre noto se la riduzione del numero dei linfociti abbia un impatto funzionale, ovvero se i linfociti, pur essendo pochi, mantengano un’adeguata capacità di rispondere allo stimolo. A questo proposito è possibile che le mutazioni nei geni PKD1 e PKD2 possano avere un ruolo diretto, promuovendo sia una ridotta proliferazione sia l’aumento dell’apoptosi dei linfociti [5].

In merito a quest’ultima teoria, vari studi condotti in vitro hanno analizzato il comportamento delle cellule della linea linfoide nei soggetti affetti da mutazioni nei geni PKD. In particolare, Aguiari et al. [6,7] hanno evidenziato come, dopo stimolazione con fattore attivante le piastrine (PAF), le concentrazioni intracellulari di Ca2+ nelle cellule linfoblastoidi di tipo B (LCL) ottenute da soggetti affetti da mutazione in PKD2 (PKD2-LCL) e, di conseguenza, con ridotta espressione di policistina 2 (PC2, codificata da PKD2) fossero nettamente minori rispetto alle LCL non affette da mutazione PKD. Questa riduzione è stata riscontrata anche nelle LCL affette da mutazione PKD1 in presenza di valori normali di PC2. La proliferazione cellulare, controllata dalla concentrazione intracellulare di Ca2+, è risultata ridotta nelle LCL affette sia da mutazioni in PKD2 che in PKD1. Rimane da chiarire se la minor proliferazione di queste cellule PKD in vitro si traduca in un simile effetto anche in vivo.

Anche nelle cellule T con mutazione di PKD2 e ridotta espressione di PC2 l’ingresso di calcio dopo stimolo con ATP sembrerebbe ridotto. Tuttavia, i linfociti T derivati dai pazienti con mutazioni PKD1 e PKD2 sembrerebbero avere un aumento della proliferazione cellulare, della chemiotassi e dell’aggregazione cellulare, cosa che potrebbe avere un ruolo nella patogenesi dell’infiammazione interstiziale [8].

Per quanto riguarda invece le mutazioni nel gene PKD1, è noto come la policistina 1 (PC1 codificata da PKD1) possa interferire con alcune vie di segnalazione, tra cui la cascata di attivazione delle chinasi N-terminali c-Jun (JNKs). La stimolazione di questa cascata provoca la degradazione della proteina anti-apoptotica Bcl-2 e causa conseguentemente un incremento dell’apoptosi delle cellule renali, dei linfociti e di varie altre linee cellulari [9,10,11].

Da queste evidenze è ipotizzabile che il deficit delle policistine possa disturbare l’omeostasi delle cellule immunitarie e che la citopenia possa essere un’intrinseca manifestazione di ADPKD correlata a fattori genetici. La linfopenia potrebbe perciò essere considerata una manifestazione extrarenale di ADPKD [5].

Infine non dimentichiamo che l’ADPKD rientra nella classificazione delle ciliopatie, un esteso gruppo di malattie genetiche accomunate dall’alterazione funzionale del ciglio primario, e che l’associazione tra immunodeficienza (sia umorale che cellulare) e ciliopatie è stata osservata e riportata più volte nel tempo [12,13]. Anomalie nel processo apoptotico, nella polarità cellulare, nell’espressione genica e nella ECM (ExtraCellular Matrix) risultano implicate nella patogenesi di ADPKD nonostante, a capo del processo che determina la crescita e sviluppo delle cisti, sembrano esserci un incremento della proliferazione cellulare e la secrezione di fluido [14].

Le similitudini strutturali e funzionali tra il ciglio primario e le sinapsi immunologiche potrebbero nascondere i link mancanti tra citopenia e ADPKD [12,13,15].

 

Caso clinico 1

Descriviamo il caso di un paziente affetto da ADPKD con riscontro di insufficienza renale cronica a 36 anni e successivo raggiungimento dello stadio di uremia terminale ed inizio di dialisi peritoneale (DP) a 42 anni. Regolarmente iscritto in lista trapianto da donatore cadavere, il paziente è stato successivamente sottoposto a nefrectomia bilaterale per motivi di ingombro addominale.

Dopo circa cinque anni dall’inizio della DP, il paziente ha ricevuto una prima convocazione per trapianto da donatore cadavere. Tuttavia, al momento del ricovero gli esami ematici dell’ingresso mostravano una significativa leucopenia linfocitopenica (globuli bianchi 3,4×109/l di cui linfociti 0,4×109/l), motivo per cui il paziente è stato ritenuto non idoneo al trapianto ed è stato dimesso con temporanea sospensione dalla lista, in attesa di eseguire approfondimenti clinici.

Gli esami degli anni precedenti avevano evidenziato una conta dei globuli bianchi e linfocitaria sempre ai limiti bassi della norma, ma nell’ultimo anno il dato sembrava essere in ulteriore progressiva riduzione.

In seguito a consulenza ematologica ed infettivologica, sono stati eseguiti i seguenti esami: tipizzazione linfocitaria, dosaggio delle immunoglobuline, elettroforesi proteica, pannello dell’autoimmunità, dosaggio degli indici di flogosi, sierologia per Toxoplasmosi, Rosolia, CMV, EBV, HSV, VZV e HIV, risultati tutti negativi. Dopo aver escluso le cause secondarie, si è quindi tentato di incrementare la depurazione dialitica massimizzando gli scambi di CAPD (5×2L). Nonostante questo, i globuli bianchi sono rimasti ai limiti inferiori della norma (Figura 1) con persistenza di una lieve linfopenia (Tabella I e Figura 1), motivo per cui il quadro è stato ritenuto benigno ed associato ad ADPKD. Il paziente è stato reinserito in lista ed è stato trapiantato con successo l’anno dopo. Un anno dopo il paziente non ha avuto complicanze legate all’immunosoppressione post-trapianto, pur persistendo una lieve linfopenia (globuli bianchi 3,9×109/l di cui linfociti 0,6×109/l).

  Globuli Bianchi

(×109/l)

Neutrofili

(×109/l)

Linfociti

(×109/l)

INIZIO DP 4,9 2,9 1,1
1° anno in DP 5,2 3,6 1,1
2° anno in DP 4,3 2,9 0,9
3° anno in DP 4,9 3,6 0,4
4° anno in DP 3 2 0,4
POST-BINEFRECTOMIA 3,7 2,5 0,5
5° anno in DP 2,7 1,7 0,3
1a CONVOCAZIONE 3,4 2,1 0,4
6° mese post-CONVOCAZIONE 3,4 2,4 0,3
8° mese post-CONVOCAZIONE 4,2 2,8 0,4
1° ANNO POST-TX 3,9 2,9 0,6
Tabella I: Conta dei globuli bianchi, neutrofili e linfociti dall’inizio della DP al post-trapianto del caso clinico 1
Figura 1: Grafico della variazione dei globuli bianchi, neutrofili e linfociti dall’inizio della DP al post-trapianto del caso clinico 1
Figura 1: Grafico della variazione dei globuli bianchi, neutrofili e linfociti dall’inizio della DP al post-trapianto del caso clinico 1

 

Caso clinico 2

Descriviamo di seguito un secondo caso clinico di un paziente di 60 anni affetto da ADPKD in trattamento dialitico peritoneale dall’età di 53 anni. Iscritto in lista trapianto da circa sei anni, esegue periodicamente i regolari esami di aggiornamento. Fin dall’inizio della DP è sempre stata evidente una moderata leucopenia (globuli bianchi <4×109/l), mai indagata perché stabile ed asintomatica (Tabella II). Tuttavia, in seguito al riscontro, circa due anni fa, di riduzione percentuale delle gammaglobuline (9,7%) e sospetto picco monoclonale in zona gamma, il paziente è stato temporaneamente sospeso dalla lista trapianto in attesa di eseguire accertamenti ematologici per escludere la presenza di gammopatia monoclonale. Sono stati eseguiti dosaggio delle immunoglobuline e delle catene leggere libere plasmatiche (rapporto k/l conservato), tipizzazione linfocitaria, pannello autoimmunitario, dosaggio degli indici di flogosi, sierologia per CMV, EBV e HIV, risultati tutti negativi.

Il paziente è stato quindi sottoposto ad agoaspirato midollare, il cui esito non evidenziava nulla di patologico. In particolare, lo studio immunofenotipico su sangue midollare mostrava linfociti T, B e NK pari a 67,2%, 6,3% e 26,3% rispettivamente, mentre le sottopopolazioni T CD8 e CD4 risultavano pari al 26% e 40%. Il paziente è stato quindi reinserito in lista trapianto attiva.

  Globuli Bianchi

(×109/l)

Neutrofili

(×109/l)

Linfociti

(×109/l)

INIZIO DP 3,5 2,4 0,9
1° anno in DP 3,8 2,5 0,8
2° anno in DP 4,3 2,9 0,9
3° anno in DP 3,3 2,1 0,9
4° anno in DP 3,6 2,4 0,8
5° anno in DP 3,6 2,4 0,8
6° anno in DP 2,9 1,8 0,8
7° anno in DP 3,2 2,1 0,7
Tabella II. Conta dei globuli bianchi, neutrofili e linfociti del caso clinico 2

 

Discussione

I casi descritti riguardano il riscontro occasionale di leucopenia linfocitopenica in due pazienti affetti da ADPKD.

In uno dei casi, addirittura, la leucopenia era risultata talmente severa da ritenere il paziente temporaneamente non idoneo per il trapianto. L’esecuzione di esami di approfondimento ematologici ed infettivologici ha poi permesso di inquadrare la leucopenia linfocitopenica come benigna, motivo per cui il paziente è stato reinserito in lista trapianto e trapiantato con successo l’anno dopo, mantenendo l’immunosoppressione al minimo indispensabile. Nel secondo caso clinico invece, la leucopenia linfocitopenica era di entità meno rilevante e stabile da tempo, motivo per cui il paziente era regolarmente inserito in lista d’attesa per trapianto renale. Tuttavia, la comparsa di ipogammaglobulinemia associata a componente monoclonale ha reso necessario l’esecuzione di agoaspirato midollare. L’esame ha escluso la presenza di gammopatia monoclonale e ci ha permesso di studiare le popolazioni linfocitarie direttamente su sangue midollare, risultate nella norma.

Da notare che in entrambi i casi si tratta di pazienti in trattamento dialitico peritoneale, a differenza della maggior parte della casistica riportata in letteratura che descrive pazienti in trattamento emodialitico. Questo ci ha permesso di escludere l’ipotesi di leucopenia secondaria alla disregolazione immunitaria che tipicamente caratterizza i pazienti emodializzati (legata principalmente al grado di biocompatibilità delle membrane di dialisi e all’adeguatezza dialitica [16,17,18]) e di avvalorare invece altre ipotesi, tra cui quella di leucopenia associata ad ADPKD, motivo per cui abbiamo condotto una revisione della letteratura a riguardo.

La leucopenia linfocitopenica infatti è sempre più comunemente descritta nei pazienti ADPKD tanto da poter essere considerata una manifestazione non cistica extrarenale della malattia [19]; tuttavia, è difficile stabilire fino a che punto questa sia una condizione benigna, o quando invece rappresenti una spia di una malattia ematologica, o al contrario possa rappresentare un rischio per lo sviluppo di malattie infettive o oncologiche.

Tutto questo ha ancora più senso se pensiamo che i pazienti ADPKD sono ottimi candidati al trapianto renale, avendo riportato elevata sopravvivenza del paziente e dell’organo sia da donatore cadavere che da vivente [20,21]. Inoltre nei pazienti ADPKD si è osservato nel corso degli ultimi anni un aumento della probabilità di ricevere un trapianto, con una prevalenza di trapianto come modalità di terapia sostitutiva, aumentata dal 43,5% al 59,1% tra il periodo 1991-1996 e 2006-2010, rispetto ai pazienti non ADPKD in cui si è osservato un aumento di prevalenza molto meno significativo dal 41,2% al 44,1% [22]. Tutto ciò è dovuto probabilmente al miglior follow-up nel periodo pre-dialitico che dà la possibilità di affrontare per tempo la tematica del trapianto e nello specifico quella da donatore vivente.

La prima questione è quindi: come inquadriamo la leucopenia linfocitopenica nei pazienti affetti da ADPKD? Da questo punto di vista esistono al momento sufficienti evidenze per definirla una manifestazione benigna extrarenale della malattia policistica. Tuttavia, se è di primo riscontro, particolarmente severa o associata ad altre alterazioni ematologiche, la leucopenia merita di essere indagata al fine di escludere malattie ematologiche sottostanti. In entrambi i nostri casi clinici è stato necessario indagare la leucopenia, nel primo caso solo con esami ematici, nel secondo, essendo anche presente la componente monoclonale, si è reso necessario l’esame invasivo midollare.

La seconda questione è: che impatto ha la leucopenia linfocitopenica sul rischio infettivologico e oncologico post-trapianto? È necessario modulare la terapia immunosoppressiva post-trapianto?

Relativamente a questi aspetti i dati non sono così chiari e non permettono di giungere a conclusioni definitive. Tuttavia, già indipendentemente dal trapianto, i pazienti ADPKD hanno un maggior rischio di sviluppare alcuni tipi di infezioni, quali diverticolite ed infezioni delle vie urinarie [23,24]. Tale rischio è perlopiù legato alle condizioni anatomiche favorenti, e potrebbe essere aumentato nel post-trapianto per via dell’effetto dell’immunosoppressione. Dati di registro danese relativi ai pazienti trapiantati con ADPKD, hanno mostrato come in questo sottogruppo di pazienti sia maggiore il rischio di polmonite da Pneumocistis jirovecii rispetto ai pazienti non ADPKD e come questo sia associato ad un aumento dell’ospedalizzazione e della mortalità [25] . In altri studi retrospettivi condotti sui pazienti trapiantati, è stata evidenziata una maggiore incidenza di bronchiectasie e di infezioni polmonari ricorrenti nei pazienti ADPKD [26,27]. Da questo punto di vista, da un lato il deficit di PC1 e PC2 nelle ciglia dell’epitelio bronchiale potrebbe essere responsabile della loro alterata funzione e favorire perciò la formazione di bronchiectasie [28], dall’altro la superinfezione potrebbe poi essere favorita dalla compromessa meccanica ventilatoria legata all’ingombro addominale.

A tutte queste condizioni anatomiche si aggiunge la presenza di linfopenia che è più frequente nei pazienti ADPKD e che è ben noto essere un fattore predisponente alle infezioni e alla mortalità per infezioni nella popolazione generale [4]. In uno studio prospettico danese condotto su un ampio campione di popolazione generale (n=98,344) la linfopenia (conta dei linfociti <1,1×109/l) è risultata associata ad un rischio maggiore di 1,4 volte di sviluppare infezioni e ad un rischio maggiore di 1,7 volte di decesso correlato alle infezioni [29].

Se queste evidenze sono valide per i trapiantati di rene e per la popolazione generale, rimane ancora da chiarire se la linfopenia associata ad ADPKD sia clinicamente rilevante e quale possa essere il suo ruolo nel decorso clinico e prognostico dei pazienti affetti da ADPKD [5].

Due studi retrospettivi condotti sulla popolazione taiwanese hanno rilevato come i soggetti affetti da ADPKD, probabilmente a causa del loro aumentato rischio di sviluppare linfopenia, abbiano potenzialmente un maggior rischio di incorrere in infezioni virali (specie quelle dovute a herpes virus come Varicella Zoster Virus in forma severa) e in infezione da tubercolosi rispetto ai controlli affetti da altre patologie stratificati per età, genere e comorbidità [30,31].

D’altra parte, anche se l’associazione teorica tra linfopenia ed infezioni sembra plausibile, questo non significa che tutti i pazienti ADPKD abbiano un rischio infettivo aumentato.

A riprova di ciò in alcuni studi retrospettivi condotti sui pazienti trapiantati, il rischio di infezione da BK polioma e di infezioni fungine sembrerebbe addirittura ridotto nei pazienti ADPKD rispetto ai non ADPKD [19,32] . Inoltre, anche il rischio di infezione da CMV post-trapianto non sembrerebbe essere influenzato dalla nefropatia di base [33].

Relativamente al rischio oncologico è fatto ben noto che i pazienti affetti da ADPKD abbiano un rischio aumentato di tumore renale, il cui riscontro è per lo più occasionale in nefrectomie eseguite per altri motivi [34]. In alcune casistiche i pazienti affetti da ADPKD sembrerebbero anche avere un aumentato rischio di tumore del colon ed epatico [35]. Tuttavia, anche a questo riguardo i dati sono inconclusivi probabilmente perché la biologia dei tumori è estremamente varia e non solo spiegabile dall’alterazione di un’unica via del segnale. Certo è che le vie del segnale a valle di mTOR, di PC1 e PC2, tutte alterate in corso di malattia policistica, hanno un effetto favorente sulla proliferazione cellulare [36]. Nel post-trapianto, inoltre, nei pazienti affetti da ADPKD sembrerebbe esserci un rischio di sviluppare carcinomi cutanei non melanoma 1,5 volte maggiore rispetto ai pazienti non ADPKD [19,37,38].

A questo proposito sappiamo che la riduzione dei linfociti CD4 è un fattore di rischio, mentre la riduzione anche dei linfociti T CD8 e dei linfociti B è un fattore di rischio per i tumori solidi [39,40]. Tuttavia, l’impatto della linfopenia sul rischio oncologico nei pazienti ADPKD (trapiantati e non) non è noto.

In conclusione, le evidenze finora disponibili non consentono di avere dati definitivi e sono necessari studi prospettici che analizzino se i pazienti affetti da ADPKD linfocitopenici sottoposti a trapianto abbiamo davvero un aumentato rischio infettivologico e oncologico rispetto agli stessi pazienti senza linfopenia. Tutto ciò avrebbe delle importanti ripercussioni pratiche sulla scelta della terapia immunosoppressiva nei pazienti ADPKD che potrebbe essere personalizzata in base al profilo di rischio. Sarebbe inoltre interessante valutare l’associazione genotipo/fenotipo, che ci consentirebbe di capire se la linfopenia è un riscontro casuale, legato al solo ambiente uremico o al sequestro renale dei leucociti, o se al contrario siano implicati fattori legati alla proliferazione cellulare influenzati dalla genetica del rene policistico.

 

Conclusioni

La leucopenia linfocitopenica potrebbe essere considerata una manifestazione non cistica extrarenale dell’ADPKD, le cui implicazioni cliniche non sono ancora ben note. L’eziologia non è stata ancora identificata: è possibile che l’ambiente uremico, così come il sequestro dei linfociti da parte degli organi aumentati di volume, possa avere un ruolo. Tuttavia, sembrerebbe che le mutazioni nei geni PKD1 e PKD2 possano essere associate sia ad una ridotta proliferazione sia all’aumento dell’apoptosi dei linfociti.

La linfopenia nel paziente affetto da ADPKD pone alcuni problemi di gestione, legati dapprima al riconoscimento della condizione come benigna ed associata alla malattia e successivamente alla gestione anche in vista del trapianto. In modo particolare l’entità della linfopenia da un lato potrebbe condizionare l’eleggibilità al trapianto alla luce del rischio immediato infettivo, e dall’altro necessita di una personalizzazione e modulazione anche a lungo termine dell’immunosoppressione.

La linfopenia potrebbe essere un’altra delle espressioni della variabilità genotipo/fenotipo della malattia policistica e sarebbe interessante valutarne la prevalenza, le caratteristiche ed eventualmente relazionarla al genotipo e alla severità di malattia. Studi prospettici condotti specificatamente sulla popolazione ADPKD sono necessari per valutare l’effettiva relazione tra linfopenia e rischio infettivologico ed oncologico, in assenza dei quali ogni conclusione può solo essere dedotta dai dati sulla popolazione generale.

 

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Impact of the Covid-19 pandemic on kidney transplantation: focus on the Sicilian experience

Abstract

The COronaVIrus Disease 2019 (Covid-19) pandemic has rapidly changed hospital structures in our country, radically modifying clinical activity. Nephrology, and kidney transplant in particular, has been heavily influenced by it, with a reduced number of organ donations and, consequently, transplantations.

Here we report the data on kidney transplants in our region, Sicily, for the period 2019-July 2021, and we analyze the effects of the pandemic.

Keywords: Covid-19, pandemic, kidney transplantation, Sicilian experience

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Introduzione

La pandemia da Covid-19 ci ha colti estremamente impreparati, con drammatiche conseguenze di tipo sociale, economico e politico. La crisi sanitaria che ne è scaturita, è stata caratterizzata da una rapida e drastica trasformazione degli ospedali dell’intero paese.

In particolare, la sindrome respiratoria acuta severa da coronavirus 2 (SARS-CoV 2) ha posto una serie di problematiche di decision-making clinico ed amministrativo in tutto l’ambito nefrologico, e soprattutto nell’area dei trapianti di rene. Sin dalla sua prima manifestazione alla fine del 2019 [1], è apparso chiaro il maggior rischio di morte e di gravi complicanze respiratorie per i pazienti immunocompromessi, tra cui i riceventi di trapianto d’organo solido [2]. Inoltre, il rischio di sviluppare la malattia da un donatore di organi infetto era sconosciuto. Fattori epidemiologici, periodo di incubazione, viremia e vitalità del CoV-2 nel sangue e nei compartimenti dei diversi organi rendono inoltre variabile la probabilità di trasmissione del virus.

In tale contesto, i centri di trapianto renale della Regione Sicilia e di tutta Italia hanno dovuto far fronte a numerosi problemi di gestione clinica, correlati all’elevata incidenza di infezione in alcune aree del nostro paese [3]. Proprio per l’eterogeneità dei tassi di incidenza regionali dell’infezione, i centri sono stati lasciati liberi di sviluppare delle linee guida interne relative ai diversi aspetti dell’attività trapiantologica, attenendosi comunque alle linee guida del Centro Nazionale Trapianti in merito alla gestione dei donatori [4].

La comunità scientifica internazionale e le organizzazioni di trapianto con un pronto e immediato sistema di collaborazione hanno, infatti, utilizzato le conoscenze disponibili e le esperienze dei centri operanti nelle aree endemiche più coinvolte, per creare delle linee guida per gli operatori sanitari.

 

I trapianti in Italia e nel mondo

Secondo una recente indagine epidemiologica condotta in 22 paesi e pubblicata su Lancet Public Health, durante la prima ondata della pandemia da SARS-CoV 2 il numero dei trapianti d’organo nel mondo è diminuito di un terzo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con casi di interruzione dell’attività chirurgica fino al 90%. I trapianti di rene, in tale contesto, hanno mostrato la maggiore riduzione (circa il 40%). L’attività di trapianto si è ridotta in misura marcata nei paesi dove ci sono stati più decessi a causa del Covid ma in Italia, USA, Slovenia, Svizzera e Belgio, nonostante l’elevata mortalità, l’attività è presto ripresa [5]. Nel corso di questa pandemia, si è passati, infatti, da un momento iniziale di arresto dell’attività trapiantologica, limitata a trapianti urgenti salvavita, all’attuale momento storico in cui, forti delle esperienze positive, esistono protocolli che consentono di utilizzatore organi da donatori guariti dall’infezione.

Ad oggi, non è stata ancora segnalata alcuna trasmissione di Cov-2 con il trapianto di organi e le esperienze preliminari effettuate nel nostro paese con l’utilizzo di organi da donatori con infezione virale attiva, di cui una delle prime in Sicilia, con un trapianto di fegato, non hanno comportato alcuna conseguenza negativa nei riceventi. Secondo il protocollo stilato dal Centro Nazionale Trapianti, è possibile effettuare trapianti di organi salvavita provenienti da donatori deceduti positivi al Covid. Secondo le linee guida, i pazienti devono essere in gravi condizioni cliniche, per le quali, a giudizio del team medico responsabile del trapianto, il rischio di morte o di evoluzione di gravi patologie connesso al mantenimento in lista d’attesa rende accettabile quello conseguente all’eventuale trasmissione di patologia donatore-ricevente.

 

I trapianti in Sicilia

La Sicilia è stata tra le regioni italiane inizialmente meno colpite dalla pandemia, che stava invece vessando le regioni settentrionali. Le esperienze dei centri trapianto del Nord Italia sono state fondamentali per consentirci di lavorare in anticipo creando un sistema sicuro.

Per quanto concerne la Regione Sicilia, nonostante la pandemia, tutti i centri sono rimasti attivi con un aumento dell’attività di trapianto renale, sia regionale che extra-regionale (Tabella I) [6].

  2019   2020   2021  
  REGIONE FUORI REGIONE REGIONE FUORI REGIONE REGIONE FUORI REGIONE
ISMETT 15 27 16 32 14 15
OSPEDALE CIVICO DI PALERMO 14 22 12 30 5 11
POLICLINICO UNIVERSITARIO DI CATANIA 8 1 24 10 12 3
Tabella I: Attività di trapianto renale nei centri siciliani dal 2019 a luglio 2021

Anche il numero di trapianti combinati (fegato-rene, rene-pancreas e cuore-rene) è aumentato nel 2020 e fino a luglio 2021, in confronto al 2019 (Tabella II) [6].

  2019 2020 2021
  REGIONE FUORI REGIONE REGIONE FUORI REGIONE REGIONE FUORI REGIONE
FEGATO-RENE 1 1 4 1
RENE-PANCREAS 1 1 1
CUORE-RENE 1
Tabella II: Trapianti combinati eseguiti in Sicilia dal 2019 a luglio 2021

Questi dati sono il risultato, in parte, della sospensione dell’attività dei centri trapianto del Nord Italia che, per l’emergenza Covid, sono stati costretti a sospendere un’attività elettiva, non urgente e non salvavita come il trapianto di rene ed, in parte, del miglioramento dell’attività del procurement regionale. Sono stati, infatti, eseguiti 72 trapianti con reni provenienti da donatori extra-regione nel 2020 [6]. Inoltre, in Sicilia, l’attività di trapianto da vivente è stata sospesa solo nei mesi cruciali del secondo trimestre del 2020, per poi riprendere e mantenere degli adeguati standard di sicurezza, posticipando i trapianti di rene non pre-emptive.

 

La riorganizzazion della attività clinica e non solo

I centri trapianto hanno riorganizzato l’attività clinica, creando un sistema di protezione per i neo trapiantati in regime di degenza che prevedeva tamponi molecolari seriali per i pazienti ricoverati e per il personale coinvolto nella loro gestione. L’attività ambulatoriale di follow-up post-trapianto è stata modificata radicalmente, limitando le visite in presenza ai trapiantati recenti ed effettuando video consulti per i trapiantati di vecchia data, con il controllo degli esami ematochimici, del diario pressorio, del bilancio idrico ed un colloquio. Questa modalità ha consentito di limitare gli accessi non urgenti, ma ha evitato di abbandonare i pazienti in follow-up.

Inoltre, i trapiantati con infezione attiva sono stati presi in carico dai nefrologi dei centri trapianto, in collaborazione con il territorio e le unità di pneumologia, per la gestione delle complicanze e della terapia immunosoppressiva. I casi più gravi sono stati trasferiti presso l’unità operativa di terapia intensiva dell’ISMETT (Mediterranean Institute for Transplantation and Advanced Specialized Therapies) di Palermo, selezionata dalla regione Sicilia per la cura dei pazienti con necessità di ossigenazione extra-corporea a membrana (ECMO).

Il Centro Regionale Trapianti siciliano ha recentemente realizzato un’app in grado di fornire tutte le informazioni necessarie sulla donazione degli organi, sui trapianti e sulle liste d’attesa, e permettere l’invio del modulo per esprimere la propria volontà alla donazione. In piena pandemia, la regione siciliana ha puntato, dunque, a ridurre le distanze ed avvicinare i cittadini ai temi della donazione e del trapianto.

Inoltre, al fine di assicurare un nuovo impulso all’attività trapiantologica, l’assessorato regionale ha individuato forme di incentivo e remunerazione delle prestazioni correlate allo svolgimento di attività mediche di rianimazione nel settore della donazione degli organi.

Infine, con l’avvento della vaccinazione, pur consapevoli della ridotta risposta nei pazienti riceventi un trapianto d’organo, è stata data priorità ai trapiantati, con il coinvolgimento diretto di alcuni centri trapianto e del Centro Regionale Trapianti, per la somministrazione del vaccino nei pazienti e nei loro familiari.

 

Conclusioni

Da quanto detto, scaturiscono alcune importanti considerazioni. La Rete Regionale Trapianti Siciliana è riuscita a mantenere la propria attività, nonostante la crisi sanitaria senza precedenti conseguente alla pandemia. Ha continuato ad agire sotto il coordinamento del Centro Nazionale Trapianti, attenendosi alle linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità, assicurando così l’attività trapiantologica con impegno encomiabile. Tuttavia, il perdurare della pandemia rischia di inginocchiare il sistema sanitario; da qui la necessità di ottenere alti tassi di vaccinazione della popolazione generale al fine di creare un’immunità di gregge per i nostri pazienti immunodepressi, meno responsivi alla vaccinazione diretta.

Pur essendoci stata una solerte e coesa risposta della comunità trapiantologica italiana per far fronte alla crisi sanitaria della pandemia, è necessario un costante sforzo nel trovare nuove e più raffinate strategie per continuare ad assicurare la disponibilità di un trapianto di rene ai nostri pazienti uremici.

 

Bibliografia

  1. Fauci AS, Clifford Lane H, Redfield RR. Covid 19. Navigating the uncharted. N Engl J Med 2020; 382:1268-9. https://doi.org/10.1056/NEJMe2002387
  2. D’Antiga L. Coronavirus and immunosuppressed patients. The facts during the third epidemic. Liver Transpl 2020; 26:832-4. https://doi.org/10.1002/lt.25756
  3. Gori A, Dondossola D, Antonelli B, et al. Coronavirus disease 2019 and transplantation: a view from the inside. Am J Transplant 2020; 20:1939-40. https://doi.org/10.1111/ajt.15853
  4. Centro Nazionale Trapianti. Nota avente oggetto: aggiornamento delle misure di prevenzione della trasmissione dell’infezione da nuovo Coronavirus (SARS-CoV 2) in Italia attraverso il trapianto di organi, tessuti e cellule. 28 Febbraio 2020 Prot. 482/CNT 2020.
  5. Aubert O, et al. COVID-19 pandemic and worldwide organ transplantation: a population-based study. Lancet Public Health 2021; 6(10):E709-19. https://doi.org/10.1016/S2468-2667(21)00200-0
  6. Registro Siciliano di Dialisi e Trapianto. https://ridt.sinitaly.org/

Cholecalciferol supplementation improves secondary hyperparathyroidism control in renal transplant recipient

Abstract

Introduction: Vitamin D deficiency (25(OH)D <30 ng/mL) in renal transplant recipients (RTRs) is a frequent finding and represents an important component in the pathogenesis of secondary hyperparathyroidism (SHPT). Therefore, its more systematic supplementation is recommended. We herein report our experience on the impact of cholecalciferol supplementation on PTH and 25(OH)D levels in a group of RTRs with 25(OH)D <30 ng/mL and SHPT. Patients and Methods: For this purpose, 52 RTRs with SHPT were treated with cholecalciferol at the fixed dose of 25,000 IU p.o. weekly for 12 months. For the control group we selected 23 RTRs with SHPT and 25(OH)D levels <30 ng/mL. Every 6 weeks eGFR, sCa and sPO4 levels were evaluated; PTH, 25(OH)D, FECa e TmPO4 were evaluated every 6 months. Results: At baseline, the two groups had similar clinical characteristics and biohumoral parameters. Parathormone was negatively correlated with 25(OH)D levels (r=-0.250; P <0.001) and TmPO4 values (r=-0.425; P<0.0001). At F-U there was a significant reduction in PTH levels in the supplemented group, from 131 ± 46 to 103 ± 42 pg/mL (P<0.001), while vitamin D levels, TmPO4 values, PO4 and sCa levels increased significantly, from 14.9 ± 6.5 to 37.9 ± 13.1 ng/mL (P<0.001), from 1.9 ± 0.7 to 2.6 ± 0.7 mg/dL (P<0.001), from 3.1 ± 0.5 to 3.5 ± 0.5 mg/dL (P<0.001), and from 9.3 ± 0.5 to 9.6 ± 0.4 (P<0.01), respectively. During the study there were no episodes of hypercalcaemia and/or hypercalciuria, while 25(OH)D levels always remained <100 ng/mL. In the control group, at F-U, PTH levels increased from 132 ± 49 to 169 ± 66 pg/ml (P <0.05), while 25(OH)D levels remained stable at <30 ng/mL. Conclusions: Vitamin D deficiency in RTRs is very frequent. Cholecalciferol supplementation is associated with a better control of SHPT and a correction of vitamin D deficiency in most patients, representing an effective, safe and inexpensive therapeutic approach to IPS.

Keywords: vitamin D, cholecalciferol, renal transplant, secondary hyperparathyroidism

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Introduzione

Il trapianto renale rappresenta il trattamento di scelta per molti pazienti con malattia renale cronica in stadio 5D (ESRD), in quanto ne migliora la sopravvivenza e la qualità di vita rispetto a coloro che rimangono in dialisi [1]. Tuttavia, i pazienti con trapianto renale (RTRs), pur beneficiando della migliore sopravvivenza del rene trapiantato, continuano ad essere gravati da alcune problematiche già presenti nella fase della terapia sostitutiva. Una di queste, che spesso non risolve con il trapianto, è l’iperparatiroidismo secondario (IPS). Questa condizione è più frequente in quei RTRs che durante la fase sostitutiva hanno richiesto il trattamento dell’IPS [26]. Sebbene i livelli di paratormone (PTH) tendono a ridursi nei primi 12 mesi del post-trapianto [26], si stima che in circa il 30%-50% dei casi questi rimangono elevati anche negli anni successivi [2, 3, 68]. La persistenza dell’IPS (IPSP) nel post-trapianto è stata associata a patologia ossea ad elevato turnover, responsabile di perdita della massa ossea e quindi maggior rischio di fratture [9, 10] e progressione delle calcificazioni vascolari [11]. L’importanza delle potenziali conseguenze dell’IPSP ha portato a prendere in considerazione un suo più precoce trattamento. Sebbene non vi sia ancora condivisione sulla definizione dell’IPSP, utile a tal fine sembrerebbe la definizione riportata nelle linee guida NKF-KDOQI (National Kidney Foundation–Kidney Disease Outcomes Quality Initiative), secondo le quali si parla di IPSP quando negli stadi 1-3 della malattia renale cronica (MRC) i livelli di PTH permangono nel tempo al disopra dei limiti alti della norma, mentre nello stadio 4 quando questi permangono a livelli di 1.5 volte maggiori i limiti alti della norma [12]. Nell’approccio terapeutico dell’IPSP nel trapianto renale spesso viene dimenticata, prima ancora di intraprendere qualsiasi terapia come suggerito dalle linee guida NKF/KDOQI, la valutazione dello stato nutrizionale della vitamina D attraverso la determinazione dei livelli sierici della 25-idrossi-vitamina D [25(OH)D] [12]. Infatti, bassi livelli sierici di 25(OH)D possono essere una delle cause responsabili dell’IPSP nei RTRs [13, 14]. Le concentrazioni sieriche di 25(OH)D sono il principale indice del patrimonio in vitamina D del nostro organismo e sono utilizzate per definire uno stato carenziale di vitamina D [15]. Nelle linee guida NKF/KDOQI livelli sierici di 25(OH)D <5 ng/mL sono utilizzati per indicare una grave deficienza di vitamina D, livelli tra 5 e 15 ng/mL indicano una lieve insufficienza, livelli tra 16 e 30 ng/mL indicano una insufficienza, mentre livelli ≥ 30 ng/mL vengono considerati ottimali, anche se non vi è consenso unanime su quelli che sono i livelli sierici di vitamina  D da considerarsi ottimali [12, 16]. Bassi livelli sierici di 25(OH)D si ritrovano frequentemente nei RTRs [17, 18]. Le cause possono essere diverse, sicuramente una delle principali è la ridotta disponibilità di vitamina D per la 25-idrossilazione a seguito della scarsa esposizione ai raggi solari per l’aumentato rischio di tumori della pelle che si ha a seguito alla terapia immunosoppressiva [1924]. Nella malattia renale cronica stadio 3-4 le linee guida NKF/KDOQI raccomandano la supplementazione con vitamina D quando i livelli sierici di 25(OH)D sono <30 ng/mL [12]. In accordo con queste linee guida i RTRs dovrebbero essere trattati come i pazienti con MRC non trapiantati e con analogo filtrato glomerulare [12]. Tuttavia, nonostante le indicazioni delle linee guida NKF/KDOQI, non vi è una univoca posizione su diversi punti quali: quando iniziare il trattamento con vitamina D; quale tipo di vitamina D impiegare; quale dosaggio; durata del periodo di supplementazione [2527]. Nei pazienti con trapianto renale le esperienze circa l’impatto della supplementazione di vitamina D sui livelli di PTH nell’IPSP e su quelli del 25(OH)D in pazienti con deficit di vitamina D sono estremamente carenti, a differenza di quanto riportato nei pazienti con MRC stadio 3-5D. Nei vari studi finora condotti la supplementazione di vitamina D è stata a volte giornaliera, altre settimanale ed altre ancora mensile. Anche i dosaggi della supplementazione con vitamina D rimangono un problema aperto come sottolineato da Levi e Silver [28]. Tangpricha e Wasse [29], confrontando una serie di studi condotti in pazienti in emodialisi con schemi posologici di supplementazione di vitamina D molto diversi tra loro, hanno concluso che un dosaggio di vitamina D insufficiente, stimato come <100,000 UI/mese, potrebbe non essere in grado di ristabilire i normali livelli di 25(OH)D e ridurre i livelli di PTH. I pochi studi condotti nei RTRs sulla supplementazione di vitamina D hanno dato risultati contrastanti. In uno studio di Courbebaisse et al [30] condotto su RTRs con bassi livelli di 25(OH)D, una dose di colecalciferolo (un precursore del 25(OH)D) <100,000 UI/mese non sembra in grado di mantenere i livelli di 25(OH)D ≥ 30 ng/mL in tutti i RTRs supplementati. In un altro studio condotto su RTRs nei pazienti con deficienza di vitamina D [25(OH)D <15 ng/ml] una dose mensile cumulativa di 64,000 UI di colecalciferolo è risultata sufficiente per normalizzare i livelli sierici di 25(OH)D, mentre nei pazienti con insufficienza di vitamina D [25(OH)D 15-30 ng/ml] questo risultato si otteneva impiegando 40,000 UI/mese [31]. Inoltre, come emerge dal confronto tra le varie esperienze di supplementazione con vitamina D nei pazienti con MRC, la diversità dei risultati riportati in letteratura è probabilmente da ricondurre alla diversa durata della supplementazione, in molte esperienze estremamente breve [2931]. Infatti, molte delle esperienze fin qui fatte hanno avuto una durata inferiore alle 36 settimane [29]. Nel nostro ambulatorio dedicato al F-U dei RTRs da oltre 10 anni determiniamo regolarmente e periodicamente i livelli sierici del 25(OH)D e da allora tutti quelli che presentano livelli di 25(OH)D <30 ng/mL vengono regolarmente supplementati con vitamina D, quando non vi sia concomitante ipercalcemia. In questo studio abbiamo valutato, retrospettivamente, in un gruppo di RTRs con livelli di 25(OH)D <30 ng/mL ed uno stato di IPSP, l’impatto della terapia con colecalciferolo sui livelli sierici del 25(OH)D, del PTH e del bilancio calcio-fosforico e abbiano raffrontato i risultati con quelli di un analogo gruppo che rifiutava la supplementazione con vitamina D e quindi di controllo.

  

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Association between low serum magnesium levels and the extent of abdominal aortic calcification in renal transplant recipients

Abstract

Introduction – In renal transplant recipients (RTRs) vascular calcifications has been associated with an increased risk of cardiovascular as well as all-cause mortality.  Recent experimental and clinical studies showed that magnesium (Mg) deficiency may be related to the progression of vascular calcification. Aim of this study was to determine the hypothetical association between Mg and vascular calcifications in RTRs. Methods – Seventy-one RTRs underwent a lateral X-ray of the lumbar spine to assess the presence of calcification of the abdominal aorta. Abdominal aortic calcium (AAC) content was graded with a score ranging from 0 to 24 points. At the same time were evaluated: carotid artery intima-media thickness (IMT);  left ventricular mass index (LVMi); sCa, sPO4, sMg, uMg, PTH, HDL, LDL, blood pressure (BP). Results – AAC was correlated with: age (r=0.601; P<0.001), dialysis vintage  (r=0.314; P<0.01), sMg (r=-0.438; P<0.001), PTH (r=0.322; P<0.01), SBP (r=0.539; P<0.001), IMT (r=0.706; P<0.001), LVMi  (r=0.326; P<0.01). Serum Mg was correlated with PTH (r= -0.304; P<0.01). IMT was correlated with LVMi and SBP (r=0.330, P<0.01; r=0.494, P <0.0001; respectively). Stepwise multiple regression analysis showed that the final model contained six predictor variables for AAC (IMT, sMg, age, SBP, proteinuria, and dialysis vintage; F5,64=31.7, P<0.001; Adjusted R2 =0.718). Patients in higher AAC thirtile (8-24) were older, with longer dialysis vintage, lower sMg, higher PTH, and higher IMT values. Conclusions – Our results suggest a hypothetical interrelationship between sMg  and ACC, and IMT in RTRs.

Keywords: magnesium, vascular calcification, carotid artery intima-media thickness, renal transplantation

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Introduzione

Il rischio di malattia cardiovascolare aumenta progressivamente con il ridursi della funzione renale, arrivando ad essere di 20 volte superiore a quello che si riscontra nella popolazione generale quando viene avviata la terapia sostitutiva [1]. Il trapianto renale riduce, ma non normalizza, il rischio cardiovascolare, che risulta infatti di cinque volte maggiore a quanto riportato nella popolazione generale ed aumenta significativamente con il ridursi del funzionamento del rene trapiantato [2,3]. Ad un anno dal trapianto, su una popolazione di 19.103 pazienti con trapianto renale (RTRs), gli eventi cardiovascolari erano la causa di morte nel 21.6% della popolazione studiata [4]; con la progressiva estensione del follow-up, la prevalenza di malattia cardiovascolare aumentava fino ad arrivare ad essere la causa di morte nel 31% della popolazione con trapianto funzionante [5]. 

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Aging e rene – Il trapianto renale con donatore deceduto anziano

Abstract

Con l’incremento dei pazienti in attesa di trapianto renale senza un concomitante aumento del numero di donatori disponibili si è reso necessario di allargare progressivamente in criteri di accettazione del donatore deceduto sia in termini di età che di caratteristiche cliniche con ovvie conseguenze in termini di qualità dei reni a disposizione. Infatti con l’età vi è una riduzione del filtrato glomerulare a cui si aggiungono ulteriori “danni” a carico dell’organo di varia natura sia pre-esistenti che al momento del trapianto. Il donatore anziano è pertanto da tempo definito come marginale o subottimale con criteri di allocazione ben definiti che si sono modificati nel corso del tempo a partire dalla prima definizione del 1999 (cosiddetti criteri di Crystal City) fino ai più recenti algoritmi (KDRI/KDPI).

Per ridurre il tasso di scarto di tali organi ed al tempo stesso assicurare buoni tassi di sopravvivenza per i riceventi sono state utilizzate differenti strategie a partire dalla valutazione del donatore (includendo l’analisi istologica pre-trapianto), alla gestione del prelievo e del trapianto e al follow up dei riceventi. Nel presente articolo si analizzano tali strategie nel dettaglio e per ognuna si pone l’accento su punti di forza e criticità nonché su come siano state utilizzate nelle differenti realtà trapiantologiche. Un capitolo peculiare è dedicato al doppio trapianto renale ed alla sua evoluzione nel tempo. Nella parte finale si mette in evidenza l’esperienza del centro Torinese nella gestione dell’allocazione dei reni marginali con riferimento anche all’andamento del ricevente nel lungo termine.

In conclusione gli autori confermano la tesi sostenuta da molti autori che propongono il trapianto di rene da donatore deceduto anziano come un’alternativa valida per utilizzare al meglio il pool di organi disponibili riducendo la “discard rate” e assicurando accettabili tassi di sopravvivenza per i riceventi (seppure come ovvio inferiori a quelli ottenibili con donatori standard). L’ottenimento di tali risultati non può prescindere da strategie dedicate e da un approccio multidisciplinare oltre che dal costante aggiornamento dei clinici coinvolti.

Parole chiave: trapianto renale, donatore deceduto anziano, criteri di allocazione, doppio trapianto.

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Introduzione

È un dato ben noto che si assiste nel mondo ad una crescita dei pazienti in lista per trapianto di rene, determinata dall’aumento di incidenza della malattia renale e dall’allargarsi delle indicazioni alla sostituzione naturale dell’organo in associazione al restringersi dei limiti dovuto al progresso della medicina in generale e della trapiantologia in particolare. 

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Waiting time on dialysis for active access to renal transplantation: a multicenter cross-sectional study in Lombardy

Abstract

Background: The amount of time spent in dialysis waiting for a renal transplantation significantly affects its outcome. Hence, the timely planning of patients’ transplant evaluation is crucial. According to data from the Nord Italia Transplant program (NITp), the average waiting time between the beginning of dialysis and the admission to the regional transplant waiting list in Lombardy is 20.2 months.

Methods: A multicenter cross-sectional study was conducted in order to identify the causes of these delays and find solutions. Two questionnaires were administered to the directors of 47 Nephrology Units and to 106 patients undergoing dialysis in Lombardy respectively, during their first visit for admission to the transplant waiting list.

Results: The comparative analysis of the results revealed that both patients (52%) and directors (75%) consider the time required for registering to the waiting list too long. Patients judge information about the transplant to be insufficient, especially regarding the pre-emptive option (63% of patients declare that they had not been informed about this opportunity). Patients report a significantly longer time for the completion of pre-transplantation tests (more than 1 year in 23% of the cases) compared to that indicated by the directors.

Conclusions: The study confirmed the necessity of providing better and more timely information to patients regarding the different kidney transplantation options and highlighted the importance of creating target-oriented and dedicated pathways in all hospitals.

 

Keywords: Renal transplantation, waiting list, active access to renal transplantation, questionnaire, Lombardy region

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Introduzione

Esiste un generale consenso sul fatto che il trapianto renale rappresenti, per i candidati idonei, la scelta migliore in termini di qualità di vita [13] e di sopravvivenza [45]. Il trapianto rappresenta un vantaggio anche in termini economici, in quanto i costi della dialisi sono superiori a quelli del follow-up dei pazienti portatori di trapianto [67]. Il tempo di attesa in dialisi influisce significativamente sia sui risultati del trapianto sia sullo sviluppo di comorbidità [811]. Data la scarsa disponibilità di organi da donatore deceduto, il trapianto da vivente è un’opzione valida. [12]. 

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Correction of secondary hyperparathyroidism with paricalcitol in renal transplant improves left ventricular hypertrophy

Abstract

Background – Left ventricular hypertrophy (LVH) is common in renal transplant recipients (RTRs), and persistent secondary hyperparathyroidism (SHPT) is considered to be one of the main causes of its pathogenesis. In this study we evaluated if the control of SHPT with paricalcitol is associated with a reduction of LVH in RTRs. Methods – For this purpose we selected 24 RTRs with LVH and SHPT . Secondary hyperparathyroidism was defined as PTH levels 1.5 times higher than the high normal limits, while LVH was defined as a left ventricular mass index (LVMi) >95g/m2 in females, and >115g/m2 in males. Treatment with paricalcitol started at mean dose of 1µg/day and lasted 18 months. The dose of paricalcitol was reduced to 1µg on the other day when serum calcium was >10.5mg/dl and/or fractional excretion of calcium was >0.020%; administration was temporarily stopped when serum calcium was >11 mg/dl. Results – At follow-up PTH levels decreased from 198 ± 155 to 105 ± 43pg/ml (P < .01), and LVMi decreased from 134 ± 21 to 113 ± 29g/m2 (P < .01); the presence of LVH decreased from 100% at baseline to 54% at F-U. Serum calcium levels showed a modest and not significant increase. Renal function was stable in all patients. Conclusions – Secondary hyperparathyroidism seems to play an important role in the development and maintenance of LVH and its correction with paricalcitol has a favorable impact on its progression.

Keywords: left ventricular hypertrophy; parathormone; paricalcitol; renal transplantation; secondary hyperparathyroidism

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INTRODUZIONE

La patologia cardiovascolare rimane una delle principali cause di morbilità e mortalità nel paziente portatore di trapianto renale (1). L’ipertrofia ventricolare sinistra (IVS) è uno dei principali reperti ecocardiografici nel trapianto renale riscontrandosi in circa il 50-70% di questi pazienti (2). L’evoluzione della IVS dopo trapianto renale rimane controversa.  

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Diagnosis of Biliary Hamartomatosis in Kidney Transplant Recipient affected by ADPKD

Abstract

Biliary hamartomas (BH) are rare benign lesions of the liver characterized by a dilation of a variable number of small biliary ducts, usually surrounded by abundant fibrotic tissue. These malformations are due to an aberrant remodelling of the ductal plate, that is the embryonic structure generating the normal biliary tree. BH are usually asymptomatic, but in rare cases they can be associated with jaundice, heartburn and fever. Evidences for a sharing of similar pathological pathways between BH and adult dominant polycystic kidney disease (ADPKD) are widely reported. These similarities induce an increased neoplastic risk transformation in both conditions. This risk is even greater in immunosuppressed patients. The diagnosis of BH by imaging is not easy, especially in the context of ADPKD. We present a clinical case of a 54-year-old kidney transplant recipient affected by ADPKD in which BH, previously undetected, was for the first time suspected on routine ultrasound scan and confirmed with MRI 4 years after renal transplantation. Demodulation of proliferative signals induced by immunosuppressive therapy, and particularly by calcineurin inhibitors, could cause an enlargement of AB and increase the risk of neoplastic transformation. Our case-report suggests a close imaging follow-up may be needed in ADPKD patients with BH, especially if transplanted. High sensitivity techniques, such as CEUS and MRI, should be preferred to conventional ultrasound.

Keywords: Biliary Hamartomatosis, Kidney Transplant, ADPKD

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Introduzione

Gli amartomi biliari (AB), anche conosciuti come complessi di von Meyenburg, sono rare malformazioni benigne dei dotti biliari di piccolo calibro che, senza predilezione di sesso, vengono riscontrati nel 5.6% delle autopsie e rappresentano un reperto ancor più raro nella analisi istologica delle biopsie epatiche (0.6%) (1). 

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