Contrast Media Toxicity and Its Prevention

Abstract

Intravenous iodinated contrast media are commonly used in clinical practice, ranging from medical imaging to interventional radiology (IR) procedures and endovascular interventions. Compared with patients with normal renal function, nephropathic patients have an increased risk of acute kidney injury (AKI). Nevertheless, this condition cannot represent a limit to diagnostics or endovascular interventions.
Despite the literature of the last five years, conflicting management and approaches for nephropathic patients persist, including the use of contrast agents and treatments replacing renal functions, which are often mistakenly considered as part of preventive strategies. Though the issue has been widely discussed, specialists often cope with uncertainty in handling properly the administration of contrast media and renal counselling requests. Furthermore, there is a general difficulty in distinguishing the Post-Contrast Acute Kidney Injury (PC-AKI) from the Contrast-Associated Acute Kidney Injury (CI-AKI).
The present review aims to provide an update on the issue and examine strategies to reduce the acute kidney injury risk after the administration of contrast media. These strategies include the early identification of high-risk individuals, the choice of the contrast media and the proper dosage, the suspension of nephrotoxic drugs, the follow-up of the high-risk individuals, and the early identification of AKI.

Keywords: Constrast Medium, Acute Kidney Injury, Prevention, Hydration

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Introduzione

Il danno renale acuto (Acute Kidney Injury, AKI) è caratterizzato dal brusco declino, spesso reversibile, della velocità di filtrazione glomerulare (GFR) [1].

Nel novero degli agenti patogeni in grado di configurare l’AKI, l’impiego di mezzi di contrasto iodati è ben codificato.

La definizione di Post-contrast Acute Kidney Injury (PC-AKI) è il termine generico che dovrebbe essere usato quando si verifica un improvviso deterioramento della funzionalità renale entro 48 ore dalla somministrazione intravascolare di mezzo di contrasto iodato [2]. È da applicare a quelle situazioni in cui non è stata eseguita una valutazione clinica dettagliata per altre potenziali eziologie di AKI o in cui altre cause di AKI non possono essere ragionevolmente escluse. Tale definizione fa riferimento, dunque, all’incremento della creatinina o alle diminuzioni della velocità di filtrazione glomerulare stimata (eGFR) dopo l’esposizione al contrasto e che può o meno essere causato direttamente dal mezzo di contrasto [2].

Si preferisce, invece, l’uso della definizione “Contrast-induced acute kidney injury” (CI-AKI) per indicare le situazioni nelle quali il danno renale si verifichi entro le 48 ore dalla somministrazione del mezzo di contrasto iodato e sia causalmente collegato alla somministrazione di mezzo di contrasto. La presenza di un nesso causale tra esposizione al mezzo di contrasto e AKI può essere giudicata solo dopo un’approfondita valutazione clinica che permetta l’esclusione di altre potenziali cause di AKI. Se dopo tale valutazione non vengono identificate altre cause all’infuori dell’esposizione al contrasto, è appropriato in questi casi utilizzare il termine CI-AKI [2].

 

Scopo dello studio

Nonostante la letteratura prodotta nell’ultimo quinquennio, dal confronto con gli altri specialisti appaiono ancora controverse le modalità di gestione e di approccio ai pazienti nefropatici, dall’arruolamento all’uso di contrasto, all’utilizzo dei trattamenti sostitutivi la funzione renale, che spesso erroneamente vengono considerati come parte delle strategie di prevenzione.

Il nostro studio ha lo scopo di presentare una revisione aggiornata della letteratura sulla nefropatia legata al mezzo di contrasto, seguendo le linee Guida Internazionali PRISMA [3], dalla definizione alla fisiopatologia, epidemiologia e strategie di prevenzione, valutando l’entità del problema allo stato dell’arte attraverso il confronto con le linee guida Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO) [1], European Society of Urogenital Radiology (ESUR) [4], American College of Radiology (ACR) [5]; diversi articoli sono stati prodotti nell’ultimo periodo su questo argomento e l’evoluzione delle conoscenze fisiopatogenetiche così come  le modifiche apportate dalle ultime linee guida in riferimento alle strategie preventive per la CI-AKI hanno suggerito l’opportunità di produrre un manoscritto rivolto in particolare ai nefrologi clinici che giornalmente si confrontano con questa sentita problematica.

 

Materiali e metodi

Per la stesura di questa review è stata eseguita una ricerca bibliografica sui database di Pubmed, Scopus e Web of Science, utilizzando le parole chiave ((venous AND/OR arterial contrast media [Title/Abstract]) AND (nephropathy [Title/Abstract])).

Due revisori indipendenti (S.C. e G.D.) si sono occupati, in prima battuta, di selezionare i titoli attinenti all’argomento utilizzando i seguenti criteri di inclusione:

  1. pubblicazioni peer-reviewed con dati originali;
  2. lingua inglese o italiana;
  3. accesso ai dati principali del lavoro mediante testo completo o mediante abstract.

I criteri di esclusione sono stati:

  1. lingua diversa da inglese ed italiano;
  2. lavori degli stessi Autori ripetuti.

I due revisori indipendenti hanno dunque selezionato gli studi per l’inserimento nella revisione. I titoli sono stati valutati per rilevanza e i risultati delle due ricerche bibliografiche sono stati confrontati risolvendo, mediante dibattito tra i due revisori indipendenti, le eventuali controversie sui titoli da includere nella stesura finale della review. I lavori originali che presentavano i criteri di inclusione stabiliti sono stati selezionati per una revisione più dettagliata.

Il dibattito tra gli autori è stato espletato mediante metodo Delphi, utile per validazione del consenso della validità interna al fine di evitare possibili bias [6].

Nel corso del documento si farà riferimento a “mezzo di contrasto” intendendo il mezzo di contrasto iodato: il mezzo di contrasto paramagnetico e quello ultrasonografico esulano dagli scopi di questo lavoro.

 

Risultati

La ricerca, condotta attraverso i sopracitati motori di ricerca, ha permesso di identificare inizialmente 168 titoli. Sono stati identificati, inoltre, 59 titoli aggiuntivi a partire dalle referenze bibliografiche degli stessi articoli summenzionati.

Dopo lettura ed eliminazione degli articoli duplicati, degli articoli non focalizzati sul topic, non in lingua inglese o italiana, con dati non originali, sono stati riportati in discussione 163 articoli (Figura 1).

Figura 1. Risultati presentati secondo diagramma PRISMA.
Figura 1. Risultati presentati secondo diagramma PRISMA.

La riduzione del rischio di danno renale legato all’infusione di mezzo di contrasto rappresenta l’obiettivo degli specialisti nella quotidiana pratica clinica. Diversi autori concordano sulla necessità di individuare i fattori di rischio in grado di impattare sulla funzione renale e di stabilire un protocollo infusionale coerente con le esigenze volemiche del paziente che, senza compromettere la sua emodinamica, ponga in essere una valida strategia di prevenzione.

 

Limiti epidemiologici

L’epidemiologia relativa al danno renale da mezzo di contrasto iodato appare confusa e i dati forniti in letteratura sono spesso tra di loro discordanti, con una variabilità circa l’incidenza del danno renale che spazia dall’1,3% al 33,3% [7]. Tali differenze trovano giustificazione nell’inclusione o esclusione dagli studi di soggetti che presentano vari fattori di rischio concomitanti, e dal tipo e volume del mezzo di contrasto iodato somministrato. Non trascurabile fenomeno di confondimento che complica la dimensione del problema è l’utilizzo improprio, spesso in maniera indifferente, delle definizioni di PC-AKI e di CI-AKI, a causa della storica fusione dei due termini. Ampi studi retrospettivi condotti su coorti di pazienti ad alto rischio, sottoposti all’infusione di mezzo di contrasto iodato, hanno riportato un’incidenza di PC-AKI elevata, con incidenza maggiore per la via intra-arteriosa (procedure endovascolari, riperfusioni, coronarografie) e minore per la via venosa [8], mentre parallelamente l’incidenza di CI-AKI è risultata essere, nel complesso, trascurabile per valori di eGFR > 30/ml/1.73m2 [5].

 

Fattori di rischio

Numerosi sono i fattori di rischio che favoriscono l’insorgenza di AKI nei pazienti sottoposti ad infusione di mezzo di contrasto. Alcuni di essi sono legati alla storia clinica del soggetto da sottoporre all’infusione endovenosa di mezzo di contrasto e riguardano la funzione renale preesistente, le comorbidità associate e la concomitante terapia assunta. Altri, invece, riguardano le caratteristiche ed il volume del mezzo di contrasto (Tabella 1).  Ipertensione arteriosa, insufficienza renale, diabete mellito, storia di precedenti infarti del miocardio, età, frazione di eiezione ventricolare sinistra <40% sono noti fattori di rischio di AKI dopo esposizione a mezzo di contrasto iodato [9].

Fattori di rischio legati al paziente Fattori di rischio legati ad agenti chimici Fattore di rischio legato ad agenti nefrotossici
eGFR <30ml/min/1,73m2 Mezzo di contrasto ad elevata osmolarità Uso concomitante di sostanze nefrotossiche (NSAIDs, aminoglicosidi, ACEI, ARB, biguanidi)
Età>65 anni Quantità di mezzo di contrasto utilizzato
Ipertensione Infusioni ripetute di mezzo di contrasto
Anemia
Scompenso cardiaco
Stato settico  
Diabete    
Tabella 1. Fattori di rischio per danno renale da mezzo di contrasto.

Fattori di rischio legati alla storia clinica del paziente

Il rischio di PC-AKI aumenta con ogni aumento graduale dello stadio di chronic kidney disease (CKD), per cui il rischio di PC-AKI risulta di circa il 5% in pazienti con eGFR maggiore o uguale a 60; 10% a eGFR con 45-59; 15% con eGFR di 30-44; 30% con eGFR inferiore a 30 ml/min/1,73 m2 [5]. Il rischio di PC-AKI è molto più alto del rischio di CI-AKI in quanto include tutte le condizioni nelle quali si verifica una riduzione della perfusione renale, spesso conseguenza di insufficienza cardiaca, ipovolemia, instabilità emodinamica o di farmaci che influiscono sull’emodinamica renale [10] coincidenti con la somministrazione di mezzi di contrasto [5]. Nel già citato lavoro di Wilhelm-Leen et al. [11], la somministrazione di mezzo di contrasto è stata associata a un rischio più elevato di PC-AKI se coesistono i seguenti quadri patologici: sepsi (35,8% contro 32,9%), polmonite (16,3% contro 12,7%), infezione del tratto urinario/pielonefrite (17,4% contro 15,7%), peritonite (31,4% contro 28,9%), sanguinamento gastrointestinale (16,8% contro 13,8%), esacerbazione della broncopneumopatia cronica ostruttiva (16,3% contro 15,1%) e pancreatite acuta (16,4% contro 8,2%). In generale, le differenze di rischio tra i gruppi erano piccole: circa il 2-3% assoluto, 15-20% relativo. L’eccezione notevole è stata la pancreatite acuta: per questi pazienti la somministrazione di mezzo di contrasto è stata associata a un raddoppio del rischio di PC-AKI. Per molti altri stati patologici, i pazienti che hanno ricevuto il mezzo di contrasto hanno manifestato un tasso inaspettatamente più basso di PC-AKI: esacerbazione dell’insufficienza cardiaca (16,6% contro 19,0%), endocardite (16,4% contro 19,9%), sindrome coronarica acuta (SCA) (6,4% contro 17,4%), tromboembolismo venoso (6,9% contro 9,2%) e ictus/incidente cerebrovascolare (6,7% contro 7,5%). Lo studio retrospettivo monocentrico condotto da Hinsen et al. [12] eseguito su un totale di 82.729 pazienti sottoposti a TC con o senza mezzo di contrasto in 5 anni (dal 2009 al 2014), aveva come outcome primario l’incidenza di CI-AKI e come outcome secondario dialisi e trapianto renale a 6 mesi. In tale studio, l’incidenza di AKI è risultata paragonabile in tutti i gruppi. La somministrazione di mezzo di contrasto iodato non è stata associata ad una maggiore incidenza di AKI (odds ratio per i criteri di nefropatia indotta da mezzo di contrasto = 0,96, intervallo di confidenza al 95% da 0,85 a 1,08; e odds ratio per i criteri Acute Kidney Injury Network/Kidney Disease Improving Global Outcomes = 1,00, 95% intervallo di confidenza da 0,87 a 1,16) tra i vari sottogruppi, indipendentemente dalla funzione renale al basale. Inoltre, la somministrazione di contrasto non è stata associata ad una maggiore incidenza di malattie renali croniche, dialisi o trapianto renale a 6 mesi.

Il rischio di CI-AKI è sostanzialmente inferiore al rischio di PC-AKI, ma rimane incerto nei pazienti con End Stage Kidney Disease (ESKD) che rappresenta la più grave condizione clinica di rischio predisponente la CI-AKI; sebbene diversi studi osservazionali controllati non abbiano mostrato evidenza di CI-AKI indipendentemente dallo stadio di CKD preesistente [13], altri hanno trovato evidenza di CI-AKI solo in pazienti con funzionalità renale gravemente ridotta (eGFR <30 ml/min/1.73m2) [14]. L’incidenza di CI-AKI nella popolazione con funzionalità renale normale è molto bassa (cioè 0-5%), tuttavia è segnalata come 12-27% nei pazienti con CKD preesistente e fino al 50% nei pazienti allo stadio IV-V secondo KODQI [11].

Nella metanalisi di Mc Donald JS et al. [13], il rischio di CI-AKI, in assenza di fattori di rischio associati, è stato stimato essere trascurabile per eGFR maggiore o uguale a 45 ml/min/1,73 m2; 0-2% per eGFR di 30-44 ml/min/1,73 m2 e 0-17% per eGFR inferiore a 30 ml/min/1,73 m2. Questa metanalisi, comunque, presenta importanti limiti in quanto: non stratifica il rischio nei pazienti sulla base della preesistente CKD (gli autori stessi mettono in evidenza questo limite, verosimilmente legato ad un non omogeneo campionamento dei pazienti sulla base della CKD); sono osservazionali; molte delle analisi sui sottogruppi includono studi poco numerosi risultando, pertanto, probabilmente sottodimensionate.

Accanto all’insufficienza renale preesistente, altre condizioni patologiche quali il diabete, l’età avanzata (≥80 anni), l’ipertensione, l’insufficienza cardiaca congestizia, la sepsi e l’anemia possono aumentare l’incidenza di PC-AKI, le complicanze a breve e lungo termine e la mortalità dei pazienti [15].

Fattori di rischio legati al mezzo di contrasto iodato

Le proprietà fisico-chimiche del mezzo di contrasto, come la sua osmolalità e viscosità, svolgono un ruolo determinante alla patogenesi del danno renale correlato al mezzo di contrasto. L’osmolarità indica la concentrazione di particelle in una soluzione ed è espressa in osmoli di particelle di soluto per litro di soluzione (Osm/L). Con osmolalità, invece, si intende il numero particelle per unità di peso (mOsm/kg). Il mezzo di contrasto si divide in tre tipi in base alla sua osmolalità, ovvero ad alta osmolarità (HOCM), iso-osmolare (IOCM) e a bassa osmolarità (LOCM).

Nel corso degli anni il mezzo di contrasto ha subito una progressiva evoluzione. Per maggiore approfondimento si rimanda al lavoro di Wallingford [16].

I mezzi iso-osmolari sono l’ultima forma di contrasto utilizzata in quanto hanno la stessa osmolalità del siero umano e, sebbene vengano definiti da diversi autori come meno nefrotossici rispetto a quelli iper/ipo-osmolari [17], conclusioni simili non trovano il consenso unanime della letteratura.

Non ci sono differenze clinicamente rilevanti confermate dalla letteratura circa il rischio di PC-AKI tra i mezzi di contrasto a bassa osmolalità (LOCM) e i mezzi di contrasto a iso-osmolarità (IOCM) per applicazioni endovenose [18]. L’evidenza indiretta suggerisce che il LOCM iohexolo possa avere un rischio maggiore rispetto ad altri LOCM, sebbene la potenziale differenza di rischio non sia stata confermata [18].

Di avviso diverso sono, ad esempio, gli studi di Rudnick et al., che non hanno riscontrato differenze nell’insorgenza di PC-AKI dopo la somministrazione di IOCM rispetto al LOCM [19]. Davenport et al. [20], in un lavoro volto a determinare se il mezzo di contrasto iodato a bassa osmolalità somministrato per via endovenosa fosse associato a PC-AKI post-tomografia computerizzata (TC), hanno confrontato 19 covariate tra 17.652 individui, giungendo alla conclusione che il mezzo di contrasto iodato ipotonico ha un impatto significativo sull’insorgenza di AKI sia dopo TC che dopo angiografia (P=0,04) nei pazienti con preesistente insufficienza renale e creatinina sierica > 1,5 mg/dl.

Sulla base delle evidenze fornite dallo stesso Davenport, in una revisione sistemica del 2020, è probabile che qualsiasi differenza nel rischio di PC-AKI tra LOCM e IOCM non sia clinicamente significativa [5].

Differenze clinicamente significative sono state dimostrate, invece, negli studi randomizzati che hanno confrontato il comportamento di LOCM e IOCM nelle somministrazioni intra-arteriose ed endovenose [18]: nella somministrazione intra-arteriosa con esposizione renale di secondo passaggio, il mezzo di contrasto iniettato nel cuore destro e nelle arterie polmonari o direttamente nelle arterie carotidee, succlavia, brachiale e mesenterica, nonché nell’aorta sottorenale e nelle arterie iliache e femorali, raggiunge le arterie renali dopo la diluizione; questa somministrazione presenta lo stesso rischio della somministrazione endovenosa (più basso) [21]. Nella somministrazione intra-arteriosa con esposizione renale di primo passaggio, il mezzo di contrasto iniettato nel cuore sinistro, nell’aorta addominale toracica e surrenale e selettivamente nelle arterie renali, raggiunge le arterie renali durante il primo passaggio; i pazienti sottoposti a queste procedure presentano frequentemente comorbidità, per quanto sia difficile distinguere gli effetti dovuti alla somministrazione del mezzo di contrasto da quelli dovuti ad altre cause concomitanti, come, ad esempio, nelle procedure interventistiche endovascolari, il rischio di malattia ateroembolica renale [22, 23].

Per quel che concerne le eventuali differenze nella metodologia di somministrazione del mezzo di contrasto sul rischio di sviluppare una CI-AKI, in uno studio di McDonald et al. [24] viene riportata nei pazienti sottoposti a cateterismo cardiaco (somministrazione intra-arteriosa) un’incidenza sostanzialmente più elevata di AKI, dialisi e mortalità post-procedurale rispetto a quella di pazienti sottoposti a studio angiografico o a TC con mezzo di contrasto (somministrazione endovenosa). Inoltre, l’incidenza di AKI dopo la procedura è stata stimata essere del 10-50% [25], mentre l’incidenza generale di AKI dopo la TC con mezzo di contrasto è stata riportata tra il 5-20% [26]. È stato ipotizzato che questo possa essere dovuto all’utilizzo di una maggior quantità di mezzo di contrasto nelle procedure intrarteriose, a un maggior rischio di dislocazione di ateroemboli e, non ultimo, a maggiori comorbidità dei pazienti sottoposti a procedure intra-arteriose [27].

Nessuno studio ha confrontato direttamente il rischio di CI-AKI tra LOCM e IOCM: si ritiene che non vi siano differenze clinicamente rilevanti nel rischio di CI-AKI tra LOCM e IOCM [28].

Fattori di rischio legati ad agenti nefrotossici

Altro potenziale fattore di rischio di danno renale dopo somministrazione intra-arteriosa di mezzo di contrasto iodato è rappresentato dai farmaci nefrotossici. Tra questi farmaci annoveriamo:

  • gli antinfiammatori non steroidei (NSAIDs), che alterando l’emodinamica dei vasi renali causano fibrosi interstiziale renale;
  • gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone, come gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-i) e i bloccanti del recettore dell’angiotensina (ARB), gli inibitori del recettore dell’angiotensina-neprilisina (ARNI), gli antagonisti dei recettori dei mineralcorticoidi (MRA), i quali, provocando una riduzione del eGFR, rallentano la clearance del mezzo di contrasto. Inoltre, l’angiotensina II è in grado di indurre la produzione del transforming growth factor β1 (TGF-β1) che presenta attività potenzialmente protettiva sulla necrosi delle cellule tubulari prossimali renali, perde tale potere induttivo sul TGF-β1 (e quindi la conseguente nefroprotezione), una volta inibita dal sistema renina-angiotensina-aldosterone;
  • gli aminoglicosidi presentano diversi gruppi amminici sulla molecola che conferiscono loro una carica cationica a pH fisiologico. Di conseguenza, le molecole di aminoglicoside si legano prontamente ai fosfolipidi anionici all’interno della membrana plasmatica del tubulo prossimale in modo elettrostatico saturabile. L’affinità relativa di un aminoglicoside per la membrana plasmatica del tubulo prossimale è correlata alla nefrotossicità osservata nella pratica clinica [29].
  • la metformina; in questo caso l’eliminazione del farmaco avviene principalmente a livello renale tramite trasportatori localizzati nel tubulo prossimale. Per tale motivo la concentrazione plasmatica della metformina aumenta nel corso dell’insufficienza renale cronica. A livello urinario non sono stati rinvenuti metaboliti della metformina ma esclusivamente farmaco immodificato. La complicanza più temuta è l’acidosi lattica che consegue all’assunzione di tale farmaco nel contesto della malattia renale cronica [30].
    Le linee guida ACR del 2018 suggeriscono che, nei pazienti ritenuti ad alto rischio di CI-AKI in trattamento con metformina che devono essere sottoposti all’infusione di mezzo di contrasto iodato, il farmaco debba essere temporaneamente sospeso al momento dello studio o subito prima, e deve essere sospeso per almeno 48 ore [31]; tale indicazione è stata confermata – negli stessi termini – anche dalle linee guida ESUR, che peraltro precisano la possibilità di proseguire il trattamento con metformina dopo aver escluso alterazioni della funzione renale a 48 ore [4].

 

Fisiopatologia del danno renale

Il meccanismo fisiopatologico alla base del danno renale non è stato completamente chiarito. Diversi fattori agiscono attraverso molteplici pathways, sostenendo la genesi del danno renale (Figura 2).

Figura 2. Fisiopatologia del danno renale da mezzo di contrasto. NOS: ossido nitrico sintasi; Na+/K+: pompa sodio potassio.
Figura 2. Fisiopatologia del danno renale da mezzo di contrasto. NOS: ossido nitrico sintasi; Na+/K+: pompa sodio potassio.

Sicuramente il mezzo di contrasto ha effetti tossici diretti sulle cellule epiteliali tubulari renali e può indurre apoptosi e necrosi a causa delle sue proprietà fisico-chimiche. Il danno renale è caratterizzato dalla perdita di polarità cellulare dovuta alla ridistribuzione delle pompe Na+/K+, che sul fronte basolaterale delle cellule epiteliali tubulari diminuiscono mentre aumentano sul lato della superficie luminale, comportando l’incremento del trasporto di ioni sodio ai tubuli contorti distali (Figura 3) e così lo spasmo dei vasi sanguigni renali attraverso il feedback tubuloglomerulare. Come conseguenza si verificherebbe l’incremento della pressione intravasale, la diminuzione del GFR e l’ostruzione del lume tubulare.

Danno esercitato dal mezzo di contrasto sulla pompa Na+/K
Figura 3. Danno esercitato dal mezzo di contrasto sulla pompa Na+/K+. Il danno renale è caratterizzato dalla perdita di polarità cellulare dovuta alla ridistribuzione delle pompe Na+/K+, che sul fronte basolaterale delle cellule epiteliali tubulari diminuiscono mentre aumentano sul lato della superficie luminale, comportando l’incremento del trasporto di ioni sodio ai tubuli contorti distali e così lo spasmo dei vasi sanguigni renali attraverso il feedback tubuloglomerulare. Come conseguenza si verificherebbe l’incremento della pressione intravasale, la diminuzione del GFR e l’ostruzione del lume tubulare. MEZZO DI CONTRASTO: mezzo di contrasto; HCO3-: ione bicarbonato; A.C: anidrasi carbonica; CO2 anidride carbonica, ATP: adenosin-trifosfato; H+: ione idrogeno; Na+: ione sodio; K+: ione potassio; H2CO3: acido carbonico.

Altro meccanismo indiretto attraverso cui si determina il danno renale, risiede nella capacità del mezzo di contrasto di aumentare la produzione di radicali liberi dell’ossigeno (riducendo l’attività biologica cellulare) e di promuovere la perossidazione dei lipidi. Riducendo l’attività degli enzimi antiossidanti e della superossido dismutasi, favorisce la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS), che causano danni alle cellule epiteliali tubulari renali e alle cellule adiacenti. L’aumento dei ROS induce la produzione di agenti vasocostrittori (come l’endotelina) e determina l’inibizione dell’attività della ossido nitrico sintasi (NOS) e della prostaciclina sintasi, portando, così, alla riduzione di sostanze vasodilatatrici (come ossido nitrico, NO, e prostaciclina, PGI2) nel plasma e, di conseguenza, alla riduzione della perfusione renale e all’ipossia cellulare [33]. Per quanto la vascolarizzazione della corticale midollare renale rappresenti solo il 10% del flusso sanguigno renale, le cellule epiteliali nel segmento spesso ascendente dell’ansa di Henle svolgono un lavoro metabolicamente stressante rendendosi particolarmente suscettibili agli insulti ischemici ed ipossici che occorrono nel corso di tali fluttuazioni del circolo perfusorio. Inoltre, il mezzo di contrasto può aumentare la viscosità del sangue, rallentare il flusso sanguigno microcircolatorio e influenzare la pressione osmotica del sangue, riducendo così la plasticità dei globuli rossi e aumentando il rischio di microtrombosi [34].

 

Prevenzione del danno renale

La PC-AKI complica circa il 7% di tutti gli interventi coronarici percutanei (PCI). Nello 0,3% dei casi richiede l’avvio del trattamento dialitico, si associa all’incremento degli eventi avversi quali morte, infarto del miocardio e sanguinamento, che si traducono nell’allungamento della degenza media e nell’aumento dei costi negli USA (rispettivamente circa 3,6 giorni e $ 10.000) [35].

Idratazione fissa e idratazione controllata

L’idratazione costituisce il metodo di profilassi più diffuso nonché il più efficace nella prevenzione di PC-AKI e CI-AKI [36], in quanto il mantenimento dell’euvolemia impedisce l’iperattivazione del sistema nervoso simpatico e del sistema renina-angiotensina, contrastando la vasocostrizione renale esercitata dal mezzo di contrasto, diluendo quest’ultimo all’interno del lume tubulare renale, riducendo il tempo di contatto con le cellule tubulari renali [37].  È noto come la sola somministrazione di liquidi per os non sia sufficiente all’ottenimento di un’adeguata prevenzione di tale rischio: pertanto è necessario l’utilizzo di soluzioni per infusione endovenosa [38]. Le linee guida del 2015 sulla sindrome coronarica acuta, le linee guida della Società Europea di Cardiologia del 2018 sulla rivascolarizzazione del miocardio e diversi autori concordano nel dire che l’idratazione per via endovenosa è raccomandata nei pazienti con un eGFR <60 ml/min/1,73 m2 nelle 12 ore antecedenti e nelle 24 ore successive la procedura [39].

Ciononostante, persistono controversie circa la tipologia di soluzione da adottare nella terapia di idratazione e i volumi da infondere. Attualmente, la somministrazione di soluzioni all’1,4% di bicarbonato di sodio [40] e allo 0,9% di soluzione fisiologica rappresenta la prima scelta nella grande maggioranza delle situazioni. Seppure precedenti studi abbiano evidenziato come la somministrazione endovenosa di bicarbonato di sodio sia più efficace della soluzione salina nel ridurre l’incidenza di PC-AKI, nessuna differenza è stata identificata tra le due soluzioni in un recente studio multicentrico su un totale di 5.177 soggetti condotto da Weisbord et al. [41]. L’utilità e la praticità di impiego del bicarbonato trova giustificazione nelle meta-analisi di Meier [42] e in quella più recente di Zhang [43] dalle quali emerge il vantaggio dato dalla correzione dell’acidosi nelle condizioni in cui non è possibile eseguire un’idratazione prolungata, quali le procedure d’emergenza. Inoltre, l’impiego del bicarbonato di sodio rimane più efficace rispetto all’infusione di ringer [44]. Ulteriori controversie riguardano più specificatamente la dose da infondere. Diversi studi sono concordi su protocolli di idratazione fissa: il protocollo di idratazione a base di bicarbonato di sodio consiste in un’infusione di circa 150 mEq/l di soluzione di 3 ml/kg/h da somministrare in un’ora prima dell’esposizione del mezzo di contrasto e in un’infusione di 1 ml/kg/ h nelle 6 ore successive; tale protocollo si differenzia per durata da un tipico protocollo di idratazione salina con un’infusione di 1 ml/kg/h da 6 a 12 ore prima e un ulteriore infusione di 1 ml/kg/h per ulteriori 6-12 ore dopo l’esposizione al mezzo di contrasto [45], ma la necessità di tenere in considerazione anche le caratteristiche del singolo paziente, quali funzione cardiaca, equilibrio idro-elettrolitico, acido base e comorbidità, nonché i rischi di un’overload di fluidi, hanno portato alla necessità di sviluppare un nuovo approccio basato sul concetto di idratazione controllata [46]. È noto infatti come infusioni eccessive possano aumentare il rischio di insufficienza cardiaca, aritmia e morte a breve termine nei pazienti ad alto rischio. Tra le possibili modalità di implementazione di una strategia di idratazione controllata potrebbe figurare l’uso di parametri emodinamici quali la pressione venosa centrale (PVC), la pressione telediastolica del ventricolo sinistro (LVEDP), la collassabilità della vena cava [47], la bioimpedenzometria e il volume urinario [48]. A tal riguardo è estremamente stimolante il lavoro pubblicato da Azzalini et al. “LVEDP-Guided Versus UFR-Guided Hydration for CA-AKI Prevention: Should We Be Guided by Our Heart or Kidneys?” [35], che contrappone alla one-size-fits-all hydratation protocolli di idratazione personalizzati e basati sulla reale volemia del paziente.

Un’interessante mediazione tra l’esigenza di idratazione e il rischio di overload è rappresentato dal sistema RenalGuard (RenalGuard Solutions, Milford, Massachusetts), un dispositivo che consente di ottimizzare la resa dell’espansione volemica facendo corrispondere al volume infuso l’output urinario (urine flow rate [UFR]-guided hydration) [35]. Al priming del sistema fa seguito un bolo di soluzione salina (circa 3 ml/kg in 20-30 min) e furosemide (0,25 mg/kg), così che, mantenendo un’elevata produzione di urina, il mezzo di contrasto possa essere rapidamente eliminato, salvaguardando il tubulo dai suoi effetti deleteri. Al paziente viene somministrata la prima dose di contrasto quando la diuresi supera i 300 ml/h. Trial randomizzati controllati [49] hanno dimostrato una drastica riduzione in termini di PC-AKI e necessità di terapia sostitutiva con l’approccio basato sull’UFR, rispetto ai regimi di idratazione fissa. Briguori et al. hanno, inoltre, verificato che rispetto alla terapia di idratazione fissa, la terapia di idratazione controllata con sistema RenalGuard ha portato ad una ridotta incidenza di edema polmonare (RR: 0,56, IC 95%: 0,39-0,79, P=0,036) [50]. Lo stesso autore [51], in uno studio condotto su 4 centri italiani (REMEDIAL II) ha dimostrato che il trattamento con RenalGuard è superiore alla sola terapia con bicarbonato di sodio e alla N-acetilcisteina nella prevenzione del danno renale acuto indotto dal mezzo di contrasto nei pazienti ad alto rischio. Convergono verso lo stesso orientamento lo Studio Pilot [52], lo Studio Mythos [53] che conclude come lo stimolo diuretico associato a un’idratazione adeguata riduca significativamente il rischio di nefropatia da contrasto se paragonato alla diuresi indotta dalla sola cauta idratazione e lo Studio Modena [54].

Viceversa, nessuna differenza nella capacità di ridurre l’incidenza di PC-AKI rispetto ai protocolli standard veniva evidenziata nel trial randomizzato controllato monocentrico di Nissan et al. Gli autori concludevano che 8 pazienti su 307 (2,6%) non sottoposti ad idratazione controllata sviluppavano PC-AKI, vs 8 pazienti su 296 (2,7%) sottoposti ad idratazione controllata che sviluppavano PC-AKI: pertanto, l’idratazione controllata non sembrava ridurre l’incidenza di PC-AKI (P=0,4710) [55].

– Potenziali vantaggi dell’idratazione controllata

È di interesse la possibilità di impostare quanto il bilancio idrico debba essere positivo (in pazienti disidratati) o negativo (in pazienti con sovraccarico idrico). In assenza di un dispositivo che permetta di valutare oggettivamente i volumi di infusione e l’outcome urinario, la valutazione rimane soggettiva e dipende unicamente dall’intuito dell’operatore. Il ricorso a un’idratazione controllata, come riportato dai su citati studi di Briquori et al., porta alla riduzione dell’incidenza dell’edema polmonare e dell’aggravamento dei quadri di scompenso cardiaco.

La metanalisi condotta da Prasad et al., su 10 studi relativi all’uso di RenalGuard in pazienti ad alto rischio, ha mostrato come l’impiego dell’idratazione controllata oltre che essere associato ad una significativa riduzione del rischio di PC-AKI rispetto al gruppo di controllo, si associava alla riduzione della mortalità, della dialisi e degli eventi cardiaci avversi maggiori (MACCE) rispetto al controllo [56].

– Limiti dell’idratazione controllata

Tra i limiti all’impiego dell’idratazione controllata possiamo annoverare il costo elevato dei dispositivi che li rendono – qualora a disposizione nelle aziende – in numero estremamente esiguo rispetto alle reali necessità dei clinici.

Altre strategie di prevenzione

In seno alle strategie di prevenzione del danno renale conseguente all’infusione di mezzo di contrasto, la letteratura offre un’ampia rosa di possibilità, più o meno efficaci, sulle quali l’opinione degli autori sono spesso contrastanti.

– NAC

Tra tutte le molecole associate alla prevenzione per la nefropatia da contrasto spicca la N-acetilcisteina (NAC). Si tratta di un importante agente riducente contenente un gruppo sulfidrilico, noto per le spiccate proprietà antiossidanti in grado di promuovere la sintesi del glutatione e regolare il metabolismo cellulare. Essa possederebbe, quindi, poteri antiossidanti. Inoltre, NAC sembra promuovere il rilascio di NO e ridurre la produzione di angiotensina inibendo l’attività degli enzimi ACE (vedi Fisiopatologia del danno renale).

Le meta-analisi che esaminano la NAC come molecola protettiva nel corso di infusione di mezzo di contrasto hanno prodotto risultati discordanti che dimostrano come l’eterogeneità dei dati forniti dai vari autori possa essere correlata alle diverse definizioni di PC-AKI  / CI-AKI, alle compresenza di fattori di rischio e ai valori di creatinina di base della popolazione in studio.

Se da una parte è tangibile l’entusiasmo degli autori [57] che tributano alla NAC ampia fiducia nella profilassi del danno renale da mezzo di contrasto, si è assistito ad un graduale disamoramento fino a restare ai margini delle strategie di prevenzione per l’incoerenza dei dati ottenuti [58].

È opinione di Xie et al. che la NAC possa ridurre significativamente l’incidenza di AKI dopo l’angiografia (OR: 0,78, IC 95%: 0,68-0,90, I2 = 37,3%) [57]. Nessun dubbio sulla validità dei suoi poteri nefroprotettivi, da sola o accompagnata ad altre molecole quali vitamina C, sodio bicarbonato, statine, per Kaj et al. [59].

Di altro avviso è lo studio prospettico presentato da Palli et al. Gli autori hanno dimostrato che l’incidenza di nefropatia non differiva tra il gruppo NAC (1200 mg) e il gruppo placebo (P=0,81) [60]. Concorda con Palli il più ampio studio randomizzato pubblicato da Weisbord et al. che non ha dimostrato differenze significative tra i 4993 pazienti ad alto rischio di complicanze renali sottoposti ad angiografia, trattati con NAC orale rispetto al placebo per la prevenzione della morte o per la prevenzione del danno renale acuto da contrasto [41].

Anche il beneficio della NAC per via endovenosa rimane incerto e il confronto tra i vari studi è difficile a causa delle differenze nelle popolazioni di pazienti e del dosaggio o della mancanza di un gruppo di controllo adeguato. Il lavoro di Biernaka et al. elogia le proprietà nefroprotettive del NAC in somministrazione endovenosa nella prevenzione del danno renale nel contesto di infusione di mezzo di contrasto [61]. Secondo uno studio pubblicato da Marenzi et al., il 7% dei pazienti che hanno ricevuto alte dosi di NAC per via endovenosa ha sviluppato reazioni anafilattoidi [62]. Secondo Khatami et al., nei pazienti con malattia renale cronica, la somministrazione di NAC tanto per via endovenosa quanto per via orale non è superiore al placebo per prevenire il danno renale [63]. La somministrazione della NAC in associazione ad altre molecole è ancora oggetto di discussione e spesso non trova spazio nella sperimentazione umana. Per quanto riguarda l’associazione NAC ed acido ascorbico, valutata da Feng et al. [64], questa non suggerisce vantaggi rispetto alla sola somministrazione della NAC. L’associazione, invece, tra acido ascorbico e bicarbonato di sodio ha dimostrato effetti protettivi da CI-AKI nei pazienti sottoposti a cateterismo arterioso per coronarografia [65].

– Inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5

Minore eco nell’ambito della prevenzione della nefropatia da contrasto hanno avuto altre molecole che mai hanno raggiunto la dignità di un uso diffuso nella pratica clinica. Tra queste è possibile citare sildenafil e tadalafil: in uno studio pubblicato da Iodarche et al. [66], il pre-trattamento con sildenafil e tadalafil, testati sui ratti maschi Widar modulando lo stress ossidativo, ha ridotto il rischio di danno renale da contrasto suggerendo che gli inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5 (PDE5I) possono essere buoni candidati in base alla loro capacità di modulare l’equilibrio ossidante/antiossidante. Il febuxostat, un inibitore della xantina ossidasi indicato nel trattamento della gotta e dell’iperuricemia cronica, ha trovato espressione favorevole tra le strategie preventive del danno renale da mezzo di contrasto negli studi di Ma et al. [67]. Rimane controversa l’efficacia di alprostadil. Tale molecola svolge un ruolo nel mantenimento e nella ridistribuzione del flusso sanguigno intrarenale e nell’escrezione di elettroliti e acqua. Una metanalisi pubblicata nel 2019 ha messo a confronto trentasei articoli (5495 pazienti in totale) e sembra dimostrare che, per i pazienti trattati con alprostadil 48-72 ore prima della somministrazione di mezzo di contrasto, l’incidenza del danno renale risultava essere sensibilmente inferiore rispetto al controllo (6,56% vs 16,74%) [68]. Le speranze riposte sull’alfa-tocoferolo, come valido protettore della creatinina e del eGFR contro i danni cagionati dal mezzo di contrasto, sono state presto ridimensionate dallo studio prospettico controllato condotto su 201 pazienti con malattia renale cronica (eGFR <60 ml/min) sottoposti ad angiografia coronarica e presentato da Samadi et al. nel 2020, che ha dimostrato come la somministrazione di alfa-tocoferolo non abbia alcun effetto benefico additivo rispetto alla soluzione fisiologica isotonica nella prevenzione della nefropatia da contrasto, nei pazienti con insufficienza renale cronica [69]. Sebbene l’alcalinizzazione delle urine potrebbe avere un razionale come effetto protettivo nei confronti della CI-AKI, l’infusione di soluzioni a base di citrato Na/K non ha dato risultati utili a dimostrarne la validità [70].

La trimetazidina è stata descritta come un agente anti-ischemico cellulare in grado di prevenire gli effetti deleteri dell’ischemia-riperfusione sia a livello cellulare che mitocondriale ed esercitare un effetto antiossidante. Essa inibisce il rilascio eccessivo di radicali liberi dell’ossigeno, limita l’acidosi cellulare, protegge le riserve di adenosina trifosfato (ATP), riduce la perossidazione lipidica di membrana ed inibisce l’infiltrazione dei neutrofili. La somministrazione di tale molecola alla dose di 35 mg due volte al giorno per os, combinata ad una cauta idratazione oppure ad altre molecole come il Coenzima Q10, è entrata recentemente nel novero delle sostanze utili a prevenire o ridurre l’incidenza di CI-AKI nel contesto delle procedure di angiografia coronarica in pazienti con insufficienza renale lieve-moderata [71]. Rispetto alla sola idratazione convenzionale [72], la trimetazidina sembra ridurre significativamente l’incidenza di CI-AKI e il livello di creatininemia nel postoperatorio, suggerendo un potere protettivo superiore alla sola idratazione convenzionale per il trattamento della CI-AKI che sfrutta l’incremento del metabolismo del glucosio nel rene e la riduzione dell’ossidazione degli acidi grassi, con un effetto protettivo sul danno dei radicali liberi renali e sul danno da ischemia-riperfusione [73]. Tuttavia, a causa dell’esiguità campionaria degli studi presenti in letteratura, è ancora necessario condurre trial clinici multicentrici, randomizzati e in doppio cieco per confermare il ruolo svolto dalla trimetazina nella prevenzione della CI-AKI.

– Antagonisti del recettore dell’adenosina

Sul piano della prevenzione della CI-AKI, recentemente hanno trovato spazio i vasodilatatori, come gli antagonisti del recettore dell’adenosina [74], il sarpogrelato [75], la dimetilarginina asimmetrica e l’amlodipina, in quanto possono ridurre l’ischemia midollare renale indotta da mezzo di contrasto mitigando la vasocostrizione renale. Altro vasodilatatore descritto in letteratura nella prevenzione della CI-AKI è il Nicorandil [76].

– Statine

Un discorso a sé stante meritano le statine che, oltre al noto potere ipolipemizzante, possiedono effetti antinfiammatori interferendo con la produzione di ossigeno attivo ed eliminando i radicali liberi. Inoltre, sono in grado di attivare le cellule progenitrici endoteliali per proteggere i vasi sanguigni [77].

La rosuvastatina e l’atorvastatina sembrano ridurre l’incidenza di PC-AKI e possedere un analogo potere protettivo [78] se somministrate ad alte dosi (rosuvastatina 40 mg, atorvastatina 80 mg) [79].

Per quanto non sia possibile trovare un consenso unanime tra gli autori, nel complesso la letteratura supporta gli effetti pleiotropici benefici dell’uso di statine sulla PC-AKI, per quanto, comunque si rendano necessari ulteriori studi clinici randomizzati per confermarne l’utilità clinica [80].

– Altro

Altre molecole hanno raggiunto la dignità della pubblicazione, sebbene non abbiano mai trovato applicazione nella pratica clinica e i risultati prodotti non siano concordi. Tra queste gli agonisti del recettore dell’adiponectina (AdipoRon) [81], la pentossifillina [82], l’antitrombina III [83], l’inibitore della C1-esterasi umana ricombinante [84], il tolvaptan [85], il Terz-butil-idrochinone [86], la quercetina [87], il probucol [88], l’allopurinolo [89], la prostaglandina E1 [90], le erbe medicinali cinesi [91], la silimarina (silibina, silicristina, silidianina), principio attivo del Silimarin, estratto dalla pianta officinale Sylibum Marianum [92], il timochinone [93], la ligustrazina [94], la curcuma [95], il resveratrolo [96], gli omega 3 [97] e per ultimo l’agonista del glucagon-like peptide receptor Exentina-4 [98], una molecola simile alle incretine che si trova nel veleno del Mostro di Gila, uno strano sauro dalla coda tozza del nord America.

Da ultimo, il campo della prevenzione del danno da mezzo di contrasto subisce il fenomeno del Precondizionamento Ischemico Remoto, o Remote Ischemic PreConditioning (RIPC), riconosciuto in diversi trial come alternativa alla terapia standard in termini di miglioramento dei livelli di creatinina sierica dopo somministrazione del mezzo di contrasto in pazienti a rischio. Il fascino discreto del fenomeno RIPC, come strumento di prevenzione della CI-AKI, risiede nella possibilità di istruire a livello molecolare l’organismo, sottoponendolo, mediante brevi cicli d’ischemia/riperfusione, a stress e danno sub-letale, in modo da ottenere protezione qualora sopraggiungessero stimoli potenzialmente letali tramite l’induzione di un fenotipo stress-resistente [99].

– Ruolo della dialisi

Frequentemente accade che il nefrologo venga consultato non solo per la stratificazione del rischio di CIN e per consulto sulle strategie preventive, ma anche per concordare sedute emodialitiche supplementari o non programmate per pazienti sottoposti a procedura con mezzo di contrasto. In realtà, non esiste nessuna evidenza di migliori outcome nei pazienti sottoposti a seduta emodialitica post-contrastografica e questa pratica è scoraggiata da ultime linee guida ESUR [4].

 

Discussione

La letteratura, come è possibile documentare con il corposo numero di articoli portati in discussione in questo paper, è ricca di lavori scientifici dedicati al danno renale da mezzo di contrasto.  In nome della PC-AKI e del CI-AKI sono state investite incalcolabili risorse umane e finanziarie, volte sia allo studio di una eterogenea pletora di sostanze finalizzate alla prevenzione, sia alla gestione delle conseguenze collaterali relative ai pazienti cui viene negata la procedura diagnostica o terapeutica con mezzo di contrasto. La stima del rischio di nefropatia da mezzo di contrasto può essere sopravvalutata in letteratura e sopravvalutato dai medici. Stime più accurate del rischio di AKI che tengano conto delle comorbidità possono migliorare il processo decisionale clinico quando si tenta di bilanciare i potenziali benefici dell’imaging con mezzo di contrasto ed il rischio di AKI. Un’accurata raccolta anamnestica (CKD, AKI pregresse, diabete, scompenso cardiaco, ipovolemia, infarto miocardico, anemia, chirurgia renale, ablazione renale, albuminuria, terapie farmacologiche concomitanti, chemioterapia) rappresenta uno strumento efficace nella stratificazione del rischio [100]. Un aiuto nella stratificazione del rischio è rappresentato dal Mehran Score System (Figura 4), in grado di fornire una predizione in termini percentuali dell’insorgenza di PC-AKI, sulla base delle comorbidità, dell’età del paziente e del volume di mezzo di contrasto da somministrare nel contesto di coronarografie [8], tenendo conto che se per le TC con contrasto si impiegano in media  tra 70 e 110 ml di mezzo di contrasto su un uomo di 70 kg (i volumi sono comunque suggeriti dalle case produttrici), per le coronarografie non esistono veri e propri protocolli standardizzati e l’infusione di mezzo di contrasto, di solito empiricamente stimata intorno a 30 ml, dipende molto dal caso specifico e dalle necessità particolari dell’operatore.

Figura 4. Algoritmo per l’identificazione del rischio di PC-AKI secondo Mehran.
Figura 4. Algoritmo per l’identificazione del rischio di PC-AKI secondo Mehran.

I pazienti con AKI o eGFR inferiori a 30 ml/min/1,73 m2, compresi i pazienti sottoposti a trattamento emodialitico, rappresentano senza dubbio il vivaio di utenti maggiormente temuti al momento della somministrazione del mezzo di contrasto. Le linee guida ACR [32], ESUR [4] e i documenti intersocietari SIRM-SIN-AIOM [22] sottolineano come i valori di creatininemia, presi singolarmente, non rappresentino un buon indice della funzione renale del paziente; i suoi valori tendono ad aumentare in maniera significativa solo quando il GFR è ridotto di almeno il 50%. Nello screening dei pazienti a rischio è utile, pertanto, misurare la funzione renale mediante formula MDRD o con formula CKD-EPI, come suggerito dalle linee guida ESUR. In accordo con la Consensus Statements from the American College of Radiology and the National Kidney Foundation, si ritiene che l’insufficienza renale cronica sia il principale fattore di rischio nel paziente oncologico, ma solo per un eGFR <30 ml/minuto/1,73 m2 misurata con la formula di Cockroft-Gault. Per tali categorie di pazienti la pratica clinica si costella di fratricide guerre inter-specialistiche alla caotica ricerca di una comune good practice che, per quanto molto ben definite dalle linee guida ACR, ESUR e dai documenti intersocietari definiti da SIRM-SIN-AIOM [4, 22, 31], spesso è confusa, verosimilmente per antichi retaggi e falsi miti incentrati sulla salvaguardia della funzione renale residua ma che possono esitare nell’aggravamento della condizione clinica del paziente, differendo la diagnosi e ritardando le possibilità di intervento terapeutico. È necessario un appropriato utilizzo del contrasto per ottenere un’accuratezza diagnostica accettabile. Omettere il contrasto quando è indicato, al pari di somministrarlo quando non lo è, può portare a errori diagnostici e terapeutici, morbilità e costi inutili. Sui potenziali effetti del contrasto nei confronti del rene, il paziente ovviamente deve essere debitamente informato. Il consenso informato, teso alla crescita e alla consolidazione dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, rappresenta uno strumento utilissimo al medico e trova il suo fondamento nelle norme costituzionali, e più in particolare negli artt. 2-13 e 32. Più in particolare, l’art. 2 sottolinea che «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo…» e l’art. 32 «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». L’art. 32 (Acquisizione del consenso) dispone poi che il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente. Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca e formale della volontà della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all’art. 30. La radiologia contrastografica e/o interventistica, superando i limiti di un rischio sostanzialmente indeterminato, richiedono un consenso espresso in maniera esplicita dopo adeguata informazione. Appare opportuno che il consenso sia richiesto dal medico che ha la responsabilità della cura del paziente, sul quale medico ricade anche il dovere dell’informazione. Il radiologo dovrà comunque accertarsi che ciò sia avvenuto, integrando l’informazione con i dati specifici di sua esclusiva competenza [101]. In virtù di ciò, i pazienti con insufficienza renale cronica presentano una controindicazione relativa e non assoluta [31, 32] alla somministrazione dei mezzi di contrasto iodati. Se la somministrazione di mezzi di contrasto è necessaria per una diagnosi pericolosa per la vita, non dovrebbe essere rimandata sulla base della sola funzionalità renale. Se la somministrazione di mezzi di contrasto iodati per via endovenosa è clinicamente indicata, il suo utilizzo deve essere consigliato, informando il paziente dei potenziali rischi e benefici, nonché di strategie di imaging alternative [31, 32], provvedendo a intraprendere le strategie preventive riconosciute valide dalle linee guida. Il cardine della terapia preventiva è rappresentato dall’idratazione/espansione di volume. L’idratazione consente infatti di promuovere l’aumento del volume circolante agendo in maniera protettiva nei confronti della vasocostrizione renale indotta al mezzo di contrasto e, inoltre, l’aumento del volume urinario fa sì di ridurre la tossicità diretta sulle cellule tubulari renali. Ciò significa: per i pazienti sottoposti alla somministrazione endovenosa o intra-arteriosa con secondo passaggio renale con eGFR < 30 ml/min/1,73m2, l’infusione di sodio bicarbonato 1,4% a 3 ml/kg/ora per 1 h prima della somministrazione o l’infusione di soluzione fisiologica ad 1 ml/kg/h per le 3-4 h prima e le 4-6 h dopo la somministrazione del contrasto; per i pazienti sottoposti alla somministrazione endoarteriosa con primo passaggio renale e eGFR < 45 ml/min/1,73 m2, l’idratazione endovenosa con sodio bicarbonato 1,4% a 3 ml/kg nell’ora prima della somministrazione, mantenuta a 1 ml/kg/ora per 4-6 h dopo, o con 1 ml/kg di soluzione fisiologica per 3-4 h prima e per le successive 4-6 ore [21, 32]. I pazienti con un solo rene normale o parzialmente funzionante (agenesia renale, nefrectomia, trapianto) devono essere gestiti in modo simile ai pazienti con volume renale normale ed il rischio clinico deve essere determinato sulla base della funzione renale complessiva (eGFR) e delle circostanze cliniche. La presenza di un rene solitario funzionante non dovrebbe influenzare il processo decisionale relativo al rischio di PC-AKI o CI-AKI [5].

Inoltre, sebbene i dati correlati colleghino dosi più elevate di mezzi di contrasto a un rischio maggiore di PC-AKI o CI-AKI dopo somministrazione intra-arteriosa, non esistono dati analoghi che implichino una tossicità dose-range per la somministrazione endovenosa all’interno dell’intervallo delle dosi somministrate clinicamente [5]. Di conseguenza, anche se i mezzi di contrasto iodati vengono somministrati per studiare un paziente a rischio, deve essere utilizzata la dose diagnostica convenzionale (cioè, il volume tipicamente utilizzato per una singola dose diagnostica). Dovrebbero essere evitate riduzioni ad hoc della dose dei mezzi di contrasto come sforzo per mitigare il rischio di danno, poiché questa pratica può produrre uno studio non ottimale o non diagnostico. Se è stato dimostrato che dosi più basse di mezzi di contrasto sono sufficientemente diagnostiche con protocolli specifici, le pratiche dovrebbero considerare la possibilità di ridurre le dosi in tutti i pazienti sottoposti a imaging con tali protocolli, non solo nei pazienti con funzionalità renale ridotta [102].

Le linee guida ESUR, ACR e le linee guida SIAARTI (mutuate dal lavoro di Ronco et al.) [103] convergono nello stabilire che a causa della dimostrata mancanza di benefici e del rapporto rischi/costi, se sembra riconosciuto un possibile ruolo protettivo delle tecniche convettive continue, soprattutto se combinate con altre strategie preventive, il trattamento emodialitico intermittente ‒ profilattico o preventivo ‒ volto all’eliminazione del mezzo di contrasto per la prevenzione del CI-AKI nel paziente con insufficienza renale cronica IV o V stadio secondo K/DOQI, sono di bassa qualità e di incerto significato [5, 21, 31, 32, 103] e di fatto controindicate. Nei pazienti sottoposti a terapia emodialitica sostitutiva, la somministrazione di mezzo di contrasto iodato, potrebbe determinare un peggioramento della funzione renale con conseguente perdita della diuresi residua. Sebbene le linee guida ESUR non raccomandino di eseguire un’ulteriore seduta emodialitica per rimuovere il mezzo di contrasto, i pazienti sottoposti a dialisi peritoneale o a emodialisi che possono essere considerati non anurici corrono il rischio di perdere la funzione renale residua a seguito di esposizione nefrotossica con implicazioni negative sulla qualità della vita e sulla sopravvivenza globale. Pertanto, per tali pazienti vigono le stesse considerazioni espresse per i pazienti con AKI o eGFR inferiore a 30 ml/min/1,73 m2 non sottoposti a dialisi. Se la perdita della funzionalità renale residua è considerata clinicamente importante, è necessario considerare i rischi, i benefici e le alternative, e la necessità della procedura può richiedere una discussione tra il nefrologo e il radiologo [5].

 

Approccio pratico

Spesso la richiesta di consulenza nefrologica accompagna la richiesta di esame con mezzo di contrasto. Di fatto, lo specialista in nefrologia non possiede le skill per potere discernere tutti i casi per i quali si rende assolutamente necessario un esame contrastografico o per i quali è possibile optare per una metodica alternativa. In tali casi, quando il nefrologo viene consultato, è ragionevole discutere il caso con il medico prescrittore e con lo specialista radiologo, al fine di valutare l’efficacia diagnostica di metodiche parimenti valide con minore impatto sulla funzione renale.

Il coinvolgimento del nefrologo dovrebbe verificarsi nei casi in cui l’esame può essere differito; in condizioni d’urgenza non è possibile ipotizzare una strategia preventiva che necessita di tempo per potere essere praticata.

Qualora si dovesse rendere necessario un esame o una procedura quoad vitam, quoad valetudinem che preveda l’utilizzo mezzo di contrasto, il nostro approccio inizia dalla verifica della somministrabilità del contrasto (assenza di allergia), dal calcolo del filtrato secondo CKD-EPI e dalla valutazione delle comorbidità. In tal senso, sebbene tale score sia stato validato per la predizione dell’AKI post percutaneous coronary intervention (PCI), schematizza in maniera pratica ed immediata le principali concause in grado di peggiorare il rischio di CI-AKI.

Come secondo step, al paziente va rappresentato che l’infusione di contrasto potrebbe non portare alcun danneggiamento alla funzione renale, così come potrebbe esitare verso il peggioramento della funzione renale da modesto a severo fino al trattamento emodialitico. Pertanto, prima di procedere all’esame, il paziente va reso edotto del rischio potenziale di danno renale moderato o grave e del rischio che tale danno esiti verso il trattamento sostitutivo della funzione renale (emodialisi), così come dei rischi connessi ad una eventuale mancata diagnosi.

Nei casi in cui sia ritenuto possibile  (esame differibile, compliance cardiaca permissiva) il nostro approccio prevede per prima cosa di stimare l’eGFR del paziente e praticare l’idratazione secondo il seguente schema: se eGFR < 45 ml/min/1,73 m2, si procede con l’idratazione endovenosa con sodio bicarbonato 1,4% a 3 ml/kg nell’ora prima della somministrazione, mantenuta a 1 ml/kg/ora per 4-6 h dopo, o con 1 ml/kg di soluzione fisiologica per 3-4 h prima e per le successive 4-6 ore; se eGFR < 30 ml/min/1,73m2 si pratica l’infusione di sodio bicarbonato 1,4% a 3 ml/kg/ora per 1 h prima della somministrazione o l’infusione di soluzione fisiologica ad 1 ml/kg/h per le 3-4 h prima e le 4-6 h dopo la somministrazione del contrasto.

Ove possibile, va discusso con il radiologo la necessità di utilizzare la minore concentrazione possibile di mezzo di contrasto.

Nelle more di eseguire l’esame con contrasto si consiglia di evitare farmaci nefrotossici (FANS, antibiotici aminoglicosidi), ACE-i, ARB, metformina (Figura 5).

Figura 5. Algoritmo per l’approccio al paziente nefropatico da sottoporre a procedura/indagine con mezzo di contrasto.
Figura 5. Algoritmo per l’approccio al paziente nefropatico da sottoporre a procedura/indagine con mezzo di contrasto.

 

 

Conclusioni

Per decenni, l’osservazione di un declino della funzione renale dopo una procedura intra-arteriosa, trascurando l’impatto della malattia ateroembolica renale (AERD), ha rafforzato la convinzione che il contrasto iodato ne fosse il principale colpevole. Questa convinzione si è estesa anche al mezzo di contrasto iodato endovenoso, anch’esso ritenuto indubbiamente nefrotossico. La storica sovrapposizione nelle definizioni di CI-AKI e PC-AKI ha ragionevolmente contribuito a creare confusione e modus operandi non di univoco consenso (se non deleteri) per alcune categorie di pazienti, quali i nefropatici, che spesso rischiano il ritardo nelle diagnosi o di perdere le procedure endovascolari necessarie. Malgrado il notevole sforzo della letteratura, ricca di produzione scientifica in continuo aggiornamento, appare ancora oggi ragionevole la scelta di non alleggerire gli sforzi volti alla salute preventiva dei reni, soprattutto quando ritenuti vulnerabili, sfruttando il comune buon senso e facendo sì che il mezzo di contrasto non venga somministrato qualora non ci si aspetti alcun beneficio e l’imaging non potenziato risultasse già sufficientemente informativo, garantendo altresì, nei casi in cui esso rappresenti una necessità quod vitam, quod valitudinem, una corretta volemia, evitando la contemporanea somministrazione di farmaci nefrotossici quando è prevista una procedura con mezzo di contrasto.

 

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An Integrated Multidisciplinary Approach to the Care of Renal Cancer Patients Undergoing Nephrectomy

Abstract

Kidney cancer is one of the most common cancers globally, ranking 9th and 14th among men and women, respectively. Advances in diagnostic techniques have enabled earlier and potentially less invasive interventions, however, this progress poses a challenge in managing low-malignancy tumors that were previously undiagnosed. To navigate treatment pathways, a deep understanding of the bidirectional relationship between Chronic Kidney Disease (CKD) and Renal Cell Carcinoma (RCC) is essential, influenced by risk factors such as hypertension and obesity.
The debate between partial (PN) and radical nephrectomy (RN) continues to be fueled by a rich body of studies in the last two decades, aiming to determine the precise benefits of renal function preservation and overall survival. However, long-term monitoring remains inadequate. There is an urgent need for heightened clinical vigilance, urging meticulous periodic evaluations that include both eGFR and the urinary albumin-creatinine ratio, to identify potential deteriorations early.
Furthermore, non-neoplastic renal parenchyma requires equal attention, often overshadowed by the assessment of tumor mass. A nuanced analysis is necessary to identify a range of nephropathies that guide more effective therapeutic strategies. A collaborative strategy that brings nephrologists, urologists, nuclear radiologists, oncologists, and pathologists together on a unified platform, focusing on a personalized medicine approach grounded on a profound analysis of individual risk factors, is pivotal in shaping the future of management and prevention strategies.
This approach ensures a detailed therapeutic outlook and facilitates early interventions, marrying vigilance with interdisciplinary cooperation, thereby guarding against late diagnoses and offering patients a robust shield in their battle against kidney afflictions.

Keywords: renal cancer, acute kidney injury, acute kidney disease, chronic kidney disease, nephrectomy, partial nephrectomy, chemotherapy, targeted anticancer agents

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Introduzione

Il tumore del rene rappresenta a livello globale rispettivamente la nona e la quattordicesima causa principale di cancro tra gli uomini e le donne [1]. Le stime relative all’Italia indicano che sono stati diagnosticati 12.900 nuovi casi, con una predominanza significativa nel sesso maschile, mantenendo un rapporto di circa 2:1 rispetto al sesso femminile [2]. Analogamente, il numero di decessi registrati nel 2016 mantiene questa disparità di genere, attestandosi a 3.717. L’analisi dei tassi di sopravvivenza evidenzia che il 71% dei pazienti sopravvive oltre 5 anni dalla diagnosi, una percentuale che si riduce leggermente, al 66%, quando si considera un arco temporale di 10 anni [2, 3]. Questi dati, seppur indicativi di una situazione non facile, mostrano anche segni di speranza e di efficacia nelle strategie di trattamento adottate.

Appare incoraggiante l’aumento nel numero di sopravvissuti al cancro renale, passando da 129.200 nel 2018 a circa 144.400 [3]. Questo incremento, seppur positivo poiché indica un miglioramento nella gestione e nel trattamento della malattia, porta con sé anche la necessità di un focus aumentato sul follow-up a lungo termine e sulla gestione delle complicazioni post-trattamento e delle comorbilità.

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un marcato incremento delle diagnosi di neoplasie in vari organi, un trend che ha colpito specialmente i paesi sviluppati. Questo aumento può essere attribuito a diversi fattori, tra cui l’innovazione tecnologica nel campo diagnostico, una maggiore consapevolezza dei problemi legati alla salute e un accesso facilitato alle cure mediche. Parallelamente a questo, si è osservato il fenomeno della “stage migration” che si riferisce al cambiamento nel profilo dello stadio di diagnosi dovuto, ad esempio, all’introduzione di tecniche diagnostiche più avanzate che consentono la rilevazione di tumori in una fase più precoce e spesso meno avanzata spesso prima dell’insorgenza dei sintomi [4, 5]. Questa evoluzione verso una diagnosi precoce, benché permetta interventi terapeutici tempestivi e spesso meno invasivi, pone anche una serie di sfide, tra cui la gestione di tumori a basso potenziale maligno, che in passato sarebbero potuti rimanere non diagnosticati per tutta la vita del paziente. Il fenomeno della “stage migration” pertanto, se da una parte rappresenta un’opportunità, aprendo la porta a trattamenti potenzialmente meno aggressivi e a un più alto tasso di successo terapeutico, dall’altra pone interrogativi significativi sulla necessità di trattamento in determinate circostanze, alimentando il dibattito sull’opportunità della “vigilanza attiva” come approccio alternativo in casi selezionati [5].

In questo scenario, diventa pertanto fondamentale procedere con un’analisi attenta e ponderata, capace di distinguere tra i casi in cui un intervento precoce può effettivamente fare la differenza in termini di outcome e quelli in cui una strategia più conservativa potrebbe essere più appropriata. Appare inoltre fondamentale considerare che la possibilità di trattare, spesso in maniera risolutiva i pazienti affetti da eteroplasie renali, pone il clinico nella condizione di dover gestire le complicanze a breve e lungo termine del paziente nefrectomizzato.

 

Relazione tra malattia renale cronica e carcinoma renale

Esiste una correlazione bidirezionale tra la Malattia Renale Cronica (CKD) e il Carcinoma a Cellule Renali (RCC). Dati recenti indicano che il 26% dei pazienti affetti da cancro al rene aveva già sviluppato CKD prima dell’intervento di nefrectomia [6].

Alcuni fattori di rischio, quali ipertensione, diabete, fumo e obesità, si presentano come elementi indipendenti predisponenti sia allo sviluppo della CKD che del RCC [6, 7], delineando un quadro di reciproca incidenza e influenza tra le due condizioni patologiche.

Dopo interventi chirurgici, come la nefrectomia, si è registrato che il 39% dei pazienti presentava un tasso di filtrazione glomerulare (GFR) stimato inferiore a 60 ml/min [7], un dato che sottolinea una diretta correlazione tra la procedura chirurgica e una diminuzione della funzione renale. Inoltre, studi recenti hanno evidenziato come, in casi di CKD avanzata, il rischio di cancro sembra essere specifico per determinati siti [8]. Da una ricerca retrospettiva su una vasta coorte di individui adulti negli USA, è emerso che un eGFR ridotto (inferiore a 30 ml/min) era associato a un incremento del rischio di cancro renale e dell’urotelio, mentre non venivano riscontrate associazioni significative tra eGFR e cancro alla prostata, al seno, al polmone, al colon-retto, o altre forme di cancro in generale [9]. Questa osservazione apre la strada a ulteriori indagini, poiché emerge che il rischio di sviluppare un cancro al rene aumenta con la diminuzione della funzione renale, delineando un ciclo in cui CKD e RCC si influenzano reciprocamente in una spirale di deterioramento della salute del paziente.

Nel contesto della CKD, il diabete di tipo 2 emerge come un fattore di rischio significativo, essendo associato ad una maggiore incidenza di tumori in diversi organi, compreso il rene. Questa correlazione potrebbe essere influenzata da una serie di meccanismi, inclusa l’iperinsulinemia, che funge da fattore di crescita, la resistenza all’insulina e le citochine infiammatorie correlate all’obesità [10].

Comprendere in modo approfondito i meccanismi biologici sottostanti non solo potrebbe gettare nuova luce sulle intricate dinamiche che legano CKD e RCC, ma potrebbe aprire nuove strade per il trattamento e persino la prevenzione del carcinoma renale. La medicina personalizzata, basata sull’analisi approfondita dei fattori di rischio individuali, potrebbe rappresentare il futuro nella gestione delle malattie renali croniche e nella prevenzione del carcinoma a cellule renali.

 

La gestione pre-operatoria

Prima di procedere con interventi chirurgici o terapie ablative, è fondamentale identificare i pazienti ad alto rischio di sviluppare CKD e eventi cardiovascolari. Uno screening attento può essere effettuato stimando il tasso di GFR e misurando l’albuminuria, seguendo le indicazioni previste dagli standard globali per la classificazione della CKD.

L’attenzione del clinico in questa fase è focalizzata all’ottimizzazione preoperatoria del controllo glicemico e della pressione sanguigna, soprattutto per i pazienti già affetti da CKD, al fine di limitare il declino della funzione renale dopo la riduzione del parenchima a seguito dell’intervento. Una strategia efficace di prevenzione comprende inoltre l’evitare l’esposizione a nefrotossici e condizioni di ipoperfusione renale, fattori che potrebbero aumentare il rischio di perdita di GFR dopo l’intervento.

Un’attenta misurazione della funzione renale differenziale, comunemente effettuata attraverso scintigrafie nucleari, può aiutare a prevedere un possibile declino del GFR in seguito a una nefrectomia, sebbene tenda a sottovalutare il GFR nel rene preservato pre-nefrectomia. Dopo l’intervento, il GFR differenziale post-operatorio tende a riflettere più accuratamente i danni renali intraoperatori legati all’ischemia e alle dimensioni del tumore asportato.

Il quadro epidemiologico attuale evidenzia una prevalenza elevata di CKD tra i pazienti affetti da small renal masses (SRMs), variabile tra il 10% e il 52% [11]. Tale dato potrebbe essere spiegato dalla presenza di fattori di rischio comuni, quali età avanzata, sesso maschile, l’abitudine al fumo, diabete mellito e ipertensione. Non a caso, si è notata una presenza significativamente maggiore di diabete e ipertensione non solo in pazienti con pregressa CKD, ma anche in quelli con RCC, rispetto a controlli appaiati senza cancro.

A seguito della resezione chirurgica, la prevalenza di CKD aumenta, variando da un minimo del 10-24% a un massimo del 16-52% [12-14]. I fattori di rischio post-operatori per una nuova diagnosi o una progressione della CKD includono, oltre a quelli già citati, anche l’obesità [15], una riduzione del GFR [16], una maggiore dimensione del tumore e una corrispondente riduzione del volume renale [16], ipoalbuminemia [17] e danno renale acuto (AKI) post-operatorio [18].

Inoltre, l’albuminuria è associata alla presenza di tumori, e può rappresentare un fenomeno paraneoplastico, preludio di una prognosi sfavorevole, specialmente in presenza di tumori di grado o stadio avanzato [17].

Pertanto, i pazienti con RCC e fattori di rischio sottostanti per lo sviluppo di CKD post-operatoria dovrebbero beneficiare di un consulto nefrologico prima della nefrectomia, al fine di prevenire possibili complicanze e garantire un approccio terapeutico mirato e individualizzato.

 

La stima della perdita della funzione renale

Allo stato attuale, è fondamentale affrontare la crescente necessità di modelli predittivi efficaci che possano informare le decisioni riguardanti il trattamento dei pazienti con masse renali localizzate, in particolare nel contesto della scelta tra nefrectomia radicale (RN) e nefrectomia parziale (PN).

Studi recenti hanno sottolineato l’importanza di identificare i pazienti ad alto rischio di sviluppare CKD e AKI post-operatorie. In uno studio condotto dal nostro gruppo su 144 pazienti sottoposti a RN è stata riscontrata una significativa incidenza di AKI, pari al 64%. Le analisi hanno evidenziato che un più alto valore di eGFR basale e una minore presenza di restringimenti arteriosi pre-operatori erano associati a un maggiore rischio di AKI e a un declino dell’eGFR al follow-up di un anno [19].

Un altro studio ha cercato di sviluppare un modello predittivo per quantificare il rischio di declino dell’eGFR a ≤45 mL/min/1,73 m² dopo RN. Tra i 668 pazienti soddisfacenti i criteri di inclusione, 183 hanno sperimentato un tale declino. Il modello predittivo risultante, basato su variabili come età, sesso e livello di creatinina preoperatorio, ha dimostrato un significativo beneficio clinico nella facilitazione della decisione tra RN e PN, suggerendo che i pazienti con un rischio maggiore di riduzione dell’eGFR post-operatorio potrebbero beneficiare maggiormente della preservazione del nefrone [20].

Entrambi gli studi condividono una focalizzazione su misure pre-operatorie dettagliate, inclusa l’analisi istologica del tessuto renale sano e l’estimazione dell’eGFR, per informare le decisioni di trattamento. L’integrazione di questi dati in uno strumento quantitativo per identificare i pazienti a rischio di declino dell’eGFR post-operatorio potrebbe facilitare decisioni più informate nel contesto clinico.

Quindi, la combinazione di un’analisi istologica dettagliata e l’uso di un nomogramma predittivo che integra diversi fattori di rischio potrebbero rappresentare passi significativi verso un approccio più personalizzato e mirato nel trattamento dei tumori renali.

Al fine di mitigare i rischi e preservare la funzione renale, è essenziale considerare non solo gli obiettivi oncologici, ma anche le implicazioni a lungo termine di tali interventi sulla funzione renale dei pazienti.

 

La scelta della tecnica operatoria: nefrectomia parziale o nefrectomia radicale

La letteratura scientifica che indaga la funzione renale dopo l’intervento di nefrectomia è molto estesa e vanta oltre 300 studi pubblicati negli ultimi 2 decenni, principalmente focalizzati sulle conseguenze della nefrectomia sulla funzione renale a breve e lungo termine [21]. Nonostante ciò, una percentuale minima di questi ha condotto un monitoraggio dei pazienti per un periodo significativamente lungo; infatti, meno del 5% ha superato la media di cinque anni, e meno del 2% quella di 7,5 anni [21]. Un tema dominante in questi lavori è il confronto tra i benefici derivati dalla PN rispetto alla RN, sia per quanto riguarda la funzione renale post-operatoria che la sopravvivenza complessiva [22].

Se da una parte è riconosciuto che la PN permette una migliore conservazione della massa nefronica, risultando in una più alta funzione renale post-operatoria in media, dall’altra permangono dubbi riguardanti i benefici effettivi in termini di sopravvivenza. Nonostante diversi studi osservazionali ben strutturati abbiano evidenziato vantaggi in termini di sopravvivenza derivanti dalla PN rispetto a RN [21], altri, compreso lo studio clinico randomizzato condotto dall’European Organisation for Research and Treatment of Cancer Genito-Urinary Group (EORTC-GU), non hanno confermato questa affermazione [23]. Questa discrepanza ha alimentato un dibattito continuo sulla reale rilevanza clinica della riduzione della funzione renale indotta dalla nefrectomia derivante da cause mediche. L’analisi recente sullo sviluppo del CKD in seguito a nefrectomia evidenzia quindi un panorama clinico complesso e sfaccettato. A fronte della riduzione chirurgica della massa nefronica, anche individui in buona salute manifestano un rischio accresciuto di CKD progressiva, ESKD e una mortalità generale e cardiovascolare più alta. Le linee guida attuali, che identificano gli stadi del CKD sulla base di un eGFR <60 mL/min per 1,73 m², potrebbero non riflettere pienamente la gamma di rischi clinici presenti in questa popolazione. Nonostante non tutti gli individui con un eGFR inferiore a 60 sviluppino un CKD progressivo post-nefrectomia, emerge chiaramente una correlazione con un rischio maggiore di mortalità, paragonabile a quello dei pazienti con CKD di qualsiasi altra eziologia [24]. La fluttuazione degli indici di eGFR, a volte in modo altalenante o con remissioni, rende la diagnosi e il monitoraggio una sfida ancora maggiore.

È essenziale, dunque, che in ambiente clinico si mantenga un elevato grado di vigilanza: il paziente con un eGFR che oscilla intorno al valore soglia dovrebbe essere sottoposto a controlli periodici, che comprendano non solo la misurazione dell’eGFR, ma anche del rapporto albumina-creatinina urinario. In questo modo, eventuali deterioramenti possono essere prontamente identificati e affrontati, evitando ritardi nel riferimento a un nefrologo. Un approccio simile potrebbe non solo garantire un monitoraggio più attento, ma anche fornire una base più solida per affrontare il dibattito in corso sulla rilevanza clinica del CKD post-nefrectomia rispetto ad altre cause di CKD.

 

L’analisi del parenchima non neoplastico

L’attenzione nella valutazione patologica delle nefrectomie tumorali è stata storicamente centrata sulla massa renale. Tuttavia, ricerche recenti hanno messo in luce l’elevata incidenza di malattie renali non neoplastiche presenti nei reni affetti. Tra queste, la nefropatia diabetica è la più frequente, seguita da altre condizioni come la glomerulosclerosi focale segmentaria (FSGS) e la nefroangiosclerosi ipertensiva, oltre a una vasta gamma di altre nefropatie [25]. Nonostante l’importanza di queste scoperte, nel 60% dei casi queste importanti informazioni sono state trascurate nella prima lettura della biopsia [26], un aspetto che sottolinea l’urgenza di un approccio più oculato e dettagliato nella valutazione dei campioni bioptici.

Attualmente, negli Stati Uniti, vi sono più di 300.000 sopravvissuti al cancro del rene, e si stima che il 15% di questi, pari a circa 45.000 pazienti, abbia delle malattie renali mediche sottostanti, diagnosticabili solo tramite un’accurata analisi patologica [27].

In risposta a questo, dal 2010, il College of American Pathologists ha richiesto l’esame del parenchima renale non neoplastico nella relazione sinottica del cancro del rene [25]. Tuttavia, il cammino verso la piena adesione a questa normativa è ancora lungo, con una percentuale significativa di patologi che non seguono ancora tale indicazione, come evidenziato da recenti studi e sondaggi condotti in Europa.

La necessità di un intervento correttivo è ancora più accentuata considerando che una diagnosi accurata del parenchima non neoplastico non solo potrebbe portare all’identificazione di pazienti affetti da malattie glomerulari, tubulo-interstiziali o vascolari che richiedono una gestione medica addizionale, ma potrebbe anche evitare complicanze future, facilitando l’adozione di strategie terapeutiche più efficaci.

In questo quadro, è di fondamentale importanza che urologi e nefrologi collaborino attivamente con i patologi, insistendo per una revisione specifica e approfondita del parenchima non neoplastico, specialmente in presenza di pazienti con RCC che presentano diabete, ipertensione o proteinuria.

Lo sviluppo di una sinergia tra i diversi specialisti rappresenta non soltanto un argine nel limitare le diagnosi incomplete, ma anche un sostegno concreto per i pazienti, fornendo loro un quadro clinico più dettagliato e una prospettiva terapeutica più affidabile, riducendo inoltre il rischio di diagnosi tardive di patologie renali post-operatorie, data la frequenza non trascurabile di malattie renali sottostanti non diagnosticate.

 

Possibile sequenza di interventi nella gestione del paziente nefrectomizzato

Da quanto descritto nei paragrafi precedenti emerge la presenza di un gran numero di specialisti, coinvolti nel processo di cura del paziente nefrectomizzato. Tale processo, sintetizzato nella Figura 1, consta di una parte pre-operatoria che inizia al momento della diagnosi di una massa renale potenzialmente trattabile chirurgicamente. Il ruolo del nefrologo in questo contesto è finalizzato ad effettuare una prima valutazione della funzione renale al fine di ottimizzare l’impatto dei fattori di rischio clinici e terapeutici che possono contribuire alla progressione del danno e ipotizzare il decadimento della funzione renale a seguito dell’intervento. Per ottenere questo secondo obiettivo è importante l’interfaccia con i colleghi urologi che eseguiranno l’intervento e i medici nucleari grazie ai quali è possibile avere delle informazioni più precise in merito al contributo del singolo rene al raggiungimento della funzione renale complessiva. A seguito di questa collegialità sarà possibile pianificare la migliore strategia di intervento in un paziente adeguatamente preparato affinché possa risentire il meno possibile la perdita del parenchima.

Nell’immediato post-operatorio, la presenza di uno specialista nefrologo con competenza nella gestione dell’AKI o della malattia renale acuta (AKD) offre sicuramente un valore aggiunto per effettuare una diagnosi precoce di eventuali riduzioni del filtrato non dipendenti dalla riduzione del parenchima e per mettere in atto una adeguata terapia di supporto in questo contesto clinico. L’anatomopatologo è un altro specialista coinvolto in questo contesto clinico: la valutazione del parenchima renale non neoplastico appare fondamentale per pianificare il proseguo del percorso di cura, indipendentemente dalla severità della patologia oncologica di base. Con l’allontanamento progressivo dal momento dell’intervento chirurgico, assumerà un ruolo sempre maggiore il nefrologo, anche per valutare le conseguenze post intervento a lungo termine e integrare queste conoscenze in un eventuale percorso di cura oncologico.

Figura 1. Rappresentazione grafica dell’intervento multidisciplinare nella gestione pre-, intra- e post-operatoria del paziente nefrectomizzato per neoplasia.
Figura 1. Rappresentazione grafica dell’intervento multidisciplinare nella gestione pre-, intra- e post-operatoria del paziente nefrectomizzato per neoplasia.

 

Conclusioni

Il cancro al rene rimane una patologia non adeguatamente riconosciuta e studiata all’interno della comunità nefrologica. Nonostante sia una malattia frequentemente riscontrata nella pratica nefrologica generale e che la sua incidenza sia in aumento, è fondamentale che i nefrologi in attività possiedano una conoscenza approfondita della sua biologia e dei relativi trattamenti.

Nel corso di questa rassegna, abbiamo cercato di focalizzarci sulla gestione multidisciplinare di questa condizione sempre più frequente. L’evidente correlazione tra RCC e altre malattie renali, specialmente considerando le nefropatie frequentemente associate, sottolinea la necessità di un’attenzione focalizzata sul parenchima non neoplastico durante le valutazioni patologiche.

Guardando al futuro, auspichiamo pertanto una collaborazione più stretta e coordinata tra nefrologi, urologi, medici nucleari, patologi e oncologi, assicurando così una gestione più olistica e centrata sul paziente, dove il focus non sia soltanto sul tumore, ma anche sulle potenziali malattie renali coesistenti, aprendo la strada ad un approccio clinico più completo e arricchente per il benessere del paziente.

 

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Combined extracorporeal CO2 removal and renal replacement therapy in a pregnant patient with COVID-19: a case report

Abstract

Background. Pregnant women are at high risk of Coronavirus disease 2019 (COVID-19) complications, including acute respiratory distress syndrome. Currently, one of the cornerstones in the treatment of this condition is lung-protective ventilation (LPV) with low tidal volumes. However, the occurrence of hypercapnia may limit this ventilatory strategy. So, different extracorporeal CO2 removal (ECCO2R) procedures have been developed. ECCO2R comprises a variety of techniques, including low-flow and high-flow systems, that may be performed with dedicated devices or combined with continuous renal replacement therapy (CRRT).
Case description. Here, we report a unique case of a pregnant patient affected by COVID-19 who required extracorporeal support for multiorgan failure. While on LPV, because of the concomitant hypercapnia and acute kidney injury, the patient was treated with an ECCO2R membrane inserted in series after a hemofilter in a CRRT platform. This combined treatment reducing hypercapnia allowed LPV maintenance at the same time while providing kidney replacement and ensuring maternal and fetal hemodynamic stability. Adverse effects consisted of minor bleeding episodes due to the anticoagulation required to maintain the extracorporeal circuit patency. The patient’s pulmonary and kidney function progressively recovered, permitting the withdrawal of any extracorporeal treatment. At the 25th gestational week, the patient underwent spontaneous premature vaginal delivery because of placental abruption. She gave birth to an 800-gram female baby, who three days later died because of multiorgan failure related to extreme prematurity.
Conclusions. This case supports using ECCO2R-CRRT combined treatment as a suitable approach in the management of complex conditions, such as pregnancy, even in the case of severe COVID-19.

Keywords: pregnancy, COVID-19, lung-protective ventilation, hypercapnia, CO2 removal, acute kidney injury, continuous renal replacement therapy

Introduction

Pulmonary involvement in Coronavirus disease 2019 (COVID-19) is highly heterogeneous, with clinical presentation ranging from asymptomatic forms to acute respiratory distress syndrome (ARDS) [1]. This heterogenicity may be explained by demographic factors, history of comorbidities, distinctive genetic background, and pharmacological treatments [2].

Among the different populations of COVID-19 patients, pregnant women deserve specific attention. Indeed, these patients, due to immunological and cardiorespiratory changes occurring in pregnancy, are at risk of the more severe complications of the disease, including ARDS [3, 4].

Most patients with ARDS require mechanical ventilation (MV), and in some cases also extracorporeal respiratory support (ECLS) [5].

These therapies encompass extracorporeal membrane oxygenation (ECMO) and the extracorporeal carbon dioxide removal system (ECCO2R). Briefly, ECMO takes over the gas exchange function of the lungs ensuring full oxygenation and CO2 removal, while ECCO2R is a CO2 removal system that does not affect oxygenation, and whose principal aim is consenting to lung protection (Table 1).

Extracorporeal life support (ECLS)

    Indications

Main Effects

Extracorporeal Membrane Oxigenation (ECMO)

VA-ECMO

 

VV-ECMO

 

VVA-ECMO*

Cardiac failure

 

Respiratory failure

with severe hypoxemia

 

Cardio-respiratory failure

Hemodynamic support

 

Oxygenation and decarboxylation

 

Hemodynamic and respiratory support

Extracorporeal Carbon dioxide Removal (ECCO2R)

VV-ECCO2R

(low-flow)

 

AV-ECCO2R

(high-flow)

Respiratory failure with severe hypercapnia

Decarboxylation (lung protection)

Table 1: Nomenclature and clinical indications of the extracorporeal life support systems.
Abbreviations: A, arterial; V, venous. *Other techniques of triple cannulation ECMO have also been described (for a full description, see Ref [32]).

Growing evidence suggests that similarly to other forms of ARDS, also in COVID-19 pneumonia lung-protective ventilation (LPV) – defined by low tidal volume (TV) of 4-6 ml/kg of predicted body weight (PBW) and plateau pressure (Pplat) less than 30 cmH2O – could constitute the most appropriate approach to limit ventilator-induced lung injury (VILI) [6, 7]. However, one of the main concerns regarding the use of LPV is the risk of developing hypercapnia, which may limit the clinical application of this strategy [8]. This is why ECCO2R techniques have been developed [9]. They include low-flow or high-flow systems that may be performed with dedicated platforms or, alternatively, combined with continuous renal replacement therapy (CRRT). The suitability of ECCO2R and CRRT (ECCO2R-CRRT) combination, providing simultaneous CO2 removal and kidney support, has been reported in recent studies in patients with sepsis, chronic obstructive pulmonary disease, and ARDS, both in small retrospective and prospective studies [10]. As expected, the clinical experience of ECCO2R-CRRT in patients with COVID-19 is very limited [11], while it is completely absent in pregnant women. So, here we report our experience with a unique case of a pregnant woman with multiorgan failure (MOF), occurring as a sequela of COVID-19 and treated with a combined ECCO2R-CRRT strategy.

 

Case description

In November 2020, a 34-year-old pregnant woman in the 19th week of gestational age, without past medical history, was admitted to the Emergency Department of a peripheral hospital because of dyspnea. The molecular nasal swab resulted positive for SARS-CoV-2 infection, so a diagnosis of COVID-19 was made. At admission, the patient presented dyspnea, with a respiratory rate (RR) of 24 breaths/minute, mean arterial pressure (MAP) was 72 mmHg, heart rate (HR) of 120 beats/minute, and peripheral oxygen saturation (SpO2) 90%. Laboratory examinations showed a white blood cell count (WBC) of 16.9 x 103/μL, anemia (Hb 9.1 g/dl), elevated lactate dehydrogenase (LDH 462 U/L), C-reactive protein (CRP) 203 mg/dl, serum creatinine (sCr) of 0.8 mg/dl and normal electrolytes levels.

She was initially treated with an oxygen mask at FiO2 60%, but after the worsening of the PaO2/FiO2 ratio to 120 mmHg, respiratory support with helmet continuous positive airway pressure (CPAP) at FiO2 100% was started. Three days after, because of further deterioration of respiratory function, the patient was transferred to the ICU, where invasive mechanical pressure-controlled ventilation (PCV) was started. The patient underwent cycles of prolonged prone positioning lasting 16 hours/day. Seven days after ICU admission, a percutaneous tracheostomy was performed.

During the hospitalization, the patient presented septic shock associated with evidence of colonization of the lower respiratory tract with Burkholderia cepacia.

Therefore, after infectious disease consultation, large-spectrum antimicrobial therapy with meropenem, ceftazidime/avibactam, and amphotericin B was initiated. On day 22, due to the clinical complexity of the case, the patient was centralized to our third-level University Hospital. At that time, beyond antimicrobial treatments, the patient was on therapy with corticosteroids, low molecular weight heparin, and norepinephrine (0.25 mcg/kg/min).

The molecular nasal swab for SARS-CoV-2 was negative, while laboratory examinations showed: sCr 1.6 mg/dl, LDH 492 U/L, and CRP 131 mg/dl. MAP was 88 mmHg and PaO2/FiO2 ratio 188 mmHg, in PCV with FiO2 0.6, according to an LPV strategy (TV 4.5 ml/PBW).

A CT scan showed extensive bilateral ground glass opacities associated with thickened interlobular and intralobular septa, without signs of pulmonary embolism.

The gynecological evaluation showed regular placental circulation and a vital fetus compatible with gestational age. Two days after the admission to our ICU, the patient presented a deterioration of gas exchanges, with the progressive onset of hypercapnia (PaCO2 80) with pH 7.43, mmHg, base excess (BE) 25.7 mmol/l, HCO3 53 mmol/L, lactate 0.6 mmol/l.

The day after, due to the persistence of hypercapnia (PaCO2 75.5 mmHg) and the ongoing AKI (as evidenced by increased sCr levels to 2.5 mg/dl and reduced urinary output to 0.5 ml/kg/h), ECCO2R treatment in association with renal support was started.

ECCO2R was provided using a polymethylpentene, hollow fiber, gas-exchanger membrane (1.35 m2 multiECCO2R, Eurosets, Medolla, Italy). The ECCO2R membrane was inserted in series after a hemofilter (Ultraflux AV 1000S 1.8 m2, Fresenius Medical Care, Bad Homburg, Germany) in the Multifiltrate CRRT platform (Fresenius Medical Care, Bad Homburg, Germany) (Figure 1).

Schematic representation of the circuit used to treat the patient
Figure 1: Schematic representation of the circuit used to treat the patient reported in this case. ECCO2R membrane was set after the hemofilter to obtain combined ECCO2R and RRT. Anticoagulation was provided by systemic heparinization. ECCO2R: extracorporeal CO2 removal; RRT: renal replacement therapy.

ECCO2R-CRRT was set in continuous venovenous hemodialysis (CVVHD) mode and was commenced, through a 13.5 Fr central venous catheter, at a blood flow of 300 ml/min, with a sweep gas flow of 5 l/min. CVVHD was delivered with an effluent dose of 25 ml/kg/h and net ultrafiltration of 1 ml/kg/h. Systemic anticoagulation was obtained by continuous administration of unfractionated heparin (UFH), with a target-activated partial thromboplastin time (aPTT) of 70-80 seconds. Table 2 reassumes the ventilatory and hemodynamic parameters collected during ECCO2R-CRRT treatment.

  Pre 6 h 12 h Day 1* Day 2 * Day 3 Day 4

End

Day 5

Post

Blood flow, ml/min 300 300 300 300 300 300 150
Sweep gas flow, l/min 5 5 5 5 3 4.5
aPTT, sec 39.8 84.1 79.7 77 72.4 53 56.2 46.6
Heparin dose (UI/h) 1000 1300 1250 1400 1400 1100 1200 750
Diuresis, ml/kg/h 0.5 0.5 0.5 0.3 0.2 0.3 0.3 0.3
CRRT effluent rate, ml/kg/h 25 25 25 25 30 25 25
CRRT ultrafiltration rate, ml/kg/h 1 1 2 2 3 3 2
Arterial blood gas
pH 7.39 7.4 7.32 7.29 7.32 7.33 7.38 7.41
PaCO2, mmHg 75.5 63 66 67.2 58 73 57 54
PaO2, mmHg 111 138 158 132 178 119 202 135
HCO3, mmol/l 46.6 39 34 31.5 30.3 35 33.5 27.1
BE, mmol/l 19.3 11.8 7.1 4.6 3.1 11.2 7 0.3
Ventilator parameters
TV, ml/PBW 4.3 3.6 2.5 3.5 4 3.6 4.5 4.5
RR, breaths/min 35 28 26 26 26 26 26 26
Pplat, cmH20 28 28 27 27 27 27 27 27
PEEP, cmH2O 12 12 12 14 12 12 12 12
PaO2/FiO2 ratio, mmHg 220 276 395 330 356 238 404 338
Hemodynamic parameters
Mean arterial pressure, mmHg 95 98 94 77 84 97 87 95
Heart rate, beats/min 118 100 89 100 125 120 130 128
Norepinephrine dose, mcg/kg/min 0.3 0.25 0.1 0.15 0.15 0.3 0.3 0.25
Table 2: Time course of operation characteristics, ventilatory and hemodynamic parameters during ECCO2R-CRRT treatment.
aPTT: activated partial thromboplastin time; COVID-19: coronavirus disease 2019; CRRT: continuous renal replacement therapy; ECCO2R: extracorporeal carbon dioxide removal; FiO2: fraction of inspired oxygen; HCO3: bicarbonate; BE: base excess; PaCO2: arterial partial pressure of carbon dioxide; PaO2: arterial partial pressure of oxygen; PBW: predicted body weight; PEEP: positive end-expiratory pressure; Pplat: plateau pressure; RR: respiratory rate; TV: tidal volume.
* Bleeding complications

At the end of the ECCO2R-CRRT treatment cycle, PaCO2 was 54 mmHg and pH 7.41. During the treatment, TV, PEEP, and Pplat were maintained according to LPV, while RR was reduced. The PaO2/FiO2 ratio increased from 202 to 338 mmHg and the hemodynamics remained stable.

Overall, ECCO2R-CRRT lasted four days (with the change of hemofilter on the third day) and was discontinued due to a sustained improvement in hypercapnia and concern about mild hemorrhagic complications (hematuria and bleeding from tracheostomy). After ECCO2R treatment termination, CRRT was continued because of persistent AKI and oliguria, using regional citrate as an anticoagulation strategy. Then, no further bleeding episodes occurred. During the ECCO2R-CRRT cycle, the fetal status was constantly monitored, revealing a vital fetus with normal HR (mean values of about 130 beats/minute) and movements. However, two weeks after ECCO2R discontinuation, corresponding to the 25th gestational week, the patient underwent spontaneous premature vaginal delivery because of placental abruption. She gave birth to an 800-gram female baby admitted to the Neonatal Intensive Care Unit, where she died three days later because of multiorgan failure related to extreme prematurity.

During the following days, the patient’s conditions stabilized, while kidney function and diuresis increased, with the possibility of withdrawing CRRT (for a total treatment duration of 21 days). At that time, ventilatory parameters were TV 4.6 ml/PBW, Pplat 28 cmH2O, RR 30 breaths/min, and FiO2 0.45, while ABG showed pH 7.45, PaCO2 59 mmHg and PaO2 111 mmHg.

One week later, it was possible to shift to pressure support ventilation, and then the patient was completely weaned from mechanical ventilation (Figure 2). Finally, she was transferred to the Rehabilitation Clinics, from which she was discharged one month later, with complete renal recovery.

Time course and main clinical events occurring during the hospitalization.
Figure 2: Time course and main clinical events occurring during the hospitalization. ICU: intensive care unit; MV: mechanical ventilation; ECCO2R: extracorporeal CO2 removal; CRRT: continuous renal replacement therapy.

 

Discussion

To our knowledge, here we present the first case of a pregnant woman affected by COVID-19 treated with a combined ECCO2R-CRRT approach.

The management of this patient offers the possibility to discuss some points of crucial relevance in clinical practice. First, as already reported, we found that COVID-19-related MOF may also occur in young people without significant medical history. This observation was especially valid in patients who, such as in our case, resulted affected by COVID-19 during the first pandemic waves, when vaccination and antiviral drugs were still unavailable [12]. COVID-19-related organ damage may be a direct consequence of infection or a sequela of the complications developing during the disease course. In our case, while acute lung injury was directly attributable to COVID-19, the pathogenesis of severe kidney injury was less clear and not specifically studied, being probably the consequence of multiple factors, including hemodynamic instability, nephrotoxic drugs, and ARDS-related AKI [13]. Moreover, in line with available Literature, it is possible that pregnancy constituted an additional risk factor for a severe form of COVID-19 [14].

Then, we observed that using a low-flow ECCO2R-CRRT in a single circuit effectively controlled hypercapnia, allowing the maintenance of the LPV strategy.

Briefly, ECCO2R is a technique that, taking advantage of its high diffusivity, removes CO2 without providing significant oxygenation [15].

It consists of a circuit where blood is drained through a cannula from a central vein or artery and returned to the venous system after CO2 removal by a membrane lung (acting as an artificial gas exchanger). Inside the membrane lung, a “sweep gas” (medical air or oxygen) running along the other side of the membrane generates a diffusion gradient driving CO2 removal.

Many different devices and membrane lungs are available, but essentially ECCO2R devices can be grouped into two main categories: arteriovenous pumpless systems (AV-ECCO2R) and venovenous pump-driven devices (VV-ECCO2R) [16]. In turn, VV-ECCO2R may be performed with low-flow or high-flow systems. Low-flow ECCO2R systems operate with a low blood flow rate (between 200 and 400 ml/min) and offer the possibility of using CRRT platforms and dual-lumen dialysis catheters. Conversely, high-flow systems (i.e., blood flow rate higher than 500 ml/min) require dedicated devices and larger cannulas. Apart from technical issues, the main difference between these two strategies is the effectiveness of CO2 removal. So, while a blood flow rate of 200-300 ml/min may remove 40-60 ml CO2/min, representing 20%-25% of total CO2 production, an increase in the blood flow rate may remove until 150 ml CO2/min, representing approximately 50%-60% of total CO2 [17, 18].

However, experimental evidence suggests that, due to limitations of blood flow and membrane efficiency, the actual removal capacity is inferior and, in particular, low-flow systems may remove up to 25% of carbon dioxide production [19].

In our case, since the patient did not present respiratory acidosis and the goals of the treatment were maintaining LPV and supporting kidney function, a low-flow ECCO2R-CRRT approach was chosen. This combined treatment allowed for controlling fluid balance and kidney function replacement, leading to the stability of both ventilatory and maternal and fetal hemodynamic parameters. The effectiveness and suitability of combined ECCO2R-CRRT treatment are in line with what is described in previous case reports and clinical studies on ARDS patients in different clinical contexts [2022].

So, for example, Nentwich et al. evaluated twenty hypercapnic critically ill patients with renal failure who were treated with a combined system incorporating a membrane lung in series with a hemofilter on a conventional CRRT circuit. They found that this system was effective in decreasing PaCO2 and reducing ventilation requirements with a decrease in TV [23].

Regarding the specific setting of pregnant women, experience with ECLS is scarce.

Recently, a systematic review evaluated 358 patients undergoing ECLS in the peripartum period, including 81 pregnant women [24]. The most common indications for ECLS were ARDS and cardiac failure. Despite some episodes of major bleeding and the need for preterm delivery in about 50% of the cases, overall maternal survival at 30 days was 75% and fetal survival was 64.7%. Therefore, these data support the use of ECLS in peripartum women. However, looking at specific ECLS techniques, only a few patients underwent ECCO2R and none of them were in combination with CRRT [25, 26]. If the information on the general population is poor, data on pregnant patients with COVID-19 are completely lacking. In general, the experience of ECCO2R in COVID-19 is limited. Ding et al. reported the data of twelve COVID-19 patients with refractory hypercapnia treated with a low-flow ECCO2R system based on the CRRT platform [27]. They observed the application of the ECCO2R system enabled CO2 removal associated with a significant decrease in TV and Pplat. However, none of these patients had AKI at the initiation of ECCO2R-CRRT treatment.

Similarly, Husain-Syed F. et al. in a small prospective study that enrolled four patients, including one with AKI, reported that treatment with an ECCO2R circuit inserted in a CRRT platform was safe and feasible, both when used alone and in combination with renal support treatment [28]. However, although effective, this approach is not risk-free. The review of the pertinent Literature has shown that the ECCO2R-related adverse effects include hemorrhages, heparin-induced thrombocytopenia, circuit clot, and limb ischemia [29].

In our patient, the main adverse events consisted of bleedings related to the anticoagulation required to maintain the patency of a low-flow extracorporeal circuit. This aspect should be considered when prescribing ECCO2R-CRRT. Indeed, while in clinical trials and daily practice the most diffuse strategy is systemic anticoagulation with heparin, the possibility to use citrate-based regional anticoagulation could promote the investigation of alternative anticoagulation protocols (for example, combining low-dose systemic UFH with regional citrate anticoagulation in the CRRT circuit) [5]. Finally, it should be noticed that, despite numerous studies reporting the benefits of ECCO2R [30], the recent REST trial has questioned the usefulness of ECCO2R, showing non-additional advantages of this treatment in patients with acute hypoxemic respiratory failure treated with low tidal volume mechanical ventilation [31]. However, these results are inconclusive since this study may be underpowered to detect significant findings.

 

Conclusions

Since the limitations of available studies, mainly due to the small number of patients enrolled and short observation time, further evidence from specific-designed randomized clinical trials and high-quality prospective studies is needed to determine the actual clinical impact of ECCO2R on specific patient populations and guide decision-making.

In the meantime, we believe that the available evidence is strong enough to support the use of ECCO2R, also integrated into a CRRT circuit, in selected patients in the context of multi-organ supportive therapy. In this view, continuous active reporting of clinical experience and cohort studies remain essential to define and confirm the suitability and safety of this approach. 

 

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Atheroembolic renal disease: risk factors, diagnostics, histology, and therapeutic approaches

Abstract

The increase in patients’ average age, the enhancement of anticoagulation therapy and the growth of vascular interventions represent the perfect conditions for the onset of atheroembolic renal disease. AERD is observed in patients with diffuse atherosclerosis, generally after a triggering event such as surgery on the aorta, invasive procedures (angiography, catheterization of the left ventricle, coronary angioplasty) and anticoagulant or fibrinolytic therapy. The clinical signs are heterogeneous, a consequence of the occlusion of downstream small arterial vessels by cholesterol emboli coming from atheromatous plaques of the aorta, or one of its main branches. The proximity of the kidneys to the abdominal aorta, and the high flow of blood they receive, make them a major target organ. For this reason, AERD represents a pathological condition that always needs to be taken into account in the nephropathic patient, although its systemic nature makes the diagnosis difficult.

This manuscript presents a review of the existing literature on this pathology, to provide an updated summary of the state of the art: risk factors, diagnostics, histology and therapeutic approaches.

Keywords: atherosclerosis, cholesterol crystal embolism, contrast media, acute kidney injury, chronic kidney disease

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Introduzione

L’Atheroembolic Renal Disease (AERD) rappresenta una condizione patologica multisistemica, definita da un quadro di insufficienza renale secondaria all’occlusione dell’arteria renale, delle arteriole o dei capillari glomerulari per rottura di una placca aterosclerotica e sua successiva embolizzazione [1].

Storicamente la AERD è una entità mal definita, assimilata da alcuni autori alla “Cinderella” della Nefrologia [2], spesso trascurata, dall’incidenza imprecisa e frequentemente sottostimata [3].

L’obiettivo di questo studio è quello di dar luogo ad una revisione della letteratura sulla AERD, seguendo le linee Guida Internazionali PRISMA [4], finalizzata ad una più permeante inclusione della malattia come entità nosologica nella diagnostica differenziale e ad una maggiore sensibilità verso la diagnostica pre-mortem della malattia, valutandone la possibilità di una maggiore diffusione capillare tra le società scientifiche di nefrologia, cardiologia e radiologia interventistica. Inoltre, si ambisce a segnalare la necessità di un programma inter-societario (società scientifiche di radiologia, di cardiologia, di cardiochirurgia, di nefrologia), volto ad una informazione capillare di interesse bivalente (medico e paziente) e all’attiva sorveglianza delle possibili complicanze ateroemboliche nel corso delle procedure interventistiche.

 

Materiali e metodi

Una ricerca bibliografica è stata condotta su Pubmed, Scopus e Web of Science, cercando le parole chiave “atheroembolic” AND “renal” AND “disease” all’interno di titolo o abstract, senza restrizione di tempo.

Due revisori (S.C., W.M.) si sono occupati di selezionare i titoli attinenti all’argomento utilizzando i seguenti criteri di inclusione:

  1. pubblicazioni peer-reviewed con dati originali;
  2. lingua inglese o italiana;
  3. accesso ai dati principali del lavoro mediante testo completo o mediante abstract.

I criteri di esclusione sono stati:

  1. lingua diversa da inglese ed italiano;
  2. lavori ripetuti degli stessi Autori;
  3. Mancata attinenza dei dati riportati con il tema centrale della revisione.

I revisori hanno, dunque, selezionato gli studi per l’inserimento nella revisione tramite consenso. In caso di dubbio sulla rilevanza, i risultati della ricerca bibliografica sono stati valutati come eleggibili all’inserimento nel paper solo dopo la lettura dell’intero testo.

 

Risultati

La ricerca, condotta attraverso i sopracitati motori di ricerca, ha permesso di identificare inizialmente 116 titoli, ridotti a 115 dopo aver rimosso un duplicato presente nell’elenco. Sono stati identificati, inoltre, 39 titoli aggiuntivi a partire dalle referenze bibliografiche degli stessi articoli già menzionati.

Dopo la lettura e l’eliminazione degli articoli non rilevanti, sono stati riportati in discussione 76 articoli (Figura 1).

Figura 1: Risultati presentati secondo diagramma PRISMA
Figura 1: Risultati presentati secondo diagramma PRISMA

Eziologia e fattori di rischio

L’ateroembolia complica l’aterosclerosi e condivide con essa i fattori di rischio come l’età, il sesso maschile, il diabete, l’ipertensione arteriosa, l’ipercolesterolemia e il fumo di sigaretta [5,6]. Il primo a descrivere l’AERD come condizione patologica fu il patologo tedesco Panum nel 1862 [7]. Tuttavia, solo nel 1967 essa passò da “semplice curiosità” anatomo-patologica ad entità clinica ben definita, quando Moldveen-Geronimus e Meriam [8] avanzarono il sospetto che il quadro di “purple toes” osservato in corso di terapia dicumarolica fosse mediato da un’embolizzazione di cristalli di colesterolo. In una review del 1987 Fine et al. [9], analizzando 221 casi pubblicati nella letteratura inglese, notarono un’incidenza di malattia ateroembolica in autopsie di una popolazione non selezionata pari allo 0,15-3,4%.

Per quanto la presentazione dell’AERD possa essere spontanea nel 30% delle sue manifestazioni, a causa di fenomeni intravasali legati allo shear-stress [9,10], sono ben identificabili fattori predisponenti (Tabella I) e fattori scatenanti. Tra i primi annoveriamo l’età superiore ai 60 anni, il sesso maschile, il diabete, l’ipertensione arteriosa, l’ipercolesterolemia ed il fumo di sigaretta (tutti fattori che predispongono all’insorgenza dell’aterosclerosi) [1,6]; i fattori scatenanti, iatrogeni in più del 70% dei casi, possono essere l’angiografia e la coronarografia [11,12,13,14,15], la chirurgia cardiovascolare [14,16], il trauma meccanico aortico (indotto da cateteri radiologici o dalla manipolazione dei vasi) [17,18], la terapia trombolitica o anticoagulante [19,20]. Tali fattori possono determinare la frantumazione della placca aterosclerotica e la produzione di emboli di cristalli colesterinici, con possibile disseminazione sistemica [1,21].

Molto più raramente, l’AERD può complicare una patologia infiammatoria dei grossi vasi (arterite di Takayasu, vasculiti sistemiche, tromboangioite obliterante) [22].

Fattori predisponenti AERD Fattori precipitanti AERD
Sesso maschile Angiografia
Età >65 anni Chirurgia cardiovascolare
Ipertensione arteriosa Cateterismo arterioso
Tabagismo Terapia trombolitica o anticoagulante
Diabete Mellito
Tabella I: Fattori predisponenti e scatenanti la AERD

Incidenza

La reale incidenza di AERD non è nota con precisione [23] ed è spesso sottostimata [24] come causa di insufficienza renale. Già nel 1993, Lye et al. segnalavano 129 casi di malattia ateroembolica con evidenza clinica di coinvolgimento renale [25].

La labilità con cui l’incidenza della malattia viene riportata in letteratura dipende spesso da fenomeni di confondimento quali, ad esempio, le differenze con cui il disegno degli studi pubblicati è stato progettato [18] o da bias di campionamento. In alcuni studi il valore predittivo dei fattori di rischio tradizionali è stato enfatizzato creando uno score clinico basato su età, storia clinica positiva per malattia vascolare sintomatica, dislipidemia e soffio addominale [26,27], mentre negli studi clinici basati su un follow-up di breve durata dopo la procedura vascolare invasiva [28], l’incidenza vera della AERD tende ad essere sottostimata. Mayo e collaboratori [23] in una review del 1996, hanno stimato che tra il 5-10% di tutti i casi di insufficienza renale acuta accettata in ospedale potrebbe essere dovuta a AERD.

I risultati di studi retrospettivi [29] derivanti da autopsie o da studi bioptici, come quelli eseguiti da Preston et al. [30] su 334 pazienti di età pari o superiore a 65 anni sottoposti a biopsia renale per insufficienza renale acuta (n = 55), insufficienza renale subacuta (n = 72), insufficienza renale cronica (n = 57), proteinuria (n = 137) ed ematuria (n = 13), possono, invece, sovrastimare la reale incidenza della malattia in quanto includono anche i casi subclinici [30].

Nei paesi occidentali, l’incidenza di AERD riflette la severità della malattia ateroembolica sistemica [31] e negli ultimi anni sembra essere in aumento, verosimilmente a causa di: a) aumento dell’età media dei pazienti, b) aumento dei fattori di rischio per malattia vascolare aterosclerotica, c) incremento del numero delle procedure vascolari invasive, d) aumento, nella pratica clinica, dell’uso di trombolitici e anticoagulanti [32].

Clinica

La AERD deve essere considerata come l’espressione renale di un più ampio quadro sistemico, in quanto l’ateroembolismo colpisce ubiquitariamente i vari distretti vascolari, con distribuzione casuale a carico degli organi a valle; permettendo l’ingenerarsi della grande variabilità fenotipica del quadro clinico, si aggiudica definizioni molto evocative quali “puzzling event” e “great masquerader” proprio per la sua abilità di mimare altre entità patologiche [24,33,34]. Le principali caratteristiche cliniche descritte dagli autori in letteratura sono state riassunte nella Tabella II.

  Belenfant [75] Falcão [41] Fine [9] Lye [25] Scolari [5] Thandhani [6]
Emboli retinici (%) 22 7 6 10 7 25
Eosinofilia (%) 59 80 73 71 67 22
Lesioni cutanee (%) 90 75 35 43 75 50
Manifestazioni gastrointestinali (%) 33 12 10 10 12 29
Sistema nervoso centrale (%) 4 10 0 12 10 23
Tabella II: Manifestazioni cliniche nella AERD

La AERD si può presentare con un quadro di malessere generale e sintomi sfumati ed aspecifici [35] quali l’astenia, febbre, mialgie, epistassi, mal di testa e perdita di peso fino – nelle forme più severe – alla cachessia, mimando quadri presenti in altre patologie sistemiche con cui va in diagnosi differenziale (vasculiti pauci-immuni, quadri infettivi) [10,36]. Il coinvolgimento polmonare, caratterizzato da un’emorragia alveolare che mima la vasculite sistemica [37], è stata descritta in alcuni pazienti. I meccanismi patogenetici dell’emorragia polmonare rimangono poco conosciuti: potrebbe avere un ruolo la reazione infiammatoria locale causata da emboli [38,39].

La manifestazione clinica più frequente è correlata all’ateroembolizzazione della pelle con la comparsa della “sindrome dell’alluce blu” (blue toes syndrome) o di livedo reticularis [40]. Molto frequenti, inoltre, sono le angine mesenteriche (che possono anche dare quadri molto severi con ischemia intestinale, sanguinamento gastrointestinale o pancreatite), manifestazioni a carico del sistema nervoso centrale con frequenti attacchi ischemici transitori [41] o cali del visus [42]. In generale, le manifestazioni oculari o cerebrali derivano dalla frantumazione di una placca ateroembolica situata a livello dell’aorta ascendente o dell’arco aortico. Gli emboli derivanti dalla radice aortica o prossimale i segmenti delle arterie coronarie possono causare morte cardiaca improvvisa. Negli studi autoptici, è stato segnalato il coinvolgimento subclinico delle ghiandole surrenali, dei testicoli, della prostata, della tiroide e praticamente di qualsiasi altro organo [1].

Le manifestazioni viscerali dell’AERD sono spesso causate da emboli originatisi da una placca ateroembolica localizzata a livello dell’aorta toracica discendente e dell’aorta addominale [9,43,44,45]. In ragione della sua prossimità all’aorta addominale e dell’elevato flusso di sangue che normalmente vi giunge, il rene, in corso di ateroembolismo sistemico, diventa un bersaglio privilegiato [18,35,46]. Il danno renale da ateroembolismo è, infatti, tutt’altro che raro, come dimostrato dai lavori di Haas et al. [47].

L’insufficienza renale da AERD può manifestarsi in maniera eterogenea [6,19] come:

a. acute kidney injury (AKI), quindi come insufficienza renale ad esordio acuto, di solito entro una settimana da una procedura endovascolare [48], diretta conseguenza della massiccia migrazione di cristalli di colesterolo nelle arterie intraparenchimali renali con un quadro evolutivo rapidamente progressivo [49].

b. danno renale subacuto, in cui l’insufficienza renale è progressiva e si verifica in “differita”, dopo periodi di funzione renale stabile. In questo contesto, l’insufficienza renale viene solitamente osservata tra le 3 e le 5 settimane dopo un evento documentato e tale manifestazione dell’AERD è probabilmente dovuta ad una combinazione tra l’effetto di embolizzazione della placca e l’effetto da reazione infiammatoria endoteliale da corpo estraneo [5,50].

c. insufficienza renale cronica (IRC). Quest’ultima si presenta meno frequentemente e può essere attribuita al danno da nefroangiosclerosi o nefropatia ischemica di cui le conseguenze cliniche della proliferazione intimale e del restringimento del lume vascolare sono caratteristiche comuni.

Solo raramente il danno d’organo riguarda esclusivamente il distretto renale, associandosi spesso a segni di embolizzazione gastrointestinale e cutanea [1]. In una minoranza dei casi, la malattia ateroembolica decorre in maniera clinicamente silente, in assenza cioè di segni e sintomi extrarenali. La biopsia (renale o cutanea) viene eseguita solo raramente e non viene, quindi, posta la diagnosi di AERD [51].

Il decorso clinico dell’insufficienza renale può essere eterogeneo e condurre al trattamento sostitutivo nel 28-61% dei pazienti con malattia acuta o subacuta. Una percentuale di pazienti compresa tra il 20-30% presenta un recupero parziale della funzione renale dopo un periodo variabile di supporto dialitico; tale recupero può essere dovuto alla risoluzione dell’infiammazione endoteliale ed alla restitutio ad integrum della necrosi tubulare acuta nelle aree ischemiche [32]. Le manifestazioni renali della malattia ateroembolica sono generalmente diverse da quelle osservate nei pazienti con tromboembolia. I tromboemboli si verificano principalmente nei pazienti con aritmie cardiache (fibrillazione o flutter atriale) o un precedente infarto miocardico. Tendono a produrre l’occlusione arteriosa completa e, di conseguenza, l’infarto renale, che porta a dolore al fianco, ematuria ed aumento della lattato-deidrogenasi [52].

Forme particolari di AERD

Il rene trapiantato non è esente dalle complicanze della AERD, sebbene questa rappresenti una evidenza rara, con una frequenza del 0,39%-0,47% [53]. L’incidenza di tale fenomeno sul rene trapiantato è probabilmente sottostimata per un bias legato ad aghi per la biopsia troppo piccoli o errori di campionamento [54]. Le conseguenze dell’ateroembolismo sul rene trapiantato sono state descritte per la prima volta nel 1985 da Cosio et al. a seguito del riscontro di emboli di colesterolo sul campione di rene trapiantato espiantato in paziente che aveva sviluppato oliguria subito dopo trapianto renale da cadavere [55].

Si possono identificare due modalità di presentazione della AERD nel rene trapiantato: una forma precoce ed una forma tardiva. Nella forma precoce di AERD del graft, gli emboli vengono rilasciati dalle arterie del donatore durante il prelievo dell’organo (Figura 2) oppure, meno frequente, dalle arterie del destinatario nel corso del confezionamento dell’anastomosi. La forma tardiva di AERD, invece, può presentarsi anche a distanza di anni dall’intervento chirurgico. Essa viene generalmente osservata in grafts con funzione stabile ed è associata agli stessi fattori di rischio e agli stessi eventi precipitanti identificati nella popolazione generale [18]. Secondo la letteratura, la prognosi delle forme precoci si dimostra peggiore rispetto alle forme tardive, nelle quali la funzione del graft sembra recuperarsi nella maggior parte dei casi. La ragione di questa differenza potrebbe essere attribuibile ad un’embolizzazione estesa in un donatore aterosclerotico durante il prelievo dell’organo [53,56]. Inoltre, tra le forme precoci, la AERD del rene trapiantato con partenza delle arterie del donatore manifesta una prognosi peggiore rispetto alla AERD del graft che si sviluppa con partenza dai vasi arteriosi del donatore [57,58].

Poiché si sta assistendo ad un aumento nella tendenza ad accettare donatori e riceventi di età superiore ai 60 anni e ad utilizzare donatori marginali con aterosclerosi avanzata, è verosimile che l’incidenza della malattia renale ateroembolica nel trapianto di rene aumenterà nei prossimi anni. È possibile ridurre il rischio di AERD nel rene trapiantato con una valutazione molto accurata dei donatori di organi e la minima manipolazione dell’aorta, mobilitando così i reni senza bloccare l’aorta [54, 59].

Paziente di 50 anni affetto da cardiopatia congenita
Figura 2: Paziente di 50 anni affetto da cardiopatia congenita (Tetralogia di Fallot) con cardiomegalia e cardiopatia ischemica cronica (Figura 2A), in trattamento con dicumarolici. La freccia in rosso nella Figura 2B indica un’area di renal cortical defect verosimilmente correlato ad un infarto renale (per gentile concessione della Dottoressa C. Trombatore, Specialista in Radiologia, Ospedale G. Di Maria, Avola (SR)) 

Diagnosi

Elaborare una diagnosi di AERD può risultare complicato se non si tiene in considerazione il nesso di causalità tra la noxa patogena scatenante e la perdita di funzione renale. La presentazione sfumata e l’ampio spettro di manifestazioni fenotipiche, il polimorfismo del quadro clinico dovuto al carattere sistemico della malattia ed alla ubiquitaria diffusione delle placche ateroemboliche nell’organismo, rendono la “great masquerader” [22] estremamente labile e sfuggente nel percorso diagnostico routinario.

Il paziente tipico nel quale ricercare l’AERD ha un’età superiore a 60 anni, anamnesi positiva per ipercolesterolemia, ipertensione arteriosa, tabagismo e insufficienza renale acuta nel contesto di una procedura endovascolare oppure di terapia anticoagulante. Spesso, i dati di laboratorio quali anemia, trombocitopenia, alterazione degli indici di flogosi, della velocità di eritrosedimentazione (VES) e l’ipocomplementemia transitoria non risultano sufficientemente dirimenti [1,23] e l’alterazione degli indici di ritenzione azotata possono rimanere gli unici dati anomali. L’ipercolesterolemia è un ben noto fattore di rischio per l’aterosclerosi, di cui l’embolizzazione può essere considerata una diretta complicazione. Numerosi autori [21,59,60] identificano nell’ipercolesterolemia un elemento diagnostico importante per la definizione della malattia.

L’esame delle urine può essere utile: la comparsa di modesta proteinuria, microematuria, cilindri ialini e granulocitari, sebbene non siano specifici, possono essere espressione di un danno ischemico e di un aumento della permeabilità della membrana glomerulare [6,8,61]. Il sedimento, diversamente dalle vasculiti, non ha carattere nefritico. L’ematuria si riscontra nel 33-40% dei pazienti. La proteinuria subnefrosica è riscontrata nel 55-60% circa dei pazienti mentre, in alcuni casi, è stata descritta proteinuria nel range nefrosico [62], in assenza di evidente sindrome nefrosica, con lesioni provate alla biopsia di glomerulonefrite membranosa [63], glomerulosclerosi focale o glomerulopatia diabetica [64,65].

La leucocitosi con eosinofilia [66] che si verifica nel corso della fase acuta rappresenta, probabilmente, l’alterazione biochimica più caratteristica ed è legata all’attivazione immunitaria sulla superficie esposta dei microemboli mentre l’eosinofiluria è meno suggestiva [67].

Salvo rare eccezioni, la ricerca degli ANCA è generalmente negativa [61,68], rendendo la diagnosi differenziale con le vasculiti più agevole. Altre anomalie laboratoristiche che è possibile riscontrare nel contesto della AERD riguardano l’iperamilasemia (che confonde la diagnosi indirizzandola verso una pancreatite); l’aumento della creatinifosfochinasi (CPK) (che fa pensare ad una miosite); l’ipertransaminasemia e l’incremento della fosfatasi alcalina e della lattato-deidrogenasi, esito possibile di un’embolizzazione epatica oppure, per quanto raro, di un infarto renale severo.

La diagnosi corretta può essere fatta solo con la biopsia renale, dimostrando la presenza di cristalli di colesterolo all’ interno dei vasi renali e dei glomeruli (si veda il paragrafo istologia). Tuttavia, non sempre la biopsia può essere eseguita a causa dell’età avanzata dei pazienti, nefroangiosclerosi e dimensioni ridotte dei reni.

Fino a pochi anni fa, nella diagnostica per immagini, la diagnosi di AERD veniva eseguita mediante angiografia selettiva o angio-TC. Con quest’ultima metodica, dopo l’infusione del mezzo di contrasto, le aree ischemiche appaiono come aree non perfuse che solitamente presentano forma di cuneo (con la base rivolta verso la capsula renale e l’apice rivolto verso l’ilo). In maniera analoga è possibile evidenziare un enhancement della corticale quale espressione dei flussi collaterali.

Tuttavia, a causa della presentazione aspecifica, dell’improvvisa comparsa dell’evento ateroembolico e dell’insufficienza renale, l’angio-TC non rappresenta un’indagine diagnostica frequentemente richiesta nel contesto della AERD, per cui la diagnosi è spesso ritardata (e persino persa) ed il riscontro di un caso clinico già in evoluzione o esitato in problematiche ischemiche non è infrequente (Figura 3).

Figura 3: Embolo di colesterolo in donatore di rene, maschio, 77 anni, iperteso, causa della morte: emorragia cerebrale spontanea (per gentile concessione della dottoressa A. Barreca)
Figura 3: Embolo di colesterolo in donatore di rene, maschio, 77 anni, iperteso, causa della morte: emorragia cerebrale spontanea (per gentile concessione della dottoressa A. Barreca)

Ancora sperimentale appare l’utilizzo della View-shared Compressed Sensing-based Dynamic Contrast-Enhanced Magnetic Resonance Imaging (VCS DCE-MRI) nello studio della funziona renale residua. Uno studio preliminare, condotto sui conigli, ha verificato la fattibilità della VCS DCE-MRI per la valutazione della funzione renale e la strategia potrebbe fornire uno strumento prezioso per identificare l’AERD [69].

Ultimamente, invece, sempre più utili sono diventate le metodiche ultrasonografìche. Nel corso di un danno del microcircolo per interessamento ateroembolico delle arteriole afferente ed interlobulari, l’ecografia in B-Mode non permette di cogliere segni patognomonici della malattia. All’esordio dell’AERD il rene mantiene – generalmente – diametro conservato o modestamente ridotto con un profilo irregolare. Allontanandosi dall’evento acuto, il parenchima può ridursi di spessore ed apparire iperecogeno, degenerando in cisti acquisite e nella sclerolipomatosi del seno renale [25,26] e sfociando poi in quadri ecografici di non univoca interpretazione, che finiscono per confondersi con i quadri di nefroangiosclerosi legate alle comorbidità del paziente (ipertensione, diabete, invecchiamento). Utile, nella diagnostica ecografia, appare lo studio morfologico dell’aorta e dei grossi vasi, che può mettere in evidenza la marcata ateromasia mista rappresentata da placche vegetanti o piane (Figura 4).

Figura 4: Placca ateroembolica a livello dell'aorta ascendente, allo sbocco con i tronchi sovraortici (per gentile concessione del Dr. Giovanni Tasca, UOC di Cardiologia, Modica)
Figura 4: Placca ateroembolica a livello dell’aorta ascendente, allo sbocco con i tronchi sovraortici (per gentile concessione del Dr. Giovanni Tasca, UOC di Cardiologia, Modica)

La valutazione in Color e Power Doppler permette di ottenere maggiori informazioni. Con il Color Doppler si evidenzia un “minus di colore” quale espressione della ridotta perfusione delle aree ischemiche. Il Power Doppler, grazie alla maggiore sensibilità, permette di discriminare con maggiore accuratezza le zone normalmente perfuse da quelle ischemiche: in un rene normale si osserva un blushing omogeneo, mentre in un rene ischemico notiamo zone prive di colore. L’analisi spettrale, inoltre, consente di rilevare un aumento dell’indice di resistenza (onde sistoliche elevate e diastoliche scarsamente significative) nei vasi arteriosi a monte dell’embolo. L’indagine risulta ancora più accurata se implementata con l’uso dcl mezzo di contrasto. In tal modo è possibile superare, almeno parzialmente, i problemi connessi alla costituzione del paziente, all’incapacità dello stesso di mantenere l’apnea o alla inadeguata preparazione dell’esame. Certamente il reperto ultrasonografico risulta aspecifico, tuttavia la non invasività (ricordiamo che l’uso di mezzi di contrasto iodati risulta particolarmente dannoso in soggetti con insufficienza renale) ed il relativo basso costo rendono l’eco Color Power Doppler una tappa fondamentale del moderno iter diagnostico.

La Contrast-Enhanced UltraSound (CEUS), superando i limiti intrinseci del Doppler quali la bassa accuratezza diagnostica e l’angolo di insonazione sfavorevole ai poli renali, consente di valutare la perfusione renale in quasi tutte le situazioni [60]. Nel contesto dell’infarto, la CEUS è in grado di mostrare le regioni infartuate come aree senza aumento del contrasto, spesso con morfologia a forma di cuneo [61]. La sensibilità diagnostica della CEUS negli studi di Bertolotto et al [62], sebbene non sia stato approfondito l’utilizzo della CEUS nel contesto specifico dell’AERD, è risultato simile all’angiografia e alla TC. L’eccellente risoluzione spaziale della CEUS consente di differenziare tra infarti renali e ischemia corticale in cui è possibile riconoscere l’enhancement dei vasi segmentari, interlobari e arciformi vs l’assenza di enhancement dei vasi interlobulari della corteccia renale colpita [63].

Tra le potenzialità diagnostiche di secondo livello, di possibile utilizzo appare l’ecoendoscopia. Sono tuttavia necessari ulteriori studi.

Istologia

Nei pazienti con insufficienza renale altrimenti inspiegabile, pur nel contesto di mezzo di contrasto, procedure endovascolari o trattamenti con anticoagulanti, il riscontro di ateroemboli alla biopsia renale fornisce un elemento determinante per la diagnosi di AERD [64] (Figura 5).

Ingrandimento 20x di vetrino colorato con tricromica secondo Masson.
Figura 5: Ingrandimento 20x di vetrino colorato con tricromica secondo Masson. Due glomeruli con aspetto ischemico (incremento dello spazio urinario, anse capillari zigrinate) e arteriola occlusa per presenza di emboli colesterinici (per gentile concessione del laboratorio di Immunopatologia Renale di Parma)

I vasi renali coinvolti nell’ateroembolismo si caratterizzano per la reazione infiammatoria precoce (entro 24 ore) con infiltrazione di polimorfonucleati e di eosinofili [55], cui fa seguito, dopo 48 ore, la comparsa di macrofagi e cellule giganti multinucleate nel lume vasale ostruito. Con il tempo, la parete vasale va incontro a proliferazione endoteliale e ad ispessimento concentrico fibroso medio intimale [6].

Sono possibili quadri di glomerulosclerosi segmentale focale. Sebbene non sia chiara la natura etiopatogenica, evidenze in letteratura fanno ipotizzare un coinvolgimento etiopatogenetico che riguarda entrambi, il danno ischemico ed il danno da iperfiltrazione nei nefroni non ischemici [65].

Prevenzione e protocolli terapeutici

Per i pazienti con malattia renale ateroembolica, l’obiettivo principale è quello di limitare l’entità del danno ischemico e prevenire il ricorrere di nuovi “run” di ateroemboli. Non esiste una terapia specifica e le modalità terapeutiche sono per lo più preventive e di supporto. Nei pazienti nei quali la AERD viene riconosciuta, deve essere presa in considerazione la sospensione della terapia anticoagulante e devono essere evitate nuove procedure endovascolari [32]. In tutti i casi appare comunque indispensabile il controllo dei fattori di rischio concomitanti, come ad esempio l’ipertensione arteriosa, lo scompenso cardiaco e l’insufficienza renale. Non può essere escluso, tra i protocolli terapeutici proponibili, il trattamento sostitutivo della funzione renale [66] finalizzato alla gestione del sovraccarico idrico nei pazienti refrattari alla terapia diuretica ad alto dosaggio, al controllo dell’equilibrio acido base e delle disionie.

Sebbene non esistano dei trial che esprimano la superiorità di una modalità dialitica sull’altra, l’indicazione strategica alla dialisi peritoneale (in assenza di malnutrizione o delle classiche controindicazioni al trattamento) potrebbe risultare efficace nel tentativo di ripristinare la funzionalità renale, in quanto questa metodica non necessita dell’eparina (come invece, di solito, il trattamento emodialitico) [67]. Tuttavia, la rapidità con cui la malattia evolve non è permissiva nella tempistica richiesta dalla dialisi peritoneale e la via emodialitica rappresenta una scelta spesso obbligata, almeno nella fase acuta. In questi casi risulta maggiormente indicato il trattamento senza eparina. Sebbene il ritorno allo status quo ante della funzione renale sia un target difficilmente raggiungibile, sia per il danno renale che occorre nel corso delle microembolie, sia per le malattie concomitanti (ipertensione, diabete), sono presenti in letteratura casi in cui il ripristino della funzione renale è stato raggiunto dopo il trattamento emodialitico [68,69]. Il danno renale può essere seguito da un parziale recupero della funzione renale. Nello studio presentato da Thandani e Camardo, il 24% dei pazienti con ateroemboli renali (ma senza nessun’altra complicanza come sepsi o ipotensione) ha raggiunto un recupero completo della funzione renale [6], recupero verosimilmente correlato a più fattori, quali la risoluzione della concomitante necrosi tubulare acuta nelle aree ischemiche, lo sviluppo di circoli collaterali o l’ipertrofia nei nefroni reduci.

La terapia medica risulta ancora poco codificata. Allo stato dell’arte non sono stati pubblicati studi controllati che esprimano un parere unitario sul ruolo benefico di alcun farmaco nel trattamento della AERD.

È cresciuto l’interesse per il potenziale ruolo protettivo delle statine, visto che casi occasionali di malattia renale ateroembolica hanno risposto a queste ultime. Woolson e colleghi [70], in uno studio prognostico, hanno arruolato 12 pazienti in terapia con statine, dimostrando che essi presentavano un rischio ridotto di sviluppare la AERD allo stadio terminale. Studi prospetti con maggiore numerosità campionaria [5], hanno confermato questo risultato e riportato che le statine presentano un effetto protettivo anche quando la terapia viene iniziata dopo la diagnosi di malattia renale ateroembolica. Tale effetto protettivo potrebbe essere attribuibile alla stabilizzazione e alla regressione della placca attraverso meccanismi ipolipemizzanti e antinfiammatori. La stabilizzazione della placca potrebbe, inoltre, comportare la riduzione del rischio di un’ulteriore embolizzazione.

Del tutto recente è l’utilizzo nella terapia dell’ipercolesterolemia primaria (familiare eterozigote e non familiare) e della dislipidemia mista, ossia l’alirocumab, un anticorpo monoclonale completamente umano, appartenente alla classe proprotein convertase subtilisin-kexin type 9 inhibitors (inibitori della proproteina della convertasi subtilisina/Kexin tipo 9, PCSK9). La PCSK9 è una proteina che regola i livelli di colesterolo LDL circolante in quanto si lega ai recettori LDL, causandone la degradazione. Questo comporta un minor numero di recettori e maggiori livelli di LDL in circolo. Grazie al meccanismo d’azione innovativo, alirocumab si lega alla proteina PCSK9, aumenta il numero dei recettori LDL e riduce quindi il colesterolo LDL (LDL-C) circolante, dando prova di efficacia nella riduzione di eventi cardiovascolari, come evidenziato dai trials ODYSSEY OUTCOMES [71] e FOURIER [72].

Altro farmaco che sta raccogliendo consensi (trial CLEAR Harmony, CLEAR Wisdom) è l’acido bempedoico, un inibitore dell’adenosina trifosfato citrato liasi, un enzima a monte della 3-idrossi-3metilglutarly-CoA reduttasi (il bersaglio delle statine) nella via della biosintesi del colesterolo [73] [74]. Nonostante l’utilizzo di queste classi di farmaci ipolipemizzanti, l’efficacia nella gestione o nella prevenzione dell’AERD non è tuttavia stata studiata; i limiti nell’utilizzo di tale classe di farmaco riguardano anche la scarsa esperienza di maneggevolezza nei quadri di compromissione della funzione renale.

Controversa appare la scelta dei glucocorticoidi. Belenfant et al., in uno studio condotto su 67 pazienti con AERD (65 maschi e 2 femmine) trattati con terapia di supporto (prevenzione delle embolizzazioni ricorrenti, supporto diuretico e cardiologico dell’insufficienza cardiaca, supporto dialitico), dimostravano una mortalità del 23% ad un anno. Secondo gli autori, la somministrazione di basse dosi di steroide (0,3 mg/Kg somministrato solo nel 28% dei casi) in questi pazienti si associava ad effetti favorevoli sull’ischemia mesenterica, con miglioramento della sintomatologia addominale e rapida ripresa dell’alimentazione per os [75,76,77]. Sovrapponibile appare l’esperienza riportata da Stabellini et al. [78] derivata dallo studio di un gruppo di sette pazienti con AERD, lesioni cutanee, livedo reticularis e necrosi delle dita dei piedi insorte dopo arteriografia coronarica e PTCA. Gli autori suggeriscono come schema terapeutico l’utilizzo di prednisolone alla dose iniziale di 40 mg/die per via endovenosa per quattro giorni, con riduzione a 0,4-0,5 mg/kg di peso corporeo/die per 1 settimana, ulteriore riduzione nei successivi trenta giorni e quindi sospensione. Secondo la loro esperienza, la funzionalità renale è migliorata rapidamente dopo la terapia, i sintomi clinici di malessere e i disturbi addominali si sono attenuati, con un miglioramento delle lesioni cutanee e delle cianosi delle dita dei piedi.

Tuttavia, la potenzialità dell’uso dei corticosteroidi nel corso dell’AERD (che in atto rimane non suffragata dalle evidenze di uno studio prospettico ordinato) non è accolta unanimemente dalla comunità scientifica a fronte delle evidenze degli scarsi benefici prodotti e pubblicati da Fine et al. [9].

Gli anticoagulanti dovrebbero essere evitati poiché potrebbero aggravare il problema [79]. Numerosi farmaci anti piastrinici sono stati provati senza successo [80]. Infine, è stato riportato un miglioramento del quadro clinico in un esiguo numero di pazienti a cui è stato somministrato iloprost, pentossifillina e aferesi delle LDL [81]. Questi approcci terapeutici sono ancora in attesa di validazione in trial controllati.

 

Discussione

Al letto del paziente, viene posta al vaglio del medico una pletora di condizioni patologiche atte a giustificare la problematica dell’assistito, sia essa acuta o cronica. Tra queste l’ipotesi di AERD viene considerata solo raramente. Nel 2000, Haas e collaboratori hanno pubblicato i risultati di uno studio osservazionale durato sette anni. Un totale di 1065 dei 4264 campioni bioptici (25%) analizzati dagli autori provenivano da pazienti di età pari o superiore a 60 anni e l’insufficienza renale acuta era l’indicazione per la biopsia renale in 259 di questi pazienti (24,3%). Le diagnosi primarie più frequenti su questi ultimi campioni bioptici sono risultate essere: glomerulonefrite crescentica pauci-immune con o senza arterite (31.2%); nefrite interstiziale acuta (18.6%); necrosi tubulare acuta con sindrome nefrosica (7.5%); AERD (7.1%); necrosi tubulare acuta in assenza di sindrome nefrosica (6.7%); nefropatia da catene leggere (5.9%); glomerulonefrite post-infettiva (5.5%); nefrite da anticorpi anti-membrana basale glomerulare (4%); nefropatia da depositi mesangiali di IgA o nefrite di Henoch-Schönlein (3.6%). Otto campioni bioptici (3.2%) hanno mostrato solo nefrosclerosi benigna senza un’apparente causa di insufficienza renale acuta e altri sei campioni sono risultati inadeguati [47]. Sebbene lo studio di Haas et al. abbia dimostrato una maggiore frequenza della AERD rispetto ad altre patologie meglio radicate negli algoritmi differenziali (quali, ad esempio, la nefropatia da IgA, malattia da catene leggere, glomerulonefrite post-infettiva o da anticorpi anti-membrana basale glomerulare) e nonostante le evidenze appena riportate dimostrino come la AERD sia tutt’altro che assente dalla scenario clinico routinario, permane ad oggi il problema del ritardo della diagnosi e della sottostima dell’incidenza della AERD, con alcune eccezioni dovute all’esperienza di ciascun centro.

Nella pratica clinica quotidiana, è esperienza comune che la prima ipotesi diagnostica, nel contesto di interventi endovascolari cui consegue il peggioramento della funzione renale, rimane principalmente legata al danno da mezzo di contrasto [82]. Negli ultimi anni si è assistito ad una ridefinizione del danno acuto renale conseguente al mezzo di contrasto e ad una maggiore sensibilità tra le società scientifiche coinvolte al fine di esprimere o meno il nesso di causalità potenziale tra l’infusione del mezzo di contrasto e la comparsa del danno renale acuto. Per tale motivo, è ormai diventata comune la definizione di Contrast-Associated AKI (CA-AKI), o del sinonimo post-contrast AKI, per indicare un danno renale acuto (aumento della creatinina o diminuzione della velocità di filtrazione glomerulare stimata, eGFR) che si verifica subito dopo la somministrazione del mezzo di contrasto e si riferisce a situazioni nelle quali non è stata eseguita una valutazione clinica dettagliata per altre potenziali eziologie di AKI o in cui si possono ragionevolmente escludere altre cause di AKI [83,84]. La definizione Contrast-Induced AKI (CI-AKI), che ha sostituito quella più obsoleta di nefropatia indotta da contrasto (CIN), fa riferimento, invece, ad una correlazione clinica identificabile tra infusione di mezzo di contrasto ed AKI, in un contesto ove non vengono identificate altre cause possibili di danno oltre all’esposizione al mezzo di contrasto [85].

Questa attenzione dei confronti del mezzo di contrasto trova riscontro tanto nei protocolli aziendali di prevenzione del rischio di CI-AKI quanto a livello delle linee guida delle diverse società scientifiche. Le linee guida KDIGO 2012 dedicano un’ampia sezione alla definizione della CI-AKI [86,87], allo screening dei fattori predisponenti nei pazienti a rischio, alla prevenzione ed al trattamento, ponendo l’accento sul ridimensionamento dell’uso dell’emodialisi in assenza di overidratazione, iperkaliemia o disionia quoad vitam. Anche le linee guida radiologiche della European Society of Urogenital Radiology (ESUR) trattano ampiamente il rischio legato alla CI-AKI e le complicanze potenziali, legate a manifestazioni anche extrarenali, conseguenza dell’infusione di mezzo di contrasto [88]. Tuttavia, per quanto chiarificatrice sia la posizione di ambo le società scientifiche in merito alla posizione dell’emodialisi intermittente e dell’emofiltrazione nell’ambito della prevenzione della CI-AKI, non è presente nessun riferimento alla potenziale insorgenza di danno renale evolutivo da microembolizzazioni.

La chirurgia vascolare, invece, fornisce ampio spazio alla problematica ateroembolica quale complicanza diretta (traumatismo) o indiretta (uso di anticoagulanti orali) di interventi endovascolari, pur mantenendosi limitata entro la possibilità di complicanze ischemiche ateroemboliche legate agli arti. Solo in casi isolati, alcuni autori [89] hanno postulato la possibilità di danno d’organo (ad es. renale) come conseguenza di detriti ateroembolici secondari a procedura di rivascolarizzazione dell’arteria renale.

In uno sforzo combinato, la Società Italiana di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare (SICVE) e la Società Italiana di Angiologia e Patologia Vascolare (SIAPAV) hanno implementato le proprie linee guida per la diagnosi e la terapia delle complicanze ischemiche post-procedurali, così come delle vasculiti sistemiche, effettuando una sistematica rivisitazione della letteratura e delle evidenze disponibili al 2015, con l’intento di supportare i chirurghi vascolari e gli angiologi nelle loro decisioni di buona pratica clinica quotidiana. In particolare, lo scopo di questo sforzo congiunto inter-societario è quello di indirizzare il clinico chirurgo vascolare ed angiologo nella selezione della migliore strategia di gestione e trattamento per ogni paziente individuale, tenendo in considerazione sia il risultato finale che il rapporto rischio-beneficio di ogni specifico accertamento diagnostico e trattamento terapeutico [90]. Anche in tale contesto, tuttavia, l’AERD rimane esclusa ed ancora una volta il paziente (ed in buona misura anche il medico che esegue un esame endovascolare) si ritrova indifeso ed impreparato nei riguardi di un danno non legato alle proprietà chimiche del contrasto ma conseguenza diretta di una azione meccanica di frantumazione della placca ateroembolica. Inoltre, ad aggravare il problema, non percependo il rischio di AERD post-procedurale, non viene eseguito il monitoraggio di routine per il peggioramento della funzionalità renale.

 

Conclusioni

Specie nel contesto contemporaneo in cui l’aumento dell’età media, il potenziamento della terapia di anticoagulazione e la crescita dell’interventismo vascolare rappresentano le condizioni eccellenti per l’insorgenza dell’AERD, sarebbe utile una collaborazione inter-societaria che coinvolga le diverse figure professionali, quali nefrologo, radiologo interventista, cardiologo interventista e chirurgo vascolare, per la stesura di linee guida condivise.

La sinergia tra i diversi specialisti permetterebbe l’individuazione dei soggetti maggiormente a rischio, facilitando la condivisione di informazioni con il paziente, in un clima di piena consapevolezza dei rischi peri-procedurali, e la messa in protezione dei soggetti intercettati mediante protocolli seriati volti al controllo ed al monitoraggio della funzione renale.

Parafrasando le parole di Guglielmo D’Ockham “Simpler hypotheses about nature were thus more likely to be true”. Riferendosi alla pratica clinica, quando un medico incontra un sintomo deve sospettare le cause più ovvie, pur non dimenticando quelle meno frequenti.

 

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Acute kidney injury and single-dose administration of aminoglycoside in the Emergency Department: a comparison through propensity score matching

Abstract

Purpose: According to the Surviving Sepsis Campaign, aminoglycosides (AG) can be administered together with a β-lactam in patients with septic shock. Some authors propose administering a single dose of an AG combined with a β-lactam antibiotic in septic patients to extend the spectrum of antibiotic therapy. The aim of this study has been to investigate whether a single shot of AG when septic patients present at the Emergency Department (ED) is associated with acute kidney injury (AKI).

Methods: We retrospectively enrolled patients based on a 3-year internal registry of septic patients visited in the Emergency Department (ED) of Pordenone Hospital. We compared the patients treated with a single dose of gentamicin (in addition to the β-lactam) and those who had not been treated to verify AKI incidence.

Results: 355 patients were enrolled. The median age was 71 years (IQR 60-78). Less than 1% of the patients had a chronic renal disease. The most frequent infection source was the urinary tract (31%), followed by intra-abdominal and lower respiratory tract infections (15% for both). 131 patients received gentamicin. Unmatched data showed a significant difference between the two groups in AKI (79/131, 60.3% versus 102/224, 45.5%; p=0.010) and in infectious disease specialist’s consultation (77/131, 59% versus 93/224, 41.5%; p=0.002). However, after propensity score matching, no significant difference was found.

Conclusion: Our experience shows that a single-shot administration of gentamicin upon admission to the ED does not determine an increased incidence of AKI in septic patients.

Keywords: aminoglycosides, acute kidney injury, gentamicin, safety, sepsis

Introduction

Historically, sepsis has a high mortality, up to 50-75% [1]. The development of new antibiotic molecules has led to a significant reduction, but it still ranges from 30-50% even if treated according to recent guidelines [2]. Furthermore, pathogenic microorganisms have continued to develop resistance under selective antibiotic pressure, making the therapies increasingly complex, particularly in empirical approaches.

The choice of appropriate antibiotic treatment can reduce mortality [3]. For this reason, the real benefit of empirical combination therapy was assessed, particularly in critically ill patients. According to the Surviving Sepsis campaign [4], aminoglycosides (AG) can be administered together with a β-lactam in patients with septic shock (defined by the Sepsis-3 criteria). The spectrum of antibiotics is broadened in particular towards Enterobacteriaceae ESBL and Pseudomonas aeruginosa; the bacteria are attacked in two different ways, thus accelerating the elimination of pathogens [4, 5] in a possible synergistic effect. For patients presenting symptoms compatible with sepsis, some authors propose a single dose or short course (48-72 hours) of an AG in combination with a β-lactam antibiotic (that instead is taken for several days) on admission to the Emergency Department (ED), immediately after blood cultures are taken [6]. The AG dosage is based on body weight (5 to 7 mg/kg for gentamicin), and it is administered together with the first dose of β-lactam, regardless of renal function.

A study by David et al. showed that the risk of AKI following a single dose or a short course of AG in the empirical treatment of bacteremia increases compared to a regimen without AG [7]. The aim of this study has been to investigate whether a single shot of AG in the ED is associated with AKI in sepsis patients.

 

Materials and methods

Population and data collection

Septic patients were retrospectively enrolled at the ED of the Hospital of Pordenone by consecutive sampling, from 1st January 2017 to 31st December 2019, based on an internal registry of all patients admitted to the ED. Each patient gave informed consent for data acquisition, and the European Privacy Regulation 2016/679 for General Data Protection Regulation (GDPR) was respected. Patients were eligible if they met the third international consensus definition of sepsis. Exclusion criteria were age below 18, pregnancy, major trauma, cardiac arrest.

The primary aim was to determine whether a single initial dose of aminoglycoside (gentamicin) could lead to acute renal injury in a group of septic patients. Furthermore, we investigated which variables were correlated to the development of AKI.

We looked at demographic characteristics (age and sex), source of infection, immunodepression condition, the presence of a chronic kidney disease (defined as a decreased glomerular filtration rate of less than 60 mL/min/1.73 m2 for at least 3 months, according to the definition by KIDGO CKD Work Group [8]) or acute kidney injury (defined as an increase in serum creatinine by ≥0.3 mg/dL within 48 hours or an increase in serum creatinine to ≥1.5 times the baseline or a urine volume <0.5 mL/Kg/hour for six hours, according to the KDIGO definition), collection of at least one blood culture sample, length of stay in the hospital, the outcome of hospitalization (recovery, death, admission in ICU or a non-intensive care ward). It was also recorded whether a single dose of gentamicin was administered at the time of hospital admission, at the usual doses reported in the literature (5-7 mg/kg/dose IV).

Figure 1: Flowchart of the cohort-registry enrollment.
Figure 1: Flowchart of the cohort-registry enrollment. Septic patients were retrospectively enrolled at the ED of the Hospital of Pordenone by consecutive sampling, from 1st January 2017 to 31st December 2019, based on an internal registry of all patients admitted to the ED

Statistical analysis

Discrete variables were expressed as absolute value and percentage (%), while continuous variables were expressed as the median and interquartile range (IQR) for a non-parametric distribution. In the comparison between the groups, the distribution of the variables was verified using the Shapiro-Wilks test. The groups’ differences were calculated through the Kruskal-Wallis test for continuous variables if not normally distributed (or Student’s T-test if normally distributed); chi-square or exact Fisher’s test was used for discrete variables. A p-value ≤of 0.05 was considered statistically significant. Corrections for pairwise comparisons were applied using the Benjamini and Hochberg method. A propensity score match based on the “nearest neighbor match” method was applied to compare the two study groups for baseline characteristics. A general linear multivariate regression was performed to verify the correlation between predictive variables and AKI using propensity score weighting.

The statistical analysis was performed using the R environment (version 4.0.3, R Foundation for Statistical Computing. Vienna, Austria) with the following packages: “mice”, “MatchIt”, “compareGroups”.

 

Results

During the 3 years, 355 patients were enrolled (Figure 1). The median age was 71 years (IQR 60-78), 56% was male, 1% had chronic kidney disease, 5% was considered immunosuppressed (a transplant patient, a patient on immunosuppressive therapy, a neoplastic patient in non-palliative treatment, a patient with rheumatological disorders). In 48% of cases, an infectious diseases consultant was involved. The most frequent infection source was the urinary tract (31%), followed by intra-abdominal and lower respiratory tract infections (15% for both). In 17% of cases, the source of the infection was not determined. The median length of stay was 4 days; 69% was in a low-intensity care ward. In-hospital mortality was around 5%. 131 patients were treated with a single dose of gentamicin. Acute renal injury occurred in 51% of cases (Table 1).

Unmatched data showed a significant difference between the treated and non-treated groups as far as AKI (79/131, 60.3% versus 102/224, 45.5%; p=0.010) and the consultation of infectious disease specialists (77/131, 59% versus 93/224, 41.5%; p=0.002) were concerned. However, after propensity score matching, no significant difference was found.

No variables were significantly correlated with AKI in a general linear regression model.

 

ALL

Unmatched Matched
Control Group Gentamicine Group P-value Control Group Gentamicine Group P-value
N = 355 N = 224 N = 131 N = 131 N = 131
Age (Years)   71
(60-78)
71
(61-78)
70
(59-78)
.536 71
(61-77)
70
(59-78)
.671
Sex (male)   199
(56.1%)
129
(57.6%)
70
(53.4%)
.516 71
(54.2%)
70
(53.4%)
1
Blood cultures taken   334
(94.1%)
207
(92.4%)
127
(96.9%)
.130 127
(96.9%)
127
(96.9%)
1
Source of infection   . .
  Abdominal 52
(14.6%)
37
(16.5%)
15
(11.5%)
23
(17.6%)
15
(11.5%)
  Bone 12
(3.4%)
6
(2.7%)
6
(4.6%)
5
(3.8%)
6
(4.6%)
  Device 7
(2.0%)
4
(1.8%)
3
(2.3%)
3
(2.3%)
3
(2.3%)
  Endocarditis 11
(3.1%)
8
(3.6%)
3
(2.3%)
5
(3.8%)
3
(2.3%)
  Lung 53
(14.9%)
51
(22.8%)
2
(1.5%)
23
(17.6%)
2
(1.5%)
  Neurological 7
(2.0%)
6
(2.7%)
1
(0.8%)
4
(3.1%)
1
(0.8%)
  Skin 43
(12.1%)
32
(14.3%)
11
(8.4%)
19
(14.5%)
11
(8.4%)
  UTI 109
(30.7%)
49
(31.9%)
60
(45.8%)
27
(20.6%)
60
(45.8%)
  n.d. 61
(17.2%)
31
(13.8%)
30
(22.9%)
22
(16.8%)
30
(22.9%)
Immunocompromised   18
(5.1%)
10
(4.5%)
8
(6.1%)
.667 6
(4.6%)
8
(6.1%)
.784
ID consultation   170
(47.9%)
93
(41.5%)
77
(58.8%)
.002 74
(56.5%)
77
(58.8%)
.803
CKD   3
(0.9%)
3
(1.3%)
0 .299 . . .
AKI   181
(51.0%)
102
(45.5%)
79
(60.3%)
.010 78
(59.5%)
79
(60.3%)
1
LOS (days)   4
(3-6)
5
(3-7)
4
(2-6)
.100 4
(3-6)
4
(2-6)
.384
Outcome   .597 .816
  Discharge 59
(16.6%)
37
(16.5%)
22
(16.8%)
25
(19.1%)
22
(16.8%)
  Ward 245
(69.0%)
159
(71.0%)
86
(65.6%)
88
(67.2%)
86
(65.6%)
  ICU 31
(9.0%)
18
(8.0%)
14
(10.7%)
10
(7.6%)
14
(10.7%)
  Decease 19
(5.4%)
10
(4.5%)
9
(6.9%)
8
(6.1%)
9
(6.9%)
Table I: Characteristics of the general population and crude and matched comparison by propensity score matching between groups of patients treated with aminoglycoside and not treated. ID = infectious diseases; CKD = chronic kidney disease; AKI = acute kidney injury; LOS = length of stay; ICU = intensive care unit

 

Discussion

Antibiotic therapy is the cornerstone of the treatment of critically ill patients with sepsis in ED. Combination therapy is widely used in the empirical approach to broaden the spectrum, particularly in the first few days, to increase the probability of appropriate initial treatment [9]. Although this is debated, AG in this setting seems to help broaden the gram-negative and gram-positive spectrum of coverage of empirical antimicrobial therapy. Furthermore, this therapy should provide rapid clearance of pathogens, especially from blood and urine.

Combined antibiotic therapy should be based on local resistance epidemiology and individual risk factors for resistance, including recent antibiotic use, length of hospitalization, and previously known colonization. In our Hospital, ESBL-producing Enterobacteriaceae are 11% of total isolates, much lower than the Italian and European average [10, 11].

In our study, presenting a 3-year series of consecutive septic patients enrolled in the context of an ED, we found an increase in AKI cases in subjects treated with AG in the raw comparison between the two groups. However, this difference was not replicated after applying a propensity score match analysis. This result leads to a multifactorial explanation of the development of AKI in septic patients, not related to AG exposure.

This result confirms what has been reported in the literature [1215]. A short course or a single dose of AG does not seem to be associated with AKI, even in high-risk septic patients. Although older studies have obtained different results, they were likely influenced by a different pharmacokinetic pattern (longer cycles of multiple doses of AG per day) or by different bacterial strains, including nosocomial infections, being responsible for the sepsis. In 2015, Cobussen et al. found results similar to ours in patients developing AKI with or without AG administration, but an excess in mortality in the AG group was registered [12]. The mortality excess could be related to the worse presentation of patients treated with AG, and this can be deducted directly from the comparison between the SOFA scores, which is higher in the AG group. Moreover, patients in this group were more frequently in septic shock. The increased request for advice from the infectious disease specialist in our study indirectly reveals that patients in the AG group were more severe than the control group. Cobussen et al. obtained the same results in a large retrospective multicenter study [13], finding a similar pattern in both previously nephropathic and not nephropathic patients who had taken AG or just β-lactam. Regardless of the presence of AKI at hospital admission, AG did not worsen the renal function, and there was no delay in recovering a normal renal function (two weeks). In this study, patients in the AG group were more severely ill than the group that did not receive AG, as illustrated by the higher incidence of AKI at admission, qSOFA score, shock, ICU admissions, and 30-day mortality. Despite the difference in disease severity at admission, no significant differences were seen in AKI incidence during the first week of admission between groups.

Liljedahl Prytz et al. came to the same conclusions as us, hypothesizing that a single dose of AG is safer in avoiding chemical stress on an already saturated renal tubule [14]. Previous work by Carlsen et al. [15] showed no significant increase in AKI even using, as we did, a very sensitive staging method (KDIGO) to assess mild renal insufficiency and found an annual trend of AKI in a comparable percentage (80%) in both the AG and the monotherapy groups [15].

Our series notes that patients in the AG group more frequently presented abdominal or urinary infections rather than pulmonary infections. In these patients, septic syndrome likely evolved from complicated gram-negative bacterial infections. In 23% of cases, the infectious source was not detected.

Consultation with an infectious disease specialist most often suggests combination therapy with AG. This consultation has been associated with improved quality of care and better outcomes for several infectious diseases, including S. aureus bacteremia and invasive candidiasis [16]. Many studies argue that specialist consultation is associated with lower mortality in patients with bloodstream infections due to the standardization of the sepsis approach with effective timing and tailored therapy [1719]. Otherwise, the creation of a “ready-to-use” therapeutic protocol that takes into account the suspected site of infection, the patient’s previous colonization, and risk factors for exposure (such as hemodialysis for S. aureus) could be a reasonable alternative in a context of resource optimization and good therapeutic management even in “hub-and-spoke” hospital organization [20].

Our study demonstrates the safety of a class of drugs that is too often seen as a “kidney killer” and therefore avoided or underdosed in patients considered at risk (severe septic patients for whom intense antibiotic therapy could be a lifesaver in the early hours). At the same time, there is no reason to administer a low dose when given as a loading dose. Cobussen et al. found that 20% of septic patients in a Dutch ED received an aminoglycoside underdose (equivalent to <5 mg/kg) [21]. These patients required intensive care admission more frequently. Interestingly, patients who received the smaller AG dose also had higher creatinine levels. Therefore, the single-dose AG not only does not cause an excess of AKI cases compared to controls but could also have a nephroprotective effect by counteracting the haemodynamic and direct mechanisms induced by the bacterial spread in the organism.

On the other hand, the high potential benefit of the β-lactam/AG combination is relevant in carbapenem sparing strategies when considering the increasing carbapenem resistance of gram-negative species even outside the hospital.

Our study, being retrospective, is subject to some limitations. For example, data on the microorganisms that supported infections were not reported, in particular, whether sensitive or resistant to AGs. Moreover, the β-lactam therapy was not standardized in both groups (mono and combination). Furthermore, we could not stratify the patients’ initial conditions, for example, using the Charlson Score Index, due to the lack of the necessary variables. In any case, for the primary outcome we evaluated, the use of a propensity score match allowed us to eliminate the most relevant confounding factors associated with the development of AKI in septic patients in the ED.

 

Conclusion

According to the data we obtained, a single administration of gentamicin at the arrival time in the ED does not lead to an increased risk of AKI in septic patients.

 

Acknowledgements

The authors wish to thank all the Emergency Department staff and the Infectious Diseases Department of the ASFO hospital of Pordenone for their active collaboration in collecting the data.

 

Declarations

  1. Funding: No funds were provided to conduct this study.
  2. Conflicts of interest/Competing interests: No conflict of interest for any author.
  3. Availability of data and material: Data available by reasoned request.
  4. Code availability: Not applicable.
  5. Ethics approval: Retrospective cohort register exempted from ethics committee approval.
  6. Consent to participate: Each patient gave informed consent for data acquisition, and the European Privacy Regulation 2016/679 for General Data Protection Regulation (GDPR) was respected.
  7. Consent for publication: Each patient gave informed consent for data acquisition, and the European Privacy Regulation 2016/679 for General Data Protection Regulation (GDPR) was respected.
  8. Authors’ contributions: SV designed the study, collected the data, drafted the first draft and supervised the final draft; FC drafted the first draft and supervised the final draft; DO drafted the first draft and supervised the final draft, performed the statistical analysis; MC designed the study, collected the data; SF collected the data; AC collected the data; EP collected the data; LDS collected the data; DA collected the data; ML, LV and TB supervised the final draft.

 

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Tossicità renale da farmaci antineoplastici

Abstract

L’onconefrologia è una recente disciplina sorta in campo nefrologico e oncologico, volta ad esplorare le numerose connessioni tra patologie neoplastiche e renali. Tra i numerosi campi di applicazione dell’onconefrologia, un ruolo significativo è ricoperto dalla gestione degli eventi avversi in corso di terapia antineoplastica attraverso una analisi individualizzata dei fattori di rischio del paziente, delle caratteristiche dei farmaci oncologici prescritti e l’instaurazione di un preciso follow-up che spesso prosegue anche al termine del trattamento oncologico. Lo scopo di questa revisione è, oltre che descrivere i fattori di rischio per la nefrotossicità da farmaci antitumorali, analizzare le principali criticità onco-nefrologiche legate alle specifiche classi di farmaci. I chemioterapici classici presentano un profilo variabile di tossicità renale, per la maggior parte dei casi ben definito, che consente di mettere in campo delle collaudate strategie terapeutiche per la gestione degli eventi avversi renali. Le terapie a bersaglio molecolare e i farmaci immunoterapici nonostante abbiano dimostrato di migliorare significativamente la prognosi a breve e lungo termine in numerose neoplasie presentano un ampio profilo di tossicità renale ancora in fase di definizione. La costante analisi dei report relativi alle specifiche molecole, associata ad un a condotta proattiva per la definizione istologica delle lesioni renali in questo contesto clinico, è la chiave per completare rapidamente la definizione del profilo di sicurezza ampliando contestualmente la platea dei pazienti che potranno beneficiare  dei nuovi farmaci antineoplastici.

Parole chiave: Danno renale acuto, AKI, cisplatino, gemcitabina, anti-VEGF, immunoterapia, bevacizumab

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Introduzione

L’onconefrologia è una recente disciplina nata in campo nefrologico che studia le numerose interrelazioni tra malattie renali e patologie oncologiche [1].  I recenti progressi a livello di diagnosi e terapia hanno infatti portato ad un significativo incremento della sopravvivenza dei pazienti affetti da patologie oncologiche; contestualmente è emerso l’impatto che le patologie renali esercitano in senso prognostico e terapeutico in questa categoria di pazienti. Il danno renale acuto (acute kidney injury [AKI]), sia esso di natura pre -post o intra-renale è sicuramente la sindrome clinica nefrologica maggiormente riscontrata nei pazienti oncologici. Frequentemente, questa sindrome clinica si inserisce in un contesto complesso, caratterizzato dalla presenza di altre sindromi cliniche nefrologiche, quali una preesistente malattia renale cronica o quadri di sindrome nefrosica e/o nefritica riconducibili ad un danno glomerulare. (figura 1). Tra le cause di AKI, un ruolo preminente è esercitato dalla terapia antineoplastica: in tale ottica un’attenta analisi onco-nefrologica risulta imprescindibile, al fine di minimizzare il potenziale impatto negativo a livello multi-organo, al momento della prescrizione, durante il trattamento e, in alcuni casi, al termine del ciclo terapeutico. In questa sede, sono analizzati gli effetti renali a breve e a lungo termine conseguenti alla terapia con farmaci chemioterapici classici, farmaci a bersaglio molecolare e farmaci immunoterapici.

Figura 1. Spettro dei meccanismi di danno renale in corso di patologia neoplastica
Figura 1. Spettro dei meccanismi di danno renale in corso di patologia neoplastica

 

Fattori di rischio per danno renale in corso di terapia con farmaci antineoplastici

Non tutti i pazienti trattati con farmaci antineoplastici nefrotossici presentano danno renale; ciò può dipendere da numerosi fattori che, se presenti, incrementano il rischio di nefrotossicità. In generale, è possibile identificare: 1) fattori dipendenti dalla neoplasia; 2) fattori legati alla tossicità innata del farmaco; 3) fattori dipendenti dal paziente; 4) fattori legati al metabolismo renale dei farmaci oncologici (figura 2) [2].

Fattori di rischio per nefrotossicità da famaci antitumorali
Figura 2. Fattori di rischio per nefrotossicità da famaci antitumorali

Fattori dipendenti dalla neoplasia. Alcune neoplasie possono esercitare un effetto nefrotossico diretto; come avviene nel mieloma multiplo, nei casi di infiltrazione renale in corso di linfomi, del danno intra-renale nel corso delle GN paraneoplastiche o post-renale in corso di neoplasie del tratto urinario. È inoltre frequente un effetto nefrotossico indiretto di alcune neoplasie che possono causare AKI pre-renale per deplezione di volume vera (es. disidratazione conseguente a vomito, diarrea o eccessiva diuresi), o relativa, (es. insufficienza epatica). Infine alcune neoplasie possono causare alterazioni metaboliche come iper/ipocalcemia e iperuricemia, potenziando l’effetto nefrotossico del trattamento oncologico.

Fattori legati alla tossicità innata del farmaco. Il potenziale nefrotossico dei farmaci può dipendere da un effetto diretto, da una prolungata esposizione o da un’elevata dose cumulativa, anche in assenza di altri fattori di rischio. Ad esempio, successivamente alla somministrazione di alcuni trattamenti oncologici (es. methotrexate) è possibile osservare un danno diretto per precipitazione del farmaco o diretto tossico per azione dei metaboliti a livello tubulare. Infine, il danno indotto della molecola anti-tumorale può sommarsi agli effetti di altri nefrotossici noti, su tutti i farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS), gli aminoglicosidi e i mezzi di contrasto iodati.

Fattori dipendenti dal paziente. Alcuni pazienti, a parità di esposizione a nefrotossici, hanno un maggior rischio di sviluppare danno renale. Le categorie maggiormente a rischio sono soggetti anziani (età superiore a 65 anni) e quelli affetti da malattia renale cronica (chronic kidney disease [CKD]) o che già hanno presentato episodi di AKI. E’ possibile che la presenza di un background genetico sfavorevole sia un ulteriore fattore di rischio. In particolare, è noto che la presenza di polimorfismi a carico del citrocromo P-450 renale, possa causare una ridotta attività metabolica intra-renale e contestuale accumulo di farmaci nefrotossici. Una ridotta escrezione cellulare dei farmaci a seguito di mutazioni causanti ridotta attività dei trasportatori apicali e delle proteine carrier, può favorire l’accumulo intra-cellulare di molecole nefrotossiche. Infine, le differenze individuali su base genetica, in termini di iperreattività del sistema immunitario, possono in parte spiegare la maggiore predisposizione di alcuni pazienti allo sviluppo di danno immunomediato in corso di trattamento oncologico.

Fattori legati al metabolismo renale dei farmaci oncologici. Il metabolismo renale dei farmaci rappresenta un ulteriore fattore che può incrementarne la tossicità. I reni, a causa dell’elevato apporto di sangue che ricevono (circa il 25% della gittata cardiaca) sono contestualmente esposti in maniera superiore rispetto agli altri organi ai potenziali effetti tossici dei farmaci. In particolare, l’ansa di Henle e il tubulo collettore sono particolarmente vulnerabili al danno tossico ischemico come conseguenza di un ambiente cellulare ed extracellulare relativamente ipossico e dell’elevata attività concentrante che innalza i livelli locali dei farmaci e dei loro metaboliti. L’elevata attività metabolica espone inoltre ad un incremento della produzione di specie reattive dell’ossigeno che contribuiscono al mantenimento del danno d’organo attraverso meccanismi di alchilazione degli acidi nucleici, degenerazione proteica, perossidazione lipidica e danno strutturale del DNA. Il tubulo prossimale è interessato da danno tossico successivamente all’uptake cellulare del farmaco dal circolo peritubulare.

Dall’analisi dei sopracitati meccanismi di danno renale in corso di terapia oncologica emerge come l’effetto nefrotossico sia spesso multifattoriale. Dal momento che una quota rilevante di questi effetti dipende da fattori non modificabili legati ai pazienti, anche l’efficacia degli interventi messi in atto con il fine di ridurre o regredire il danno renale, sarà limitata.

 

Danno renale in corso di terapia con chemioterapici classici

La trattazione organica degli effetti avversi renali dei chemioterapici classici non è possibile in questa sede; suggeriamo pertanto alcune risorse specifiche [3, 4]. In questo contesto ci concentreremo sui composti a base di platino, ifosfamide, e gemcitabina.

 

Cisplatino

Il cisplatino è un potente chemioterapico utilizzato per il trattamento di un elevato numero di neoplasie. La nefrotossicità rappresenta un effetto avverso frequente e spesso può limitare il proseguo della terapia oncologica, oltre che determinare conseguenze negative a carico della funzione renale a breve e a lungo termine. Il danno renale acuto si osserva nel 30% dei pazienti [5] ed è conseguente a un principale interessamento del tubulo prossimale, (in particolare il suo segmento S3). Ciò che sottende al danno tubulare sono prevalentemente effetti tossici diretti, l’induzione di ischemia tubulare per diminuita vascolarizzazione tubulare, l’accumulo di metaboliti cellulari tossici e lo stato infiammatorio locale [6]. In oltre metà dei pazienti che presentano AKI in corso di terapia con cisplatino si riscontra ipomagnesemia, che a sua volta può potenziare l’entità del danno renale. Altre possibili manifestazioni del danno renale sono la sindrome di Fanconi, la acidosi tubulare renale di tipo 1 e nefropatia sodio disperdente; in alcuni pazienti è stato descritto un quadro clinico ed istologico di microangiopatia trombotica.

Tra i principali fattori che hanno dimostrato di poter incrementare il rischio del danno renale si annoverano 1) l’incremento del picco di concentrazione libera del farmaco a livello sierico, 2) aver praticato precedentemente dei cicli di chemioterapia a base di platino, 3) la presenza di una malattia renale cronica già al momento dell’inizio del trattamento chemioterapico, e 4) l’uso concomitante di altri agenti nefrotossici.

Alla luce dei fattori di rischio prima citati, sono stati proposti diversi approcci che sottendono a ridurre la concentrazione libera di farmaco [6], in particolare l’idratazione con soluzione salina nel danno renale acuto e l’utilizzo di dosi inferiori di farmaco (o la sostituzione con analoghi del cisplatino) nelle forme con evidenza di danno cronico. Tra gli analoghi del cisplatino, il carboplatino ha dimostrato di avere un potenziale nefrotossico significativamente ridotto se la dose è adattata alla funzione renale (formula di Calvert )[7].

 

Ifosfamide

L’ifosfamide è una mostarda azotata che, al pari del cisplatino, è utilizzata nel trattamento di un gran numero di neoplasie solide, in particolare tumori della linea germinale, sarcomi e linfomi non Hodgkin. Noti effetti collaterali del trattamento con ifosfamide sono la cistite emorragica, la sindrome da inappropriata secrezione di ADH e la tossicità diretta a carico del tubulo prossimale.

Le principali manifestazioni cliniche comprendono AKI associata a ipofosfatemia, sindrome di Fanconi (glicosuria, bicarbonaturia, aminoaciduria, proteinuria tubulare) e acidosi tubulare renale distale o prossimale [8].

Il maggiore determinante del danno renale è costituito dalla dose cumulativa del farmaco: per dosi cumulative inferiori a 60 g/m2, l’insorgenza di AKI è possibile ma le conseguenze nel lungo termine sono rare. Nei pazienti che invece hanno ricevuto una dose cumulativa superiore a 120 g/m2, oltre ad un danno renale acuto è frequente il riscontro di compromissione persistente della funzione renale [9].

La riduzione della dose cumulativa, l’assicurazione di una corretta idratazione e l’abolizione dell’esposizione ad altri farmaci nefrotossici noti, rappresentano al momento gli unici strumenti per limitare l’insorgenza e l’entità del danno renale nei pazienti trattati con ifosfamide.

 

Gemcitabina

La Gemcitabina è un antagonista delle pirimidine utilizzato come antitumorale in particolare nei carcinomi della vescica, mammella, polmone (non a piccole cellule), ovaio e pancreas. Il principale evento avverso renale è il danno renale acuto, nella maggior parte dei casi conseguente all’insorgenza di microangiopatia trombotica (TMA), che è preceduto da ipertensione arteriosa resistente e, successivamente, si palesa con segni di interessamento sistemico quali alterazioni neurologiche e lesioni ischemiche periferiche; secondo alcune casistiche, la TMA in corso di gemcitabina si osserva in circa 1% dei pazienti [10]. Tra i fattori di rischio si annovera la pregressa esposizione a mitomicina C, la presenza di CKD ed il superamento di una dose cumulativa di 20000 mg/m2 [11].

Nonostante il rischio incrementato di presentare eventi avversi, il trattamento con Gemcitabina è stato proposto, con opportuna riduzione di dosaggio, anche nei pazienti con CKD avanzata e talvolta in end stage renal disease (ESRD) in emodialisi. Plasmasferesi, rituximab ed eculizumab sono stati proposti per il trattamento della TMA [12,13], ma allo stato attuale la sospensione del farmaco e la terapia di supporto restano le uniche misure di provata efficacia [14].

 

Danno renale in corso di terapia con farmaci a bersaglio molecolare

Il miglioramento delle conoscenze relative alla fisiopatologia dei tumori, ha permesso negli ultimi due decenni, di sviluppare dei farmaci diretti contro i meccanismi molecolari alla base della crescita, della progressione e della diffusione metastatica delle neoplasie. Questi agenti antineoplastici, definiti collettivamente come “farmaci a bersaglio molecolare” o “target therapy” hanno radicalmente migliorato la prognosi a breve e lungo termine dei pazienti affetti da neoplasie solide e ematologiche [15]. Nonostante l’ampia diffusione dei farmaci a bersaglio molecolare, il profilo di sicurezza degli stessi è in corso di definizione a seguito di un numero crescente di eventi avversi riportati a seguito del loro estensivo utilizzo. Gli eventi avversi renali sono un’evenienza che è stata frequentemente riportata in studi osservazionali, principalmente nella fase post marketing. Ciò può essere una conseguenza dell’esclusione dai trial randomizzati controllati di fase 3 dei pazienti con funzione renale ridotta, in particolare dei pazienti anziani che rappresentano metà dei malati oncologici [15]. Come i chemioterapici tradizionali, la nefrotossicità da farmaci a bersaglio molecolare può coinvolgere tutti i segmenti del nefrone. Concentreremo la nostra attenzione sugli effetti renali dei farmaci antiangiogenetici riferendo i lettori alla pubblicazione di Porta e colleghi per l’analisi sistematica degli effetti avversi renali dei farmaci a bersaglio molecolare [15].

 

Farmaci antiangiogenetici

L’iperespressione del vascular endothelial growth factor (VEGF) o del suo recettore (VEGFr) sono elementi chiave della neo-angiogenesi tumorale. Gli inibitori del VEGF (es. bevacizumab, afilbercept), o dell’attività delle tirosin-kinasi associate al VEGFr (TKi) (es. sunitinib, sorafenib, pazopanib) sono i principali anti tumorali in uso ad azione anti neoangiogenetica. Essi riducono la perfusione tumorale attraverso una inibizione del microcircolo e della proliferazione endoteliale neoplastica.

La forma A del VEGF (VEGF-A) è abbondantemente prodotta a livello dei podociti, delle cellule mesangiali e tubulari, mentre il VEGFr è espresso a livello delle cellule mesangiali e tubulari [16]. Il VEGF-A esercita un ruolo fondamentale nella formazione e mantenimento della barriera di filtrazione glomerulare; in sua assenza i podociti e le cellule endoteliali sono incapaci di maturare e proliferare. L’inibizione eccessiva del VEGF-A è causa di tossicità  podocitaria e mesangiolisi [17].

Dall’alterazione dell’omeostasi glomerulare derivano verosimilmente le principali lesioni istologiche; la TMA è maggiormente descritta in corso di terapia con i ligandi del VEGF, mentre le podocitopatie (es. malattia a lesioni minime e glomerulosclerosi focale e segmentaria variante “collapsing”) sono state osservate principalmente in corso di terapia con TKi [18-19].

Dal punto di vista clinico, si osservano proteinuria, ipertensione arteriosa di nuovo riscontro (o esacerbazione di ipertensione preesistente), AKI (con o senza proteinuria) e raramente alterazioni elettrolitiche come ipofosfatemia, ipocalcemia e iponatremia [15]. Tali alterazioni renali, se persistenti, possono causare una riduzione persistente del filtrato glomerulare, fino alla malattia renale cronica terminale. Il riscontro di proteinuria è un’evenienza frequente nei pazienti trattati con Bevacizumab (circa il 13%); solo nel 2% dei casi si tratta di proteinuria ad alto grado (> 3,5 g/24h o ³ 4+ al dipstick urinario o riscontro di sindrome nefrosica) [20].

Allo stato attuale il trattamento della proteinuria in corso di farmaci antiangiogenetici non è sostenuto da evidenze di qualità; appare tuttavia importante monitorare questo dato prima, durante e dopo ogni ciclo terapeutico, preferendo la raccolta delle urine delle 24 ore all’esame su stick urinario. Un approccio iniziale consiste nell’introduzione o nel potenziamento della terapia con ACEi o ARBs al fine di ridurre i fenomeni di ipertensione glomerulare. Tuttavia, in caso di riscontro di proteinuria >2 g/24h, è necessario valutare la prosecuzione della terapia oncologica o la sua sospensione temporanea; d’altra parte, la sindrome nefrosica rappresenta un’indicazione assoluta alla sospensione definitiva del farmaco.

Le alterazioni microvascolari in corso di farmaci antiangiogenetici possono comparire in qualsiasi momento del ciclo terapeutico e non sono dose correlate, contrariamente a quanto si osserva nei pazienti trattati con chemioterapici classici. Le lesioni istologiche sono solitamente limitate al rene con pattern di microangiopatia trombotica (trombosi glomerulare) mentre le arteriole sono solitamente risparmiate o presentano modesti segni di endoteliosi. Il danno renale è solitamente autolimitante e reversibile con la sospensione del farmaco. Alcuni autori hanno suggerito, in alcuni casi, la ripresa della terapia ad un dosaggio inferiore con stretto monitoraggio clinico [19].

La terapia con farmaci antiangiogenetici causa ipertensione arteriosa nel 30-80% dei pazienti. Il legame del VEGF con il suo recettore a livello endoteliale media infatti effetti di vasodilatazione attraverso l’incrementata produzione di ossido nitrico e il rilascio di prostaclina-12 e causa inoltre un incremento della permeabilità vascolare; questi effetti vengono inibiti in corso di terapia con inibitori dell’angiogenesi [15].

Contrariamente al riscontro di proteinuria e TMA che possono essere considerati effetti off-target, l’ipertensione è espressione di un effetto terapeutico diretto a livello del blocco della cascata del segnale VEGF-dipendente ed è diretta espressione dell’entità dell’effetto antineoplastico della terapia [21], osservabile nella quasi totalità dei pazienti. Appare pertanto fondamentale, prima dell’inizio della terapia con farmaci inibitori dell’angiogenesi, raggiungere un ottimale controllo pressorio. Sebbene non siano al momento presenti delle linee guida condivise in merito al trattamento dell’ipertensione in corso di terapia con farmaci antiangiogenetici, i calcio antagonisti associati o meno con ARBs e ACEi sono una ragionevole prima scelta [22].

 

Danno renale in corso di terapia con farmaci immunoterapici

Gli inibitori dell’immuno-checkpoint (Immuno Check Point Inhibitors, [ICIs]) rappresentano una nuova classe di farmaci immunoterapici che ha profondamente rivoluzionato la terapia di diverse forme di neoplasie (sia solide che ematologiche), migliorandone significativamente la prognosi, risultando efficace in circa un quarto dei pazienti affetti da neoplasia avanzata [23]. Gli anticorpi monoclonali appartenenti a questa classe di farmaci esplicano la loro azione attraverso l’inibizione dell’attività di alcune specifiche molecole coinvolte nella downregulation del sistema immunitario, i cosidetti “immuno checkpoint”, e la conseguente attivazione della risposta immunitaria specifica diretta verso gli antigeni tumorali. I due target di questa classe di farmaci sono rappresentati dal cytotoxic T-lymphocyte–associated antigen 4 (CTLA-4) a dal programmed death 1 pathway (PD-1/PD-Ligand-1[PD-L1]), espressi su diversi tipi di cellule quali linfociti T e cellule presentanti l’antigene [APCs]. Il ruolo fisiologico di tali pathway molecolari è quello di regolare in maniera negativa l’attivazione del sistema immunitario, con il fine mantenere la self-tolerance e prevenire il danno tissutale secondario ad un’incontrollata attività del sistema immunitario. CTLA-4 è responsabile dell’inibizione dei linfociti T antigene-specifici espressi a livello linfonodale, attraverso il legame competitivo con il recettore co-stimolatore CD28 sulla superficie dei T linfociti e con la molecola B7 (CD80/86) sulle superficie dell’APCs.  PD-1 è una molecola con attività co-inibitoria espressa sulla superficie dei linfociti T, attivata dall’interazione con PD-L1, in seguito alla presentazione dell’antigene da parte delle APCs. L’iperespressione di PD-L1 è stata descritta quale meccanismo di evasione della risposta immunitaria dell’ospite da parte cellule tumorali. Attualmente, sette differenti molecole con azione sul sistema dell’immunocheckpoint sono state approvate dalla Food and Drugs Aministration statunitense: un anticorpo monoclonale anti CTLA-4, tre anticorpi monoclonali anti PD-1 e tre anticorpi monoclonali antiPD-L1.

Il medesimo meccanismo d’azione alla base dell’efficacia terapeutica degli ICIs è verosimilmente responsabile della nefrotossicità osservata in una percentuale compresa tra 3 e 17% dei pazienti trattati con tali terapie. Una prima ipotesi patogenetica ipotizza una perdita di tolleranza nei confronti di antigeni self espressi a livello renale [24], mentre una seconda ipotesi patogenetica chiama in causa l’attivazione di una risposta immunitaria cellulo-mediata innescata dall’esposizione ad antigeni non-self (principalmente farmaci) con conseguente danno tissutale cellulo-mediato a livello renale [25].

Il più comune quadro istopatologico descritto nei casi di AKI osservati in corso di terapia con ICIs è la TIN: in un recente studio multicentrico, Cortazar et al descrivono un quadro istologico di AIN nel 93% dei pazienti con evidenza di AKI sottoposti ad agobiopsia renale [26]. Il restante 7% dei casi descritti, coerentemente con quanto riportato in precedenti case report e case series, era rappresentato da necrosi tubulare acuta e da una varietà di quadri di danno glomerulare (GN necrotico-crescentica paucimmune ANCA-negativa, C3 glomerulopathy, anti-GBM disease).

I dati presenti in letteratura permettono di identificare fattori di rischio per lo sviluppo di AKI nei pazienti in terapia con ICIs: l’utilizzo di farmaci noti quali responsabili di TIN (i.e. FANS, inibitori di pompa protonica), la combinazione di più farmaci che agiscono sul sistema dell’immuno check-point (anti CTLA-4 in associazione con inibitori di PD-1/PD-L1) e la presenza di un quadro di malattia renale cronica al momento dell’inizio della terapia con ICIs [27].

Le caratteristiche cliniche della nefrotossicità in corso di terapia con ICIs mostrano, nella maggior parte dei casi, le stesse peculiarità cliniche osservate nei casi di nefrite interstiziale acuta da farmaci con evidenza di danno renale acuto associato a piuria sterile e proteinuria subnefrosica [26, 28]. Il danno tubulare in corso di terapia con ICIs può manifestarsi anche con un quadro di acidosi tubulare renale distale, in assenza di danno renale acuto: tale quadro clinico è stato correlato ad un’attività autoimmunitaria diretta contro le cellule intercalate di tipo A del tubulo contorto distale, con conseguente alterazione della funzione dell’H+-ATPasi e della Cl-/HCO3- ATPasi [29-30]. Nei casi di interessamento glomerulare è possibile, invece, osservare differenti sindrome cliniche nefrologiche, in relazione allo specifico quadro istologico descritto: sindrome nefrosica, sindrome nefritica o insufficienza renale rapidamente evolutiva [27].

Il ruolo della biopsia renale nella nefrotossicità da ICIs è attualmente oggetto di un profondo dibattito. Le Linee Guida della Società America di Oncologia Clinica indicano l’inizio della terapia immunosoppressiva nei casi di AKI in pazienti trattati con ICIs (una volta escluse cause prerenali e postrenali di AKI) senza porre indicazione all’esecuzione di agobiopsia renale [31].

Per quanto la nefrite interstiziale acuta sia il danno istologico più frequentemente osservato nei casi di nefrotossicità da ICIs, tale approccio diagnostico-terapeutico espone una percentuale non trascurabile di pazienti ad un trattamento immunosoppressivo non necessario. In tale ottica la biopsia renale, qualora non controindicata, appare uno strumento imprescindibile per la gestione della nefrotossicità da ICIs.

La sospensione della terapia con ICIs e la terapia steroidea rappresentano i capisaldi del trattamento della AIN associata ad inibitori dell’immuno checkpoint. L’utilizzo di dosi di prednisone pari a 0.8-1 mg/kg/die (o equivalenti), fino ad un massimo di 60-80 mg/die ha mostrato un’eccellente prognosi nei pazienti con AKI stadio I e II; nei pazienti con AKI stadio III l’inizio della terapia orale è generalmente preceduto dall’utilizzo di corticosteroidi per via endovenosa (fino a 3 dosi consecutive).

I dati presenti in Letteratura suggeriscono una correlazione tra la risposta clinica e la durata della terapia steroidea: la durata raccomandata della terapia è compresa tra 8 e 12 settimane, con un lento scalaggio della terapia steroidea, finalizzato a ridurre il rischio di recidive.

Accanto alla durata della terapia steroidea, anche la dose iniziale sembrerebbe essere associata alla prognosi renale dei pazienti con AIN indotta da ICIs. Un recente lavoro pubblicato da Manohar et alii mostra come i pazienti con risposta completa presentassero dosi iniziali di prednisone significativamente superiori rispetto a coloro che mostravano una risposta parziale (2.79 mg/kg/mese vs 1.74 mg/kg/mese) [28].

La possibilità di riprendere la terapia con ICIs, una volta risoltosi l’episodio di danno renale acuto, è stata valutata in diversi Studi, partendo dall’evidenza che, spesso, tale terapia è l’unica disponibile per la gestione della patologia neoplastica. I dati recentemente pubblicati da Cortazar et al, mostrano una bassa percentuale (23%) di recidive di danno renale acuto in seguito alla ripresa della terapia con inibitori dell’immuno checkpoint. Il principale fattore di rischio per recidiva di AKi sembra essere riconducibile alla durata dell’intervallo tra l’episodio di danno renale acuto e la ripresa della terapia con ICIs (2.05 mesi nei soggetti che non mostravano recidiva di AKI vs 1.4 mesi nei soggetti con recidiva di AKI). È interessante sottolineare, tuttavia, come solo un soggetto tra coloro che avevano presentato una recidiva di AKI non abbia presentato una risposta completa alla terapia steroidea [26].

 

Conclusioni

La nefrotossicità da farmaci antineoplastici rappresenta una delle maggiori sfide dell’onconefrologia, sintetizzando al meglio quella che è la natura multidisciplinare della gestione del paziente oncologico.
La costante espansione dell’armamentario di farmaci antitumorali a disposizione per la gestione del paziente oncologico, ha sicuramente contribuito ad ampliare il concetto di “nefrotossicità da farmaci antitumorali” che, attualmente, abbraccia un eterogeneo gruppo di meccanismi patogenetici e un’importante variabilità di sindromi cliniche nefrologiche. Alla luce di tale complessità, la gestione di tali eventi avversi, rende imprescindibile la figura dello specialista nefrologo, quale riferimento nella diagnosi (es. indicazione all’esecuzione di agobiopsia renale) e nella terapia (es. indicazione alla terapia steroidea, indicazione alla terapia sostitutiva della funzione renale).
Il ruolo del nefrologo diventa di essenziale importanza in un percorso personalizzato, che parte dalla valutazione preliminare volta a inquadrare i fattori di rischio (sia quelli relativi allo schema terapeutico proposto sia quelli intrinseci dello specifico paziente), coadiuva l’oncologo nella scelta di farmaci e schemi terapeutici adeguati alla funzione renale del paziente, prosegue con il monitoraggio durante il trattamento e, spesso, si prolunga in un follow-up nel lungo periodo, anche successivo alla conclusione del ciclo terapeutico.

 

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Droghe d’abuso e rene

Abstract

Here we present a case of acute renal failure needing dialysis in a heroin addict patient chronically treated with Metadone.  This give us the opportunity to review the renal effects of the main drugs of abuse, highlighting the shift occured from the four “old sisters” (Marijuana, Cocaine, Heroin and Amphetamine) to the news synthetic drugs (chiefly  Synthetic  Cathinones and Cannabinoids), that poses problems due to  large diffusion, easy  procurement, legal  non-regulation and difficult analytical identification,  raising medical and forensic questions. From a Nephrological point of view is essential to take great care over the need to diagnose this kind of pathology and to widen the search trying anyway to recognize the substances potentially involved.

Key Words: Acute Kidney Injury; Acute renal failure; Illicit drugs; Rhabdomyolysis.

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Introduzione

Per definire i rapporti tra droghe di abuso e rene è  necessario innanzitutto caratterizzare e definire le proprietà delle sostanze di cui andiamo a trattare. Come vedremo per alcune di queste i confini tra farmaco e sostanza di abuso sono labili, definiti  talora soltanto dal setting di utilizzo della sostanza.

Cerchiamo allora per un primo inquadramento di utilizzare gli strumenti moderni di ricerca medica  che utilizziamo ogni volta che facciamo una ricerca bibliografica.

Se utilizziamo PubMed con la definizione di ingresso di “street drugs/recreational drugs” il vocabolario MESH ci restituirà “Illicit Drugs” e spiegherà che si tratta di “sostanze prodotte, ottenute  o vendute illegalmente”,  sottolineandone poi la frequente “grossolana  impurità fonte di tossicità inaspettate” [1].  Il termine è stato introdotto fin dal 1977, ma la voce è stata modificata recentemente  (2020) eliminando i riferimenti alle motivazioni che inducono all’ uso in precedenza riportate nella definizione, concentrandosi sulla illiceità di tali sostanze.  Il termine precisa inoltre che la natura illegale può scaturire anche dal fatto di essere farmaci forniti in assenza di prescrizione. Da questo punto di vista nella letteratura si può distinguere in effetti un utilizzo improprio (“misuse” di farmaci prescritti , ad esempio analgesici, in dosi non appropriate) da un abuso  (“abuse” cioè l’uso ai fini di ottenere un effetto psicotropo: euforia o alterato stato mentale o evitare la crisi di astinenza).

Il sito italiano dei Carabinieri, quindi di una capillare forza pubblica impegnata nella prevenzione e repressione del fenomeno, riporta la definizione WHO che definisce sostanze stupefacenti “sostanze di origine vegetale o sintetica che agendo sul sistema nervoso centrale provocano stati di dipendenza fisica e/o psichica” sottolineando quindi l’ effetto centrale ed i fenomeni di dipendenza e tolleranza [2]. A partire dall’ effetto sul SNC ne deriva la suddivisione in droghe deprimenti, stimolanti ed allucinogene (tabella 1).

OPPIACEI

STIMOLANTI DEPRESSIVI ALLUCINOGENI CANNABIS e derivati

Oppio

Cocaina

Barbiturici Mescalina Marijuana
Morfina Amfetamine Tranquillanti L.S.D. Hashish
Eroina Crack 2,5-Dimethoxy-4-methylamphetamine

(DOM)

Olio di hashish
Metadone Ecstasy o M.D.M.A.

Tabella 1 (modificata da http://www.carabinieri.it)

L’alcool etilico ha un ruolo di primo piano essendo una droga legale, socialmente accettata, con una diffusione amplissima ed una severa sequela di patologie principalmente a carico del SNC ed epatiche, ma anche cardiache e, con minore impatto e meno sottolineate, renali [3; 4].

 

Il caso clinico

Maschio di 37 anni seguito dal SERT in trattamento con Metadone.  A domicilio comparsa di febbre ed agitazione psicomotoria con possibile crisi comiziale che lo induce a presentarsi in Pronto Soccorso. Esegue TC cranica priva di reperti patologici. All’ EEG: discreti segni di sofferenza encefalica diffusa; assenza di grafoelementi irritativi tipici. Gli esami urgenti eseguiti evidenziano  glicemia 271 mg/dl, Urea 21 mg/dl, creatininemia 1,1 mg/dl; sodiemia 138 mEq/l, potassiemia  3,64 mEq/l;  bilirubina totale 0,52 mg/dl; AST (GOT)  22 U/l; ALT (GPT) 19 U/l; PCR 3,2 mg/l. Veniva inoltre eseguita una rachicentesi  (rivelatasi un poco indaginosa) che al esame chimico-fisico mostrava un liquor torbido, rosato;  glucosio 96 mg/dl, proteine 107 mg/dl, con 75/ul elementi nucleati per il 72% polinucleati e 28% mononucleati (insieme con la segnalazione di numerose emazie e possibili elementi figurati dal sangue per probabile contaminazione).  Il colturale era poi risultato negativo mentre la colorazione di Gram mostrava emazie (++) e leucociti (+). La Nested Multiplex PCR per batteri (Pneumococco, Meningococco, Streptococcus Agalactiae, Listeria, E.Coli, Haemofilus Influenzae), per virus (CMV, Enterovirus, Herpes Simplex 1 e 2, Human Herpesvirus 6, Human parechovirus, Varicella Zoster)  e Torula Neoformans era negativa.

Le sierologie per Borrelia e per HCV risultavano negative mentre del pattern per il Virus B della Epatite erano positivi soltanto gli anticorpi anti HBsAg ad alto titolo (858 mUI /ml), esito di verisimile vaccinazione.

Ricoverato in Reparto semiintensivo già il giorno seguente,  a diuresi conservata,  la creatininemia saliva rapidamente (5,45 mg/dl); Urea 65 mg/dl; AST (GOT) 133 U/l; ALT (GPT)  33 U/l; PCR 49,9 mg/l; Procalcitonina 0,81 ng/ml; CK totali 12615 U/l; Mioglobina 11414,5 ug/l. Il quadro era a questo punto suggestivo di una sepsi e diagnostico di rabdomiolisi associata inducendo ad iniziare una una CRRT isovolemica previo cateterismo venoso femorale. Un esame a fresco del sedimento urinario da parte del Nefrologo mostrava massiva cristalluria di urati con presenza di cellule tubulari molto danneggiate spesso raccolte a formare cilindri; l’esame chimico-fisico urinario mostrava marcata positività per  emoglobina in assenza di emazie.

Già in Pronto soccorso era stati eseguiti i dosaggi di Benzodiazepine urinarie (1264 ng/ml; coerenti con la terapia della crisi convulsiva), Metadone urinario (>1000 ng/ml; coerente con la terapia cronica in atto), Cannabinoidi urinari (>100 ng/ml; <50 negativo) mentre negative risultavano le ricerche urinarie di Oppiacei, Cocaina, Barbiturici e Anfetamine.

Il giorno seguente gli indici di miolisi apparivano in ulteriore incremento (CPK 75218 U/l; mioglobinemia 11414,5 ug/l; AST (GOT) 565 U/l) con quadro emodinamico stabile e diuresi attiva in terapia con diuretico.

In terza giornata proseguendo CRRT creatininemia 4,43 mg/dl; Urea 64 mg/dl; AST (GOT) 495 U/l; ALT (GPT) 127 U/l; CK Totali 49818 U/l; Mioglobinemia 6910 ug/l. PCR 25 mg/l. Hb 10,1 g/dl; GB 15000/ul.

In quinta giornata proseguendo terapia sostitutiva con HD intermittente veniva trasferito in Nefrologia  ed in 8^ giornata veniva sottoposto ad agobiopsia renale sx ecoguidata real time: la manovra era priva di complicanze.

Questa mostrava frustoli di parenchima renale comprendenti, nei vari livelli istologici esaminati, sino a 27 glomeruli con aspetti ischemici e congesti. Il quadro morfologico era dominato (Fig.1) da fenomeni di necrosi tubulare con aspetti rigenerativi, detriti cellulari endotubulari ed un intenso infiltrato tubulo/peritubulare linfo-monocitario ed eosinofilo in presenza di cilindri pigmentati (mioglobina).  Minima fibrosi interstiziale. I vasi arteriosi, specialmente quelli di piccolo calibro, presentano note di ispessimento parietale. L’esame tramite immunofluorescenza diretta (IFD) ha evidenziato alcuni aspetti aspecifici (deboli depositi capillari di IgA e focali deboli depositi capillari di C3 e IgM) ed è apparso negativo per C1q, C4, IgG e per le catene leggere (Kappa e Lambda). L’insieme dei reperti, anche in considerazione dei dati clinici, appare riferibile ad una necrosi tubulare acuta (esotossica) associata a mioglobinuria.

Seguiva una breve fase poliurica con miglioramento della funzione renale che consentiva la sospensione del trattamento dialitico e la rimozione del cvc femorale. Il decorso ulteriore era complicato da una broncopolmonite basale destra trattata la quale in 20^ giornata veniva dimesso con creatininemia 2,0 mg/dl. A 30 giorni dalla dimissione la creatininemia era 1,24 mg/dl e l’ esame urine era privo di alterazioni.

Il caso presentato è insieme classico di una frequente forma di tossicità renale in corso di abuso di sostanze psicotrope (NTA con cilindruria in corso di mioglobinuria) ma negative erano le ricerche delle droghe d’abuso più classiche coinvolte in questi quadri (Oppiacei, Cocaina, Anfetamine).

Cerchiamo prima di tutto di esaminare le sindromi renali associate all’abuso di droghe.

 

OPPIACEI:

Dalla incisione della capsula immatura del papavero da oppio (Papaver Somniferum), originario della Anatolia, si ottiene un lattice che si rapprende all’ aria formando una massa gommosa brunastra che può essere formata in pani o per ulteriore essicazione trasformata in polvere: è questo l’oppio grezzo il cui primo uso medico era stato il trattamento della dissenteria. L’ oppio grezzo può già essere fumato senza ulteriori trasformazioni e questo utilizzo si era diffuso principalmente in oriente nel XVIII° secolo; esso contiene circa una trentina di alcaloidi naturali, di cui il più potente è la morfina (estratta da Sertürner nel 1806). La sua azione è mediata dal legame a recettori specifici nel SNC (Recettori Oppioidi i cui normali ligandi sono i cosiddetti oppioidi endogeni: endorfine, encefaline e dinorfine) appartenenti a tre tipi diversi (m, il principale;  k e d). La morfina può essere sottoposta ad un processo chimico di acetilazione ottenendo la diacetil-morfina o Eroina che si caratterizza per la maggiore liposolubilità con più rapida penetrazione nel tessuto nervoso con intenso effetto psicotropo. Il Metadone, oppioide sintetico, è caratterizzato da efficacia per via orale analoga alla morfina e lunga durata di azione nella soppressione dei sintomi da astinenza; la crisi da astinenza di questo farmaco è a sua volta caratterizzata da sintomi più lievi ma di maggiore durata.  I farmaci morfinosimili inducono analgesia, sonnolenza, cambiamento del umore e obnubilazione; alcuni provocano euforia. La prima somministrazione di morfina può essere peraltro spiacevole associandosi a nausea e vomito. Sono caratterizzati da tolleranza e dipendenza fisica; la intossicazione acuta da coma, miosi pupillare e depressione respiratoria.

L’ Eroina, principale oppiaceo di abuso, non ha applicazioni terapeutiche; per la sua assunzione può essere sniffata, assunta per os, fumata, iniettata in vena da sola o associata alla cocaina, iniettata sottocute (skinpopping). Data la sua linea di produzione completamente illegale si caratterizza per la impurità sia chimica per la presenza di additivi ed adulteranti (mannitolo, saccarosio, glucosio, lattosio, caffeina etc.) che microbiologica con possibilità di trasmettere nel uso parenterale Epatite B e C, HIV, endocarditi batteriche e fungine, infezioni cutanee e sepsi da piogeni.

Le complicanze renali del uso di oppiacei sono numerose (tabella 2) e comprendono la Rabdomiolisi con insufficienza renale acuta in corso di mioglobinuria; questa è in genere determinata dalla perdita di coscienza con lunga permanenza a terra con ischemia dei muscoli, vasi muscolari e nervi sottoposti a pressione diretta.

Quadri renali associati con l’abuso parenterale di Eroina:

1)  Glomerulosclerosi Focale e Segmentaria (FSGS) 5) Nefrite interstiziale (anche granulomatosa)
2)  Glomerulonefrite Membrano Proliferativa (MPGN) 6) Amiloidosi
3)  Glomerulonefrite a lesioni minime 7) Vasculiti
4)  Glomerulonefrite a depositi mesangiali di IgA 8) IRA mioglobinurica
Tabella 2: Quadri renali segnalati in letteratura come associati al abuso parenterale di eroina

Tuttavia i quadri renali segnalati sono tanti e diversi e tra essi è interessante rivalutare la storia della glomerulonefrite associata (Heroin Associated Nephropathy o HAN), una forma  ampiamente proteinurica con sindrome nefrosica descritta per la prima volta nel 1970 [5]. Nell’abstract erano riportati tre casi (2 eroinomani ed un cocainomane) con apparenti lesioni minime; successivamente ad una seconda biopsia uno sviluppa una glomerulonefrite membranosa.

Le segnalazioni  successive mostrano tuttavia quadri di volta in volta diversi: GNMP con depositi di IgM e complemento, GN con aspetti di GN  acuta, GSFS, glomerulosclerosi  globali.

Dal punto di vista clinico quando strettamente definita si caratterizzava per una massiva proteinuria, più spesso con S. Nefrosica, che compariva  dopo protratto uso di eroina (anni). Si trattava di una forma resistente alla terapia immunosoppressiva, spesso con presenza all’ esordio di IRC e rapida evoluzione verso l’ uremia in 6-48 mesi.

In realtà nel tempo la descrizione della HAN deviava decisamente tra le due sponde del Atlantico.

Negli Stati Uniti viene segnalata con grande prevalenza in questo quadro una  GSFS; si tratta soprattutto di pazienti di razza nera [6]. Il quadro appare  privo di aspetti proliferativi, di solito senza depositi immuni ma talora con IgM e C3 focale e segmentario. Un ulteriore confondente viene ad essere in seguito la positività HIV.

In Europa viceversa a prevalere è una GNMP [7]; si tratta di pazienti di razza bianca, caratterizzati da positività per HCV, talora HBsAg ed HIV.

Nel tempo si è assistito alla scomparsa quasi completa alla fine degli anni ’80 dei casi di HAN. A ciò avrebbero contribuito l’ epidemia di HIV con l’ incremento di casi di HIVAN, le misure igieniche correlate all’ HIV stessa, la migliore purezza della eroina, il riconoscimento che le forme di GNMP in pazienti HCV + erano evidentemente correlate all’ infezione (crioglobulinemiche o meno che fossero) [8].

Dagli studi sperimentali effettuati nel tempo emerge che le cellule mesangiali  non sono in grado di metabolizzare l’ eroina [9]; tuttavia la morfina riduce l’ attività delle 72 kDa metalloproteinasi riducendo la degradazione della matrice mesangiale, stimola la proliferazione delle cellule mesangiali e la sintesi di collagene [10]. Riduce l’ efficacia della fagocitosi delle macromolecole ed aumenta la deposizione di IC nel mesangio [11].

Un’altra rara complicanza renale del abuso parenterale di oppiacei  severamente proteinurica e di solito con IRC evidente già all’ esordio è la Amiloidosi; si tratta di una Amiloidosi AA associata ad infezioni croniche,  soprattutto cutanee negli  “Skin Poppers”. La prognosi è pessima sia dal punto di vista del rene che per quanto riguarda la sopravvivenza complessiva [12] con il 65% dei pazienti in dialisi entro un mese dalla diagnosi ed una mortalità per sepsi vicina al 50% con una mediana di sopravvivenza di 19 mesi.

Un nuovo problema emergente nasce ora dalla prescrizione medica di farmaci psicotropi , benzodiazepine ma anche  oppiacei per il trattamento del dolore,  in pazienti anziani  che tende a trasformarsi successivamente in abuso [13]. Si tratta più spesso di donne anziane, che vivono sole con molteplici problemi di salute e spesso trattate con polifarmacia, talora con precedenti psichiatrici.

La riduzione del filtrato glomerulare in questo quadro può essere un fattore aggravante se si confronta l’uso dei FANS vs l’uso degli oppiacei, associato con un aumento delle ospedalizzazioni e della mortalità complessiva [14].

 

COCAINA:

Estratta dalle foglie di un arbusto sudamericano, più esattamente Boliviano,  (Erytroxylon Coca) è attualmente la droga più usata negli USA.

Si calcola che 23 milioni di americani l’abbiano provata almeno una volta; 3,6 milioni sarebbero i consumatori abituali. Uno studio sulla popolazione universitaria ha mostrato un 6% di users [15].

Possiamo distinguere due forme di Cocaina: la Cocaina Idrocloruro, solubile in acqua e instabile al calore, somministrabile per via orale, endovenosa e per inalazione e la Cocaina alcaloide (Freebase, Crack),  ottenuta per alcalinizzazione del sale,  non idrosolubile e stabile al calore che deve essere fumata. La prima inizia il suo effetto in 1-5 minuti e raggiunge il picco in 20-60 minuti mentre il Crack inizia il suo effetto in secondi raggiungendo il picco in un minuto.

La Cocaina agisce con effetto simpaticomimetico per blocco del reuptake di Dopamina per combinazione col recettore deputato al riassorbimento per cui il mediatore resta nello spazio sinaptico più a lungo prolungando così l’effetto dopaminergico sulla cellula postsinaptica [15].

L’attivazione simpatica si traduce in un effetto stimolante ed euforizzante.

Ne possono conseguire effetti collaterali importanti a livello sistemico (tachicardia, ipertensione arteriosa, tachipnea, ipertermia, midriasi, agitazione, delirio, reazioni psicotiche) Cardiaco (Scompenso ventricolare sx, Endocardite, Miocardite, dissecazione aortica, Infarto, aritmie, arresto cardiaco) Neurologico (agitazione, iperattività, TIA, Ictus, convulsioni)  Respiratorio (edema polmonare acuto, ipertensione polmonare, polmonite interstiziale, emorragie, infarti) del Tratto Gastroenterico (ischemia mesenterica, epatite, necrosi epatica) Vascolari (vasculiti, trombosi, tromboflebiti) e, non ultima, la Rabdomiolisi [16].

A livello Renale gli effetti della Cocaina sono mediati dal rilascio di catecolamine e dal incremento dello stress ossidativo che aumentano il fabbisogno metabolico mentre la contemporanea attivazione del RAS e del sistema delle endoteline e la inibizione della vasodilatazione indotta da Ossido Nitrico induce un vasospasmo e conseguente ischemia; su questo si sovrappone ed integra un effetto procoagulante e di aggregazione piastrinica attivati attraverso incremento del trombossano  e riduzione della antitrombina III.

La cocaina è in effetti un potente vasocostrittore che agisce attraverso la inibizione centrale dell’ uptake sinaptico di catecolamine, il blocco del re-uptake di noradrenalina nelle terminazioni periferiche ed il rilascio di catecolamine dalla midollare surrenale.

Non sorprende allora che nel quadro della tossicità acuta domini essenzialmente la insufficienza renale acuta in cui rabdomiolisi, ipertensione maligna e microangiopatia trombotica fanno la parte del leone anche se talora può esserci anche una più rara nefrite interstiziale acuta [17] a sostenere il quadro.

La possibilità del raro infarto renale deve essere sempre tenuta presente in questo setting,  annunciato da dolore lombare e/o al fianco, macroematuria  incremento della creatininemia e delle LDH [18; 19].

La rabdomiolisi da cocaina  presenta eziologia multifattoriale; il sospetto deve sorgere principalmente in presenza di ipertermia, convulsioni, agitazione o ottundimento del sensorio. La diagnosi si basa sul incremento degli enzimi muscolari (CPK, LDH) nel siero [19]; un’altra chiave diagnostica è il rilievo di positività degli stick urinari per l’emoglobina in assenza di globuli rossi al esame microscopico delle urine, che può corrispondere alla presenza di mioglobina.

Nella Insufficienza Renale Cronica l’uso di cocaina si associa peraltro a scarso controllo pressorio, progressione più rapida delle nefropatie con IRC, aumentata morbilità e mortalità, aumentata incidenza di infezioni nei dializzati [15]. E’ descritto un aumento della sclerosi/fibrosi a livello glomerulare che troverebbe giustificazione nella inibizione della sintesi della metalloproteinasi-2 con ridotta degradazione della matrice mesangiale, incremento dello stress ossidativo per riduzione del contenuto in glutatione nelle cellule renali in coltura e la attivazione del RAS con stimolo della produzione di TGF-b [20].

Infine la cocaina sembra accelerare l’aterogenesi sia a livello renale che a livello sistemico nell’animale da esperimento e nel uomo [15-17; 21-23].

 

CANNABIS:

Al  genere Cannabis appartengono piante di specie diverse (Cannabis Indica, Cannabis Sativa) (Figura 1)  che erano coltivate in passato per ottenerne fibre tessili (Canapa).

FIGURA 1 Coltivazione di Cannabis
Figura1: Coltivazione di Cannabis

Esistono numerose cultivar a diverso contenuto di TetraHidroCannabinolo (THC), che insieme al Cannabidiolo costituiscono i più abbondanti fitocannabinoidi;  dalla resina della pianta si ricava l’ Hashish, più potente, mentre dalle infiorescenze femminili si ottiene la Marijuana. Vengono più spesso fumate con completa combustione oppure riscaldate e vaporizzate, anche attraverso sigarette elettroniche, ed assorbite per via respiratoria ma possono anche essere assunte per ingestione con effetto più lento ma di maggior durata. Gli effetti dei fitocannabinoidi sono mediati da due diversi recettori: CB1 e CB2. Il THC, principale componente psicoattivo della cannabis,  è parziale agonista di entrambi [24]. Il rene presenta recettori CB1 e CB2 i cui effetti fisiologici sono poco conosciuti; CB1 è stato identificato nell’ uomo nelle cellule dei tubuli convoluto prossimale, distale e collettori mentre CB2 è stato identificato in coltura sulle cellule mesangiali, tubulari prossimali ed in alcuni casi sui podociti in coltura [25]. I cannabinoidi avrebbero inoltre un effetto vasodilatatore sulla vascolatura renale non mediato da un meccanismo recettoriale.

Da oltre 10 anni in Italia i medici possono prescrivere preparazioni magistrali contenenti sostanze attive vegetali a base di cannabis per uso medico da prepararsi in strutture preposte; dal 2007 è possibile l’importazione di diversi farmaci registrati altrove contenenti fitocannabinoidi. Dal 2014 lo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze produce una canapa indicata come FM2.   Non esistendo indicazioni autorizzate la prescrizione avviene sotto responsabilità del medico che deve raccogliere il consenso informato e indicare sulla ricetta le esigenze particolari che ne giustificano l’utilizzo. Come previsto dal Decreto Ministeriale del 9 novembre 2015 , la prescrizione di cannabis “a uso medico” in Italia è limitata al suo impegno nel dolore cronico principalmente neurogeno e quello associato a sclerosi multipla oltre che a lesioni del midollo spinale; alla nausea e vomito causati da chemioterapia, radioterapia, terapie per HIV; come stimolante dell’appetito nella cachessia, anoressia, perdita dell’appetito in pazienti oncologici o affetti da AIDS e nell’anoressia nervosa; effetto ipotensivo nel glaucoma resistente alle terapie abituali; riduzione dei movimenti involontari del corpo e facciali nella sindrome di Gilles de la Tourette [26].  Ne è stato anche preconizzato l’ utilizzo per trattare alcuni sintomi presenti nella insufficienza renale cronica terminale e per ridurre l’ utilizzo di oppioidi in questo quadro [27]. Quanto alla possibile patologia renale acuta o cronica nei consumatori abituali i dati sono al momento attuale non indicativi [28] se si escludono le forme in genere pre-renali secondarie alla peraltro rara “Cannabinoid Hyperemesis Syndrome” [29]. Perfino nel problematico campo del trapianto di rene né l’uso nel ricevente [30] né nel donatore vivente [31] pare avere effetti sulla sopravvivenza del paziente, del donatore o del rene trapiantato.

 

ALLUCINOGENI: LSD E PSILOBICINA:

Se la Dietilamide del Acido Lisergico  (LSD), potente serotoninergico, è attualmente studiata per le sue potenzialità di utilizzo come farmaco psichiatrico [32] tuttavia l’interesse nefrologico appare  trascurabile salvo una segnalazione di rabdomiolisi associata più al uso della camicia di forza come contenimento di uno stato di agitazione dissociativa che alla sostanza  in sé [33].

Più interessanti per il nefrologo appaiono i funghi del genere Psilocybes (Magic Mushrooms) di cui i più noti interessano le americhe essendo famoso lo Psilocybes Cubensis  un fungo sudamericano già conosciuto dagli Aztechi. Sono segnalati infatti casi di rabdomiolisi associata con l’assunzione [34, 35]. Bisogna sapere che in Italia esiste una varietà della specie, spontanea (Psilocybe Semilanceata ) o funghetto comune che ha le stesse proprietà.  Altri prodotti d’ abuso sono i solventi che, sniffati in colle, vernici etc. danno sintomi simili alla intossicazione alcoolica con anche brevi fenomeni allucinatorii. In particolare il Toluene è stato associato a numerose manifestazioni renali  ( principalmente interstiziali dalla Sindrome di Fanconi alla acidosi tubulare distale ma anche forme glomerulari proteinuriche e fino alla sindrome di Goodpasture) [36].

 

ANFETAMINE E ECSTASY:

L’anfetamina (MDA: 3,4 Metilen Dioxy Anfetamina) è un farmaco con proprietà anoressizzanti e psicostimolanti. Agonista indiretto del sistema catecolaminergico, agisce soprattutto a livello centrale inibendo la ricaptazione di noradrenalina e dopamina dalla fessura sinaptica. La sua azione si traduce quindi in una maggiore permanenza di neurotrasmettitore a livello sinaptico.

Molto simile (differisce dalla MDA soltanto per la presenza di un metile sul gruppo amminico) la MDMA  (3,4-metilenediossimetamfetamina),  più comunemente nota come Ecstasy è una metanfetamina dagli spiccati effetti eccitanti ed entactogeni (aumenta la socialità e la emotività), anche se non propriamente allucinogeni [37].

Sono farmaci di sintesi, assunti per via orale, spesso in “rave party” con balli di gruppo protratti; l’iperattività fisica in ambienti caldi può condurre ad ipertermia. Inoltre nell’animale da esperimento l’MDMA può dare febbre. Effetti indesiderati lievi sono anoressia, nausea, vomito, cefalea, trisma, e crampi. Più severi convulsioni, iperpiressia, disfunzione epatica, rabdomiolisi, coagulazione intravascolare disseminata ed IRA.

 

NUOVE DROGHE SINTETICHE: CATINONI E CANNABINOIDI:  

Il qat (Catha edulis), è una  pianta originaria dell’Etiopia diffusa nella penisola Arabica. La sua coltivazione e l’ uso sono molto presenti in Yemen.

Le foglie contengono un alcaloide (Catinone) dall’azione stimolante, che causa stati di eccitazione e di euforia, e provoca dipendenza. La sostanza, simil-anfetaminica, ha spiccato effetto psicotropo, euforizzante e spegne fame e fatica; ha anche un importante effetto analgesico.

I Catinoni sintetici [38] sono sostanze prodotte chimicamente che riproducono questi effetti; ne esistono un numero molto grande (Methcatinone, Methedrone, Methylone etc.) ed anzi per essere più chiari ne vengono sintetizzati continuamente di nuovi. Non sono conosciuti e quindi non sono formalmente illegali; vengono commercializzati per uso animale e comunque non umano, prodotti il più spesso in Asia e facilmente reperibili in Internet  indicati con nomi di fantasia o con nomi generici (Salt Baths). Il fatto di essere sostanze sempre nuove e diverse fa si che non siano comunemente dosate nei liquidi biologici.

La tossicità è per alcuni versi simile a quella delle anfetamine (tachicardia, ipertensione, agitazione psicomotoria, aggressività etc.) mentre a livello renale si possono avere incrementi della creatininemia con quadri di insufficienza renale acuta, iposodiemia, iperpotassiemia, iperuricemia; si può avere un danno muscoloscheletrico fino alla rabdomiolisi.

Allo stesso modo i cannabinoidi sintetici [39] sono anche essi prodotti chimicamente ed interagiscono con i recettori dei cannabinoidi con potenza simile o anche  di molto superiore al prodotto naturale ed hanno strutture diverse tali da non essere rilevati dagli abituali dosaggi. Sono indicati con nomi generici (legal Highs; Erbal Highgs; spices), talora con sigle (K2, K3) o nomi di fantasia e possono essere facilmente ottenuti in Internet, indicati il più spesso come misture di vegetali cui sono stati addizionati “non per uso umano” , che possono essere fumati ma anche come compresse, capsule o polveri ingeribili oppure liquidi da utilizzare nelle “sigarette elettroniche”  [40]. Se ne conoscono oltre 200 e se ne sintetizzano continuamente di nuovi; la loro diffusione è stata ampia soprattutto tra i giovani. Gli effetti sono spesso “individuali” dipendendo da dosi e vie di somministrazione. Comprendono sedazione, atassia, midriasi, tachicardia, euforia, agitazione psicomotoria ma anche allucinazioni, deliri, convulsioni, rabdomiolisi, depressione respiratoria, insufficienza renale acuta [41]. Ancora una volta i comuni esami tossicologici (compreso il dosaggio del THC) risultano negativi.

 

LA KETAMINA:

La Ketamina è un anestetico dissociativo che induce depressione del sistema talamo-corticale e attivazione del sistema limbico; la sua indicazione è principalmente per piccoli interventi  in cui induce una ridotta inibizione respiratoria con anche il mantenimento di riflessi protettivi delle vie aeree (specie uso pediatrico e veterinario).  L’uso è limitato dalla induzione nella fase di risveglio di uno stato sognante vivace (piacevole o spiacevole) fino a veri e propri stati allucinatorii. Ha effetti antidepressivi e sono in corso sperimentazioni per l’utilizzo in psichiatria e del tutto recentemente un suo enantiomero è stato infine approvato dalla FDA per l’ utilizzo nelle depressioni resistenti alle usuali terapie [42].

Con dosi inferiori a quelle per uso anestetico somministrate per via endovenosa, intramuscolare, attraverso la mucosa nasale o aggiunte al fumo può essere utilizzata come droga d’abuso per esaltare l’esperienza sessuale in rave parties e per ottenere effetti di estraniazione (K-hole) con sensazione di “uscita dal corpo” [43]. Gli effetti acuti della Ketamina includono tachicardia, ipertensione, aumento  della frequenza o depressione respiratoria, aumento delle secrezioni bronchiali, nausea e vomito. Può associarsi a rabdomiolisi inducendo ipertono muscolare e agitazione psicomotoria [44].  Nell’uso cronico presenta in particolare una tossicità gastroenterica probabilmente diretta  che si esprime con dolore epigastrico, dilatazione delle vie biliari e colestasi. Per il Nefrologo sono però soprattutto interessanti  i danni a carico del tratto urinario causati dal abuso cronico. Il primo report di una sindrome urologica risale al 2007 [45]; da allora numerosi sono i report in letteratura. I sintomi riportati comprendono disuria, pollchiuria, urgenza, incontinenza e macroematuria. La vescica è l’ organo più spesso coinvolto e la cistoscopia può evidenziare eritema, edema ed ulcerazioni mentre le biopsie possono mostrare infiltrati eosinofili ed infiltrazione di mastcellen. La radiologia può dimostrare una vescica di volume ridotto con parete ispessita con l’ infiammazione che si estende a livello perivescicale.A livello renale vi può essere evidenza di idronefrosi e insufficienza renale. Anche in questo caso prevale l’ ipotesi di una tossicità diretta del farmaco e/o dei metaboliti. Il tempo necessario sarebbe di 1-4 anni.

 

Tornando al caso clinico

Nel tentativo di chiarire il più possibile il quadro del nostro paziente abbiamo esteso i dosaggi alle droghe non comunemente ricercate.

Abbiamo inviato pertanto un campione urinario raccolto al inizio della nostra storia ad un laboratorio specializzato per la ricerca di Catinoni Sintetici; questa risultava negativa; il laboratorio però precisava nel suo referto che le analisi eseguite non potevano essere considerate esaustive per tutti i catinoni continuamente immessi sul mercato clandestino. Inoltre segnalava che nel contesto delle analisi eseguite era emersa invece la presenza di Ketamina e del suo metabolita Norketamina.

 

Conclusioni

Il caso presentato era paradigmatico di come sia mutato il quadro del abuso di sostanze a scopo voluttuario negli ultimi 20 anni; non più solo le sostanze note ben classificate e sottoposte a controlli che possiamo dosare facilmente nei nostri presidi  ma una pletora di nuove sostanze che sfuggono ai controlli e che non risultano nemmeno formalmente illegali. Il problema che ne scaturisce è enorme in quanto si continuano a dosare le quattro “vecchie sorelle”  ovvero Marijuana, Cocaina, Eroina e Anfetamine mancando così di poter rivelare le droghe di abuso più diffuse attualmente.

Se pensiamo soltanto  ai test di controllo obbligatori per molte professioni ci rendiamo conto di quanto sia pericolosa questa condizione di “invisibilità” delle droghe sintetiche. Oltretutto le droghe sintetiche possono rappresentare porte di ingresso a sindromi psichiatriche severe.

Naturalmente gli “abuser” sono il più delle volte consumatori di molteplici sostanze ed anche per questo in presenza di patologie suggestive non ci si deve fermare alle sostanze più “classiche”.

Dal punto di vista più strettamente nefrologico l’ invito deve essere a intensificare il più possibile le ricerche nei casi sospetti di nefrotossicità da sostanze d’abuso in quanto questi pazienti spesso sono esposti a sostanze diverse e molteplici sono i danni possibili correlati ad esse.

 

Aspetti di danno tubulare correlati con mioglobinuria
Figura 2: Aspetti di danno tubulare correlati con mioglobinuria. 1) cilindro ialino endotubulare con detriti cellulari ed assottigliamento di parete in presenza di aspetti infiammatori acuti tubulari e peritubulari. EE 20X. 2) infiltrato linfo-monocitario e granulocitario anche eosinofilo peritubulare con aggressione della parete del tubulo. PAS 40X. 3) cilindri granulari eosinofili (mioglobina) EE 40X. 4) danno tubulare con aree di rarefazione ed assottigliamento epiteliale ed altre di rigenerazione. PAS 40X

 

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Leptospirosis and kidneys: a clinical case

Abstract

We describe here the case of a young patient, employed in agriculture, who entered the emergency room with fever, headache, hematuria and a worsening of renal function; we diagnosed leptospirosis with renal involvement. As the patient lamented very generic symptoms, the anamnesis was fundamental in leading us to suspect an infection, execute the right laboratory analysis, and correctly diagnose a pathology which is currently very rare in Italy.

Keywords: case report, leptospirosis, AKI

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Introduzione

La leptospirosi umana è considerata una delle più diffuse e potenzialmente fatali zoonosi, è determinata da un batterio Gram negativo appartenente alla famiglia delle Spirochetales ordine Leptospiracee e si associa ad elevata morbilità e mortalità, in particolare nei pazienti di età superiore ai 60 anni [1]. 

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Choice and management of anticoagulation during CRRT

Abstract

Continuous renal replacement therapies (CRRT) are widely used in the treatment of acute kidney injury. Several causes, related to the treatment itself or to the patient’s condition, determine the coagulation of the extracorporeal circuit. These interruptions (or down-time) have a negative impact on the effectiveness of the treatment in terms of solute clearance and fluid balance. Historically, the choice of anticoagulant has fallen on unfractionated heparin because it is cheap and easy to use. Today, the use of citrate is recommended in most instances because of its high efficacy and safety. Several studies demonstrate the superiority of citrate in terms of filter survival. The reduction of down-time results in a reduction of the delta between the prescribed dialysis dose and the dose that is actually administered (ml/Kg/hour of collected effluent). The literature also agrees that there is a reduction in the incidence of major bleeding events when citrate is used instead of heparin, although there is no impact on mortality rates.

Some technical and clinical complexities, secondary to citrate action both as anticoagulant and buffer, still exist in the use of regional citrate anticoagulation. However, complications due to citrate use, such as acid-base balance disorders and hypocalcaemia, are rare and easily reversible.

There is not much data about the costs and benefits of using citrate instead of heparin; according to the experience within our own Unit, we have observed a reduction in costs when the data is normalized for 35 ml of effluent administered. Appropriate protocols, accurate surveillance and the automated management of regional citrate anticoagulation thanks to dedicated software make this technique safe and effective.

Keywords: anticoagulation, citrate, acute kidney injury, CRRT

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Introduzione

Le terapie sostitutive della funzione renale con metodiche extracorporee continue (CRRT) sono diffusamente utilizzate nel trattamento del danno renale acuto in area critica. Durante CRRT coesistono diverse potenziali cause di attivazione della cascata coagulativa e delle piastrine che possono contribuire alla coagulazione del circuito. Alcuni fattori sono relativi allo stesso trattamento extracorporeo e alle modalità con cui viene condotto (contatto del sangue con le superfici sintetiche per quanto biocompatibili, contatto aria-sangue, flusso turbolento o stasi, emoconcentrazione). Altri fattori dipendono invece in maniera più specifica dalle condizioni del paziente, con particolare riferimento alle alterazioni dell’omeostasi coagulativa secondarie allo stato flogistico sistemico di cui il danno renale può essere conseguenza o concausa [1]. 

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Differential diagnosis of acute kidney injury in critically ill patients: the nephrologist’s role in identifying the different causes of parenchymal damage

Abstract

The management of acute kidney injury in the critical area is complex and necessarily multidisciplinary, but the nephrologist should maintain a pivotal role, both in terms of diagnosis and of indication, prescription and management of extracorporeal replacement therapy.

The most frequent causes of AKI in the critically ill patients are correlated to sepsis and major surgery, but the incidence of different causes, of strict nephrological relevance, is probably higher than the estimate.

Nephrologists have the competence to evaluate data relating to renal functions, urinary electrolytes, urinary sediment, and to identify which specific examinations can be useful to define the cause of AKI. A nephrological consultation will therefore improve the clinical management of AKI by guiding and integrating the diagnostic path with traditional or more advanced assessments, useful for the identification of the different causes of acute kidney damage and consequently of the most appropriate therapy.

The etiological diagnosis of AKI will also be crucial in defining the renal prognosis and therefore an appropriate nephrological follow up.

Keywords: Acute kidney injury, differential diagnosis, critical care nephrology

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Introduzione

Il danno renale acuto nei pazienti critici ricoverati in terapia intensiva è frequentemente gestito, in Italia come in altri Paesi, dai Rianimatori. Questo ha una forte ricaduta sia sulle competenze nefrologiche, che sulla gestione clinica del paziente.

La letteratura disponibile riguarda, con poche eccezioni, due ambiti prevalenti: il riconoscimento del danno renale acuto, inteso come quantificazione della riduzione della capacità escretoria renale, e la gestione della terapia extracorporea eventualmente necessaria. 

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