The Educational Programs in Home Hemodialysis: Scoping Review

Abstract

Introduction. Home hemodialysis is an effective therapeutic option for patients with chronic kidney disease. As highlighted in the literature, its management requires good self-care abilities from the patient and adequate support for self-care from the caregiver. Therefore, the development of educational programs plays a fundamental role in patient care.
Aim. The goal of this study is to map the educational programs aimed at caregivers and patients undergoing home hemodialysis treatment, in order to identify gaps in the literature regarding this focus.
Methods. A Scoping Review was conducted following the Joanna Briggs Institute guidelines. Potentially relevant articles were identified through a selection process on major databases (PubMed, Scopus, CINAHL, EMBASE, Web of Science, and Google Scholar), without applying any time limits.
Results. The educational programs available in the literature for home hemodialysis patients focus on both clinical and psychological aspects; training through a “practical” approach is the most commonly used strategy.
Discussion and conclusions. The review highlights the crucial role that a multidisciplinary and multidimensional educational approach can provide to home hemodialysis patients. It is necessary to optimize educational strategies for this population to improve patient outcomes.

Keywords: home nursing, nephrology nursing, hemodialysis, self-care, renal dialysis, patient education

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Introduzione

La malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease – CKD) è una patologia cronica con andamento progressivo definita dalle linee guida “Kidney disease improving global outcome” (KDIGO) come “un’anomalia della struttura o della funzione renale, presenti per 3 mesi, con implicazioni per la salute” (KDIGO 2024) [1]. Nell’ambito della gestione della malattia renale cronica vengono definite diverse strategie terapeutiche partendo dall’approccio conservativo fino ad arrivare al trattamento renale sostitutivo o al trapianto [2]. Il trattamento renale sostitutivo è rappresentato dalla dialisi, un procedimento fisico che mediante la presenza di una membrana semipermeabile e una soluzione di lavaggio, detta dializzato, determina l’eliminazione delle sostanze tossiche dall’organismo [3]. Attualmente sono disponibili due metodiche di svolgimento della dialisi, ovvero l’emodialisi e la dialisi peritoneale domiciliare [4]. Nonostante l’emodialisi in centro comporti diversi vantaggi, tra cui l’assistenza diretta e un gruppo multidisciplinare a completa disposizione che fornisce supporto, l’elevata frequenza delle sedute in ospedale può determinare un impatto notevole sulla qualità di vita del paziente [5]; pertanto l’emodialisi domiciliare rappresenta una valida alternativa. La letteratura definisce che, negli ultimi anni i tassi di ospedalizzazione e mortalità̀ dei pazienti gestiti in emodialisi in struttura risultano elevati rispetto ai dati provenienti dai pazienti gestiti in emodialisi domiciliare [6]. Il trattamento emodialitico domiciliare presenta diversi benefici in quanto mantiene l’autonomia del paziente e diminuisce il rischio di contrarre infezioni ospedaliere [7]; tuttavia, esistono dei fattori ostacolanti l’inizio di tale trattamento che possono essere di varia natura [7]: tecnica, legate alla difficoltà di gestione della fistola; psicosociale, legata a sentimenti di paura del paziente e della famiglia; clinica, legata alle complicanze relative alla malattia e al trattamento. Questi rischi possono essere ridotti da un appropriato processo di preparazione e educazione del paziente e del caregiver [7]. 

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Reactive Perforating Collagenosis in Hemodialysis Patients

Abstract

Chronic Kidney Disease associated Pruritus (CKD-aP) in hemodialysis affects approximately 38% of our patients. It is not associated with any dermatological lesion other than the common scratching lesions, a consequence of the symptom itself. The causes associated with itching have been studied in various treatments. However, there is a relatively rare condition that involves 10% of hemodialysis patients, known as reactive perforating collagenosis. This is a pathological condition secondary to chronic hemodialysis therapy, where widespread itching develops, associated with a peculiar reactive dermatosis with perforation of the dermis and development of dermal-epidermal continuity solutions with extrusion of matrix components dermal. In this work we report our experience with a diagnosed case of this condition.

Keywords: Pruritus, Chronic Kidney Disease, Perforating Dermatosis, Reactive Perforating Collagenosis, Hemodialysis, Hemodiafiltration with Endogenic Reinfusion

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Epidemiologia e patogenesi del CKD-aP

Il prurito associato alla malattia renale cronica (CKD-aP) è definito come una sintomatologia pruriginosa direttamente correlata alla malattia renale cronica, non causato da altre eventuali condizioni patologiche concomitanti. Il CKD-aP possiede un’elevata variabilità clinica, rendendo la sua diagnosi difficoltosa. La severità di questa condizione può essere tale da compromettere notevolmente lo stile di vita dei pazienti affetti. Il sintomo potrà essere intermittente o persistente [1]. Questa è una caratteristica dei pazienti con Malattia renale cronica end-stage (ESRD) e tende a manifestarsi nei pazienti sia in terapia conservativa, indicando la progressiva necessità di ricorrere ad un trattamento sostitutivo, sia in terapia sostitutiva, legata ad una ridotta efficienza dialitica. Tuttavia, la persistenza del sintomo, nonostante il potenziamento della capacità depurativa dei trattamenti sostitutivi in alcuni pazienti, ha dimostrato la presenza di meccanismi patogenetici peculiari, determinati dalle alterazioni fisiopatologiche della malattia renale cronica.

In considerazione della vasta eterogeneità della sintomatologia pruriginosa e del mancato riferimento del sintomo da parte dei pazienti, l’epidemiologia del CKD-aP è in corso di definizione ed in costante aggiornamento.

Nei pazienti in terapia conservativa è stata valutata la prevalenza di tale condizione tramite uno studio osservazionale internazionale, il CKDopps (Chronic Kidney Disease  Outcomes and Practice Patterns Study), con un arruolamento di circa 3780 pazienti con malattia renale cronica (G3-G4-G5),  e successiva valutazione del sintomo tramite questionari multidimensionali autosomministrati per la valutazione della qualità di vita nella CKD, con riscontro di una prevalenza complessiva del 24% per pazienti affetti da prurito ad intensità moderata-severa, maggiormente presente nei pazienti con malattia renale cronica G5 [2-4]. 

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Thrombosis in Hemodialysis Tunnelled Central Venous Catheters: From Pathogenesis to Therapeutic Strategies

Abstract

Central venous catheter-related thrombosis is a frequent non-infectious complication, typically associated with catheter dysfunction and hemodialysis inadequacy. Central venous catheters (CVCs) are categorized into non-tunnelled and tunnelled types, wherein the choice depends on patient’s clinical conditions and the diagnostic and therapeutic workup. Tunnelled CVCs (tCVCs) are sought whenever an arteriovenous fistula is unfeasible or as primary access in patients with poor prognosis.
Dysfunction is defined as the inability to maintain adequate blood flow within the prescribed dialytic session.
Amongst non-infectious complications causing tCVC malfunctioning, thrombosis is the most frequent, and it is further classified into intrinsic (being endoluminal, pericatheter or fibrin sleeve-associated thrombosis) and extrinsic forms (including mural and atrial thrombosis).
Diagnosis requires imaging tests like chest X-ray or abdominal X-ray, echocardiography, dynamic catheterography and computed tomography.
Pharmacological treatment involves use of local thrombolytic agents. In case of extrinsic thrombosis, systemic anticoagulation is mandatory, occasionally requiring tCVC replacement.
Prevention of thrombotic complications includes adequate positioning and appropriate use of the tCVC, with anticoagulant/antimicrobial-based locking solutions playing a crucial role in this context. In cases of extrinsic thrombosis, treatment options vary based on thrombus size, ranging from a conservative approach availing of systemic anticoagulation to surgical interventions like thrombectomy or thrombus aspiration, possibly associated with tCVC removal.
In conclusion, late dysfunction of tCVCs is primarily due to thrombosis, thus requiring diagnostic imaging and specific drug therapies. Prevention is crucial to minimize complications.

Keywords: Central venous catheter, thrombosis vascular accesses, hemodialysis

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Introduzione

La trombosi del catetere venoso centrale (CVC), insieme alla stenosi venosa e alla disfunzione meccanica, rientra tra le complicanze non infettive, il più delle volte tardive, del CVC ed è associata a malfunzionamento, bassi flussi ematici e inadeguatezza dialitica [1]. Si tratta di una complicanza tra le più frequenti nella comune pratica clinica di emodialisi. Pertanto, compito essenziale del team degli accessi vascolari è quello di prevenire, riconoscere e trattare tempestivamente le cause del malfunzionamento, in particolare la trombosi del CVC, spesso associata ad eventi fatali. Il nefrologo utilizza due tipologie di CVC: i non tunnellizzati (ntCVC), detti anche cateteri temporanei, non cuffiati, il cui utilizzo è limitato a un massimo di 15 giorni dal posizionamento e i cateteri tunnellizzati (tCVC), cuffiati, adatti a un uso più prolungato in assenza di accessi vascolari alternativi. La scelta del tipo di catetere è determinata dalle condizioni cliniche generali del paziente e dalla valutazione prognostica effettuata in prima istanza. Generalmente, si ricorre al tCVC come accesso vascolare (AV) di scelta qualora non vi sia un patrimonio vascolare adeguato all’allestimento di una fistola arterovenosa (FAV) nativa o protesica, oppure come prima opzione in presenza di controindicazioni al confezionamento di un AV alternativo (e.g. scompenso cardiaco di grado severo) o nei casi in cui l’aspettativa di vita sia inferiore a un anno. Il ntCVC, invece, viene prevalentemente utilizzato nell’ambito del trattamento dell’insufficienza renale acuta, nei pazienti late referral in caso di urgenza all’avvio a terapia dialitica o, per brevi periodi, come bridge in attesa della maturazione dell’AV definitivo. Occorre ricordare che, come suggerito dalle linee guida KDOQI, i ntCVC devono essere tenuti in situ per un periodo di tempo non superiore alle due settimane a causa dell’elevato rischio di infezioni, specialmente se posizionati in vena femorale e in soggetti obesi [2]. In questa Review metteremo a fuoco gli aspetti patogenetici, clinici e terapeutici peculiari della trombosi correlata al tCVC per emodialisi. 

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Convective Methods versus Diffusive Methods: Defined Superiority?

Abstract

The technique of dialysis has seen enormous advancements over the past fifty years, evolving from an initial phase,primarily based on diffusion through a semipermeable membrane to the current preference for high-efficiency convection, involving the removal of several liters of ultrafiltrate. Diffusive dialysis, due to its relative simplicity in execution, has allowed the treatment of millions of individuals with ESRD, ensuring them a certain quality of life. However, it is not considered optimal in terms of survival and has some complications inherent to the uremic state. Convection, by removing toxic substances through solvent drag, has enabled the purification of not only small molecules but also medium-to-large molecular weight molecules. As a result, hemodiafiltration techniques have shown improvements in both mortality and intradialytic complications such as cramps and intradialytic hypotension. These results, however, involve fluid exchanges that far exceed 20 liters per session, thus increasing technical complexity and not being applicable to all patients, particularly those with vascular access problems. The recent discovery of so-called medium cut-off (MCO) membranes appears to maintain the benefits of hemodiafiltration techniques without the need for high convective flows. Therefore, the debate between convection and diffusion seems far from over and may hold more surprises in the near future.

Keywords: diffusion, convection, hemodialysis, hemodiafiltration, medium cut-off membranes

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Introduzione

La diatriba sulla superiorità di una tecnica dialitica rispetto ad un’altra nei riguardi della depurazione renale, nasce sin dai primi anni di applicazione della dialisi cronica a pazienti con ESRD. Nel 1965, Beldin Scribner [1] osservò che i pazienti sottoposti a dialisi peritoneale, nonostante avessero livelli più elevati di urea e creatinina rispetto ai pazienti in emodialisi, spesso “si sentivano meglio” ed avevano una neuropatia più sopportabile. Scribner ipotizzò che il peritoneo fosse più permeabile alle molecole di peso molecolare più elevato rispetto all’emodialisi e quindi ne favorisse la rimozione. Nacque allora l’ipotesi che, nell’uremia si accumulavano anche molecole di medio peso molecolare, le così dette “medie molecole” con un impatto sulla fisiopatologia dell’uremia. A causa delle loro dimensioni, queste molecole venivano rimosse più lentamente dell’urea e le membrane cellulosiche, in uso all’epoca, mostravano un’elevata resistenza diffusiva alle medie molecole. Di conseguenza, per purificare l’organismo da queste tossine era necessario un numero minimo di ore di dialisi a settimana, non inferiore alle 30 ore settimanali. Negli anni successivi con l’introduzione di nuove membrane di sintesi, al di là delle cellulosiche, il concetto della sola durata, è stato sostituito da ipotesi meccanicistiche che si basavano sulla dose di dialisi ricavata dall’indice KT/Vurea proposto da Gotch e Sargent [2].

Il Kt/V è un rapporto adimensionale che si basa sulla valutazione della clearance dell’urea, del tempo di trattamento e del volume dell’acqua corporea totale. Per anni questo indice con un valore di cut-off ottimale sull’ordine di 1,2-1,4 è stato considerato espressione di adeguatezza dialitica. In realtà si è sempre trascurato che il Kt/V riguardava solo l’urea e quindi una molecola di basso peso molecolare, dimenticandosi dell’insegnamento di un padre della dialisi come Beldin Scribner che aveva posto l’accento sulla importanza delle medie molecole.

Solo negli anni ’80 con lo sviluppo delle membrane semi-permeabili, la convezione è stata riconosciuta come un processo potenzialmente vantaggioso per la rimozione di soluti di dimensioni maggiori rispetto a quelli che possono essere eliminati attraverso la sola diffusione. La dialisi convettiva, in particolare l’emofiltrazione (HF), venne utilizzata in ambito clinico con sistemi pionieristici che permettevano la rimozione di grandi quantità di acqua corporea e la sua sostituzione con un liquido sterile reinfuso attraverso un circuito addizionale [3].

Negli anni ’90, la tecnologia delle macchine per dialisi progredisce velocemente, permettendo una migliore gestione dei volumi di ultrafiltrazione ed una efficiente diffusione. Nasce l’emodiafiltrazione (HDF), tecnica mista convettivo-diffusiva, che negli anni 2000 si diffonde in tutto il mondo dialitico affiancandosi alla HD tradizionale.

Da allora si continua a discutere se sia preferibile la diffusione o la convezione o anche la combinazione delle due, in termini di depurazione, effetti collaterali e benefici del paziente.

 

Le tecniche di dialisi diffusive

Le tecniche diffusive che comprendono anche la dialisi peritoneale che sfrutta la membrana peritoneale (e quindi non è una tecnica extra-corporea), hanno alcuni vantaggi:

  • Efficienza nella rimozione delle piccole molecole: eccellente per eliminare urea, creatinina e altre piccole tossine. La peritoneale inoltre permette di rimuovere una certa quota di medie molecole
  • A concentrazioni più alte di piccole molecole aumenta il gradiente con il liquido di dialisi e quindi l’efficienza della tecnica
  • Le caratteristiche della membrana, in particolare la porosità, influenzano i trasporti diffusivi
  • Tecnologia ben consolidata ampiamente disponibile e supportata da una vasta esperienza clinica
  • Flessibilità nelle opzioni: possibilità di scegliere tra emodialisi e dialisi peritoneale in base alle esigenze del paziente

Accanto ai vantaggi vi sono anche alcune limitazioni:

  • Tempo e Frequenza: le sessioni di emodialisi richiedono diverse ore e devono essere effettuate più volte alla settimana
  • La peritoneale richiede lunghi scambi e ultrafiltrazione non eccessiva
  • Tolleranza cardio-vascolare in emodialisi: non ottimale, tanto che spesso le sedute, in particolare nei pazienti fragili, sono gravate da episodi ipotensivi
  • Meno efficace per la rimozione di molecole più grandi: la diffusione è meno efficace nel rimuovere tossine di dimensioni maggiori e legate alle proteine.

La dialisi diffusiva, detta anche tradizionale, pur con questi limiti ha permesso, a milioni di persone di vivere con una discreta qualità di vita, anche in assenza di funzione renale. Nell’emodialisi diffusiva (HD), i dati degli studi clinici supportano che il raggiungimento di valori Kt/V dell’urea in single pool (non equilibrato) superiori a 1,2 possono essere sufficienti per una larga schiera di pazienti [4]. Il valore soglia maggiore di 1,2 del Kt/V può essere ottenuto aumentando le dimensioni del dializzatore o la velocità del flusso sangue. Per aumentare la Kurea, si può anche allungare la durata della sessione di dialisi (ovvero, aumento del tempo di trattamento, la t nell’indice Kt/V).

Sulla base di diversi studi clinici, è opinione diffusa che un tempo di trattamento più lungo delle classiche 4 ore per seduta, conferisca benefici clinici che vanno oltre Kt/Vurea, inclusa l’eliminazione delle tossine sostanzialmente più grandi dell’urea (le cosiddette molecole medie) e una adeguata rimozione del volume di fluido target (raggiungimento del peso secco) riducendo al contempo l’instabilità emodinamica.  I dati osservazionali indicano che un tempo di trattamento più lungo è associato a una sopravvivenza più lunga, a una migliore gestione dei liquidi corporei, a un migliore controllo della pressione sanguigna, a un migliore controllo del fosforo e a meno eventi cardiovascolari gravi rispetto a sessioni di dialisi più brevi [5]. In questo contesto, il tempo medio di trattamento dialitico nei pazienti che ricevono dialisi in centro tre volte alla settimana è ora di 4 ore (per un totale di 12 ore settimana) [6]. In alcuni paesi come il Giappone nel 2008 e in Germania nel 2009, le sessioni di dialisi sono tra le più lunghe dei paesi DOPPS [6]. Al contrario negli Stati Uniti le misurazioni delle prestazioni non sono legate alla durata della sessione, ma piuttosto al Kt/Vurea  che viene raggiunto. Per questo sono favorite sessioni dialisi brevi, con flussi sangue elevati e dializzatori di ampia superficie. Sessioni di dialisi più brevi offrono molti vantaggi operativi ed incrementi del flusso di pazienti su tre turni giornalieri, a scapito però di una maggiore incidenza di effetti collaterali come l’ipotensione intradialitica (IDH) ed i crampi. Le linee guida giapponesi [6] sottolineano l’importanza di una dialisi più lunga e più “morbida” (con flussi sangue ed ultrafiltrazioni orarie ridotti), al fine di garantire al meglio la stabilità emodinamica, nonostante una maggiore probabilità di avere valori di Kt/Vurea inferiori a 1,2.

Resta a tutt’oggi l’incertezza sulla durata ottimale della sessione di dialisi e sui parametri di adeguatezza e sulla gestione del volume dei liquidi e dell’ultrafiltrazione oraria. Tematiche che però non si fermano alla dialisi diffusiva e che sono presenti anche nelle tecniche di tipo convettivo.

 

Le tecniche di dialisi convettive

Nonostante gli indubbi vantaggi dell’emodialisi tradizionale, sia la mortalità che la morbilità rimangono inaccettabilmente elevate nei pazienti in emodialisi (HD) [7]. La ritenzione di molecole tossiche di peso molecolare medio (5–40 kDa) e di molecole legate alle proteine è chiamata in causa nella patogenesi della sindrome uremica e nella precoce mortalità in dialisi cronica [8]. Per questo negli anni 2000 vi è stata un grande attenzione verso le dialisi ad alto flusso che potrebbero favorire la rimozione di medie molecole. Tuttavia, nessuno dei due grandi studi, l’HEMO study [9] e l’MPO [10], hanno dimostrato un chiaro vantaggio delle membrane ad alto flusso rispetto a quelle a basso flusso. Entrambi gli studi hanno però suggerito che era preferibile incrementare i flussi convettivi per accrescere la rimozione di molecole di grosse dimensioni (Figura 1). Di qua la maggiore diffusione delle tecniche convettive.

Nelle tecniche convettive:

  • La drive force principale non è il gradiente di concentrazione ma la differenza di pressione trai due lati della membrana
  • Il maggior fattore di impatto nel trasporto lo hanno le dimensioni delle molecole nei riguardi dei pori della membrana
  • Importante è il coefficiente di sieving della membrana che per l’acqua è pari a 1
  • Il coefficiente di sieving influenza sia il passaggio di acqua che quello dei soluti

La tecnologia delle membrane insieme all’evoluzione delle macchine da dialisi ed accanto ad una buona dose di inventiva dei nefrologi, in particolare degli italiani, ha permesso lo sviluppo negli ultimi anni di numerose tecniche di tipo misto convettivo-diffusivo (Figura 2).

Tra le tante tecniche di tipo misto, quella che più si è affermata e diffusa è la HDF. In HDF la diffusione, che è il principale meccanismo di rimozione in emodialisi a basso flusso, è combinata con la convezione. Considerando che la quantità stimata di trasporto convettivo durante l’HD ad alto flusso è <10 litri/sessione, nell’HDF in post-diluizione, possono essere 25 litri o più, i litri scambiati. Accanto alla HDF, per un certo periodo, ha preso piede una tecnica convettiva pura e cioè l’HF proposta da Lee Henderson [3] e che si basa esclusivamente sui trasporti convettivi senza diffusione. L’HF ha uno scarso impatto depurativo per le piccole molecole come l’urea, mentre privilegia le medie e le grandi molecole. Utilizzando questa tecnica, in pre-diluzione con scambi del 120% del peso corporeo e per sfatare il mito del KT/Vurea riguardo alla mortalità nei pazienti in dialisi cronica, noi abbiamo realizzato uno studio policentrico randomizzato a due bracci tra HD tradizionale ed HF in pre-diluizione [11]. Partecipavano allo studio pazienti con alto grado di mortalità (indice di Charlson > 6) e veniva valutata la mortalità a tre anni come obiettivo primario. A fine studio si è riscontrato un miglioramento significativo della sopravvivenza con HF rispetto a HD (78%, HF contro 57%, HD). Il Kt/V di fine trattamento era significativamente più alto con HD (1,42 ± 0,06 contro 1,07 ± 0,06 con HF), mentre i livelli di beta(2)-microglobulina sono rimasti costanti nei pazienti HD (33,90 ± 2,94 mg/dL al basale e 36,90 ± 5,06 mg/dL a 3 anni), ma sono diminuiti significativamente nei pazienti in HF (30,02 ± 3,54 mg/dL al basale contro 23,9 ± 1,77 mg/dL; p < 0,05). In pratica lo studio dimostrava che nell’influenzare la mortalità era meno rilevante il KT/Vurea rispetto alla riduzione di medie molecole rappresentate dalla beta2-microglobilina. Quindi una ulteriore prova del minor valore prognostico nel rischio di morte, della rimozione dell’urea rispetto a quella delle medie molecole.

L’HF però è più complicata della HDF e, alla lunga, penalizza molto la rimozione delle piccole molecole, che un certo impatto lo hanno sulla sindrome uremica.  Negli ultimi anni due studi randomizzati controllati con disegno molto simile, lo studio CONTRAST [12] e lo studio turco OL-HDF [13], non hanno trovato una differenza significativa tra HDF post-diluizione e HD. Tuttavia, le analisi post hoc di entrambi gli studi, hanno evidenziato rischi di mortalità più bassi nei pazienti con i volumi di convezione più elevati per sessione (in media >22,0 litri nel CONTRAST e >19,7 litri nello studio turco.

Un terzo grande studio randomizzato e controllato ESHOL [14] ha dimostrato che il rischio di mortalità complessivo nei pazienti con HDF era inferiore del 30% rispetto ai pazienti con HD. In questo studio, il volume medio di convezione era di 23,7 litri. Una sotto-analisi dello studio ESHOL ha confermato la relazione tra convezione (volume) e rischio di mortalità. Nel complesso, questi risultati supportano il concetto di una relazione dose-risposta tra volume di convezione e sopravvivenza.  In realtà il volume convettivo non va visto come una grandezza assoluta (con un cut-off di 23 litri), ma andrebbe messo in relazione con la superficie corporea del paziente e con il suo peso corporeo [15].

Nel 2023 viene pubblicato sul New England Journal Medicine lo studio CONVINCE [16], studio multinazionale, randomizzato e controllato che ha coinvolto pazienti con insufficienza renale sottoposti a emodialisi ad alto flusso da almeno 3 mesi. Tutti i pazienti sono stati considerati candidati per un volume di convezione di almeno 23 litri per sessione e hanno mantenuto questi volumi di scambio per tutta la durata dello studio. Ogni paziente veniva assegnato a ricevere HDF ad alte dosi o continuare la terapia HD convenzionale ad alto flusso. L’outcome primario era la morte per qualsiasi causa. Un totale di 1.360 pazienti è stato sottoposto a randomizzazione: 683 a ricevere HDF ad alte dosi e 677 per ricevere emodialisi ad alto flusso. Il follow-up mediano è stato di 30 mesi.  La morte per qualsiasi causa si è verificata in 118 pazienti (17,3%) nel gruppo HDF e in 148 pazienti (21,9%) nel gruppo HD (rapporto di rischio: 0,77; confidenza al 95%, intervallo, da 0,65 a 0,93.

Le conclusioni dello studio sono state molto laconiche: nei pazienti con insufficienza renale, che richiedono terapia sostitutiva renale, l’uso di HDF ad alte dosi ha comportato un rischio inferiore di morte per qualsiasi causa rispetto alla HD convenzionale ad alto flusso.

Tuttavia, andando a guardare nelle pieghe dello studio si scopre che tra i pazienti del gruppo HDF, il vantaggio assoluto di sopravvivenza sembrerebbe riguardare i pazienti più giovani, che non avevano il diabete o problemi cardiovascolari rilevanti. Quindi la superiorità della HDF in termini di mortalità andrebbe circostanziata a determinate categorie di pazienti.

L’HDF a parte un vantaggio diretto sulla mortalità ha anche una superiorità nei riguardi della HD su uno degli effetti collaterali della dialisi extracorporea, la ipotensione intradialitica (IHD), che, a sua volta è un importante determinante della sopravvivenza in dialisi. Diversi studi, tra cui il FRENCHIE study, confrontando la tolleranza cardio-vascolare in HDF ed in HD, hanno dimostrato una significativa ridotta incidenza di IDH e di crampi in 11.981 sessioni di HDF [17]. Quindi migliore tolleranza cardiovascolare in HDF e di conseguenza ci sarebbe da aspettarsi una ridotta mortalità nel lungo periodo per il forte legame che esiste tra IDH e mortalità.

Mettendo insieme tutti questi dati sarebbe lecito affermare che la partita tra diffusione e convezione, la ha largamente vinta la convezione associata alla diffusione.

In realtà, negli ultimi anni sono state sviluppate membrane permeabili alle medie molecole, le così dette membrane a medio cut-off, che hanno riproposto il tema della diffusione semplice in HD.

 

La diffusione con le membrane a medio cut-off (MCO)

Recentemente, grazie ai processi ottimizzati di formazione delle membrane e all’uso simultaneo di additivi particolari, sono state generate membrane di dialisi con nuove caratteristiche di profilo diffusivo e proprietà di separazione. Le nuove membrane per dialisi hanno un’eccellente selettività e gradualità nella separazione delle molecole, rispetto a quelle polimeriche classiche. Ora si è giunti ad una classe di membrane, le così dette MCO, che hanno capacità di rimozione di molecole di larghe dimensioni comparabili a quelle della HDF, però con il vantaggio di una rimozione ridotta e controllata di albumina [18]. Si è quindi configurata una tecnica di dialisi definita Expanded Hemodialysis (HDx) che dovrebbe esporre a minori rischi i pazienti con denutrizione proteico-calorica, che possono soffrire elevate perdite di albumina. Inoltre, le membrane MCO possono essere utilizzate anche con flussi di sangue non così elevati come richiesto dalle tecniche convettive.

Quindi la diatriba tra convezione e diffusione si è recentemente riaperta e non possiamo dare per certo la superiorità della convezione come sembrava sino a qualche anno fa.

Va però detto che la HDF, sia pure con qualche distinguo, ha dimostrato, in studi randomizzati e controllati di vaste dimensioni, un certo grado di superiorità, almeno per quel che riguarda il rischio di morte e di IDH, rispetto alla HD [16, 17]. Le membrane MCO pur avendo mostrato eccellenti capacità di rimozione delle medie molecole, devono ancora validare, in studi RCT, una loro superiorità riguardo gli hard endpoint clinici come la mortalità. Molto recentemente in Spagna è stato iniziato lo studio MOTHER [19], che confronta l’HDF con una membrana MCO nei riguardi della mortalità e morbilità in un ampio gruppo (700) di pazienti in dialisi cronica.

I risultati preliminari di questo studio supportano il dato che l’HDx non è inferiore a OL-HDF nel ridurre l’esito di mortalità per tutte le cause. Naturalmente dovremo attendere i risultati definitivi di questo studio [19], come anche di altri studi RCT, che affrontino lo stesso tema, per capire il reale valore di queste nuove metodiche nel panorama delle tecniche dialitiche, che vedono come protagonisti, la diffusione e la convezione.

Figura 1. Rimozione di molecole a diverso peso molecolare a seconda della tecnica dialitica ( membrana) e della entità del flusso convettivo.
Figura 1. Rimozione di molecole a diverso peso molecolare a seconda della tecnica dialitica ( membrana) e della entità del flusso convettivo.
Figura 2. Evoluzione nel tempo delle tecniche emodiafiltrative , partendo dalla biofiltrazione ad arrivando alla emodiafiltrazione on-line con almeno 23 litri di liquido di scambio.
Figura 2. Evoluzione nel tempo delle tecniche emodiafiltrative , partendo dalla biofiltrazione ad arrivando alla emodiafiltrazione on-line con almeno 23 litri di liquido di scambio.
Curve di sopravvivenza riguardanti pazienti con alto grado di co-morbidità
Figura 3. Curve di sopravvivenza riguardanti pazienti con alto grado di co-morbidità e trattati per 36 mesi o con emodialisi classica low-flux o con emofiltrazione in pre-diluizione ( con scambio di liquido di sostituzione del 120% del peso corporeo). Significativa differenza in mortalità, nonostante in emodialisi sia stato mantenuto un alto KT/V di circa 1,42 contro un basso Kt/V di 1,07 in emofiltrazione. I livelli di beta2 microglobulina sono però significativamente ridotti in emofiltrazione, mentre restano elevati e non si modificano in emodialisi. ( voce bibliografica n.11)

 

Bibliografia

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  16. Blankestijn PJ et al. Effect of Hemodiafiltration or Hemodialysis on Mortality in Kidney Failure. N Engl J Med 2023;389:700-709
  17. Marion M. et al . Treatment tolerance and patient-reported outcomes favor online hemodiafiltration compared to high-flux hemodialysis in the elderly. Kidney International 2017; 91, 1495–150.
  18. Boschetti A.et al. Membrane Innovation in Dialysis.Contrib Nephrol. Basel, Karger, 2017, vol 191, pp 100–114.
  19. De Sequera Ortiz p. et al.Study to Explore Morbimortality in Patients Dialyzed With the Theranova HDx in Comparison to On-Line-Hemodiafiltration. NDT vol. 38, suppl. 1, 3472,2023.

Stenotic FAV: Success of the Collaboration Between Spoke and HUB

Abstract

The arteriovenous fistula constitutes the vascular access of first choice in hemodialysis. We present three clinical cases that highlight the resolution in interventional radiology of venous stenosis, one of the major complications.
Clinical monitoring and instrumental diagnostics with color Doppler ultrasound have prevented the failure of the AVF due to high risk of thrombosis.
The angiographic interventions, thanks to the collaboration between Spoke and Hub, were completed without complications.

Keywords: hemodialysis, stenosis, AVF, interventional radiology, color Doppler ultrasound, PTA

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Introduzione

La fistola artero-venosa (FAV) per il paziente in dialisi costituisce l’accesso vascolare di prima scelta, in quanto meno gravato da complicanze a medio-lungo termine e per la maggiore sopravvivenza rispetto alla protesi e al catetere venoso centrale permanente [1]. L’Ecocolordoppler (ECD) ormai da anni rappresenta l’esame diagnostico meno invasivo per il mapping dei vasi pre-confezionamento FAV e per il monitoraggio delle complicanze (stenosi, trombosi, ematomi, aneurismi e pseudoaneurismi) venose e arteriose [26]. Sono più frequenti le stenosi venose che le stenosi arteriose [7, 8]; si distingue poi ulteriormente tra stenosi dell’inflow (vaso afferente) e stenosi dell’outflow (vaso efferente). Tra le stenosi venose, le stenosi iuxta-anastomotiche (entro i 2 cm dall’anastomosi) sono più frequenti rispetto alle stenosi distali [7, 8].

Il primum movens della stenosi venosa è l’iperplasia neointimale. Costituiscono fattori concomitanti lo stress chirurgico, lo stato pro-infiammatorio legato alla malattia renale cronica, la predisposizione genetica, le venipunture ripetute. Il processo che si determina è un’anomala proliferazione e migrazione delle cellule muscolari lisce, con espressione di citochine, chemochine, e mediatori come l’endotelina, il TGFβ, l’ossido nitrico, l’osteopontina e l’apolipoproteina. Spiegherebbe la riduzione del lume vascolare anche la migrazione di fibroblasti dall’avventizia all’intima [911]. 

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Lactobacillemia: A Rare Entity in Immunocompromised Patients. Description of a Clinical Case and Literature Review

Abstract

Bacteremia caused by Lactobacillus is rare, data on its clinical significance are based only on case reports and a limited number of studies, often difficult to interpret.
Lactobacillus species is a commensal colonizer of the mouth, gastrointestinal and genitourinary tract. Its significance as a pathogen is overlooked frequently.  The diagnosis of these infections requires a mutual relationship between the physician and the microbiologist to rule out contamination risk.
Most patients with Lactobacillus bacteremia are immunosuppressed or patients at increased risk of symptomatic bacteremia with comorbidities, treated with broad-spectrum antibiotics and have indwelling venous catheters.
Risk factors related to Lactobacillus bacteremia include impaired host defenses and severe underlying diseases, as well as prior surgery and prolonged antibiotic therapy ineffective for lactobacilli.
We describe an unusual case of a woman, on chronic hemodialysis treatment, with a sepsis due to Lactobacillus casei and review the literature.

Keywords: Lactobacillus, bacteremia, hemodialysis, immunocompromised patients

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Introduzione

Il Lactobacillus è un batterio gram-positivo, anaerobico facoltativo, a forma di bastoncello. È un comune commensale dei tessuti della mucosa umana (cavità orale, tratto gastrointestinale e tratto genitale femminile) e non fa parte della flora cutanea. È ampiamente distribuito anche nell’acqua, nelle acque reflue e negli alimenti quali latticini, carne, pesce e cereali. La sua presenza, come commensale del tratto gastrointestinale, è associata alla protezione contro gli agenti patogeni e alla stimolazione del sistema immunitario. Per questo è utilizzato in tutto il mondo come probiotico [1, 2].

La batteriemia causata da lattobacilli è rara e i dati sul suo significato clinico si basano solo su casi clinici e su un numero limitato di studi [3, 4].

Essendo i lattobacilli comuni commensali è verosimile che l’incidenza reale possa essere sottostimata e, talora, può essere difficile interpretarne la presenza in sedi abitualmente sterili. Pertanto, il significato clinico è ancora argomento di discussione. Infatti alcuni Autori [5] ritengono che questo batterio non dovrebbe mai essere considerato un contaminante, mentre altri Autori [6] lo considerano un contaminante occasionale. 

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Clinical Thermography for the Management of Hemodialysis Vascular Access

Abstract

The arteriovenous fistula (AVF) represents the favorite vascular access in individuals with chronic kidney disease (CKD). Because AVF is a guarantee of survival for these patients, proper surgical packing and a timely follow-up program is crucial.
Although a good objective examination of the limb site of FAV provides useful information both in planning the fistula surgery and in its surveillance and monitoring, it is now well established that the advent of instrumental diagnostics (ultrasonography, digital angiography, Angio-TC, MRI) has contributed significantly to improving primary and secondary patency of FAV and early diagnosis of vascular access complications.
In this area, clinical thermography, a noninvasive and nondestructive diagnostic technique for assessing minute surface temperature differences, has shown good potential for the assessment of AVF. In fact, thermographic analysis of a limb site of AVF shows an increase in temperature at the site of the anastomosis and along the course of the arterialized vein.
In this article we report our experience on the use of thermography in preoperative evaluation and postoperative surgical packing of an AVF.
Further studies could validate the use of clinical thermography as a diagnostic technique to be used in the field of hemodialysis vascular accesses.

Keywords: Thermography, Haemodialysis, Arteriovenous Fistula (AVF),   AVF Pre-Postoperative Examination, Post-Operative AVF Management

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Introduzione

Ogni corpo, a una temperatura superiore allo zero assoluto, emette delle radiazioni nel campo dell’infrarosso. Queste radiazioni non sono visibili ad occhio nudo, ma possono essere captate da una termocamera e rese visibili su un comune schermo LCD. L’intensità delle radiazioni aumenta con l’incremento della temperatura del corpo in esame.

Il corpo umano ha una temperatura media di circa 36,5 °C, una termocamera è quindi in grado di captare le radiazioni emesse e di evidenziare le variazioni di temperatura dei vari distretti corporei.

Esiste una branca della medicina chiamata “termografia clinica” che studia, per mezzo di una termocamera, le variazioni di temperatura del corpo umano indotte da fenomeni fisiologici o patologici. La termografia clinica trova applicazione principalmente nella diagnostica dermatologica, neuropsicologica, angiologica e reumatologica.

La temperatura degli arti è direttamente condizionata dalla circolazione ematica: più un arto è perfuso più è caldo. Questa caratteristica rende gli arti suscettibili allo studio termografico (Figura 1). 

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“Green” Hemodialysis: The Centralized Acidic Concentrate from the Dialysis Center of Policlinico of Modena

Abstract

Introduction and aim of the study. The centralized preparation and distribution system of acidic concentrate represents a true innovation in hemodialysis, when compared to acid bags, in terms of convenience and eco-sustainability. The aim of this study is to compare the use of traditional acid bags with the centralized distribution system of acidic concentrate, with particular attention to differences in terms of eco-sustainability and convenience.
Methods. At the Nephrology Dialysis and Renal Transplantation Unit of the University Hospital of Modena was installed the Granumix system® (Fresenius Medical Care, Bad Homburg, Germany). Data collected before the introduction of the Granumix® system (including the used acid bags, boxes and pallets used for their packaging, liters of acid solution used and kilograms of waste generated from wood, plastic, cardboard and residual acid solution) were compared with those collected after the implementation of the Granumix® system. Factors such as material consumption, volume of waste generated, unused and wasted products, time required for dialysis session preparation and nurses’ satisfaction were analyzed to document which system was more environmentally sustainable.
Results. Data collected in 2019 at our Dialysis Center showed a consumption of 30,000 acid bags, which generated over 20,000 kg of waste from wood, plastic and cardboard, and approximately 12,000 liters of residual acid solution to be disposed of, with a handling weight by operators reaching nearly 160,000 kg. The use of the centralized distribution system of acidic concentrate resulted in a significant reduction in waste generated (2,642 kg vs 13,617 kg), residual acid solution to be disposed of (2,351 liters vs 12,100 liters) and weights handled by operators (71,522 kg vs 158,117 kg).
Conclusions. The acidic concentrate appears to be better suited to the sustainability challenge that dialysis must faces today, particularly due to the significant increase in the number of patients, which leads to a higher number of treatments and, therefore, a growing demand for eco-sustainable products.

Keywords: Hemodialysis, Innovation, Sustainability, Acidic Concentrate, Central Dialysis Fluid Delivery System

 

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Introduzione

Dopo circa 80 anni dal primo trattamento emodialitico, sono tante le sfide che la dialisi deve ancora affrontare. Tra le più importanti va menzionato il significativo trend dell’aumento del numero di pazienti in dialisi che di conseguenza porterà a un aumento nell’utilizzo di risorse naturali e nella produzione di rifiuti [1].  La consapevolezza che la maggior parte dei rifiuti della dialisi viene smaltita senza entrare nel processo del riciclaggio (materiale contaminato da sangue o fluidi biologici, prodotti assimilabili a farmaci) è uno stimolo a una crescente necessità di sviluppare e adottare soluzioni ecosostenibili che riducano l’impatto ambientale e l’inquinamento. Inoltre, l’adozione di soluzioni eco-friendly rappresenta un investimento per le aziende del settore sanitario poiché può generare vantaggi economici nel lungo periodo. Una recente innovazione tecnologica in ambito emodialitico è l’implementazione di un sistema automatizzato per la produzione e distribuzione del concentrato acido.  

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Executive Dysfunction in Patients Undergoing Chronic Haemodialysis Treatment: A Possible Symptom of Vascular Dementia

Abstract

Introduction. Patients undergoing chronic haemodialysis (HD) treatment have an 8-10 times higher risk of experiencing stroke events and developing cognitive impairment. The high vascular stress they are subjected to may be the basis for the development of vascular dementia (VaD).
Objective. The aim of the study is to investigate the executive functions, typically impaired in VaD, of patients undergoing chronic haemodialysis treatment.
Method. HD patients were recruited from the U.O.C. of Nephrology and Dialysis (ASP Ragusa). Risk factors for VaD were collected and then the Frontal Assessment Battery (FAB) was administered.
Results. 103 HD patients were included (males = 63%, age 66 ± 14 years). Risk factors for VaD included a high percentage of patients with anaemia (93%), hypertension (64%) and coronary artery disease (68%).  The cognitive data obtained via FAB show a percentage of 55% deficit scores. All risk factors found a significant association with cognitive scores. Anemia, hypertension, intradialytic hypotension, coronary artery disease, and homocysteine are negative predictors of executive function integrity.
Conclusions. More than half of the patients had deficit scores on the FAB. Reduced cognitive flexibility, high sensitivity to interference, poor inhibitory control and impaired motor programming with the dominant hand were evident. In conclusion, a marked impairment of the executive functions, generally located in the frontal lobes of the brain, was detected in the HD patient, which could be a symptom of a dementia of a vascular nature.

Keywords: hemodialysis, cognitive, impairment, vascular, dementia

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Introduzione

I pazienti affetti da malattia renale cronica (CKD) sono solitamente più a rischio della popolazione generale di sviluppare deterioramento cognitivo [1], con una prevalenza che varia dal 13% al 58% [2-4]. L’associazione tra malattia renale cronica e funzioni cognitive è stata recentemente indagata e prove collettive dimostrano che una diminuzione del tasso di filtrazione glomerulare stimato (eGFR) aumenta la probabilità di incorrere in deterioramento cognitivo [5, 6]. Sono molti i meccanismi eziopatogenetici sottostanti questo fenomeno, come la disfunzione vascolare, l’infiammazione, l’accumulo di tossine uremiche, l’anemia e le anomalie elettrolitiche [7]. I pazienti in End Stage Renal Disease (ESRD) hanno un rischio maggiore di sviluppare patologie cerebrovascolari e cardiovascolari [8]. In particolare, studi hanno dimostrato che i pazienti allo stadio terminale della malattia e in trattamento emodialitico cronico (HD) hanno un’incidenza di ictus 8-10 volte maggiore rispetto alla popolazione generale, con una prevalenza di ictus emorragico rappresentante il 20% di tutti gli eventi ictali nel dializzato, e presentano una autoregolazione cerebrale alterata [912]. Nello specifico, l’emodialisi induce una significativa riduzione del flusso sanguigno cerebrale (CBF) in tutti i lobi durante le sedute emodialitiche [10]. Dunque, l’ingente stress vascolare a cui sono sottoposti questi pazienti potrebbe costituire la base per lo sviluppo del deterioramento cognitivo constatato in questa popolazione e, in particolare, per quadri di demenza vascolare [13].  

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Palliative and Supportive Dialysis: Current Practices and Recommendations for Best Clinical Practice

Abstract

“Palliative dialysis” is defined as the renal replacement therapy directed to patients living the most critical phases of illness and the end-of-life stage. Offering targeted dialysis prescriptions becomes imperative when health conditions, along with comorbidities, unfavorable prognosis and complications, do not allow standard dialysis to be started or continued. Management should also integrate adequate supportive care measures in both incident and prevalent patients.

This document summarizes nephrological recommendations and scientifical evidence regarding the palliative approach to dialysis, and proposes operative tools for a good clinical practice. After planning and sharing the route of care (“shared-decision-making”), which includes multidimensional evaluation of the patient, a pathway of treatment should be started, focusing on combining the therapeutical available options, adequacy and proportionality of care and patients’ preferences.

We propose a framework of indications that could help the nephrologist in practicing appropriate measures of treatment in patients’ frailest conditions, with the aim of reducing the burden of dialysis, improving quality of life, providing a better control of symptoms, decreasing the hospitalization rates in the end-of-life stage and promoting a home-centered form of care. Such a decisional pathway is nowadays increasingly needed in nephrology practice, but not standardized yet.

Keywords: palliative care, chronic kidney disease, end-of-life, palliative dialysis, hemodialysis, peritoneal dialysis, shared-decision-making

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Introduzione

L’applicazione dei principi della medicina palliativa nei pazienti affetti da malattia renale ha lo scopo di alleviare le sofferenze legate alla malattia e al suo trattamento, ed è appropriata lungo l’intera traiettoria di malattia, incluso (ma non limitato a) il fine vita [1]. L’attenzione è focalizzata sul trattamento dei sintomi e sul sollievo dell’impatto psicologico, sociale e funzionale della malattia. Poiché le cure palliative trovano indicazione ben oltre gli ultimi giorni di vita, quando sono ancora in atto cure volte a prolungare la sopravvivenza, come la dialisi, le linee guida nefrologiche internazionali ne hanno definito i criteri per la popolazione affetta da malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD), e hanno introdotto il termine di “Kidney Supportive Care” (cure nefrologiche di supporto o cure simultanee), in luogo di “cure palliative” [2, 3].

Se confrontati con i pazienti oncologici, i pazienti affetti da CKD avanzata hanno più probabilità di morire in ospedale, meno probabilità di ricevere istruzioni sul fine vita, e sono gravati da analoga incidenza di sintomi severi, quale il dolore moderato-severo [4].

In Italia nel 2015 viene pubblicato un documento intersocietario (SIN-SICP) da nefrologi e palliativisti, che riassume i criteri prognostici e di identificazione precoce dei bisogni di cure di supporto nella fase finale della CKD, e suggerisce un percorso condiviso con i palliativisti di presa in carico di questi pazienti, percorso che contempla anche la rimodulazione e la sospensione della dialisi, quando in atto [5]. Questo documento ha gettato le basi per l’implementazione delle cure palliative e simultanee nel nostro paese, consentendo di sviluppare le prime esperienze condivise: presso l’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento dal 2017 è stato attuato un protocollo integrato di cura per la gestione della fine della vita dei nostri nefropatici e dializzati [6]. 

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