T-cell-mediated acute rejection

Abstract

Despite the advances in immunosuppressive therapies and improvements in short-term allograft survival, acute rejection still represents one of the major causes of graft loss. We present a case of early acute T-cell-mediated rejection treated efficaciously with pulse steroids and we review the current literature on the pathogenesis, diagnosis, and treatment of acute T-cell-mediated rejection. Pathogenetic mechanisms involve recruitment, activation, and proliferation of donor-specific T-cells, capable of inducing graft injury through direct and indirect mechanisms. Histologically, Banff classification provides standardized and reproducible definitions and scoring for rejection categories, including T-cell mediated rejection (TCMR) and borderline for TCMR. Although allograft biopsy still represents the gold standard for acute rejection diagnosis, new non-invasive biomarkers are emerging to improve diagnostic timeliness and assist therapeutic choices.

Therapy of TCMR largely depends on histologic severity and may range from the adjustment of maintenance immunosuppressive therapy to the use of thymoglobulin and other aggressive immunosuppressive approaches. Finally, the response to the anti-rejection treatment is normally detected through serum creatinine and surveillance biopsies. However, new biomarkers are emerging to non-invasively monitor this response.

Keywords: Kidney transplantation, Graft rejection, Graft rejection diagnosis, Graft rejection treatment, Graft rejection prognosis

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Caso clinico

Uomo di 61 anni sottoposto a trapianto di rene pre-emptive da donatore vivente (la moglie di 58 anni). Nefropatia di base: diagnosi clinica di nefroangiosclerosi ipertensiva; non sottoposto a biopsia per condizione di monorene funzionale. Differenza altezza/peso tra donatore e ricevente rispettivamente 160 cm/54 kg e 170cm/77 kg. Fattori di rischio immunologici: 6 mismatch A/B/DR (DRw:1, D Q DRw: 1; DQα: 2; DQβ: 2; DPα: 0, DPβ: 2), cPRA pre-trapianto pari a 0%.

Eseguita terapia di induzione con basiliximab e di mantenimento con tacrolimus, micofenolato mofetile e metilprednisolone. Nel post-operatorio presenta immediata ripresa funzionale con progressiva riduzione della creatinina ma, in quarta giornata post-trapianto, la funzione renale peggiora improvvisamente (creatininemia da 2.1 a 3 mg/dl), per cui viene sottoposto a biopsia del graft. L’esame istologico mostra presenza di infiltrato infiammatorio linfoplasmocitario interstiziale di grado severo (>50% della corticale) nell’ambito del quale si osservavano numerose immagini di tubulite anche severa (> 10 cellule per sezione), fino alla distruzione dei profili tubulari. Non presenta significative aree di atrofia tubulare o di fibrosi interstiziale (Figura 1 A-B).

L’immunoreazione per c4d è negativa nei capillari peritubulari in immunofluorescenza e immunoistochimica; non presenta alloanticorpi anti-HLA donatore-specifici.

Viene pertanto posta diagnosi di rigetto acuto cellulo-mediato tipo IB secondo Banff (t3, i3, v0, ti3, iIFTA0, tIFTA0, si veda Tabella I), per cui il paziente viene trattato con 3 boli di metilprednisolone ev da 500 mg. Alla dimissione la creatinina è 1.5 mg/dl.

A tre mesi dal trapianto la creatinina è stabile a 1.3 mg/dl, non vi sono anticorpi donatore-specifici (DSA). Viene ripetuto la biopsia del graft che mostra minime aree di atrofia tubulare e di fibrosi interstiziale, tubulite focale e moderata (max 7-8 cellule per sezione tubulare). La diagnosi istologica è di lesioni borderline per rigetto acuto cellulo-mediato secondo Banff (t2, i0, v0, ti0, iIFTA0, tIFTA0). Si decide di non procedere al trattamento ma solo di potenziare la terapia di mantenimento (Figura 1 C-D).

La prima biopsia mostrava infiammazione interstiziale diffusa
Figura 1: La prima biopsia mostrava infiammazione interstiziale diffusa i3 (A, PAS, 10x) e tubulite focalmente severa t3 (B, PAS, 40x; le frecce mostrano le immagini di tubulite), compatibili con rigetto acuto cellulo-mediato IB. Nella seconda biopsia l’infiammazione interstiziale era completamente risolta (C, PAS, 4x) mentre si osservavano immagini di tubulite moderata t2 (D, PAS+CD3, 40x), borderline per rigetto acuto cellulo mediato.
Definizione delle lesioni istologiche elementari del rigetto cellulo-mediato Categoria e sottocategoria Diagnostica Lesioni caratterizzanti
Infiammazione interstiziale (i)

  • i1: infiammazione nel 10-25% della corticale non fibrotica
  • i2: infiammazione nel 25-50% della corticale non fibrotica
  • i3: infiammazione in >50% della corticale non fibrotica

Tubulite (t)

  • t1: 1-4 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito
  • t2: 5-10 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito
  • t3: >10 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito

Arterite Intimale (v): cellule infiammatorie sotto l’intima di arterie intrarenali (no arteriole)

  • v1: compromissione di <25% del lume
  • v2: compromissione di >25% del lume
  • v3: infiammazione transmurale o necrosi fibrinoide

Infiammazione totale (ti)

  • ti1: infiammazione nel 10-25% dell’intera corticale
  • ti2: infiammazione nel 26-50% dell’intera corticale
  • ti3: infiammazione in >50% dell’intera corticale

Infiammazione delle aree di atrofia tubulare (iIFTA)

  • iIFTA1: infiammazione nel 10-25% delle aree di IFTA
  • iIFTA2: infiammazione nel 26-50% delle aree di IFTA
  • iIFTA3: infiammazione in >50% delle aree di IFTA

Tubulite in tubuli parzialmente atrofici (tIFTA)

  • tIFTA1: 1-4 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito
  • tIFTA2: 5-10 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito
  • tIFTA3: >10 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito

Vasculopatia cronica da trapianto (cv*): presenza di cellule infiammatorie nel contesto dell’ispessimento fibroso subintimale in arterie intrarenali (no arteriole)

 

Rigetto cellulo-mediato borderline

t>0 ma i≤1

oppure

t1 e i≥2

Rigetto cellulo-mediato acuto

Grado IA

Grado IB

Grado IIA

Grado IIB

Grado III

 

t2 e i≥2

t3 e i≥2

v1 a prescindere da i e t

v2 a prescindere da i e t

v3 prescindere da i e t

Rigetto cellulo-mediato cronico-attivo

Grado IA

Grado IB

Grado II

 

 

 

ti≥2 iIFTA≥2 e t2 o tIFTA2

ti≥2 iIFTA≥2 e t3 o fIFTA3

presenza di cv*

Tabella I: Categorie diagnostiche e lesioni elementari del rigetto cellulo-mediato. IFTA: atrofia tubulare e fibrosi interstiziale [1].

 

La classificazione di Banff

Il sistema di classificazione istologica di Banff, entrato progressivamente in uso a partire dall’inizio degli anni ’90, ha lo scopo di uniformare e standardizzare la refertazione delle lesioni istologiche che caratterizzano il rigetto del rene trapiantato. Il Banff ha subito continui aggiornamenti nell’arco dei suoi 30 anni di storia. Conferenze biennali consentono di integrare nel sistema di classificazione nuove categorie e lesioni istologiche allo scopo di migliorare la comprensione dei meccanismi patogenetici del rigetto d’organo, la classificazione e la riproducibilità delle lesioni istologiche che lo caratterizzano e l’efficacia degli schemi terapeutici per i vari tipi di rigetto [2].

La classificazione di Banff riconosce tre categorie principali di rigetto sulla base del meccanismo patogenetico: rigetto anticorpo-mediato, rigetto cellulo-mediato e lesioni borderline per rigetto cellulo-mediato. Le varie forme sono distinte sulla base della presenza di lesioni istologiche elementari, e a cui il Banff attribuisce uno score semiquantitativo, con l’obiettivo di aumentarne la riproducibilità inter-osservatore. Nel rigetto anticorpo-mediato, provocato dalla presenza di alloanticorpi donatore-specifici rivolti verso antigeni endoteliali del donatore, i reperti istologici principali sono l’infiammazione microvascolare (definita come presenza di glomerulite e/o capillarite peritubulare) ed eventuale positività immunoistochimica per C4d a livello dell’endotelio dei capillari peritubulari, considerato segno “indiretto” dell’avvenuta interazione antigene-anticorpo. Invece, nel rigetto cellulo-mediato propriamente detto o nella forma borderline l’istologia si caratterizza per la presenza di infiammazione a livello interstiziale e tubulare (tubulite) e, nelle forme più severe, a livello dell’endotelio arterioso dei vasi intrarenali (arterite intimale). La forma borderline manifesta le medesime lesioni infiammatorie del rigetto cellulo-mediato conclamato (a eccezione della arterite intimale), ma la severità relativamente modesta delle lesioni non consente di attribuirne con certezza la causa a un fenomeno di rigetto d’organo [1].

Le categorie di rigetto cellulo-mediato definite dalla classificazione di Banff e le lesioni elementari che le caratterizzano sono indicate nella Tabella I.

 

L’incidenza e la patogenesi del rigetto

Il rigetto rappresenta il tentativo da parte del sistema immunitario del ricevente di distruggere un organo riconosciuto come non-self. Si distingue in base alla rapidità di decorso in rigetto iperacuto, acuto e cronico, e in base al processo immunologico. Può infatti vedere il coinvolgimento dell’immunità umorale (rigetto anticorpo-mediato) o di quella cellulare (linfociti, rigetto cellulo-mediato).

Il rigetto acuto va sospettato in tutti i pazienti che presentino un rapido peggioramento della funzione renale (incremento della creatinina), che non possa essere attribuita a cause non immunologiche (es. problemi urologici e vascolari, cause infettive come l’infezione da poliomavirus BK o batteriche). La diagnosi di certezza si ottiene sottoponendo il paziente alla biopsia del rene trapiantato [3].

Il rigetto acuto cellulo-mediato si manifesta prevalentemente nei primi tre mesi post-trapianto, ma può comunque presentarsi anche più tardivamente in occasione di riduzioni dell’immunosoppressione, per mancata aderenza terapeutica del paziente, o per raccomandazione del medico. Talora è identificabile un evento scatenante che eserciti un’immunostimolazione, come quei casi che seguono a infezioni virali. L’incidenza di rigetto acuto cellulo-mediato è di circa il 15%, a un anno dal trapianto; successivamente scende a meno di 5% all’anno [4].

L’incidenza del rigetto acuto si è ridotta negli ultimi 15 anni dopo l’introduzione del tacrolimus e del micofenolato mofetile. Nel 2018-2019, l’OPTN (Organ Procurement and Transplantation Network) riportava un’incidenza di solo 7% nel primo anno [5].

La presentazione clinica più classica è un incremento della creatinina riscontrato agli esami di routine. Meno frequentemente, nei casi più severi, si associa a febbre, distensione del graft, oliguria e ipertensione. Di rado si può manifestare con proteinuria (talora nefrosica).

Come regola clinica, un incremento della creatinina è considerato significativo se ≥ 0.3 mg/dl o oltre il 20% rispetto al valore basale. Nei casi precoci esorditi con ritardata ripresa funzionale (Delayed Graft Function, DGF), dialisi dipendente, l’aumento della creatininemia non può essere usato come criterio per porre il sospetto diagnostico. In tal caso può essere solo diagnosticato dalla biopsia, che infatti generalmente si esegue trascorso attorno al 10 giorno post-trapianto, nei pazienti in cui non sia ancora iniziata la ripresa funzionale. All’ecografia, il graft in corso di rigetto può presentare un aspetto edematoso e ipoecogeno con perdita della differenziazione cortico-midollare e all’ecocolordoppler gli indici di resistenza (IR) intraparenchimali possono essere aumentati (>0.80). Tale quadro ecografico, tuttavia, non è patognomonico, essendo presente anche in corso di altre condizioni, come la necrosi tubulare acuta (NTA) [6].

 

La patogenesi

Il rigetto acuto cellulo-mediato è caratterizzato dalla reazione delle cellule T del ricevente nei confronti degli alloantigeni HLA presenti sulle cellule del donatore. Il ruolo dei linfociti T risulta essenziale nella patogenesi del rigetto e il loro blocco ne previene l’insorgenza. Infatti, i bersagli principali di tutti i farmaci antirigetto sono le vie di attivazione dei linfociti T CD4+ naive [7, 8].

Il sistema immunitario consta di una componente innata e di un sistema adattativo che interagiscono per contrastare le infezioni e i tumori. Entrambe le componenti del sistema immune sono coinvolte nel rigetto: linfociti T, linfociti B e cellule presentati l’antigene (APC) sono gli attori principali dell’immunità adattativa, mentre fattori solubili, granulociti, cellule natural killer (NKc) e macrofagi sono i principali attori della componente innata [9].

I principali determinanti antigenici del rigetto sono le molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), che nell’uomo codificano le molecole HLA [10].

I geni che codificano per le molecole HLA si localizzano nel braccio corto del cromosoma 6, e sono ereditati come aplotipo con espressione codominante. Gli antigeni HLA possono essere distinti in due differenti classi: HLA di classe I (locus A, B e C), presenti su tutte le cellule nucleate, e HLA di classe II (locus DQ, DR e DP) espresse solo sulle cellule presentanti l’antigene (APC: cellule dendritiche (DC), macrofagi e cellule B). L’espressione di HLA di classe II può essere comunque indotta anche sulle cellule epiteliali e endoteliali vascolari sotto l’azione di fattori pro-infiammatori [10]. Le molecole HLA sono altamente polimorfe, cioè ne esistono numerose varianti alleliche.

L’alloreattività immunitaria consta di tre fasi: il riconoscimento degli antigeni da parte delle cellule T, l’attivazione-espansione delle cellule T, e l’esercizio di funzioni effettrici che portano alla distruzione dell’organo trapiantato [11].

L’alloriconoscimento è l’evento primario e normalmente si realizza attraverso tre diversi pathways: nelle fasi iniziali le cellule presentanti l’antigene provenienti dall’organo del donatore (in particolare leucociti migranti provenienti dall’interstizio dell’organo trapiantato) inducono l’espansione clonale dei linfociti T CD4+ naive del ricevente. Le APC protagoniste di questo fenomeno sono le cellule dendritiche (“professional” APC) [12]. Queste risiedono normalmente nel parenchima di ogni organo. In condizioni fisiologiche, le APC immature catturano materiale dalle cellule apoptotiche e lo portano alle cellule T nei linfonodi dove, secondo un processo fisiologico, garantiscono il mantenimento della tolleranza verso gli antigeni self. Al contrario, in presenza di un danno infiammatorio-necrotico, come quello che può verificarsi in seguito a intervento chirurgico o ischemia-riperfusione, le APC diventano “mature”, cioè acquistano la capacità di esprimere le molecole di istocompatibilità e le molecole costimolatorie necessarie per l’attivazione delle cellule T, e gli stessi stimoli attivano la APC del ricevente che infiltrano il graft come parte integrante del processo infiammatorio [12].

Sia le APC attivate del donatore che quelle del ricevente migrano fuori dal graft, raggiungendo i linfonodi dove attivano le cellule CD4+. Il fenomeno per cui una APC proveniente dal donatore attiva una cellula T del ricevente è detto via “Diretta” di alloriconoscimento. Questo processo è un fenomeno immunologico peculiare del trapianto. Col tempo le APC del donatore tendono però ad esaurirsi, cedendo il passo al fenomeno della via “Indiretta” di alloriconoscimento che è, del resto, il normale sistema di riconoscimento antigenico: sotto lo stimolo di chemochine le APC del ricevente migrano verso l’organo trapiantato, catturano peptidi, soprattutto degli HLA di classe II che circolano perché rilasciati spontaneamente dalle cellule del trapianto o che le APC staccano direttamente dalle stesse cellule, e poi migrano ai linfonodi per presentarli alle cellule T CD4+ [12].

La via diretta, che coinvolge un elevato numero di cellule T (circa 1‰-1%) e pertanto porta alle reazioni immunologiche cellulari più vigorose, è responsabile del rigetto acuto nelle prime fasi del trapianto. La via indiretta, che coinvolge invece un numero più basso di cellule T (circa 0.01‰ delle cellule T) che riconoscono peptidi estranei presentati nel contesto delle proprie molecole MHC e che pertanto porta a reazioni immunologiche più blande, è responsabile del rigetto cronico e del rigetto attivo subclinico nel lungo termine. Si ritiene che l’alloimmunità mediata dalle cellule T origini da fenomeni di cross-reattività, per cui linfociti T maturi riconoscono specifici antigeni microbici e cross-reagiscono con MHC allogenici [13].

Il danno infiammatorio-necrotico attiva, inoltre, la produzione locale del complemento da parte delle cellule prossimali tubulari. Il complemento è poi in grado di stimolare le cellule B a produrre anticorpi (oltre a svolgere complesse funzioni regolatorie sulle stesse cellule T) [14].

L’immunità innata ha un ruolo determinante nella maturazione delle APC [15]. Lo stesso atto chirurgico, l’ambiente necrotico-infiammatorio che ne consegue, il danno da ischemia/riperfusione nel trapianto da cadavere, sono fenomeni in grado di attivare l’immunità innata. Ad esempio, il danno cellulare del graft comporta la liberazione di frammenti di membrana, che sono definiti pattern molecolare associato a danno (DAMP) e pattern molecolare associato ai patogeni (PAMP) che attivano i fattori solubili dell’immunità innata [16]. Tra questi, i Toll-like receptors (TLR) rappresentano quelli meglio caratterizzati e il complemento. La funzione ancestrale di questi recettori è permettere il precoce riconoscimento di pattern molecolari comuni a molte specie microbiche patogene [17]. È infatti dimostrato che tali meccanismi si attivano nei processi infiammatori e di ischemia [18] che si sviluppano nel corso del trapianto [19].

È in tale contesto che avviene l’attivazione e maturazione delle APC, alla base dell’avvio e amplificazione della risposta immune adattativa verso il graft condotta dalle cellule T [19]. Questo si realizza attraverso la secrezione di citochine (e.g IL-1, IL-6, IL-8, TNFα) e di chemochine, che determinano l’espressione delle molecole costimolatorie necessarie per l’attivazione delle cellule T [20]. Anche l’attivazione del complemento, tradizionalmente associato all’immunità anticorpo mediata, ha in realtà un ruolo fondamentale per l’avvio e il mantenimento del processo infiammatorio così come della risposta immune adattativa associata al rigetto del graft [19].

Alla fase di alloriconoscimento segue la fase di attivazione ed espansione delle cellule T CD4+ naive, il cui pathway molecolare rappresenta il principale bersaglio dei farmaci usati nella terapia di mantenimento del trapianto. Il legame del TCR (CD3) del linfocita T con l’MHC della APC del donatore (via diretta) o con il MHC della propria APC, che accoglie però nella sua fenditura un peptide proveniente dall’MHC del donatore (via indiretta), consente di selezionare i cloni specifici: è questo il cosiddetto “Segnale 1 [11]. L’istruzione per la loro attivazione viene data però dalle molecole costimolatorie, in assenza delle quali si formerebbero cellule T anergiche che non porterebbero a termine alcuna riposta effettrice. In particolare, il CD40 sulle APC lega il CD40L (CD154) sulle cellule T. La costimolazione CD40-CD40L attiva le APC a produrre IL-12 e a aumentare l’espressione di CD80 (B7-1)/CD86 (B7-2) che legano il CD28 sulle cellule T. Il legame del CD80/CD86 col CD28 determina l’attivazione delle cellule T. Essa media, inoltre, la funzione helper delle cellule CD4+ e delle cellule B. Il belatacept è un inibitore selettivo dell’attivazione tramite il CD28 delle cellule T. Il belatacept è infatti una molecola ottenuta modificando il CTLA-4, cioè il naturale inibitore sulla superficie delle cellule T dell’attivazione CD80/CD86-indotta. Il contemporaneo legame del TCR e della molecola costimolatoria CD28 induce delle modificazioni delle molecole di membrana che attivano la Protein-Kinase C (la cui funzione è antagonizzata dal farmaco sotrastaurina) al rilascio di Calcio nel citosol, che attiva una catena di enzimi che porta alla sintesi di citochine pro-infiammatorie tra cui l’IL-2. I principali sistemi che vengono coinvolti in questa funzione sono la formazione del complesso calcio-calmoduline che attiva la calcineurina (la cui azione è inibita dalla ciclosporina e dal tacrolimus), la quale defosforila l’NFAT citoplasmatico (Nuclear Factor of Activated T cells). L’NFAT defosforilato può allora entrare nel nucleo dove attiva nel DNA linfocitario il promoter del gene per l’IL-2. Gli inibitori della calcineurina esercitano la loro azione antagonista dopo essersi legati a recettori specifici, quali la ciclofillina per la ciclosporina e l’FKBP per il tacrolimus. Altri sistemi attivati sono il MAPK (Mitogen Activated Protein Kinase che a sua volta attiva l’AP-1 (Activator Protein 1), e il l’NFkB, che sono antagonizzati dai farmaci glucocorticoidi. Le interleuchine, tra cui principalmente IL-2 e IL-15, si legano ai loro recettori espressi sui linfociti attivati e di cui il CD25 è una componente (il basiliximab è un antagonista di questa molecola). La traduzione del loro segnale avviene ad opera delle pathway delle JAK-STAT che portano alla replicazione e all’espansione dei cloni di cellule effettrici. Gli inibitori di mTOR (sirolimus ed everolimus), il micofenolato e gli antagonisti della JAK3 agiscono appunto a questo livello [11].

Le cellule T CD+4 naive o T helper svolgono un ruolo molto importante nella determinazione della risposta adattativa; infatti, a seconda dell’interazione con l’antigene attraverso il TCR possono differenziarsi in varie linee che includono le classiche cellule effettrici Th1 e Th2, le cellule Th17, le cellule helper follicolari (Tfh), le Th9 e le cellule regolatorie indotte iTreg [21]. La differenziazione dipende da vari fattori in particolare dalla forza del segnale TCR, dall’affinità del TCR per l’antigene, ma soprattutto dalla natura delle molecole costimolatorie responsabili del secondo segnale.

Le cellule effettrici Th1 contribuiscono significativamente alla risposta alloimmune e alla patogenesi del rigetto. Le cellule Th1 producono IFN-alfa e IL2 che stimolano l’espressione di MHC di classe I sulle cellule bersaglio. Il CD40 si esprime in modo significativo sulle APC quando è presente una quantità elevata di antigene, promuovendo attraverso il suo legando CD40L la produzione di citochine come IL12 e TNF e favorendo la diffenziazione nella classe Th1 [21].

Le cellule Th1 usano molecole di adesione, come LFA-1 per rotolare (rolling) aderendo all’endotelio e migrare attraverso i capillari peritubulari per entrare nel graft.

Le cellule Th1 producono IFN-alfa che stimola l’espressione di MHC di classe I sulle cellule bersaglio. I cloni alloreattivi riconoscono queste molecole sulle cellule bersaglio da distruggere. La distruzione avviene prevalentemente attraverso meccanismi di apoptosi indotti a seguito del contatto diretto con le cellule epiteliali tubulari e, in minor misura, attraverso la citolisi mediata dalle citochine. Le cellule T CD8 inseriscono nella cellula target la perforina, una proteina che crea un poro che consente l’ingresso del granzima A e B cha provoca apoptosi cellulare attraverso la via della caspasi. La stessa via può essere attivata attraverso le molecole FAS/e ligando di FAS. I linfociti T CD4 possono attaccare le cellule del graft che esprimono antigeni minori di istocompatibilità attraverso la secrezione di TNF alfa e TNF beta che si lega ai recettori del TNF espressi sulle cellule tubulari e endoteliali causando apoptosi cellulare. In corso di rigetto i linfociti T infiltrano e si proliferano nello spazio interstiziale e nei tubuli causando tubulite. Le citochine prodotte dalle cellule T dello spazio interstiziale attivano le cellule tubulari epiteliali che a loro volta attraggono più linfociti attraverso chemiochine (CCL 2, CX3CL1). I linfociti T CD8 attraversano la membrana basale del tubulo dove proliferano e determinano apoptosi delle cellule tubulari. Alla fine del processo le cellule tubulari danneggiate possono trasformarsi da fenotipi epiteliale a miofibroblasti mesenchimali causando fibrosi interstiziale. Tutti questi processi reiterati nel tempo conducono inoltre allo sviluppo di atrofia tubulare, che assieme alla fibrosi interstiziale è espressione di un danno cronico e irreversibile [22].

Il processo di alloriconoscimento si associa infine alla formazione di cellule CD4+ e CD8+ memoria. Queste cellule sono in grado di produrre citochine pro-infiammatorie. Le CD8+ memoria sono dotate di attività citotossica e le CD4+ memoria sono in grado di fornire aiuto per altre cellule T naive e per cellule B al fine di produrre anticorpi. Le cellule memoria hanno una bassissima soglia per l’attivazione e pertanto possono attivarsi fuori dai linfonodi e non richiedono APC professionali. Peraltro, il rilascio di citochine pro-infiammatorie induce l’espressione di MHC sulle APC non professionali (cellule endoteliali ed epiteliali, cellule B e macrofagi) [23].

Le cellule memoria esprimono varie molecole costimolatorie tra le quali ICOS (inducible T-cell costimulator), PD-1 (programmed death-1), CD134, CD27, e CD137, che potrebbero essere in futuro potenziali target per terapie specifiche. Non esprimono invece le classiche molecole costimolatorie come il CD28 [23].

 

La terapia del rigetto acuto cellulo-mediato

La terapia del rigetto acuto cellulo-mediato si stabilisce in base all’entità e gravità del danno individuato con la biopsia.

Il rigetto borderline è rappresentato da lesioni infiammatorie tubulointerstiziali molto modeste, spesso riscontrate incidentalmente in corso di biopsie di sorveglianza, in assenza di segni clinici di rigetto. In pazienti con lesioni borderline per rigetto cellulo-mediato molti clinici preferiscono non trattare il rigetto, a meno che tali lesioni non siano riscontrate in biopsie per indicazione clinica.

C’è un accordo unanime definito dalle linee guida internazionale di trattare il rigetto cellulare acuto IA e IB con terapia steroidea ev secondo schemi di somministrazione degli steroidi diversi a seconda del centro [24].

Generalmente si somministrano boli di metilprednisolone da 500 mg per tre giorni consecutivi (o 3-5 mg/kg/die). La dose non deve tuttavia essere inferiore a 250 mg/die e nei cinque giorni successivi si programma lento tapering. Nei casi più severi si possono usare dosi maggiori (es. 10 mg/kg, per una dose cumulativa massima di 3 g). La risposta viene definita generalmente con ritorno della creatininemia entro il 30% dei valori basali trascorsa una settimana dall’inizio del trattamento.

In caso di presenza di un quadro istologico più grave (con presenza di arterite v), o in caso di mancata risposta alla terapia steroidea, è necessario avviare trattamento con terapia depletante le cellule T, basata su anticorpi di coniglio antitimociti umani (rabbit antithymocyte globulin, rATG). In Italia viene generalmente usata la formulazione Thymoglobuline®, alla dose iniziale dai 2.5 mg/kg da somministrare in infusione lenta, nell’arco di 6-12 ore, previa premedicazione con antistaminici, steroidi (metilprendisolone 20-40 mg) e paracetamolo (1000 mg), nell’arco di 8-12 ore. La somministrazione va ripetuta alla dose di 1.5 mg/kg ogni 24 ore, raggiungendo mediamente una dose cumulativa di 8mg/kg [25]. Per i pazienti che non possono ricevere trattamento con rATG perché allergizzati alle proteine di coniglio con rischio di sviluppo di malattia da siero [26] è possibile la monosomministrazione di alemtuzumab (anticorpo anti-CD52 che depleta tutte le cellule immunitarie, incluse le cellule B). Per il trattamento del rigetto, l’alemtuzumab è però un farmaco off-label.

Per i pazienti trattati con Thymoglobuline, è indicata una profilassi per Pneumocystis jirovecii, Citomegalovirus, e candida, con trimetroprim-sulfametossazolo, valganciclovir e nistatina. La profilassi per Pneumocystis jirovecii è comunque consigliabile in ogni paziente trattato per rigetto acuto, anche se con soli steroidi, o incremento della terapia immunosoppressiva di mantenimento.

 

La risposta al trattamento e prognosi a lungo termine

Non è ancora chiaro come valutare la risposta nel breve-medio termine al trattamento per il rigetto acuto, essendo quello basato sulla sola funzione renale, un criterio spesso considerato insufficiente. Una revisione sistematica della letteratura pubblicata ha messo in evidenza quanto le definizioni della risposta al trattamento siano eterogenee. In particolare, pochi centri trapianti valutano la risposta terapeutica attraverso la ripetizione di una biopsia di controllo [24]. In una recente coorte prospettica di 256 pazienti con diagnosi bioptica di rigetto acuto cellulo-mediato sono state analizzate risposta clinica, istologica e immunologica al momento della diagnosi e a tre mesi dal trattamento [27].

In questo studio, dove la percentuale di non-responders era del 40%, sono stati identificati cinque diversi pattern di risposta al trattamento. Questi si fondano sull’eGFR, sul grado di infiammazione in aree di atrofia tubulare e fibrosi interstiziale (i-IFTA) e sulla presenza di alloanticorpi anti-HLA donatore specifici (DSA). I pazienti con risposta al trattamento avevano un eGFR > 22 ml/min/1.73m2, e uno score di iFTA Banff ≤1, e assenza di DSA. Tra questi quelli con eGFR > 44 ml/min/1.73m2 avevano una sopravvivenza del graft a 10 anni di oltre il 90% [28].

Diversi studi hanno infatti dimostrato la correlazione tra la presenza di infiammazione nelle aree cicatriziali (i-IFTA) e la ridotta sopravvivenza del trapianto [29, 30]. Per tale motivo, nella definizione nella recente revisione dello score Banff 2017, l’i-IFTA è stata considerata espressione del rigetto cellulare cronico attivo.

Tale interpretazione non ha trovato accordo in uno studio in cui Halloran et al. hanno valutato la correlazione tra diagnosi molecolare di rigetto acuto cellulo-mediato basata su microarray (MMDx) [31] e i-IFTA, studiando 519 campioni bioptici. Il sistema MMDx permette di avere report automatizzati che si fondano su algoritmi che generano probabilità numeriche di rigetto anticorpale o cellulare [28].

Da questo studio, gli autori hanno concluso che l’i-IFTA non è altro che una risposta aspecifica a danno parenchimale recente [32].

 

Le nuove strategie per la diagnosi di rigetto

La diagnosi invasiva

La biopsia renale è tradizionalmente considerata il gold standard per la diagnosi di rigetto. Negli anni ’90, l’introduzione della classificazione di Banff ha consentito di migliorare la riproducibilità delle diagnosi si rigetto. Tuttavia, col passare degli anni ne sono emersi i limiti. I limiti sono legati al fatto che il Banff si fonda sull’uso di uno score semiquantitativo che valuta una serie di lesioni elementari comuni per vari pattern istologici (ad esempio l’arterite nel rigetto acuto cellulo-mediato e anticorpo-mediato) [33]. Tale score, essendo frutto di una valutazione quantitativa, è inevitabilmente poco riproducibile tra patologi. Inoltre, molte delle lesioni elementari associate a rigetto non sono in realtà specifiche. Infine, non è sufficientemente accurato per apprezzare un’evoluzione nel tempo. Peraltro, il Banff richiede, per la sua valutazione, un campione adeguato in termini di dimensioni e qualità (idealmente sono necessari due frustoli, rappresentativi della corticale, con almeno 10 glomeruli e un’arteria di medio calibro) [34].

La trascrittomica

Per ovviare ai limiti della valutazione semiquantitativa del Banff, sono state introdotte tecniche di biologia molecolare, fondate sulla trascrittomica e prevalentemente basate su microarray. Tra queste, il Molecular Microscope Diagnostic System (MMDx) è stata la prima introdotta a uso clinico nell’ambito del trapianto renale [35]. La tecnica prevede la rilevazione dell’RNA messaggero di numerosi geni in una piccola porzione di frustolo agobioptico (3-5 mm), anche privo di corticale e conservato con inibitori delle RNAsi, quali RNAlater, per prevenire la degradazione dell’RNA [36].

L’analisi trascrittomica tramite MMDx consente di fornire una misurazione quantitativa e specifica dell’infiammazione [35, 37-39], e una classificazione in categorie diagnostiche (non rigetto, rigetto cellulo-mediato, rigetto misto, rigetto anticorpo-mediato iniziale, rigetto anticorpo-mediato franco e rigetto anticorpo-mediato avanzato) [40]. L’MMDx ha inoltre consentito l’individuazione di trascritti associati a progressione di malattia [41-43] e posto le basi per un confronto quantitativo su biopsie seriali dei parametri diagnostici classici, istologici e sierologici [39, 44]. Dal 2013 questa tecnica è stata introdotta nella classificazione di Banff [45]. È intatti grazie all’MMDx che la categoria del rigetto anticorpo-mediato C4d negativo è stata inclusa nella classificazione di Banff [37]. L’MMDx, identificando come pattern molecolari patogenetici aumentassero la sensibilità e la specificità diagnostica [46], ha finito anche per proporre nuovi target terapeutici, come nel caso dell’identificazione del ruolo delle cellule NK nell’infiammazione microvascolare.

Attualmente, l’MMDx non è rimborsato nella maggioranza dei paesi. Esso non è inoltre scevro di limitazioni: valutando l’espressione di mRNA in toto, è artificialmente influenzato da fattori quali il numero di glomeruli e dal rapporto tra tessuto infiammato e sclerotico. Per questo motivo, le alterazioni focali (ad esempio glomerulari) tendono a essere sottostimate rispetto a quelle diffuse [35, 47]. Infine, l’MMDx non è utile nel diagnosticare patologie renali diverse dal rigetto, quali le glomerulonefriti, le malattie vascolari e infettive. D’altra parte, la maggior parte degli studi pilota e di validazione di MMDx hanno utilizzato biopsie ‘per causa’: la sua performance nelle biopsie per protocollo, in particolar modo nei casi di lesioni borderline, deve essere ancora validato [48].

In conclusione, l’MMDx sembra essere un valido strumento da affiancare alla patologia tradizionale nei casi clinici dubbi per rigetto, e un utile mezzo per ampliare le conoscenze sui meccanismi patogenetici [49].

Il machine learning

Recentemente, Naensens et al. hanno proposto un modello basato sul machine learning per quantificare la flogosi in corso di rigetto acuto, partendo dallo score Banff attivo (t, i, g, ptc, c4d) e dalla presenza o assenza di microangiopatia trombotica e DSA in 7345 biopsie protocollari e ‘per causa’. Sono stati evidenziati 6 cluster, solo parzialmente sovrapponibili a quelli dello score di Banff [50]. Questo nuovo modello sembra essere in grado di quantificare la flogosi e predire la disfunzione renale meglio dello score di Banff e potrebbe essere utile nella pratica clinica per dirimere casi dubbi.

 

La diagnosi non-invasiva

Il dd-cfDNA

Il DNA circolante libero derivato dal donatore (dd-cfDNA) è il DNA non-cellulare plasmatico che deriva dall’apoptosi e necrosi delle cellule dell’organo trapiantato, e può essere espresso come quantità assoluta o percentuale sulla totalità del cfDNA (derivante perlopiù dai linfociti del ricevente) [51].

L’idea di utilizzare il dd-cfDNA come biomarcatore precoce di rigetto è nata nel 1998, quando Lo et al. dimostrarono la presenza di chimerismo plasmatico in pazienti femmine portatrici di trapianto di organo solido da donatori maschi utilizzando i cromosomi sessuali [52]. Da allora, la metodica è stata ottimizzata per misurare la frazione di dd-cfDNA plasmatico attraverso la misurazione della frequenza di migliaia di poliformismi a singolo nucleotide (SNP) ad alta variabilità [53]. In considerazione della breve emivita del cfDNA, la tecnica richiede analisi immediata o l’utilizzo di provette apposite contenenti inibitori delle nucleasi.

La percentuale di dd-cfDNA presenta un calo progressivo fino a raggiungere i livelli di baseline di 0.21%-0.46% alla seconda o terza settimana post-trapianto, e un calo più rapido è stato osservato nei trapianti da donatore vivente. Al contrario, un calo anomalo è stato associato a complicanze immunologiche, infettive e chirurgiche nell’immediato post-operatorio [54].

In considerazione della sua sensibilità nel rilevare un danno d’organo, il dd-cfDNA è stato proposto come biomarcatore non-invasivo di rigetto. Considerando tutte le categorie di rigetto, è stata riportata una sensibilità dell’80% e una specificità del 76% [54-60] e quando utilizzato in combinazione ai DSA raggiunge un potere predittivo negativo dell’85% e positivo dell’81% [61].

Il dd-cfDNA sembra essere un biomarcatore performante per il rigetto anticorpo-mediato raggiungendo una sensibilità di oltre l’80% utilizzando il cut-off di 1%, mentre per il rigetto cellulo-mediato la sensibilità è del 59% [60]. È stato ipotizzato che questo fenomeno sia dovuto alla maggiore degradazione del DNA in corso di intensa infiammazione interstiziale con creazione di frammenti più brevi, difficili da rilevare con alcune tecniche [60].

Un elevato dd-cfDNA è stato riscontrato anche nei pazienti non aderenti alla terapia (bassi livelli assoluti e variabilità >60% dei livelli ematici di tacrolimus), suggerendo un suo possibile ruolo di rilevazione dei pazienti ad alto rischio di sviluppare rigetto [57].

Il dd-cfDNA è quindi da considerare un marcatore non-invasivo, facilmente ripetibile, precoce e sensibile di danno d’organo; al contrario, si presenta poco specifico per rigetto nella popolazione generale, esso infatti può essere elevato in corso di infezioni batteriche, virali (es BKV), necrosi tubulare acuta o problematiche chirurgiche (anche nelle 12 ore seguenti l’agobiopsia renale). Inoltre, ogni paziente presenta livelli di baseline differenti e in caso di danni extrarenali la sensibilità della metodica può essere compromessa. Al contrario, nei pazienti ad alto rischio (iperimmuni, con DSA, non aderenti alla terapia) o in pazienti a basso rischio in corso di tapering dell’immunosoppressione potrebbe presentare un potere predittivo negativo più elevato. Sebbene questo biomarcatore, approvato per uso clinico e rimborsato da molti paesi, non sia in grado di fornire tutte le informazioni derivanti dalla biopsia renale (ad esempio la valutazione del danno cronico) può essere affiancato a essa per fornire un’indicazione bioptica precoce, in particolar modo nei pazienti ad alto rischio, e utilizzato nel follow-up dopo terapia anti-rigetto.

Le chemochine urinarie

Le chemochine (CXCL9 e CXCL10) sono molecole prodotte in risposta all’IFNgamma rilasciato dalle cellule renali e infiammatorie in seguito a danno e richiamano all’interno del graft i linfociti CXC3+ responsabili del rigetto cellulo-mediato. Per questo motivo sono state proposte come biomarcatori precoci di rigetto cellulo-mediato [62, 63].

La misurazione di CXCL9 su urine è stata associata a diagnosi di rigetto cellulo-mediato con potere predittivo negativo del 92% [64-66]. Inoltre, dai dati derivati dai trial di sospensione di tacrolimus (CTOT-09, NCT01517984), il monitoraggio seriato tramite ELISA di CXCL9 urinario è stato in grado di diagnosticare il rigetto cellulo-mediato con un anticipo di 30 giorni rispetto ai parametri clinici-laboratoristici convenzionali [67]. Infine, il suo monitoraggio seriato, tramite metodica rapida, è stato associato alla risposta alla terapia antirigetto [68].

In conclusione, le chemochine urinarie sembrano essere biomarcatori promettenti per il rigetto cellulo-mediato, in quanto precoci, economici, ripetibili e associati alla risposta alla terapia anti-rigetto.

 

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Emerging aspects of membranoproliferative glomerulonephritis

Abstract

Historically, findings on light and electron microscopy have been used to subclassify membranoproliferative glomerulonephritis (MPGN). Recent advances in understanding of the underlying pathobiology have led to a classification scheme based on immunofluorescence findings. MPGN can result from subendothelial and mesangial deposition of complement owing to dysregulation of the alternative pathway of complement. Complement-mediated MPGN includes dense deposit disease and proliferative glomerulonephritis with C3 deposits. Dysregulation of complement cascade can result from genetic mutations or development of autoantibodies to complement regulating proteins. MPGN is also a pattern of injury that results from subendothelial and mesangial deposition of immune complexes (IC). The common causes of IC-mediated MPGN include chronic infections, autoimmune diseases, and monoclonal gammopathy/dysproteinemias. This category also includes mixed cryoglobulinaemia-glomerulonephritis. Most of these cases are associated with the presence of a hepatitis C virus (HCV) infection. A number of patients with high clinical suspicion for cryoglobulinaemic vasculitis show negative results for the detection of cryoglobulins using standard methods, but are found to have detectable levels of cyoprecipitable immunoglobulins (hypocryoglobulins) using more sensitive techniques. A subset of patients with low level of circulating hypocryoglobulins can present with glomerulonephritis, often isolated, with membranoproliferative pattern MPGN. They can be negative for HCV infection detection and can have normal rheumatoid activity and complement levels. Hypocryoglobulinemic nephritis might represent a distinct entity.

Keywords: Membranoproliferative Glomerulonephritis, C3 Glomerulonephritis, Hypocryoglobulinemic Nephritis

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Introduzione

La glomerulonefrite membranoproliferativa (GNMP) rappresenta il 7-10% delle diagnosi nefrobioptiche [1]. Essa viene diagnosticata sulla base di un pattern istologico comune a un gruppo eterogeneo di malattie. Fino a circa dieci anni fa, la GNMP veniva sottoclassificata, sulla base della localizzazione dei depositi nei capillari glomerulari identificabili in microscopia elettronica, in tre tipi [2]: tipo I, la forma più comune, caratterizzata da depositi subendoteliali e mesangiali costituiti da immunoglobuline e complemento (C3 in particolare); tipo II (o malattia da depositi densi), caratterizzata da depositi elettrondensi intramembranosi, costituiti prevalentemente da complemento; tipo III, più rara, caratterizzata da depositi sia subepiteliali che subendoteliali. Questa classificazione non differenziava entità clinico-patologiche a patogenesi molto diversa. Nello specifico, le forme di tipo I e III includevano sia i casi in cui la deposizione di immunocomplessi costituiva l’elemento patogenetico fondamentale che condizioni mediate prioritariamente dal complemento. Nel 2012 la classificazione istologica della GNMP è stata rivisitata [3] mediante l’analisi immunoistochimica della natura dei depositi glomerulari, ciò che consentiva di distinguere forme da immuno-complessi (GNMP-IC) con prevalenza di depositi di IgG da forme a prevalente deposizione di C3 associate a disregolazione della via alternativa del complemento (GN-C3) (Figura 1). L’analisi in microscopia elettronica consentiva di discriminare all’interno del cluster complemento-mediato la malattia a depositi densi, osmiofili e ondulati addensati nella membrana basale.

Nella pratica clinica l’ovvia criticità dell’impiego di questo nuovo approccio classificativo risiede nella qualità della lettura dell’immunofluorescenza che richiede una consolidata esperienza del patologo.

Fig. 1: Differenze tra classificazione tradizionale e nuova classificazione.
Fig. 1: Differenze tra classificazione tradizionale e nuova classificazione.

 

Glomerulonefrite membranoproliferativa complemento-mediata

La GN-C3 è caratterizzata dalla presenza di depositi mesangiali e subendoteliali, talvolta anche subepiteliali e intramembranosi. I dati di microdissezione laser e l’analisi spettrometrica di massa dei glomeruli ottenuti da pazienti con GN-C3 ne suggeriscono una patogenesi sostenuta da un’attivazione continuativa della via alternativa del complemento. Il profilo proteomico è simile a quello dei pazienti con malattia da depositi densi a supportare l’ipotesi che la malattia da depositi densi e la GN-C3 rappresentino un continuum. A riprova, sono stati descritti casi con caratteristiche intermedie tra le due forme, con alcune anse capillari che all’esame ultrastrutturale mostrano i depositi intramembranosi tipici della malattia da depositi densi, e altri che mostrano i depositi subendoteliali e subepiteliali caratteristici della GN-C3.

Il ruolo chiave della cascata complementare e delle alterazioni dei sistemi di regolazione

La cascata del complemento ha un ruolo fondamentale nell’immunità innata [4, 5]. I fattori del complemento possono indurre una potente risposta infiammatoria che si traduce in chemiotassi dei fagociti, opsonizzazione e lisi delle cellule inglobanti i microrganismi. L’attivazione del complemento avviene attraverso la via classica, lectinica e alternativa, che convergono a formare la C3 convertasi, responsabile della scissione del C3 in C3a e C3b. Il C3b, in presenza del fattore B e del fattore D, si associa alla C3 convertasi, generando nuova C3 convertasi e amplificandone l’azione. La C3 convertasi è un punto nodale della cascata del complemento. L’associazione di C3b e C3 convertasi determina la formazione di C5 convertasi che favorisce la formazione del complesso di attacco di membrana (C5b-C9) sulle superfici cellulari con conseguente lisi cellulare. Esistono sistemi di regolazione a diversi livelli della cascata, in particolare a livello della C3 e C5 convertasi. Tali regolatori includono i fattori H e I, le proteine ​​correlate al fattore H.

La disregolazione della via alternativa può essere secondaria a mutazioni o alla presenza di autoanticorpi contro le proteine ​​​​regolatrici del complemento [6, 7]. Anche alcuni polimorfismi genetici dei fattori H, B e C3 possono associarsi a GN-C3. Nonostante i molteplici fattori di rischio genetici, la GN-C3 ha un esordio tardivo, suggerendo la necessità di ulteriori trigger per lo sviluppo della malattia. È ad esempio verosimile che a seguito di infezioni che innescano l’attivazione del sistema complementare possano venir soverchiati meccanismi di regolazione compensatoria che normalmente temperano il potenziale di iperattivazione complementare. Questa ipotesi può spiegare gli episodi ricorrenti di ematuria macroscopica associati a infezioni che si osservano in molti pazienti con MPGN. Allo stesso modo la sintesi di autoanticorpi ​​monoclonali diretti contro proteine ​​di regolazione del complemento in pazienti con gammopatia monoclonale potrebbe essere responsabile di una disregolazione della via alternativa con conseguente comparsa di MPGN.

Qualunque sia il meccanismo, la disregolazione del percorso alternativo si traduce in una iperattivazione ​​del complemento con conseguente deposizione di prodotti complementari nel mesangio e in sede subendoteliale. Con l’eccezione degli autoanticorpi monoclonali anti proteine complementari delle GNMP in corso di gammopatia monoclonale, le immunoglobuline non sono coinvolte in questo meccanismo, e nelle forme di MPGN complemento-mediate l’immunofluorescenza è negativa per immunoglobuline, ma positiva per C3 (Figura 2).

 

Glomerulonefrite membranoproliferativa da deposizione di immunocomplessi

La GNMP da deposizione di immunocomplessi può essere associata ad una infezione cronica (virale, soprattutto da virus epatitici C e B, batteriche, fungine e parassitarie), ad una malattia autoimmune (lupus eritematoso sistemico, crioglobulinemia mista e meno frequentemente sindrome di Sjögren, artrite reumatoide e connettivite mista) o paraproteinemia (soprattutto gammopatia monoclonale di significato indeterminato, linfoma a cellule B di basso grado, linfoma linfoplasmocitico, leucemia linfocitica cronica e mieloma multiplo) [8]. La deposizione di immunocomplessi costituisce il trigger per l’attivazione della via classica del complemento e per la deposizione di fattori del complemento nel mesangio e lungo le pareti dei capillari (Figura 2).

Fig.2: Fisiopatologia delle glomerulonefriti membranoproliferative (GNMP). GN: glomerulonefriti.
Fig.2: Fisiopatologia delle glomerulonefriti membranoproliferative (GNMP). GN: glomerulonefriti.

La deposizione di immunoglobuline, complemento o entrambi a livello mesangiale e subendoteliale, è responsabile di un danno acuto e una fase infiammatoria “iperplastica” (caratterizzata dalla proliferazione cellulare) e una fase riparativa “ipertrofica”, nella quale l’espansione mesangiale è condizionata dalla produzione di nuova matrice.

La nefrite ipocrioglobulinemica: varietà emergente di glomerulonefrite membranoproliferativa da deposizione di immunocomplessi crioprecipitabili  

Si è detto come le condizioni più comuni associate alla deposizione di immunoglobuline includano le infezioni croniche, alcune malattie autoimmuni, alcune gammopatie monoclonali e alcune disprotidemie. Fa parte di questo gruppo la crioglobulinemia mista, caratterizzata dalla presenza nel siero di immunocomplessi crioprecipitabili costituiti da combinazioni di IgM monoclonali e IgG policlonali (cryoglobulinemia di tipo II), o di IgG e IgM policlonali (tipo III).

La crioglobulinemia mista di tipo III è piu frequentemente associata a patologie infettive o autoimmuni. Le crioglobulinemie di tipo II, II-III, e un numero considerevole di casi di tipo III si estrinsecano clinicamente in un’entità autonoma, la crioglobulinemia mista, che presenta i caratteri di una vasculite dei piccoli vasi. Nella maggior parte dei casi è rilevabile un’infezione da HCV (anche pregressa).

In una proporzione minore di pazienti con elevato sospetto clinico per vasculite crioglobulinemica, le crioglobuline non sono determinabili coi metodi convenzionali o sono presenti in tracce minime non tipizzabili. Alcuni autori americani definiscono questa condizione “crioglobulinemia sieronegativa” perché il quadro istologico di nefrite crioglobulinemica non si associa al rilievo di crioglobuline circolanti [9]. In realtà con metodi di precipitazione in mezzo ipoionico materiale crioprecipitabile è isolabile e tipizzabile nella maggior parte dei casi. Il nostro gruppo ha definito questa condizione “ipocrioglobulinemia” [10]. Nel processo di riconoscimento di questa condizione, che ha impiegato una tecnica di precipitazione in mezzo ipoionico dei crioprecipitati sierici “minimi”, sono stati identificati 237 pazienti con criocrito < 0,5% e sospetto clinico di malattia autoimmune. Di questi 237 pazienti, solo 54 avevano una storia di infezione da HCV, 179 (71%) avevano una malattia di base accertata, mentre 68 pazienti (28,6%) non avevano alterazioni clinico-laboratoristiche orientative di una patologia specifica. Questi 68 casi sono stati definiti come affetti da “ipocrioglobulinemia idiopatica” [10]. Nella maggior parte dei casi le ipocrioglobuline sono di tipo misto policlonale, raramente si associa un’infezione HCV e i livelli di fattore reumatoide e dei componenti complementari possono essere normali. Più tipicamente si tratta di malattie oligoespresse con nefrite spesso isolata. Il pattern istopatologico è virtualmente indistinguibile da una classica glomerulonefrite crioglobulinemica, ancorché i depositi presentino all’esame in microscopia elettronica una minore strutturazione. È stato ipotizzato si possa trattare di un’entità separata (Tabella I).

Ipocrioglobulinemia

idiopatica

N=9

Crioglobuliaemia

mista

N=16

 

P

HCV+ N. (%) 2 (22) 16 (100) <0.01
Proteinuria > 3.5 g/die – N. (%) 4 (44) 12 (75) 0.12
Ematuria N. (%) 5 (55) 11 (69) 0.5
sCr> 1.5 mg/dl N. (%) 8 (88) 15 (94) 0.6
Coinvolgimento renale isolato – N. (%) 8 (88) 0 (0) <0.01
Crioglobulinaemia N. (%) Type III (trace amounts)

in 9 (100)

Type II in 16 (100) <0.05
Tabella I: Differenze clinico-laboratoristiche tra ipocrioglobulinemia idiopatica e crioglobulinemia mista.

Con l’introduzione del concetto di ipocrioglobulinemia idiopatica, i risultati di questo studio hanno ridefinito le caratteristiche cliniche e i percorsi diagnostici delle patologie da deposizione di immunocomplessi crioprecipitabili, promuovendo il riconoscimento precoce di un numero di casi altrimenti indiagnosticati. Pazienti che presentino un robusto sospetto clinico di vasculite, in particolare di quelli con glomerulonefrite a pattern membranoproliferativo, e tuttavia risultino negativi alla ricerca delle crioglobuline con tecniche standard, potrebbero richiedere indagini più approfondite anche in assenza di infezione da HCV, attività RF o segni di consumo di complemento. In questi casi la biopsia renale e un’accurata analisi in microscopia elettronica sono irrinunciabili.

 

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Nefropatia cronica del trapianto: focus sul ruolo della microinfiammazione

Abstract

La nefropatia cronica del trapianto è una condizione patologica multifattoriale presente in una larga percentuale di reni trapiantati la cui comprensione è stata accelerala dall’estesa applicazione della biologia molecolare e dall’impiego della biopsia protocollare in molti centri nefro-trapiantologici. Grazie a queste innovazioni, si è compreso che questo processo può comparire molto precocemente nel post-trapianto e che la microinfiammazione parenchimale gioca un ruolo chiave. Molte condizioni patologiche, anche precoci (come il danno da ischemia/riperfusione, la presenza di rigetti cellulari e umorali, e le infezioni virali e batteriche) possono contribuire alla genesi della fibrosi renale. Da un punto di vista prettamente biologico, il danno cronico inflammatorio-mediato del graft è orchestrato da cellule immunitarie (principalmente macrofagi, cellule dendritiche, linfociti) e cellule effettrici che mediano la deposizione di matrice extracellulare (ECM) e la fibrosi. Molti degli elementi chiave di questi pathway biologici potrebbero rappresentare in futuro ottimi bersagli terapeutici. Al momento, però, non esiste una terapia specifica per arginare questa condizione, ma appare evidente che l’impiego di una immunosoppressione sostenibile (utilizzo combinato di più farmaci alle più basse dosi possibili) e l’attenzione alle comorbidità (dedicando sufficiente tempo al follow-up clinico e incrementando il network multi-specialistico) sia la via da perseguire per ottenere un accettabile rallentamento della progressione delle lesioni croniche del graft e una sua maggiore sopravvivenza.

Parole chiave: Nefrologia, Trapianto renale, Microinfiammazione, Fibrosi, Immunosoppressione

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Introduzione

Sebbene la sopravvivenza ad un anno del rene trapiantato sia significativamente migliorata, quella a lungo termine è ancora non ottimale con un’incidenza di perdita del graft dopo 15-20 anni di circa il 40-50% [1].

Per anni la genesi del danno cronico del rene trapiantato è stata attribuita principalmente agli inevitabili e cronici effetti nefrotossici degli inibitori della calcineurina (CNI, ciclosporina e tacrolimus). Questo assioma è stato ampiamente validato dallo Studio Symphony che ha sottolineato come l’utilizzo di basse dosi di CNI (principalmente tacrolimus) fosse associato ad una migliore sopravvivenza del graft a 3 anni [2]. Questi risultati avevano innescato nella comunità trapiantologica internazionale la tendenza a minimizzare la terapia immunosoppressiva (spesso anche in pazienti a maggiore rischio immunologico).

Tuttavia, negli ultimi anni, grazie all’utilizzo della biologia molecolare (in particolare delle scienze omiche) [3] e allo sviluppo di programmi di biopsie protocollari [4], si è compreso che questa strategia aveva importanti limitazioni e il danno cronico da CNI coinvolgeva un numero di pazienti meno ampio rispetto a quanto si pensasse in passato e non tendeva ad evolvere molto rapidamente [5]. Inoltre, si è chiarito che il danno cronico del graft può comparire anche molto precocemente nel post-trapianto e avere connotazioni fisiopatologiche molto complesse [6].

Infatti, la fibrosi del rene trapiantato (meglio definita come infiammazione interstiziale/atrofia tubulare, IF/TA) non rappresentava più una semplice “cicatrizzazione parenchimale”, ma un processo complesso, inevitabile, dinamico e progressivo indotto da molti fattori patologici e caratterizzata da un significativo rimodellamento dell’interstizio associato ad un’eccessiva produzione/deposizione di matrice fibrillare extracellulare (ECM) [7] con conseguente alterazione della normale architettura del tessuto renale e della microperfusione che portava allo sviluppo di insufficienza d’organo (fino all’end-stage renal disease).

L’IF/TA è diagnosticabile istologicamente in circa il 40% dei reni trapiantati 3-6 mesi dopo il trapianto [8, 9] e coinvolge circa il 65% degli organi a 2 anni [10].

Dati della letteratura hanno poi sottolineato che questa condizione ha un drammatico impatto sull’outcome. Infatti, la sopravvivenza del trapianto a 10 anni è del 90-95% nei pazienti con istologia normale, dell’80-85% nei pazienti con IF/TA (senza vasculopatia) e del 40-45% nei pazienti che sviluppano IF/TA associata a vasculopatia [4].

In questo contesto fisiopatologico, inoltre, la microinfiammazione dell’organo svolge un ruolo chiave e può contribuire ad accelerare lo sviluppo delle lesioni parenchimali croniche e del danno funzionale dell’organo trapiantato [11]. L’infiammazione nelle aree cicatriziali/fibrotiche è stata ampiamente riconosciuta dalla classificazione Banff che ha coniato il termine di IF/TA con infiammazione (i-IF/TA). In particolare, i-IF/TA rispecchia il grading di Banff i (con soglie uguali), ma viene applicato solo al parenchima corticale cicatrizzato [12].

Questa condizione, segnalata per la prima volta nel 2009, è associata ad una peggiore sopravvivenza dell’organo trapiantato e rappresenta una risposta al danno tissutale acuto derivante da molte forme di insulto parenchimale (come rigetti acuti e cronici mediati da cellule T e anticorpi) innescato spesso da uno stato di sotto-immunosoppressione farmacologica [13,14].

 

Cenni di biologia del danno fibrotico del rene trapiantato associato alla microinfiammazione parenchimale

Da un punto di vista prettamente biologico, nel danno fibrotico associato alla micro-infiammazione, le lesioni iniziali coinvolgono diversi tipi cellulari (come macrofagi, cellule dendritiche, linfociti) [15] e implicano il coinvolgimento di cellule effettrici che mediano la deposizione di matrice extracellulare (ECM) e la fibrosi come i miofibroblasti (derivati ​​da cellule mesenchimali residenti), i fibroblasti, i fibrociti (derivati dal midollo osseo), le cellule epiteliali, le cellule endoteliali e i periciti attivati ​​da citochine pro-fibrotiche e fattori di crescita secreti dai linfociti dopo danno dell’endotelio [16, 17].

I fattori alla base dello sviluppo rapido di questa condizione sono molteplici, tra cui: 1) gli inevitabili effetti del danno da ischemia-riperfusione; 2) le infezioni virali (principalmente BK virus) e batteriche (spesso ricorrenti); 3) l’insorgenza e il numero di episodi di rigetto acuto cellulare ed umorale (anche forme subcliniche e borderline).

Come ampiamente riportato in letteratura [15, 17, 18], il processo fibrotico dell’organo trapiantato è indotto da una rete biologica multifattoriale e finemente regolata. Nella fase iniziale l’infiammazione intra-parenchimale, parte integrante dei meccanismi di difesa dell’ospite in risposta al danno, si attiva e, se non risolta, può portare allo sviluppo di un danno fibrotico [19]. In questo contesto, diverse citochine pro-infiammatorie, pro-fibrotiche e molecole di adesione vengono prodotte/secrete causando cambiamenti del microambiente locale e inducendo un reclutamento di cellule immuno-infiammatorie che, interagendo con diversi tipi cellulari nel rene, possono perpetuare la risposta fibrotica [19]. Inoltre, gli infiltrati infiammatori (inclusi neutrofili, macrofagi e linfociti T e B), potenziano il processo fibrotico e, attivando le cellule endoteliali capillari peri-tubulari, possono facilitare il reclutamento di nuove cellule mononucleate [11] che, infiltrando i tessuti, secernono citochine fibrotiche (come il TGF-β1).

Altre citochine coinvolte nel reclutamento di cellule infiammatorie sono: la proteina chemiotattica dei monociti-1 (MCP-1), la proteina infiammatoria dei macrofagi-1 (MIP-1) e la proteina infiammatoria dei macrofagi-2 (MIP-2) [20]. La sovra-espressione di queste molecole rilasciate dalle cellule tubulari danneggiate crea un gradiente di infiltrazione di monociti/macrofagi infiammatori e cellule T nei siti interessati dal processo patologico che alimenta il pathway immuno-infiammatorio (e pro-fibrotico).

In una successiva fase di attivazione, il network biologico descritto porta all’attivazione dei miofibroblasti, un ampio gruppo di cellule coinvolte nella produzione di componenti dell’ECM e che derivano da molteplici fonti, tra cui fibroblasti, fibrociti, cellule epiteliali renali che subiscono transizione mesenchimale (EMT) e periciti [16].

Durante questa condizione, poi, le cellule subiscono profondi cambiamenti morfologici e funzionali tra cui: iper-espressione dei marcatori mesenchimali (vimentina, α-actina del muscolo liscio, fibronectina), rilascio di metallopeptidasi della matrice (MMP) -9 e -2, aumento della motilità, riduzione della citocheratina e della E-caderina [21] e cambiamento nella composizione dei proteoglicani eparan solfato (HSPG) [22].

L’HSPG più abbondante nelle cellule epiteliali tubulari renali è il sindecano-1 che promuove la riparazione e la sopravvivenza tubulare renale dopo danno, e la cui funzione sembra essere correlata al miglioramento funzionale nel trapianto renale sottoposto a danno da I/R [23]. Diversi fattori possono modulare il sindecano-1, tra cui l’eparanasi (HPSE), un’endo-β-D-glucuronidasi che scinde le catene di eparan solfato in frammenti da 4 a 7 kDa e che è stata implicata nella patogenesi di diverse malattie renali [24] tra cui la nefropatia diabetica e la patologia cronica del graft [25].

Come recentemente dimostrato dal nostro gruppo, l’HPSE risulta iper-espressa e attivata dopo danno da I/R ed è in grado di rimodellare la matrice extracellulare, di indurre EMT e di controllare alcune delle complesse interazioni tra cellule tubulari renali e macrofagi (principalmente pro-infiammatori M1) che si infiltrano nel trapianto dopo il danno [26-29]. Questo crosstalk tra i macrofagi M1 e le cellule epiteliali tubulari renali, che coinvolge anche l’apoptosi, la produzione di pattern molecolari associati al danno (DAMP) e l’up-regulation del Toll-Like Receptor (TLR)-2 e TLR-4 nelle cellule epiteliali tubulari e le cellule endoteliali vascolari [30,31], promuove il rilascio di mediatori proinfiammatori, facilita la migrazione e l’infiltrazione dei leucociti, attiva le risposte immunitarie innate e adattative e potenzia la fibrosi renale [32].

Nella genesi e progressione del danno fibrotico infiammatorio-mediato del graft, come nel rene nativo, comunque, entrano in gioco anche le principali comorbidità (come malattia cardiovascolare, diabete, dislipidemia, obesità) che direttamente, o attraverso l’attivazione del pathway infiammatorio intra-parenchimale, possono indurre fibrosi e danno cronico del graft.

 

Potenziali approcci terapeutici

Strategie attuali

Per poter garantire una migliore sopravvivenza del graft e rallentare la progressione del danno cronico (soprattutto infiammatorio-mediato) è necessario gestire in maniera ottimale la terapia immunosoppressiva.

Nell’ultimo ventennio, una serie di studi clinici ha analizzato l’impatto della terapia immunosoppressiva (in particolare dei CNI) sulla genesi della fibrosi del rene trapiantato e sullo sviluppo della disfunzione cronica del trapianto (CAD) [33]. Tuttavia, l’esatto meccanismo biologico alla base del danno fibrotico farmaco-indotto non è stato ancora completamente definito.

I CNI sembrano causare fibrosi d’organo inducendo vasocostrizione renale e sistemica attraverso un aumento del rilascio di endotelina-1 [34], l’attivazione del sistema renina-angiotensina, una maggiore produzione di trombossano A2 e una ridotta produzione di vasodilatatori come l’ossido nitrico e la prostaciclina [35].

Questi farmaci possono anche causare stress ossidativo attraverso il disaccoppiamento della fosforilazione ossidativa mitocondriale, l’inibizione del ciclo di Krebs e l’attivazione della glicolisi anaerobica nel citosol [36]. Inoltre, l’IF/TA associato alla tossicità da CNI è correlato all’aumento dell’espressione di mRNA di TGF-β intrarenale [37]. Il TGF-β può promuovere la fibrosi interstiziale diminuendo la degradazione e aumentando la produzione di proteine ​​della matrice extracellulare [38].

Comunque, i CNI a dosi più elevate rappresentano una possibile soluzione allo sviluppo delle lesioni indotte dal sistema immune e che si concretizzano con la genesi della chronic active antibody mediated rejection (CAMR). È evidente, però, che una strategia di potenziamento dei CNI può incrementare lo sviluppo di comorbidità (malattia cardio-vascolare, neoplasie, malattie infettive) riducendo potenzialmente la sopravvivenza del trapianto.

Pertanto, è indispensabile pensare a trattamenti terapeutici multi-farmacologici che permettano la minimizzazione o la sospensione dei CNI. In questa filosofia terapeutica gli inibitori di mammalian target of rapamycin (mTOR-I, Everolimus, Sirolimus) possono avere un ruolo chiave.

Bisogna, però, tenere presente che, anche per questa categoria farmacologica, la dose ha un ruolo chiave. Stanno, infatti, emergendo evidenze cliniche che sottolineano un possibile effetto duale ed opposto dose-correlato degli mTOR-I. Secondo recenti studi biomolecolari, basse dosi di questi farmaci possano avere effetti protettivi (o neutri) sulla fibrosi del trapianto, mentre a concentrazioni elevate possono indurre fibrosi principalmente attraverso EMT delle cellule tubulari renali [39-41].

Pertanto, visti questi studi, sarebbe auspicabile proporre una strategia terapeutica “sostenibile” che contempli l’utilizzo delle più basse dosi possibili di più farmaci immunosoppressori somministrati contemporaneamente (incluso gli mTOR-I).

Questa filosofia è stata recentemente riportata nello studio Transform [42]. Questo ampio studio osservazionale, prospettico, e retrospettivo, internazionale multicentrico ha dimostrato la non inferiorità del trattamento combinato di mTOR-I a basse dosi con CNI a basse dosi versus la classica triplice terapia immunosoppressiva (Dosi standard di CNI associate a citostatici) e il positivo impatto sullo sviluppo di comorbidità (come le infezioni virali).

Resta implicito che l’impiego di altri preparati farmacologici come il Belatacept possa essere un’utile strategia per raggiungere questo target [43].

In aggiunta, il controllo delle comorbidità (anche attraverso la modulazione della terapia immunosoppressiva) può aiutare a rallentare la progressione della fibrosi. Negli ultimi anni, gli inibitori dei trasportatori sodio-glucosio tipo 2 (SGLT2) hanno mostrato interessanti potenzialità cardio-nefro-protettrici candidandosi a possibili nuove armi terapeutiche da sfruttare in ambito trapiantologico [44].

Nuovi potenziali agenti anti-fibrotici

Sulla base di recenti osservazioni, un gran numero di farmaci innovativi sono stati proposti per rallentare la progressione della fibrosi renale in nefrologia [45] (anche se scarsamente sperimentati in campo trapiantologico): (a) anticorpi neutralizzanti contro diverse isoforme di TGF-β [46]; (b) pirfenidone (5-metil-1-fenil-2(1H)-piridone), un derivato della piridina disponibile per via orale che inibisce la formazione di collagene e che mostra proprietà antifibrotiche in una varietà di modelli in vitro e animali di fibrosi epatica e renale [47], e usato per trattare la fibrosi polmonare idiopatica [48]; (c) tranilast (e i suoi derivati ​cinnamoyl antranilati), un farmaco antiallergico che inibisce il rilascio di mediatori chimici dai mastociti [49]; (d) THR-123 (Thrasos Therapeutics, Canada), un piccolo agonista peptidico della bone morphogenetic protein (BMP)-7, somministrato per via orale, funziona attraverso la segnalazione della activin-like kinase (ALK3) per sopprimere l’infiammazione, l’apoptosi e l’EMT, e la fibrosi in diversi modelli murini di danno renale acuto e cronico [50]; (e) pentossifillina, inibitore della fosfodiesterasi (PDE) che ha dimostrato di inibire l’espressione di connective tissue growth factor (CTGF) indotta da TGF-β1 così come l’espressione di collagene di tipo I e α-SMA [51]; (f) inibitore di Nox1/4, GKT137831 (Genkyotex) che ha soppresso la produzione di ROS e l’espressione genica fibrotica e ha attenuato la fibrosi (principalmente nel modello animale con nefropatia diabetica) [52].

Tuttavia, al momento, nessuno di loro è stato testato nel trapianto di rene. Pertanto, dovrebbero essere intrapresi più studi e sperimentazioni cliniche per valutare meglio la loro efficacia terapeutica e tossicità in questo contesto clinico.

 

Conclusioni

La nefropatia cronica del trapianto è un evento che può iniziare molto precocemente nel post-trapianto e che, in una larga percentuale dei casi, è associato all’attivazione di un pathway immuno-infiammatorio intra-parenchimale. Al momento, sono in corso una serie di studi finalizzati all’analisi e all’identificazione di nuovi elementi potenzialmente coinvolti nell’ esteso pathway pro-fibrotico del rene trapiantato, ma non dobbiamo dimenticare che fattori come la terapia immunosoppressiva, l’ipertensione, l’anemia e l’obesità sono ancora implicati nella genesi del danno cronico “non immuno-infiammatorio” del graft. In attesa di innovativi agenti terapeutici, l’utilizzo “ragionato e personalizzato” degli attuali farmaci antirigetto (principalmente CNI+mTOR-I) e l’attenzione alle comorbidità (non dimenticando di dedicare tempo al follow-up e incrementare il network multi-specialistico) è una via da perseguire per ottenere un accettabile rallentamento delle lesioni croniche del graft. Tutte queste considerazioni, affrontate nel Congresso Nefrologico di Grado del 2022, hanno infine fatto emergere che c’è ancora tanto da fare non solo per comprendere le basi fisiopatologiche del danno cronico del rene trapiantato, ma anche per individuare biomarkers predittivi e nuovi target terapeutici utili per arginare l’evoluzione di questa condizione clinica.

 

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Il rigetto acuto anticorpo-mediato

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Il rigetto acuto anticorpo-mediato (AMR) è un’entità clinico-patologica conosciuta sin dagli albori della trapiantologia, quando veniva descritto come causa di rigetti iperacuti ed accelerati in grado di determinare la perdita dell’organo trapiantato nell’arco di pochi giorni o addirittura di poche ore dopo l’intervento. Da subito si era capito che alla base di questi processi vi era la presenza di anticorpi preformati con specificità diretta contro antigeni espressi sulle cellule del donatore [1].

Con il progredire della capacità di definire la compatibilità immunologica tra donatore e ricevente e la consensuale messa a punto di tecniche sempre più sensibili nel riconoscere la presenza di anticorpi (Ab) anti-HLA preformati, unitamente all’avvento di farmaci antirigetto sempre più efficaci, la problematica del rigetto anticorpo-mediato, noto inizialmente solo come causa di rigetti iperacuti ed accelerati, è rimasta misconosciuta e trascurata per molto tempo. Solo sul finire degli anni ‘90 e poi nel corso dell’ultimo ventennio, con il progredire delle conoscenze dei processi fisiopatologici implicati nella risposta umorale, questo tipo di rigetto è stato progressivamente inquadrato e sempre meglio definito.

Risale ai primi anni ‘90 l’intuizione relativa al ruolo svolto dagli Ab anti-HLA in certe forme di rigetto, morfologicamente caratterizzate dalla presenza di infiltrati polimorfonucleati neutrofili nei capillari peritubulari (CPT) [2]. Tale intuizione veniva successivamente confermata dal consensuale riscontro della frazione C4d del complemento in quegli stessi capillari [3]. Tale dato suggeriva un’attivazione della cascata complementare, plausibilmente mediata dagli Ab donatore specifici (DSA) [3]. Solo nel 1997 l’AMR è stato introdotto come entità anatomopatologica autonoma nella classificazione di BANFF [4]. Da allora, questa forma di rigetto è stata oggetto di studi che hanno portato ad un suo inquadramento sempre più preciso nelle classificazioni clinico-patologiche che si sono susseguite negli anni ad opera degli studi collaborativi di BANFF, sino alla definizione più recente del 2019 [5].

Sulla base della classificazione di BANFF, che è universalmente riconosciuta, per poter diagnosticare con certezza un rigetto acuto anticorpo-mediato devono essere rispettati tre criteri fondamentali (Figura 1):

  1. evidenza istologica di danno tissutale;
  2. segni indiretti di recente interazione tra anticorpi anti-donatore specifici (DSA) ed endotelio;
  3. riscontro di DSA circolanti.
Figura 1: Classificazione di BANFF per il rigetto acuto anticorpo-mediato. Updates del 2019. Loupy et al. Am J Transplant 2020; 20: 2318.
Figura 1: Classificazione di BANFF per il rigetto acuto anticorpo-mediato. Updates del 2019. Loupy et al. Am J Transplant 2020; 20: 2318.

Nella sostanza, il danno tissutale considerato tipico di AMR è rappresentato da alterazioni infiammatorie del microcircolo, ovvero localizzate a livello dei capillari glomerulari (glomerulite) e peritubulari (capillarite). Tuttavia, anche lesioni infiammatorie a carico delle arteriole di maggior calibro (arterite), segni di microangiopatia trombotica, e la presenza di sofferenza tubulare acuta in assenza di una causa nota sono considerati elementi patologici riconducibili ad AMR [5] (Figura 2).

Per quanto riguarda il secondo criterio, la presenza della frazione C4d del complemento nei capillari peritubulari è considerata la prova tipica di un’attivazione anticorpo-mediata della cascata complementare da parte di DSA ai danni dell’endotelio capillare (Figura 2). Tuttavia, in assenza di depositi di C4d, anche il semplice riscontro di una intensa infiammazione del microcircolo può essere considerata prova indiretta di danno endoteliale anticorpo-mediato, come pure la presenza di determinati trascritti genici nel tessuto renale, quando disponibili e sufficientemente validati [5]. Si tratta dei cosiddetti AMR-C4d negativi, entità nosologica riconosciuta dal 2013 [6].

Il terzo criterio è ovviamente rappresentato dalla presenza di DSA, che possono essere classicamente diretti contro gli HLA, ma anche contro altri antigeni non-HLA, non sempre facilmente individuabili [5].

Figura 2: Rigetto acuto anticorpo-mediato: alterazioni istologiche.
Figura 2: Rigetto acuto anticorpo-mediato: alterazioni istologiche.

È da sottolineare come nel tempo l’elemento anatomopatologico delle alterazioni del microcircolo ha progressivamente assunto un ruolo sempre più importante nella definizione diagnostica di rigetto umorale. In effetti, a causa dell’andamento ondivago dell’attivazione del complemento, il deposito di C4d, ritenuto inizialmente criterio necessario per formulare una diagnosi corretta di AMR, dal 2013 non è più considerato indispensabile, a favore di elementi morfologici come le lesioni del microcircolo nonché, quando disponibili, la presenza di markers genetici validati, per quanto questi ultimi non siano ancora utilizzabili routinariamente ed in maniera estesa nella pratica clinica comune [6].

Anche la presenza di DSA anti-HLA non è più considerata un elemento indispensabile per la diagnosi, in quanto è riconosciuta la possibilità che altri DSA non anti-HLA possano guidare la risposta immunologica del rigetto umorale [6]. Nella pratica comune, tuttavia, non è sempre possibile disporre di pannelli in grado di identificare tutti gli anticorpi potenzialmente in grado di causare un rigetto umorale ed in tal senso le capacità diagnostiche attuali sono ancora limitate. Numerosi sono gli sforzi della comunità scientifica volti allo studio dell’espressione genica, quale mezzo surrogato per riconoscere l’attività patologica di DSA non-HLA, ma questo rappresenta una risorsa non ancora facilmente utilizzabile nella pratica comune.

Per quanto riguarda la definizione del rigetto cronico anticorpo-mediato, l’elemento cardine è rappresentato dal riscontro delle tipiche lesioni glomerulari rilevabili in microscopia ottica (in elettronica anche nelle fasi iniziali) e che definiscono la cosiddetta glomerulopatia cronica da trapianto. Tale entità è definita dallo sdoppiamento delle membrane basali del glomerulo, che può associarsi o meno a multi-slaminamento delle membrane basali dei capillari tubulari e ad arteriopatia cronica, caratterizzata da fibro-sclerosi intimale con infiltrati leucocitari (Figura 3).

Figura 3: Rigetto cronico anticorpo-mediato. Alterazioni istologiche.
Figura 3: Rigetto cronico anticorpo-mediato. Alterazioni istologiche.

Nella maggior parte degli studi l’incidenza dell’AMR acuto varia dal 3% al 12% [7]. Questa notevole variabilità dipende da vari fattori: il diverso intervallo di osservazione nelle varie casistiche, la continua evoluzione e modifica dei criteri diagnostici utilizzati nell’ultimo ventennio, le diverse politiche di gestione della biopsia renale con attivazione o meno di programmi di biopsie protocollari e conseguente inclusione o meno di rigetti umorali subclinici. A questo ha ulteriormente contribuito la poca chiarezza nella definizione del rischio immunologico delle popolazioni incluse negli studi e nella definizione degli schemi immunosoppressivi di induzione e di mantenimento adottati (in particolare l’uso o meno di depletori linfocitari e/o di schemi privi di steroide).

È noto che lo sviluppo di un rigetto acuto porta con sé un incrementato rischio di perdita del trapianto nel medio e lungo termine. Se questo è vero in generale, lo è ancora di più quando il rigetto è anticorpo-mediato, in particolare nel lungo termine. Un recente studio basato sui dati di registro di dialisi e trapianto di Australia e Nuova Zelanda (13.614 pazienti trapiantati tra il 1997 ed il 2017) mostra come il rigetto acuto aumenta il rischio di perdita dell’organo di quasi 1,4 volte e si associa ad aumentato rischio di decesso con rene funzionante (HR: 1,2) per causa cardiovascolare (HR: 1,3) e per neoplasia (HR: 1,35) [8]. In questa ampia casistica, i pazienti con AMR, rispetto a quelli con rigetto senza componente umorale, mostrano un aumentato rischio di perdita dell’organo, che incrementa progressivamente nel tempo, sino a divenire statisticamente evidente dopo i 5 anni post-trapianto (Figura 4) [8].

Figura 4: Peggiore sopravvivenza del rene trapiantato dopo rigetto acuto anticorpo-mediato. AMR: antibody-mediated rejection; TCMR: T-cell mediated rejection. ANZDATA Analysis. Clayton PA et al. JASN 30: 1697–1707, 2019.
Figura 4: Peggiore sopravvivenza del rene trapiantato dopo rigetto acuto anticorpo-mediato. AMR: antibody-mediated rejection; TCMR: T-cell mediated rejection. ANZDATA Analysis. Clayton PA et al. JASN 30: 1697–1707, 2019.

Come mostra un recente studio monocentrico di Parajuli S e Djamali A (Università del Wisconsin), il rigetto acuto rappresenta la causa più comune di perdita del trapianto. Non solo è la principale causa di perdita precoce (entro i primi 6 anni), ma rappresenta anche un’importante causa di perdita del rene trapiantato nel lungo termine (oltre i 6 anni post-trapianto), seconda solo al rigetto cronico (Figura 5) [9]. Questo lavoro ha considerato 329 pazienti trapiantati nel periodo 2006-2016 e ha analizzato istologicamente le cause di perdita dell’organo osservate nel corso del follow-up. Entro i primi 6 anni, i fallimenti del trapianto erano sostenuti nel 48% dei casi da rigetto acuto; dopo il sesto anno, la perdita del trapianto era causata da rigetto acuto nel 26% dei casi e da rigetto cronico nel 32% dei casi. Ma considerando che l’80% dei rigetti acuti erano di tipo anticorpo-mediato o misto e che il 70% dei rigetti cronici avevano una genesi umorale, è facile comprendere come il rigetto mediato da anticorpi donatore-specifici, debba essere considerato in assoluto la causa principale di fallimento del trapianto.

Figura 5: Cause di fallimento del trapianto precoce (<6 anni post tx) e tardivo (>6 anni). ACR: acute cellular rejection; ABMR: antibody-mediated rejection. Parajuli et al. Worls J Transplant 2019;9(6):123.
Figura 5: Cause di fallimento del trapianto precoce (<6 anni post tx) e tardivo (>6 anni). ACR: acute cellular rejection; ABMR: antibody-mediated rejection. Parajuli et al. Worls J Transplant 2019;9(6):123.

Dunque, ogni passo in direzione di una più efficace prevenzione e terapia di questa entità clinica comporta un passo in avanti nel miglioramento della sopravvivenza del trapianto. Purtroppo, allo stato attuale non sono ancora disponibili terapie realmente efficaci nel prevenire e trattare il rigetto anticorpo-mediato e da tempo la comunità scientifica richiede studi randomizzati volti a testare nuovi approcci terapeutici. D’altra parte, la ricerca di nuove terapie richiede un’approfondita conoscenza dei processi patogenetici che sono alla base dello sviluppo di questo tipo di rigetto e nel corso delle ultime due decadi molte nozioni sono state acquisite in tal senso.

Da tempo sappiamo che il primo evento alla base dei processi che portano alla genesi dell’AMR è rappresentato dallo sviluppo di anticorpi anti-donatore specifici (DSA). Classicamente si tratta di anticorpi diretti contro antigeni HLA espressi prevalentemente dalle cellule endoteliali del donatore e riconosciuti al momento del trapianto dal sistema immunitario del ricevente. È noto che la probabilità di sviluppare questi anticorpi tenda a crescere nel tempo. Nel 2015 Wiebe ha documentato come in 508 pazienti a rischio immunologico standard, l’incidenza di DSA passasse dal 2% al 10% tra il primo ed il quinto anno post-trapianto, incrementasse progressivamente fino a quasi il 20% al decimo anno per crescere ulteriormente negli anni successivi (Figura 6) [10]. In questo lavoro il fattore di rischio più importante per lo sviluppo di DSA (oltre al tempo) si dimostrava essere la scarsa compliance alla terapia. Gran parte della letteratura sull’argomento conferma questi dati [11-18], suggerendo, oltre alla non aderenza alla terapia, anche altri fattori di rischio per lo sviluppo di DSA de novo, come il numero elevato di mismatch HLA con il donatore (in particolare per i loci DR e DQ), l’uso di schemi di minimizzazione dell’immunosoppressione e l’esposizione ad eventi in grado di incrementare l’immunogenicità del trapianto attraverso lo sviluppo di infiammazione tissutale, quali infezioni virali, rigetto cellulare, danno da ischemia-riperfusione [16-18].

Figura 6: Incidenza di comparsa di DSA de novo nel post-tx. C Wiebe et al. Am J Transplant 2015; 15: 2921.
Figura 6: Incidenza di comparsa di DSA de novo nel post-tx. C Wiebe et al. Am J Transplant 2015; 15: 2921.

Alla comparsa di DSA la funzione dell’organo può essere ottimale e mantenersi tale per molto tempo. È nel medio e lungo termine (dopo almeno 5 anni dal rilievo) che la loro presenza si associa ad un peggioramento della sopravvivenza del trapianto [18]. Tale dato temporale supporta l’ipotesi patogenetica alla base della storia naturale del rigetto umorale. Questa ipotesi prevede una prima fase del tutto asintomatica il cui unico segno è rappresentato dalla presenza di DSA circolanti, una seconda fase subclinica, in cui compaiono le stigmate morfologiche del rigetto umorale, in assenza di segni di disfunzione dell’organo e quindi rilevabile solo tramite uno studio istologico, ed infine una terza ed ultima fase in cui la progressione delle lesioni istologiche porta alla disfunzione progressiva sino alla perdita del trapianto in tempi molto variabili (Figura 7).

Figura 7: Storia naturale del rigetto anticorpo mediato. C Wiebe et al. American Journal of Transplantation 2012; 12: 1157.
Figura 7: Storia naturale del rigetto anticorpo mediato. C Wiebe et al. American Journal of Transplantation 2012; 12: 1157.

Si tratta quindi di capire quali possano essere i fattori di rischio di sviluppo e progressione del processo immunologico che porta alla perdita dell’organo. Innanzitutto, esistono DSA con un diverso potenziale patogeno, in grado di determinare un danno più o meno grave attraverso differenti processi immunologici. In particolare, una prima distinzione va fatta tra DSA in grado di legare o meno il complemento. I DSA che legano il complemento sono tipicamente immunoglobuline (IgG) di classe 1 e 3, più spesso diretti contro gli antigeni HLA di classe I (espressi su tutte le cellule nucleate) ed in grado di attivare la cascata complementare. Essi sono usualmente causa di rigetti acuti precoci e caratterizzati dalla presenza della frazione C4d del complemento a livello dei capillari peritubulari [19, 20]. I DSA che non legano il complemento sono invece IgG di classe 2 e 4, più frequentemente dirette contro gli antigeni HLA di classe II espressi fisiologicamente sulle cellule dendritiche, linfociti B e macrofagi e solo in seguito ad un insulto infiammatorio anche su altre cellule, in particolare sulle cellule endoteliali [20-22]. Questi anticorpi hanno un tempo di latenza più lungo e svolgono la loro azione o attraverso un danno diretto sulle cellule endoteliali o mediato da cellule NK, macrofagi e neutrofili, reclutati ed attivati attraverso il frammento Fc dell’immunoglobulina. Questo rigetto si manifesta in assenza di depositi di C4d. A questi anticorpi vengono attribuiti la maggior parte dei rigetti cronici, per definizione scarsamente o per nulla responsivi alle terapie (Figura 8) [23]. Si tratta di una entità nosologica definitivamente accettata solo dal 2013, in quanto in precedenza la presenza di C4d era considerata condizione sine qua non per la diagnosi di AMR.

Figura 8: Ipotesi patogenetiche del danno da rigetto anticorpo-mediato. R Zhang. Clin J Am Soc Nephrol 2018; 13: 182.
Figura 8: Ipotesi patogenetiche del danno da rigetto anticorpo-mediato. R Zhang. Clin J Am Soc Nephrol 2018; 13: 182.

Bisogna sottolineare che entrambi i processi possono coesistere e prevalere l’uno sull’altro in modo variabile nel corso del tempo a seconda della risposta ai trattamenti antirigetto. Tuttavia, diversi studi dimostrano la maggior patogenicità dei DSA capaci di legare ed attivare il complemento. In un’ampia coorte studiata da Loupy et al., la presenza di DSA che legano la frazione C1q correlava con aumentata incidenza di AMR e con la presenza di lesioni istologiche più severe in termini di infiammazione totale, infiammazione del microcircolo, endoarterite, glomerulopatia cronica da trapianto e C4d positività, oltre che con aumentato rischio di disfunzione e perdita dell’organo [24]. Altri lavori hanno poi confermato la correlazione tra DSA leganti C1q e l’aumentato rischio di AMR e fallimento del trapianto [25, 26]. Allo stesso modo studi successivi hanno documentato una correlazione tra DSA leganti la frazione C3d del complemento e perdita del trapianto. Tale correlazione risultava ancor più accurata rispetto a quanto visto con i DSA leganti C1q [27, 28]. Inoltre, in uno studio del 2016, Lefaucheur e collaboratori, hanno documentato in una coorte di 125 pazienti con DSA circolanti una correlazione diretta tra la presenza di un DSA dominante appartenente alla sottoclasse IgG3 e rigetto acuto anticorpo-mediato clinicamente evidente e precoce perdita del trapianto. In effetti la sottoclasse IgG3 è quella in grado di legare con maggior affinità il complemento. Al contrario, la sottoclasse IgG4, che non è in grado di attivare il complemento, si associava a rigetto subclinico, comparsa di glomerulopatia cronica da trapianto e più tardivo sviluppo di disfunzione e perdita dell’organo [29].

Il potenziale patogeno dei DSA dipende anche dal titolo dell’anticorpo circolante, anche se in minor misura rispetto alla sua abilità di legare o meno il complemento. Esiste una correlazione tra il titolo dei DSA, la loro capacità di attivare il complemento ed il rischio di sviluppare AMR [27, 30]. Tuttavia, tale correlazione non può essere considerata assoluta, in quanto la metodica (Luminex) con la quale viene misurato il titolo di questi anticorpi è semiquantitativa, espressa attraverso l’intensità media di fluorescenza (MFI) e gravata da alcuni limiti tecnici dovuti a cross-reazioni tra epitopi comuni e con frammenti denaturati di HLA in presenza di multipli DSA. Esistono comunque dei cutoffs comunemente accettati per considerare significativo un titolo di DSA, che sono rappresentati dal valore di 3000 per i DSA di classe I e 5000 per quelli di classe II [23].

Accanto ai classici DSA anti HLA, nel corso degli anni sono state identificate svariate famiglie di autoanticorpi che possono essere implicate nel processo di rigetto del trapianto renale, anche se in alcuni casi con ruoli non ben definiti. Tra questi ricordiamo i MICA e MICB diretti contro antigeni correlati alla catena A e B del complesso maggiore di istocompatibilità di classe I (loci B e C) [31], gli anticorpi diretti contro antigeni non HLA e non gruppo sanguigno delle cellule endoteliali (anti-ECA) [32], quelli diretti contro il recettore tipo A dell’endotelina (anti-ETAR)[33], gli anti-recettore tipo 1 dell’angiotensina 2 (anti-AT1R) [34], gli anticorpi specifici per il frammento C terminale del perlecano (LG3)[35] e gli anticorpi neutralizzanti naturali (Nabs) polireattivi [36]. Alcuni di questi DSA non-HLA risultano di particolare interesse ed aiutano a comprendere alcuni passaggi nei processi patogenetici che guidano il rigetto anticorpo-mediato. Si tratta di auto-anticorpi diretti contro antigeni criptici, come il perlecano/LG3, l’AT1R o altri antigeni presenti nelle cellule apoptotiche. In seguito ad un insulto aspecifico come quello da ischemia-riperfusione, così frequente al momento del trapianto, ma anche in seguito a qualunque altro processo in grado di determinare danno tissutale, come un rigetto cellulare o un processo flogistico di natura infettiva, questi antigeni “nascosti” all’interno delle cellule possono venire esposti al riconoscimento da parte del sistema immunitario con conseguente sviluppo di autoanticorpi. L’interazione di questi auto-anticorpi (che possono anche essere naturalmente preformati), con i rispettivi antigeni target, innesca quei processi, in parte mediati dall’attivazione della cascata complementare, che portano all’amplificazione della reazione infiammatoria e conseguente incremento del danno tissutale. Un circolo vizioso modulato da un processo immunologico che definisce tipicamente il rigetto anticorpo-mediato (Figura 9) [37].

Figura 9: Anticorpi anti-LG3 amplificano le lesioni infiammatorie del microcircolo, innescate dal danno da ischemia/riperfusione. H Cardinal et al. J Am Soc Nephrol 28: ccc–ccc, 2016.
Figura 9: Anticorpi anti-LG3 amplificano le lesioni infiammatorie del microcircolo, innescate dal danno da ischemia/riperfusione. H Cardinal et al. J Am Soc Nephrol 28: ccc–ccc, 2016.

Tra gli anticorpi più recentemente indentificati vi sono gli anticorpi naturali (Nabs). Si tratta di anticorpi capaci di interagire con multipli auto-antigeni di natura proteica e lipidica resi immunogenici dal legame covalente con malondialdeide, sostanza generata da processi di perossidazione. Recenti studi hanno documentato un’associazione significativa tra presenza di Nabs e peggiore outcome renale, maggior frequenza e severità delle lesioni infiammatorie del microcircolo e dei depositi di C4d nei capillari peritubulari [38]. Meno recenti invece sono le segnalazioni di rigetto steroide-resistente, associato ad ipertensione maligna e morfologicamente caratterizzato da severa endoarterite, necrosi fibrinoide, microtrombi e secondaria necrosi ischemica corticale, in assenza di DSA anti-HLA. In una serie di 16 casi pubblicata nel 2005, gli autori dimostravano la presenza di anticorpi anti-recettore 1 dell’angiotensina II. Gli autoanticorpi erano IgG di classe 1 e 3 e capaci di attivare il recettore. Erano stati ritenuti responsabili dello sviluppo di queste severe forme di rigetto vascolare, con perdita dell’organo nel 70% dei casi entro 3 anni [34].

Ad oggi non è ancora chiaro quale sia il trattamento ottimale del rigetto anticorpo-mediato. Ciò è dovuto, almeno in parte, alla continua evoluzione della definizione di rigetto umorale, così come all’incompleta conoscenza dei processi immuno-patogenetici che sottendono lo sviluppo e la progressione di questo tipo di rigetto. Le terapie che oggi vengono comunemente considerate standard per la gestione del rigetto umorale, si basano su studi di bassa qualità, eterogenei, spesso non randomizzati e non conclusivi. Le stesse linee guida di trattamento risalgono al 2009 (KDIGO) e da allora non sono mai state aggiornate. Esse propongono terapie basate sull’impiego variamente combinato di farmaci e procedure come, glucocorticoidi, anticorpi depletori linfocitari, plasmaferesi, IG-vena ad alte dosi e Rituximab [39, 40]. Gli obiettivi dichiarati di questi trattamenti sono, da un lato, quello di favorire la rimozione dei DSA, dall’altro quello di bloccare il perpetuarsi della loro produzione, agendo a vari livelli del processo immunologico che guida il rigetto umorale.

Gli steroidi ad alte dosi vengono consigliati per ridurre aspecificamente l’infiammazione innescata dai DSA, ma anche con l’intento di ridurre la produzione stessa dei DSA attraverso la soppressione delle cellule T. Con lo stesso intento sono stati impiegati poco frequentemente gli anticorpi depletori linfocitari, per la loro azione di soppressione e decremento dei linfociti T. Le Ig-vena ad alte dosi sono tra i farmaci più impiegati in quanto capaci di agire a più livelli, interferendo con i processi di produzione degli anticorpi, ma anche modulando e bloccando l’azione patogena diretta e complemento-mediata dei DSA circolanti. Oltre a questi trattamenti farmacologici, gli schemi di terapia standard prevedono il ricorso alle metodiche di rimozione diretta dei DSA, come plasmaferesi/plasma-exchange ed immunoadsorbimento. In anni più recenti sono stati introdotti nuovi farmaci. L’anticorpo monoclonale anti-CD 20 (rituximab) ha come target le cellule B di cui è in grado di bloccare i processi di maturazione in plasmacellule, deputate alla secrezione di immunoglobuline. Un inibitore di proteosoma (bortezomib) è in grado di indurre apoptosi delle plasmacellule stesse, determinandone una progressiva deplezione. Altre terapie sono mirate ad intervenire a valle della produzione degli anticorpi, agendo mediante l’interruzione della cascata complementare attraverso la quale alcuni DSA esprimono il loro potenziale dannoso. A questo gruppo appartengono gli inibitori del fattore 1 del complemento (C1q) e l’Eculizumab, anticorpo monoclonale anti-frazione C5 del complemento, in grado di bloccare la cascata complementare prima della formazione del complesso di attacco alla membrana (MAC), effettore finale del danno cellulare [40] (Figura 10).

Figura 10: Opzioni terapeutiche per il rigetto anticorpo-mediato. Djamali et al. Am J transplant 2014;14:255.
Figura 10: Opzioni terapeutiche per il rigetto anticorpo-mediato. Djamali et al. Am J transplant 2014;14:255.

La criticità principale relativa alla terapia del rigetto umorale è rappresentata dal fatto che i dati di letteratura non supportano una chiara evidenza di efficacia, neanche per quei trattamenti considerati standard (Figura 11). Non esistono infatti studi randomizzati e controllati che dimostrino con certezza il beneficio delle IG-vena impiegate in questo contesto [41]. Per quanto riguarda le plasmaferesi, i dati favorevoli emersi da un unico studio randomizzato [42] non sono stati confermati in altri lavori [43-45]. Anche l’impiego di rituximab o di bortezomib in associazione a IG-vena e plasmaferesi non ha dato i risultati sperati. Nella maggior parte degli studi che hanno valutato l’efficacia di questi protocolli, non è stato evidenziato alcun beneficio derivato dall’uso di questi nuovi farmaci [46-48].

Figura 11: Studi di efficacia (sopravvivenza renale) dei trattamenti impiegati nel rigetto anticorpo-mediato. Wan et al. Transplantation 2018;102: 557–568.
Figura 11: Studi di efficacia (sopravvivenza renale) dei trattamenti impiegati nel rigetto anticorpo-mediato. Wan et al. Transplantation 2018;102: 557–568.

Qualche aspettativa è stata recentemente riposta nei farmaci inibitori del complemento. Alcuni studi disponibili in letteratura mostrano un beneficio fornito dall’uso di inibitori del C1q nel prevenire lo sviluppo di glomerulopatia cronica da trapianto [49], nel migliorare la funzione renale e ridurre i DSA leganti il complemento [50]. Tuttavia, si tratta per lo più di piccoli studi pilota, con numerosità limitata del campione e breve follow-up.

Al di là di singoli casi o piccole serie di pazienti, non vi sono studi significativi che attestino l’utilità di Eculizumab, in particolare quando impiegato come terapia di salvataggio dopo fallimento delle terapie standard o per trattare rigetti umorali tardivi o rigetti umorali cronici [51]. In merito agli anticorpi monoclonali anti-complementari, è possibile che l’inefficacia evidenziata in molti studi sia stata condizionata da un non corretto uso. Lefauscheur ed al. nel 2018 hanno messo in luce come l’efficacia di trattamenti come IG-vena + plasmaferesi prevalga nei rigetti sostenuti da DSA non leganti il complemento (C1q negativi). Al contrario, l’efficacia di Eculizumab risulta superiore a quella di plasmaferesi + IG-vena nei casi in cui il rigetto sia sostenuto dalla presenza di DSA C1q positivi [52]. Questi dati sembrano pertanto suggerire come Eculizumab o l’inibitore della C1 esterasi Berinert, debbano essere farmaci da utilizzare solo nei casi selezionati di rigetto, sostenuti da anticorpi capaci di legare il complemento.

Un altro elemento che sembra giocare un ruolo chiave nella risposta alla terapia con inibitore complementare è rappresentato dal fattore tempo. In un recente lavoro di Tan et al. sono stati trattati 15 pazienti con AMR ad insorgenza precoce. L’impiego tempestivo di Eculizumab, associato a IG-vena ed a plasmaferesi nelle forme più severe, si era associato ad una risposta clinica ed istologica favorevole nel 70% dei casi [53]. In questa esperienza l’Eculizumab si è rivelato efficace nella maggior parte dei casi di rigetto precoce (diagnosticato entro il primo mese post-trapianto) caratterizzato da lesioni istologiche lievi e trattato entro 48 ore dalla diagnosi.  Considerando che sono proprio i rigetti precoci ad essere il più delle volte sostenuti da DSA anti HLA di classe I e che più spesso la sottoclasse di questi anticorpi è la IgG3, che è quella con maggior capacità legante il C1q, si comprende come è proprio in questi casi che ci si aspetta un beneficio dall’uso di terapie che agiscono bloccando la cascata complementare.

 

Conclusioni

Il rigetto acuto anticorpo-mediato rappresenta direttamente o indirettamente (attraverso il successivo sviluppo di rigetto cronico) la causa principale di fallimento del trapianto di rene, sia nel breve che nel lungo periodo.

Gli anticorpi implicati nel rigetto umorale non sono rappresentati solo da DSA anti-HLA, ma possono essere diretti anche contro altre famiglie di antigeni non-HLA. Sempre più numerose sono le evidenze che suggeriscono un ruolo di questi ultimi nella catena di eventi che determinano o amplificano un danno tissutale innescato primitivamente da processi infiammatori aspecifici, come quelli da ischemia/riperfusione, da infezione o da rigetto acuto cellulare.

I meccanismi patogenetici con cui i DSA determinano danno tissutale possono essere complemento-mediati oppure diretti e cellulo-mediati.

La severità e l’andamento di un rigetto acuto umorale può dipendere da vari fattori DSA correlati:

  • il target antigenico (HLA di classe I, HLA di classe II, non-HLA);
  • la coesistenza o meno di DSA anti-HLA e non HLA (fattore prognostico sfavorevole);
  • la sottoclasse IgG del DSA dominante (capace di fissare o meno il complemento);
  • il titolo dei DSA (significativo se MFI>5000).

Il numero dei mismatch, in particolare dei loci DR e DQ dovrebbe essere maggiormente valorizzato nella selezione del candidato al trapianto, quale misura atta a prevenire l’insorgere di un rigetto acuto mediato da DSA anti HLA.

Il monitoraggio dei DSA circolanti deve costituire parte integrante della gestione del paziente trapiantato di rene, quale misura atta a permettere una diagnosi tempestiva di rigetto anticorpo-mediato.

Non esistono trial controllati che documentino con risultati univoci l’efficacia di farmaci e procedure attualmente riconosciute quali terapie standard del rigetto acuto anticorpo-mediato. A tutt’oggi non esistono studi mirati a verificare l’utilità o meno di depletori linfocitari come le globuline anti-timociti, sinora poco impiegati nel trattamento di questa forma di rigetto acuto. Recenti dati, da confermare con trial controllati, sembrano suggerire il ruolo favorevole dell’Eculizumab nel trattamento delle forme precoci di rigetto acuto anticorpo-mediato.

 

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VIII edizione Congresso di Nefrologia di Grado: Sistema Immunitario e Rene

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Il Convegno Nefrologico, ormai un classico che si ripete all’inizio dell’autunno con cadenza biennale a partire dal 2007 a Grado, ha raggiunto la sua ottava edizione, essendosi tenuta questa dal 30 settembre al 2 ottobre 2021.

Come avvenuto ogni volta, esso è stato dedicato ad un tema declinato pienamente tra Nefrologia, Dialisi e Trapianto Renale: in questa edizione ambiziosamente si è trattato di “Sistema Immunitario e Rene”.

Forse secondo per complessità soltanto al sistema nervoso centrale, che ha dato alla nostra specie una sua presuntiva superiorità, ma altrettanto difficile da compenetrare è il sistema immunitario, destinato a garantire la difesa dagli agenti patogeni estranei derivanti dall’ambiente ed il controllo sulle potenziali degenerazioni dei componenti propri dell’organismo.

Oltre all’esistenza di componenti di una immunità innata aspecifica l’evoluzione ha indotto in questo ambito una serie di risposte altamente specifiche e strettamente regolate, la cui funzione primaria è discriminare ciò che appartiene all’organismo (self) da ciò che non gli appartiene (not self), evocando reazioni locali o sistemiche attraverso le due principali branche effettrici, cellulo-mediata e anticorpo-mediata.

In questo il rene può essere diversamente coinvolto con meccanismi e sedi differenti, potendo ad esempio nel caso del trapianto costituire di per sé quel “not self” che elicita una risposta immunologica prevalentemente locale. Ma spesso esso può essere uno degli organi colpiti in un processo sistemico,  come nelle nefropatie cosiddette secondarie a malattie immunologiche sistemiche; oppure essere il bersaglio di una reattività crociata tra l’antigene estraneo che in origine ha elicitato la risposta immune ed un antigene proprio di uno dei compartimenti del rene (glomerulo, tubulo/interstizio, vasi); o, ancora, essere un “testimone innocente” coinvolto in una risposta immunitaria che genera immunocomplessi circolanti destinati a depositarsi sulle sue strutture, eminentemente vascolari.

Tutto questo rende ragione dei diversi quadri clinico-patologici delle nefropatie immunomediate e dei diversi processi che vanno sotto il nome di rigetto del trapianto, compresa almeno in parte la patologia multifattoriale che va sotto il nome di nefropatia cronica del trapianto.

La capacità di sostituire la funzione renale perduta oltre che con il trapianto con metodiche dialitiche a sua volta costringe il sistema immunitario a cimentarsi ripetitivamente e a lungo termine con materiali estranei capaci di stimolare risposte che determinano quadri patologici. Questi devono essere conosciuti e indurre un continuo progresso tecnologico per poterli evitare, migliorando sopravvivenza e qualità della vita dei nostri pazienti oltre che la durata delle metodiche stesse.

Di tutto ciò si è ampiamente e felicemente discusso in quel convegno, i cui Atti vengono ora affidati a un numero speciale del GIN così da essere a disposizione di tutti i Nefrologi Italiani.

 

Giuliano Boscutti

La glomerulopatia da C3

Abstract

In recent years, the complement system, which plays a crucial role in the innate immunity, fostered renewed scientific interest. This process has brought a rare kidney disorder, named C3 glomerulopathy, in the center of a real revolution, highlighting the complex interactions between genotype, triggers and kidney microenvironment, which together contribute to the final phenotype of the disease. At the same time, experimental studies and clinical trials testing new complement inhibitors have multiplied enormously. It’s a very promising time for patients affected by C3 glomerulopathy, which didn’t have so far effective therapies in preventing the progression to the end-stage kidney disease.

Keywords: Membranoproliferative glomerulonephritis, C3 glomerulopathy, complement system, alternative pathway, kidney biopsy

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La glomerulopatia da C3 (C3G) è una rara malattia che si manifesta tipicamente in età pediatrica o nel giovane adulto, caratterizzata da intensi depositi di C3 alla biopsia renale. Essa è considerata un sottotipo di glomerulonefrite membranoproliferativa (MPGN) [1].

La classificazione storica della MPGN, basata sull’osservazione al microscopio elettronico (EM), prevedeva la seguente suddivisione in MPGN: di tipo I, caratterizzata da depositi elettrondensi subendoteliali; di tipo II, anche chiamata malattia a depositi densi (DDD), con depositi intensamente elettrondensi, in sede intramembranosa; di tipo III, con depositi sia sottoendoteliali che subepiteliali. Tuttavia questa classificazione della MPGN si è dimostrata essere limitata per l’assenza di una chiara connessione con la patogenesi della malattia, con scarsi risvolti clinici per il paziente.

Recentemente, in base al reperto alla immunofluorescenza (IF), Sethi S. e collaboratori hanno proposto un nuovo sistema classificativo della MPGN, che ha portato alla distinzione di due sottotipi [2]. Il primo, nel quale sono evidenziabili alla IF depositi glomerulari di immunoglobuline e complemento, è quello della MPGN mediata da immunocomplessi (IC-MPGN), causata dalla deposizione glomerulare di immunocomplessi o immunoglobuline nel contesto di malattie sistemiche o infettive, con prevalente attivazione della via classica del complemento. Il 20-30% di queste forme non riconosce una causa specifica ed è pertanto idiopatica. Il secondo sottotipo comprende la forma di MPGN mediata dalla disfunzione della via alterna del complemento, chiamata anche C3G, caratterizzata da deposizione glomerulare dominante di C3 (intensità del C3 all’IF di almeno due ordini di grandezza superiore alle altre immunoglobuline). Infine, sulla base dei reperti all’esame EM, la C3G è stata ulteriormente suddivisa in DDD e C3 glomerulonefrite (C3GN).

La presenza di depositi osmiofilici, intensamente elettrondensi e localizzati tipicamente all’interno della membrana basale glomerulare, caratterizza la DDD. Gli esperti di complemento hanno specificato che la C3G è molto eterogenea in quanto oltre ad un “pattern” di tipo membranoproliferativo può mostrare altri fenotipi glomerulari (ad esempio: proliferativo endocapillare, proliferativo mesangiale, necrotizzante ed extracapillare) [3]. Gli studi nell’animale e nell’uomo hanno permesso di identificare le anomalie biochimiche (es. consumo selettivo C3), genetiche (mutazioni nei geni che codificano per le proteine del sistema del complemento: C3, fattore B, fattore H, fattore I, MCP/CD46 e THBD, varianti di suscettibilità etc.) e i fattori acquisiti (C3Nef, C5Nef, anticorpi contro i fattori regolatori del complemento) che caratterizzano la malattia [4].

Va tuttavia sottolineato che alcuni gruppi di ricerca hanno dimostrato che anomalie genetiche a carico dei fattori regolatori della via alterna del complemento e peculiari anomalie biochimiche, quali ad esempio bassi livelli di C3 ed elevati livelli di sC5b9, sono presenti nella stessa proporzione di pazienti affetti da C3G e IC-MPGN idiopatica [5, 6]. Questa osservazione potrebbe mettere in discussione l’attuale classificazione della MPGN e ci induce a considerare queste patologie all’interno di uno spettro di condizioni cliniche, per le quali la via alterna del complemento è il principale meccanismo patogenetico.

Ma come funziona la cascata del complemento? Esistono tre vie di attivazione del sistema del complemento: classica, lectinica ed alterna [7]. La via classica è attivata dall’interazione fra C1q e gli immunocomplessi, mentre la via lectinica necessita di lectine e ficoline leganti gruppi mannosio, per poter identificare molecole di carboidrati che si trovano sulla superficie di una vasta gamma di microrganismi. Il trigger iniziale delle vie classica e lectinica porta alla conseguente attivazione delle componenti C2 e C4 e alla formazione di C3 convertasi, C4bC2a. Al contrario, la via alterna è continuamente attivata dall’idrolisi spontanea del C3 (meccanismo “tickover”), che risulta in un cambio conformazionale tale da consentire il legame del fattore B (CFB). Una volta legato, il fattore B diventa un substrato per una serino proteasi, detta fattore D (CFD). Il clivaggio del fattore B da parte del fattore D promuove la formazione della C3 convertasi propria della via alterna C3(H2O)Bb, che, in modo simile alla C3 convertasi della via classica, può clivare C3 in C3a e C3b. La generazione di C3b permette alla via alterna di essere pienamente attivata con la formazione del “loop” di amplificazione e del complesso C3bBb. Tutte e tre le vie convergono nel momento in cui C3 viene clivato dalla C3 convertasi per produrre il frammento C5a, un importante agente infiammatorio, e C5b, il componente iniziale della via terminale del complemento. Il legame in sequenza di C5b con C6, C7, C8 ed infine C9 risulta nell’assemblaggio di C5b-9 o complesso di attacco di membrana (MAC). La via alterna è fortemente controllata grazie all’esistenza di diversi regolatori che operano ancorati alla membrana oppure in fase fluida. Fra questi ultimi riconosciamo, ad esempio, il fattore I (CFI) ed il fattore H (CFH). Ci si può facilmente rendere conto che se i regolatori non funzionano correttamente, la conseguenza diretta è l’iperattivazione della via alterna. Era noto già dagli anni ’70 che esistessero glomerulonefriti ipocomplementemiche con pattern membranoproliferativo. Purtroppo, non abbiamo mai avuto a disposizione farmaci specifici per il trattamento di queste malattie. I comuni immunosoppressori si rivelano spesso scarsamente efficaci, ne consegue che la maggior parte dei pazienti progredisce verso l’uremia.

L’immunosoppressore che sembra consentire migliori risultati è il micofenolato, come mostrato da un’analisi retrospettiva del GLOSEN group spagnolo [8]. Si tratta di dati limitati. Il primo inibitore specifico del complemento ad essere utilizzato nelle C3G è l’eculizumab, un anticorpo monoclonale umanizzato in grado di bloccare il C5 e prevenire la formazione di C5a e del complesso di attacco di membrana. Il razionale per utilizzare il farmaco nell’uomo deriva da studi nel modello animale, topi incapaci di produrre fattore H che sviluppano la glomerulonefrite in modo spontaneo [9]. Provocando la delezione genica del C5 lo stesso animale sviluppa una malattia molto più lieve.

Nel 2012, vengono pubblicati i primi casi aneddotici di giovani pazienti con C3G trattati con eculizumab, che hanno risposte convincenti in termini di riduzione della proteinuria e stabilizzazione della funzionalità renale [10, 11]. Nello stesso anno viene pubblicata la prima “case series” del gruppo di nefrologi della Columbia University [12]. Lo studio sembra suggerire che i pazienti con alti livelli di sC5b9 sono quelli che rispondono meglio all’anticorpo monoclonale. È sulla base di questi risultati che l’Istituto Mario Negri di Bergamo ha disegnato uno studio clinico che ha incluso 10 pazienti con C3G e IC-MPGN [13]. Il protocollo di trattamento prevedeva uno schema on-off-on-off. Nel primo anno di studio i livelli di sC5b9 si sono ridotti rapidamente e si è assistito ad un iniziale miglioramento della proteinuria. Tuttavia, durante il periodo di wash out, è stata osservata un’esacerbazione della malattia con peggioramento dei parametri laboratoristici, che non miglioravano in modo significativo nel successivo anno di trattamento. L’eculizumab è un farmaco molto costoso e che richiede ai pazienti di recarsi in ospedale ogni due settimane per la somministrazione. Inoltre, è un trattamento cronico che non può essere interrotto. Un’osservazione interessante è stata fatta a livello istologico. Nelle biopsie renali dopo due anni di terapia gli infiltrati di leucociti intracapillari sono drasticamente ridotti. A supporto del potente effetto anti infiammatorio dell’eculizumab esiste anche uno studio retrospettivo, che mostra come i pazienti con C3G che ottengono una risposta migliore dalla terapia sono quelli con una presentazione clinica rapidamente progressiva e con una maggior percentuale di semilune floride all’esordio [14].

Negli ultimi anni si è assistito ad un vertiginoso impulso nella ricerca e sperimentazione nel campo dei nuovi inibitori selettivi del complemento. Un caso esemplare riguarda l’inibitore orale del fattore D, danicopan, che blocca l’azione della C3 convertasi e che è stato oggetto di ricerca presso l’Istituto Maro Negri di Bergamo. I dati di questo studio non sono ancora stati pubblicati. Sono state osservate risposte molto variabili con questo farmaco nei pazienti affetti da C3G. In parte, la variabilità delle risposte è dipesa da un problema di tipo farmacocinetico/farmacodinamico. Infatti, il fattore D è molto difficile da inibire. Si pensi che sono sufficienti l’1,8% dei livelli di fattore D per mantenere attiva la via alterna del complemento. La company in oggetto sta cercando di produrre un inibitore più potente del fattore D, che speriamo essere disponibile a breve. Tuttavia, non sono mancate le sorprese incoraggianti. Vale la pena citare il caso di un giovane di 18 anni affetto da DDD, che all’esordio aveva una sindrome nefrosica con peggioramento della funzione renale. Ebbene, dopo poche settimane di trattamento con danicopan, il C3 plasmatico si è normalizzato, così come la proteinuria e la funzione renale. Dal punto di vista istologico si è assistito ad una regressione delle lesioni infiammatorie.

In conclusione, gli studi con questi nuove molecole sono molto difficili da condurre poiché si tratta di malattie rare, molto eterogenee, con un’importante variabilità nei meccanismi patogenetici tra un soggetto e l’altro. Queste malattie complesse ci insegnano che oggi è sempre più necessario adottare una medicina di precisione. L’analisi di cluster è un metodo biostatistico che potrebbe essere molto utile in tal senso. Questo metodo è stato applicato con successo al registro delle MPGN e C3G del Centro di Ricerca per le Malattie Rare dell’Istituto Mario Negri di Bergamo [15]. Utilizzando i dati di 173 pazienti del registro, è stato possibile identificare 4 clusters di malattia con caratteristiche comuni. Suddividendo i pazienti in clusters si sono ottenuti dei sottogruppi di pazienti omogenei dal punto di vista degli aspetti patogenetici. Rispetto alle curve di sopravvivenza dei pazienti suddivisi per gruppo istologico (IC-MPGN, C3GN, DDD), quelle dei pazienti suddivisi nei 4 clusters hanno una maggior rilevanza e significatività in termini prognostici. L’intento è quello di identificare sottogruppi di soggetti che possano beneficiare di specifiche terapie.

Questo è un momento storico molto promettente per i pazienti affetti da C3G. La comprensione dei meccanismi che generano la malattia e la disponibilità di nuovi farmaci capaci di inibire il sistema complemento a diversi livelli della cascata sta rivoluzionando il panorama di questa condizione. Tuttavia, le sfide aperte sono ancora molteplici. In particolare, tenuto conto dell’estrema variabilità genetica e biochimica della malattia, risulta difficile prevedere quale paziente potrà maggiormente beneficiare di un determinato farmaco. Le nuove tecnologie e i metodi biostatistici, come ad esempio l’analisi di cluster, potranno consentire di addentrarci nel campo di una medicina di precisione, che tenga in conto delle variabilità inter individuale dei pazienti.

 

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Malattia a lesioni minime e glomerulosclerosi focale e segmentaria: uno sguardo alla patogenesi e alle nuove indicazioni dalle Linee Guida KDIGO 2021

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Introduzione

Il termine podocitopatia include una famiglia di malattie glomerulari caratterizzate da danno podocitario non mediato dal deposito di immunocomplessi, tra cui la malattia a lesioni minime (minimal change disease, MCD) [1-3], la glomerulosclerosi focale e segmentaria (focal segmental glomerulosclerosis, FSGS) [3, 4], ed altre lesioni istologiche quali la sclerosi mesangiale diffusa (diffuse mesangial sclerosis, DMS) [1, 5] o la glomerulopatia collassante (collapsing glomerulopathy) [5]. Tutte queste entità sono caratterizzate clinicamente da proteinuria in range nefrosico, insorgenza di edemi declivi, e/o ipertensione arteriosa o segni di insufficienza renale. Nelle forme avanzate si associano alterazioni tubulari ed interstiziali, segno di un danno cronico, e la proteinuria non selettiva, non responsiva alle terapie, accelera ulteriormente il progressivo peggioramento della funzione renale [5].

In età pediatrica le podocitopatie hanno, in generale, un’incidenza prevalentemente maschile, che si attesta tra i 10-50 casi/100.000 abitanti/anno; la malattia a lesioni minime e la glomerulosclerosi focale e segmentale, in particolare, sono tra le cause più comuni di sindrome nefrosica primitiva.

Se l’osservazione alla microscopia ottica non risulta dirimente per la diagnosi di MCD, nei casi di FSGS sono presenti tipiche aree sclerotiche che interessano segmenti di alcuni dei glomeruli in esame.

In entrambe queste patologie, le tecniche di immunofluorescenza non rilevano depositi di immunocomplessi o complemento, ad eccezione di quelli ritenuti aspecifici, o contenenti IgM e C3 nelle aree sclerotiche o di espansione della matrice mesangiale.

La microscopia elettronica rappresenta la metodica più adatta a definire le podocitopatie, soprattutto nelle fasi iniziali di malattia, in quanto rende visibili lesioni ultrastrutturali caratteristiche quali il progressivo appiattimento dei processi podocitari e la vacuolizzazione e trasformazione dei microvilli delle cellule epiteliali [5].

Nonostante l’appartenenza ad uno stesso spettro di patologie, MCD ed FSGS si differenziano per eziologia, fisiopatologia, e prognosi. Quest’ultima in particolare appare più severa nella FSGS, caratterizzata da una ridotta risposta alla terapia steroidea rispetto ai casi di MCD. Inoltre, anche l’incidenza di recidiva di malattia dopo trapianto renale è di gran lunga maggiore nei pazienti affetti da FSGS primitiva (fino al 70%), con precoce insorgenza di sindrome nefrosica e fusione dei processi pedicellari fino alla rapida sclerosi glomerulare entro poche settimane dall’impianto del graft.

 

Malattia a lesioni minime

La MCD rappresenta la forma più frequente di sindrome nefrosica in età pediatrica (all’incirca l’80% dei casi); per tale motivo, i pazienti vengono sottoposti a terapia steroidea e, solo in assenza di risposta, a biopsia renale. L’incidenza è di circa 2-8 casi/100.000 abitanti/anno, con un picco all’età di tre anni, maggiore frequenza nel sesso maschile e nelle etnie asiatica ed afro-americana rispetto alla caucasica.

Nell’adulto, la MCD costituisce il 20-25% dei casi di sindrome nefrosica, con un’incidenza in Italia di 0,2-0,8/100.000/anno ed un picco in età avanzata.  Nel 3,5% dei casi vi è concordanza tra fratelli, si suppone per la possibile predisposizione genetica dimostrata nei soggetti portatori di antigeni HLA-B12, B13, B8, e DR7 nell’etnia caucasica, DR8 in quella asiatica [6]. Inoltre, i fenotipi HLA-DR7, DQ2 sono associati alla corticosensibilità, mentre il riscontro di corticoresistenza (non responsività a terapia steroidea dopo 8 settimane) è più frequente nei portatori di HLA-DR3/DR7 [7].

Cause più rare di sindromi nefrosiche familiari sono state individuate in mutazioni di geni codificanti per alcune proteine del citoscheletro podocitario, tra le quali la più nota è la podocina (NPHS2), che induce una forma di MCD a trasmissione autosomica recessiva [8]. Altre mutazioni riconosciute riguardano nefrina, alfa-actinina, podocina, sinaptopodina, tutte responsabili dell’anomala morfologia dei podociti, con addensamento della actina nella parete basale e successiva fusione dei pedicelli che determinano una alterata funzione di filtrazione [9, 10].

Cause secondarie di malattia a lesioni minime, nel paziente adulto, possono essere rappresentate invece da infezioni quali HIV, HCV, tubercolosi o sifilide; malattie autoimmuni sistemiche quali lupus eritematoso sistemico, sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi, sarcoidosi. Anche l’uso di farmaci quali FANS, litio, interferone, antibiotici, o l’insorgenza di neoplasie solide e del sistema linfopoietico vanno considerati nella diagnosi differenziale tra forme primitive e secondarie.

Eziopatogenesi della MCD primitiva

La MCD è una patologia multifattoriale, che generalmente si manifesta dopo l’esposizione a uno stimolo ambientale che induca una risposta immunitaria, disregolata a favore del subset linfocitario T helper di tipo 2 (Th2), come osservato su modelli murini caratterizzati da un’iperespressione di interleuchina-13 (IL-13) [11-13]. Questa osservazione si accompagna anche alla correlazione tra fenomeni atopici e manifestazioni di MCD nei pazienti, entrambi sostenuti dai linfociti Th2 ed accompagnati nelle fasi di attività da un aumento di IgE periferiche e di IL-13 [14, 15]. Linfociti T regolatori (Treg) e Th2 inducono un’aumentata sintesi di CD80, una molecola co-stimolatoria necessaria alla risposta immunitaria mediata dai Toll-like receptor 3 (TLR-3). L’azione di questi recettori, presenti anche sulla membrana cellulare podocitaria, non è efficacemente controregolata dal cytotoxic T-lymphocyte-associated antigen 4 (CTLA-4); in questo caso, il contatto con lipopolisaccaride (LPS) o altri prodotti microbici può indurre l’iperespressione di CD80 e la sua diretta interazione con la nefrina, di cui riduce la fosforilazione, alterando la struttura del diaframma di filtrazione [5, 16].

Altre citochine quali IL-1, IL-2 ed IL-8 sono state ritenute possibili fattori circolanti tossici a livello podocitario [17]; un fattore di peso molecolare di 60-160 kDa è stato isolato in vitro, da un ibridoma di cellule T isolate da un paziente affetto da MCD, in grado di indurre proteinuria nel ratto. Tale fattore permeabilizzante è in grado di alterare la sintesi delle sialoglicoproteine da parte dei podociti, provocando una riduzione delle cariche elettriche con successiva fusione dei processi pedicellari e perdita della capacità di permeabilità selettiva dei glomeruli [18]. Alterazioni delle cariche elettrostatiche si riscontrano inoltre sulle cellule endoteliali, e sulla lamina rara interna ed esterna della membrana basale glomerulare che fisiologicamente contribuiscono ad impedire il passaggio di proteine cariche negativamente, quali l’albumina, nello spazio di filtrazione [5]. Un’aumentata espressione di angiopoietin-like protein 4 (Angptl-4) è stata correlata sperimentalmente ad una carenza di eparansolfato sulle membrane e all’induzione di albuminuria in ratti transgenici [19].

Nuove ipotesi patogenetiche includono la presenza di autoanticorpi IgG anti-nefrina circolanti, come dimostrato in una coorte di pazienti affetti da MCD, in cui erano riconoscibili degli immunocomplessi IgG-nefrina a livello glomerulare. Watts e coll, inoltre, hanno dimostrato una significativa riduzione del titolo anticorpale in corrispondenza delle fasi di remissione di malattia secondarie a trattamento [20].

Manifestazioni cliniche

L’esordio clinico caratteristico della malattia è dato dalla sindrome nefrosica, con proteinuria selettiva > 3 g/die, ipoalbuminemia, edemi declivi e periorbitari. L’osservazione del sedimento urinario mostra prevalentemente cilindri ialini, mentre microematuria può essere riscontrata nel 20-30% dei pazienti. L’insorgenza di ipertensione arteriosa avviene nel 20% dei pazienti pediatrici e nel 30% degli adulti. Nei casi in cui vi sia una proteinuria con consistenti perdite giornaliere (15-20 g/die), si può notare, in particolare nel bambino, uno stato di shock ipovolemico. La condizione di ipoalbuminemia comporta l’insorgenza di ipercolesterolemia ed ipertrigliceridemia (VLDL e LDL), ed espone ad elevato rischio tromboembolico, accentuato dalle perdite urinarie di antitrombina III e plasminogeno, con incremento del fattore XII.

La funzione renale risulta nella maggior parte dei casi conservata, eccezion fatta per i pazienti anziani che possono presentare un grado variabile di insufficienza renale, spesso preesistente alla glomerulonefrite.

Il decorso clinico della glomerulonefrite a lesioni minime è variabile, dalla remissione dopo il primo episodio, o recidiva che insorge alla sospensione dello steroide (corticodipendenza), alla remissione parziale o alla corticoresistenza. L’etnia rappresenta un fattore predittivo noto di risposta agli steroidi, verso i quali quella asiatica risulta più sensibile, rispetto alla caucasica e a quella nera. Quadri istologici con marcata ipertrofia glomerulare, proliferazione a livello mesangiale, presenza di depositi di IgM, possono essere predittivi di forme corticoresistenti e ad elevato rischio di evoluzione verso FSGS [21].

Anche la presentazione clinica può offrire delle indicazioni prognostiche, per cui una proteinuria subnefrosica è più frequentemente associata a rapida remissione, soprattutto se in età pediatrica. Al contrario, i pazienti adulti ottengono meno frequentemente remissioni complete e durature, con ricadute più frequenti nel sesso maschile.

 

Glomerulosclerosi focale segmentale

La glomerulosclerosi focale e segmentale è oggi considerata un pattern istologico che accomuna differenti entità clinico-patologiche, primarie o secondarie. La principale caratteristica delle lesioni è la focalità, in quanto nei frustoli bioptici sono coinvolti solo alcuni dei glomeruli presenti nei campioni bioptici, in misura segmentale.

La FSGS ha un’incidenza annuale di 0,2-1,8 casi/100.000 abitanti, maggiore nella razza nera, con un rapporto M:F pari a 1,5 [22]. Negli Stati Uniti d’America, la FSGS è la prima causa di sindrome nefrosica negli adulti (39%), e la più comune glomerulopatia in grado di causare una malattia renale terminale (4% delle cause totali). In Italia, la FSGS rappresenta il 13,6% delle glomerulonefriti primitive in età pediatriche, l’11,8% negli adulti, in linea con i dati europei, mentre ha un’incidenza inferiore in Asia (2-11%) [5].

L’espressione degli alleli G1 e G2 del gene codificante per l’apolipoproteina 1 (APOL1) è diffusa nel 35% degli afroamericani, 26% delle popolazioni centro-africane e nel 50% delle popolazioni dell’Africa occidentale. Gli alleli G1 e G2 conferiscono un rischio 3,5 volte maggiore per la condizione di FSGS e lo sviluppo seguente di Malattia Renale Cronica nel 16% dei casi, rispetto alle popolazioni europee, con un picco di incidenza tra i 30-50 anni [23].

La proteinuria in range nefrosico è presente nel 70-90% dei bambini; la sindrome nefrosica nel 70% degli adulti. Inoltre, i pazienti possono presentare ipertensione (30-65%), microematuria (50%) e riduzione del GFR (20-50%).

Classificazione patogenetica delle FSGS

Studi recenti hanno reso possibile l’identificazione di distinti pattern di FSGS descritti dal Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO) Glomerulonephritis Work Group sulla base della diversa eziologia, presentazione clinica e prognosi [24] (Figura 1).

La forma primitiva, attribuita alla presenza di un fattore di permeabilità, è caratterizzata da appiattimento diffuso dei pedicelli che si manifesta con sindrome nefrosica ad esordio improvviso più frequente fra i 10 e i 20 anni di età [4]. Delle evidenze indirette a favore della presenza di un fattore plasmatico circolante patogenetico includono la risposta clinica alla plasmaferesi e la ricorrenza di malattia possibile dopo trapianto renale [25].

Le forme genetiche, su base familiare o sporadica, si manifestano in età precoce e coinvolgono maggiormente geni codificanti per le proteine del citoscheletro podocitario o della membrana basale glomerulare, quali NPHS2, ACTN-4, CD2AP, TRPC6, IFN2 e MYO1E, fondamentali per il mantenimento della barriera di filtrazione impermeabile a macromolecole quali albumina e gamma globuline [26]. Le forme sindromiche di FSGS sono imputate più frequentemente a mutazioni di geni codificanti per fattori di trascrizione critici per la corretta differenziazione del podocita, come nel caso di Wilms Tumor 1 (WT1), LIM Homeobox Transcription Factor 1 Beta (LMX1B), o possono associarsi ad altre manifestazioni patologiche in pazienti portatori di malattie mitocondriali.

Le forme secondarie ad infezioni, esposizione a farmaci, o a processi di adattamento a condizioni di assoluta o relativa carenza di unità nefroniche, sono clinicamente caratterizzate dall’insorgenza di proteinuria in range nefrosico, solitamente non accompagnata dagli altri segni della sindrome nefrosica quali ipoalbuminemia e sviluppo di segni di sovraccarico volemico. La forma adattativa, in particolare, presenta un picco di incidenza intorno ai 40 anni [4], ed il primo segno è rappresentato dall’iperfiltrazione glomerulare, come meccanismo di compenso funzionale che può avviarsi quando la densità numerica dei podociti si riduce. Di converso, il diametro glomerulare aumenta in maniera compensatoria, inducendo l’estensione dei processi podocitari e la copertura dell’area espansa, fino al distacco podocitario. Ciò, oltre ad incidere sulla capacità della barriera di filtrazione, con perdita della selettività, induce la deposizione di matrice e la progressiva sclerosi del glomerulo. Le FSGS “maladattative” sono tipicamente scatenate da:

  • Condizioni di relativo sovraccarico funzionale su una massa nefronica inizialmente normale, come osservabile in pazienti ad elevato indice di massa corporea (per obesità o aumentata perdita di massa magra) o che subiscono processi vaso-occlusivi acuti o cronici (ateroembolizzazione, microangiopatie trombotiche, stenosi dell’arteria renale, malattia del cuore congenito cianotico, anemia falciforme);
  • Condizioni patologiche caratterizzate da un ridotto numero di unità funzionali renali, come nel caso di oligomeganefronia, basso peso alla nascita, agenesia renale monolaterale, displasia renale, nefropatia da reflusso, necrosi corticale, nefrectomia, allotrapianto renale, nefroangiosclerosi, malattia renale avanzata con ridotta funzionalità residua.

La novità principale discussa nelle KDIGO è rappresentata dalle forme di FSGS da causa indeterminata (FSGS-UC), con presentazione clinica e pattern anatomopatologico simile alle forme secondarie, senza sviluppo di sindrome nefrosica, ma in cui non è chiaramente identificabile l’eziopatogenesi.

Classificazione eziopatogenetica delle lesioni da FSGS proposta dal KDIGO Work Group
Figura 1: Classificazione eziopatogenetica delle lesioni da FSGS proposta dal KDIGO Work Group, adattata da Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO) Glomerular Diseases Work Group. KDIGO 2021 Clinical Practice Guideline for the Management of Glomerular Diseases. Kidney Int. 2021 Oct;100(4S):S1-S276. 

Alterazioni podocitarie in corso di FSGS

Conseguentemente alla noxa patogena iniziale, i podociti ancora sani tendono a sviluppare un’ipertrofia dapprima compensatoria. In secondo luogo, i progenitori podocitari presenti tra le cellule epiteliali parietali della capsula di Bowman sono stimolati a differenziarsi per sostituire i podociti alterati. Se queste condizioni si protraggono nel tempo, l’incremento dello stress locale di parete comporta il progressivo distacco dei podociti ipertrofici e la formazione di “cicatrici”.

Gli step di risposta podocitaria al danno includono l’ipertrofia, l’autofagia, la de-differenziazione, la transizione epitelio-mesenchimale, il distacco e l’apoptosi.

I processi di ipertrofia ed autofagia (stadio I) rientrano tra i fisiologici meccanismi adattativi e protettivi. La transizione epitelio-mesenchimale e la de-differenziazione, con appiattimento dei pedicelli (stadio II) rappresentano già delle risposte maladattative, ed è in questa fase che può svilupparsi la proteinuria. Il processo può progredire verso il distacco e l’apoptosi (stadio III) dei podociti, che rappresentano la fase catastrofica di risposta al danno. In quest’ultimo caso, la glomerulosclerosi è diffusa e si accompagna a proteinuria in range nefrosico scarsamente responsiva alle terapie immunosoppressive. Tuttavia, l’apoptosi dei podociti sembra un evento estremamente raro nelle forme comuni di podocitopatia quali la FSGS o malattie renale croniche proteinuriche, come la nefropatia diabetica, a suggerire che sia già la disfunzione pedicellare la prima causa di proteinuria nella maggior parte dei pazienti.

D’altro canto, il danno o la disfunzione podocitaria possono esplicarsi, in meno del 20% dei casi, con proteinuria transitoria, dal 20 al 40% dei casi con proteinuria persistente e in più del 40% dei casi con proteinuria più glomerulosclerosi [27].

La classificazione istologica Columbia e le indicazioni prognostiche

Ad eccezione delle forme genetiche, la biopsia renale rappresenta un esame diagnostico imprescindibile nella diagnosi di FSGS. Nello specifico, un campione glomerulare diagnostico dovrebbe contare almeno venti glomeruli, per incrementare la possibilità di identificare lesioni focali.

In relazione ai diversi quadri istologici riscontrati nei pazienti affetti da FSGS, la classificazione Columbia ha definito cinque diverse varianti [28]:

  • TIP lesions: i segmenti sclerotici sono tipicamente localizzati al polo tubulare, con diffuso appiattimento dei pedicelli. Nella maggior parte dei casi, si tratta di forme di FSGS primaria e con tendenza a rispondere alla terapia steroidea.
  • Peri-Ilare: è una variante di riscontro particolarmente frequente nelle forme secondarie maladattative, accompagnate da glomerulomegalia. In questa condizione, la dilatazione riflessa dell’arteriola afferente e l’incremento della pressione di filtrazione a livello della porzione terminale del letto capillare glomerulare possono favorire lo sviluppo di segmenti di sclerosi a livello del polo vascolare, che spesso coinvolgono più del 50% del glomerulo.
  • Cellulare: rara nei pazienti adulti, è caratterizzata da ipercellularità endocapillare focale e segmentale, che include cellule schiumose, leucociti infiltrati e depositi di materiale ialino. Si associa spesso iperplasia delle cellule epiteliali viscerali. Tale variante rappresenta probabilmente uno stadio precoce nello sviluppo delle lesioni segmentali, e di solito è una forma primaria di GSFS.
  • Collassante (collapsing): è presente almeno un glomerulo con collasso segmentale o globale (più frequente) ed iperplasia epiteliale. Nonostante essa sia comune anche alla variante cellulare, la collapsing FSGS si distingue da quest’ultima per la mancanza di ipercellularità endocapillare. Si associa una spiccata componente flogistica tubulo-interstiziale, che può variare dall’edema a segni di danno cronico quali atrofia tubulare e fibrosi interstiziale. La microscopia elettronica dimostra la progressiva scomparsa dei processi podocitari, anche a livello di glomeruli non ancora collassati. Nella maggior parte dei casi questa variante istologica è tipica di forme primitive, ma tra le secondarie è osservata soprattutto in corso di infezione da HIV o parvovirus-B19. Rappresenta la forma istologica con prognosi peggiore in termini di rischio di progressione ad insufficienza renale terminale [4].
  • Not-otherwise-specified (NOS): forma di FSGS non ascrivibile a nessun’altra categoria istologica. È caratterizzata dalla ialinosi, e dall’accumulo di matrice extracellulare, che occlude i capillari glomerulari, formando solidificazioni segmentali. A livello delle aree sclerotiche, sono sovente presenti depositi di IgM. Sono possibili adesioni flocculo-capsulari ma nei segmenti non sclerotici i podociti non presentano l’ipertrofia dei podociti [27].

Fisiopatologia delle FSGS

Molteplici meccanismi fisiopatologici portano alla perdita e scomparsa dei processi podocitari nelle forme primarie di FSGS.

Tra molti fattori identificati, la FSGS condivide con la MCD la disregolazione delle cellule Th2 e Treg, accompagnata da una disfunzione delle cellule B, con iperespressione di IL-4. Non è stato ancora individuato con certezza il fattore di permeabilità circolante, sebbene siano diverse le molecole in esame, tra cui il soluble urokinase-type plasminogen activator receptor (suPAR), cardiotrophin-like cytokine factor (CLCF-1), anticorpi anti-CD40, APO-A1, forma solubile di calcium/calmodulin-serine protein kinase (CASK) [29-31].

SuPAR, prodotto da neutrofili, monociti e probabilmente anche dalle cellule T è il fattore meglio caratterizzato, dimostrato a livello sierico in pazienti affetti da FSGS da Wei e coll [32, 33]. SuPAR è una proteina di 20-50 kDa, fisiologicamente presente in basse concentrazioni nel sangue umano, coinvolta nel traffico dei neutrofili e nella mobilizzazione delle cellule staminali. A livello glomerulare lega e attiva la β3-integrina, che non ha solo un ruolo meccanico di ancoraggio dei podociti alla membrana basale glomerulare, ma anche di trasmissione del segnale tra l’ambiente extracellulare ed il citoscheletro podocitario, di cui contribuisce a modificare l’architettura [34]. Il confronto del titolo di suPAR urinario tra le diverse varianti istologiche di FSGS primitiva ha dimostrato differenze significative tra la forma cellulare e la TIP lesions (995.51 pg/µmolCr, IQR [400.61- 1558.72] vs 373.42 pg/µmolCr, IQR [242.72 – 647.62], p=0.002) [35]. I livelli di suPAR in questi ultimi pazienti non differiscono in maniera significativa da pazienti affetti da MCD (p= 0,367). I livelli di suPAR risultano incrementati anche in forme secondarie di GSFS, e non vengono espressi diversamente da bambini con FSGS o con altre malattie renali [36]. Per comprendere gli eventuali effetti della plasmaferesi sull’outcome dei pazienti affetti da FSGS, sono stati studiati quattro casi clinici di pazienti con FSGS ricorrente, trattata con plasmaferesi dopo trapianto. Tutti i pazienti presentavano elevati livelli sierici di suPAR prima del trapianto; dopo diverse sedute di plasmaferesi, due pazienti hanno raggiunto la remissione clinica, ed in contemporanea la concentrazione sierica di suPAR si è ridotta, con perdita della capacità di attivare la β3-integrina. I restanti due pazienti risultati resistenti alla plasmaferesi mantenevano livelli di suPAR elevati. È interessante notare come i livelli di suPAR siano aumentati anche in altri pazienti portatori di graft renale, indipendentemente dalla malattia renale di base [37], mentre in studi condotti su pazienti affetti da glomerulopatie, i livelli di suPAR sono inversamente correlati al GFR [38].

La cascata di trasduzione del segnale attraverso la via Wnt/β-catenina ha un ruolo essenziale nell’organogenesi e nell’omeostasi tissutale, ed è un’altra via imputata nella disregolazione dell’architettura dei podociti [39]. I Wnt, legandosi ai loro recettori di membrana Frizzled (Fz), ai corecettori, alle low-density lipoprotein receptor-related proteins 5 e 6 (LRP5/6), inducono una serie di segnali a valle coinvolgendo proteine quali adenomatosis polyposis coli (APC) e glycogen synthase kinase (GSK)‑3β, determinando una defosforilazione della β-catenina.

Quest’ultima migra verso il nucleo, dove lega il T cell factor/lymphoid enhancer-binding factor (TCF/LEF) per promuovere la trascrizione dei geni target di Wnt. La cascata Wnt/β-catenina coinvolge plurimi mediatori implicati in processi di transizione epitelio-mesenchimale, tra i quali Snail 1, fibroblast-specific protein 1 (FSP-1), matrix metalloproteinase 7 (MMP-7), ed anche il sistema angiotensinogeno/renina/angiotensina-1, ed il transient receptor potential canonical 6 (TRPC6). I geni target Wnt determinano alterazioni della barriera di filtrazione sia a livello podocitario, inducendo una progressiva de-differenziazione con perdita della motilità cellulare e delle capacità adesive alla membrana basale glomerulare, sia a livello extracellulare, con l’alterazione della composizione della membrana basale mediata dalla fibronectina, e del catabolismo della matrice extracellulare con la secrezione del plasminogen activator inhibitor-1 (PAI-1).

Nuovi fattori patogenetici: la riduzione delle sialoproteine ed il ruolo dei microRNA

Tra i nuovi possibili fattori patogenetici spicca l’emopexina, proteina plasmatica che ha attività legante le sialoglicoproteine nei podociti. La forma iposialilata di Angiopoietin-like 4 protein (Agptl-4), invece, è stata dimostrata in modelli murini ed in colture di podociti umani con progressivo riarrangiamento del citoscheletro e scomparsa dei processi podocitari [40, 41]. Anche il C-mip è stato coinvolto nella patogenesi di MCD e FSGS, in modelli murini con alterato signaling intracellulare dei podociti e successivo sviluppo di proteinuria [19].

I microRNA sono un gruppo di piccole molecole di RNA a singolo filamento non codificante che legano parzialmente o completamente sequenze complementari e potrebbero inibire o destabilizzare la trascrizione.

Il ruolo del microRNA-193A è stato dimostrato sperimentalmente in topi transgenici, in cui ha indotto la perdita dell’espressione di Wt1, podocalixina e nefrina, con scomparsa dei processi podocitari [42].

Una ridotta espressione di miRNA-30 nei pazienti affetti da FSGS è invece responsabile dell’iperattività dei pathway di trasduzione del segnale mediati da Notch 1 e p53, responsabili di danno podocitario. Il trattamento con glucocorticoidi ha dimostrato di correggere l’espressione di miRNA-30 nelle colture di podociti con lesioni ascrivibili a FSGS [43].

 

Ultime evidenze incluse nelle Linee Guida KDIGO 2021

Nelle ultime KDIGO 2021 sono rimaste inalterate le definizioni di remissione completa (riduzione della proteinuria entro i 0,3 g/die o rapporto proteinuria/creatininuria (PCR) <300 mg/g o 30 mg/mmol, con creatininemia stabile ed albumina sierica > 35 g/l), o parziale (proteinuria compresa tra 0,3-3,5 g/die o PCR 300-3500 mg/g). La ricaduta viene identificata come una nuova insorgenza di proteinuria > 3,5 g/die o PCR>3500 mg/g dopo un periodo di completa remissione, o un incremento di almeno il 50% della proteinuria in corso di remissione parziale.

Terapie di prima linea nella MCD

I corticosteroidi rappresentano il caposaldo del trattamento della MCD e della FSGS, in cui sono stati utilizzati sin dagli anni ’70. Per quanto concerne la MCD, tuttavia, il grado di risposta è estremamente variabile negli adulti, rispetto alla popolazione pediatrica [44]. Quest’ultima ha il 50% di probabilità di ottenere la remissione entro la prima settimana di trattamento, e la maggior parte dei pazienti corticosensibili risponde entro le quattro settimane, a differenza di quanto accade in età adulta, in cui il tempo mediano di remissione dal primo episodio può richiedere fino ad otto settimane [2]. Tuttavia, risulta altrettanto elevato il rischio di ricaduta, che avviene più rapidamente che nella popolazione adulta. Le ricadute possono essere definite frequenti quando ricorrono almeno due volte in sei mesi, o quattro in dodici mesi; i pazienti la cui ricaduta avviene durante la terapia o entro le due settimane dal suo completamento, sono invece classificati come corticodipendenti.

I pazienti corticoresistenti, al contrario, non ottengono una riduzione efficace della proteinuria (< 50% del valore iniziale o che si mantiene > 3,5 g/die o PCR >3500 mg/g) nonostante le 16 settimane di terapia. La corticoresistenza caratterizza circa il 20% dei casi adulti di MCD, ed in tali casi andrebbe valutata l’opportunità di un’ulteriore indagine bioptica per escludere altre cause di sindrome nefrosica o l’insorgenza di lesioni da FSGS, la cui prognosi è peggiore rispetto alla MCD [45, 46].

Una nuova definizione è quella di pazienti multidrug resistant, in cui anche le terapie di seconda linea non sortiscono un miglioramento clinico [24].

La terapia di prima linea, con un tasso di remissione compreso tra 80-90% dei pazienti, prevede la somministrazione di prednisone al dosaggio di 1 mg/kg/die (max 80 mg/die) o di 2 mg/kg a giorni alterni (max 120 mg/die), per non oltre 16 settimane, periodo in cui globalmente risponde il 75% dei pazienti (raccomandazione grado 1C) [24]. A distanza di due settimane dalla remissione completa può essere avviato il tapering del prednisone, per minimizzare gli effetti collaterali da prolungata esposizione agli steroidi, senza che ciò comprometta la risposta clinica, come è dimostrato da trial clinici randomizzati di non inferiorità di regimi terapeutici di durata compresa fra i 2-3 mesi vs 6 mesi [47-49].

In caso di controindicazioni riconosciute all’uso degli steroidi, quali obesità, diabete mellito preesistente, storia di disturbi psichiatrici, tendenza all’osteopenia/osteoporosi, deve essere valutata con il paziente una strategia terapeutica diversa, che può prevedere l’adozione di ciclofosfamide orale, a dosaggio di 2-2,5 mg/kg/die per 8 settimane, di inibitori della calcineurina (CNI) quali ciclosporina o tacrolimus, per 1-2 anni [24, 50]; i derivati dall’acido micofenolico (MPAA) hanno dosaggio variabile tra 720-1000 mg x 2/die, e dovrebbero essere mantenuti a dosaggio pieno per almeno un anno di terapia [24, 51].

Infine il rituximab, anticorpo anti CD20, è stato inserito tra le alternative utili per l’induzione della remissione in MCD con posologie che variano da una somministrazione da 375 mg/m2 ev, da ripetere ad una settimana solo se le cellule B CD19 + risultano ancora >5/mm3, agli schemi terapeutici già adottati nel trattamento della nefropatia membranosa con 375 mg/m2 a settimana ev per 4 settimane, o le due dosi da 1000 mg ev, a distanza di 15 giorni (Tabella 1) [24, 52].

La comprensione dei meccanismi di azione del rituximab nella stabilizzazione della sphingomyelinphosphodiesterase-acid-like-3b (SMPDL-3b) e dell’acid sphingomyelinase (ASMase), in aggiunta all’effetto immunosoppressivo, ha spiegato come possa risultare efficace nel prevenire l’apoptosi podocitaria o la distruzione del citoscheletro actinico. Queste azioni sono condivise da glucocorticoidi e CNI, di cui è ben caratterizzato l’effetto stabilizzante sull’actina e sulla sinaptopodina, rispettivamente [53]. In questa ottica potrebbe essere possibile comprendere, come segnalato da Ravani e coll, l’efficacia dimostrata dal rituximab in soggetti corticodipendenti, a discapito dei pazienti steroido- o polifarmaco resistenti [54].

Terapia di prima linea all’episodio iniziale Prednisone 1 mg/kg/die po (max 80 mg/die) o 2 mg/kg a giorni alterni po (max 120 mg/die) per non oltre 16 settimane
Alternative terapeutiche in caso di controindicazioni alla terapia steroidea Ciclofosfamide 2 – 2,5 mg/kg/die po per 8 settimane
CNI:

  • Ciclosporina

 

  • Tacrolimus
 

3 – 5 mg/kg/die po in due dosi giornaliere per 1-2 anni

 

0,05 – 0,1 mg/kg/die po in due dosi giornaliere per 1-2 anni

Analoghi dell’acido micofenolico (MPAA):

  • Micofenolato mofetile

 

  • Sodio micofenolato
 

1000 mg per 2/die po per almeno un anno

 

720 mg per 2/die po per almeno un anno

Rituximab
  • 375 mg/m2 a settimana ev, per 4 settimane
  • 375 mg/m2 ev, da ripetere ad una settimana se le cellule B CD19 + > 5/mm3
  • 1000 mg ripetuto in 2 dosi ev, a 2 settimane di distanza
Tabella 1: Trattamento di esordio della MCD [24].

Trattamento dei pazienti frequently relapsing o corticodipendenti

Il trattamento delle ricadute prevede l’utilizzo dei corticosteroidi per periodi più limitati rispetto alla terapia di induzione.

Diverso è il caso delle ricadute frequenti o dei pazienti corticodipendenti, per i quali il gruppo di lavoro KDIGO raccomanda di adottare i trattamenti di seconda linea quali ciclofosfamide, rituximab, CNI o MPAA piuttosto che ripetere il ciclo terapeutico con solo prednisone o non trattare affatto la recidiva (grado 1 C) (Tabella 2) [24].

L’associazione di basse dosi di prednisone e CNI prevede che, dopo la sospensione dello steroide, ed un anno di terapia di ciclosporina o tacrolimus, si avvii anche il loro tapering. Nel caso di sviluppo di dipendenza da CNI, il paziente dovrebbe proseguire il trattamento alla minore dose efficace per mantenere la remissione ed al contempo limitare i rischi di nefrotossicità, sotto stretto controllo della funzionalità renale.

Anche la scelta di MPAA come agenti steroid-sparing richiede un decalage graduale dei dosaggi dopo un minimo di un anno di terapia, se tollerata dal paziente [24]. Un trial randomizzato open label tuttavia non ha dimostrato la superiorità di un regime di associazione tra sodio micofenolato e basse dosi di prednisone ed il ciclo con steroidi ad alto dosaggio.

A differenza degli altri farmaci, la somministrazione di rituximab prevede l’infusione ev di una singola dose, in base al protocollo scelto (375 mg/m2 o 1000 mg) ed il monitoraggio della proteinuria per un periodo di quattro-sei mesi [24, 55].

Pazienti naive per ciclofosfamide Ciclofosfamide 2 – 2,5 mg/kg/die po per 8-12 settimane
Precedente trattamento con ciclofosfamide, o prevenzione rischio di effetti collaterali (infertilità transitoria, alopecia, neoplasie)

CNI:

  • Ciclosporina

 

 

  • Tacrolimus
 

3 – 5 mg/kg/die po in due dosi giornaliere per 1-2 anni, con livelli iniziali sierici raccomandati di 150-200 ng/ml

 

0,05 – 0,1 mg/kg/die po in due dosi giornaliere per 1-2 anni, con livelli iniziali sierici raccomandati di 4-7 ng/ml

Acido micofenolico:

  • Micofenolato mofetile

 

  • Sodio micofenolato
 

1000 mg per 2/die po per almeno un anno

 

720 mg per 2/die po per almeno un anno

Rituximab
  • 375 mg/m2 ev in singola dose
  • 1000 mg ev in singola dose
Tabella 2: Terapia in pazienti con ricadute frequenti/steroido-dipendenti [24]. 

Trattamento delle FSGS: il corretto inquadramento diagnostico per un percorso terapeutico personalizzato

L’inquadramento diagnostico delle lesioni da FSGS richiede in primis la valutazione della presenza o meno di sindrome nefrosica. Un quadro di proteinuria non accompagnato da altri segni clinici quali ipoalbuminemia ed ipervolemia richiede l’esclusione di cause secondarie e, qualora appropriato, di cause genetiche. In entrambe queste condizioni è indicato avviare la terapia di supporto con inibitori del sistema renina angiotensina al massimo dosaggio tollerato dal paziente, restrizione salina e controllo della pressione arteriosa, proseguendo il monitoraggio di proteinuria, albumina sierica e funzione renale. Nel caso di un peggioramento delle condizioni cliniche e della proteinuria, nel sospetto di una forma primitiva si può prendere in considerazione anche l’adozione della terapia immunosoppressiva.

Una FSGS che esordisce con sindrome nefrosica è invece con alta probabilità ad eziologia primitiva, supportata anche dal riscontro di appiattimento pedicellare diffuso alla microscopia ottica. In questo caso il prednisone (alla medesima posologia adottata nella MCD) è raccomandato come prima linea di trattamento, da prolungare fino alla remissione completa o almeno per quattro settimane, per non oltre le sedici settimane (grado 1D). Successivamente dovrebbe essere avviato un tapering lento di 5 mg ogni 1-2 settimane per almeno sei mesi totali di terapia steroidea [24].

Nei pazienti in cui sono presenti controindicazioni o fenomeni di intolleranza ai glucocorticoidi, i CNI sono indicati come terapia iniziale (Tabella 3) [24].

Terapia di prima linea all’episodio iniziale Prednisone

1 mg/kg/die po (max 80 mg/die) o 2 mg/kg a giorni alterni po (max 120 mg/die) per almeno 4 settimane, fino a remissione completa e per non oltre 16 settimane

Tapering:

  1. Remissione completa: riduzione di 5 mg ogni 1-2 settimane per ottenere almeno sei mesi totali di terapia steroidea
  2. Remissione parziale: se ottenuta in 8-12 settimane, proseguire fino alla 16° settimana con alte dosi, poi tapering come al punto 1
  3. Corticoresistenza: tapering rapido ed avvio di CNI
Alternativa se controindicazioni alla terapia steroidea

CNI:

  • Ciclosporina

 

  • Tacrolimus

 

 

 

 

 

 

 

 

3 – 5 mg/kg/die po in due dosi giornaliere per almeno 4-6 mesi,

con livelli sierici raccomandati di 100-175 ng/ml

 

0,05 – 0,1 mg/kg/die po in due dosi giornaliere per almeno 4-6 mesi, con livelli sierici raccomandati di 5-10 ng/ml

Tapering:

  1. Remissione completa o parziale: mantenimento del livello soglia di CNI per almeno 12 mesi, poi lenta riduzione in 6-12 mesi
  2. Resistenza a CNI definita da almeno 6 mesi di trattamento senza alcuna risposta clinica
Tabella 3: Trattamento iniziale della FSGS primaria [24].

Anche il riconoscimento di uno stato di corticoresistenza pone l’indicazione ad avviare rapidamente il trattamento con CNI, per minimizzare il rischio di sviluppare un’insufficienza renale cronica legata alla persistenza della proteinuria, che riduce la sopravvivenza renale dal 60-90% a cinque anni fino al 25-56% a dieci anni dall’esordio di FSGS (1C) [24]. Un’attenta valutazione va fatta sull’opportunità di continuare il trattamento con CNI alla riduzione dell’eGFR < 30 ml/min (Tabella 4).

Nel caso di intolleranza a CNI o resistenza, non è attualmente raccomandata alcuna terapia con evidenze di livello sufficiente, inclusa l’associazione di micofenolato mofetile e desametasone ad alte dosi indicata con grado 2C nelle precedenti Linee Guida KDIGO, a causa del basso numero di trial clinici randomizzati e del ristretto numero di partecipanti arruolati, soprattutto per quanto concerne le forme di FSGS farmaco-resistente [24, 56, 57].

Prima linea terapeutica in pazienti corticoresistenti

CNI:

  • Ciclosporina

 

  • Tacrolimus

 

3 – 5 mg/kg/die po in due dosi giornaliere per almeno 4-6 mesi,

con livelli sierici raccomandati di 100-175 ng/ml

 

0,05 – 0,1 mg/kg/die po in due dosi giornaliere per almeno 4-6 mesi, con livelli sierici raccomandati di 5-10 ng/ml

Tapering:

  1. Remissione completa o parziale: mantenimento del livello soglia di CNI per almeno 12 mesi, poi lenta riduzione in 6-12 mesi
  2. Graduale sospensione se il filtrato glomerulare si riduce < 30 ml/min/1,73 m2
  3. Resistenza a CNI definita da almeno 6 mesi di trattamento senza alcuna risposta clinica
Tabella 4: Terapia raccomandata nella FSGS primaria corticoresistente [24].

Nuove prospettive nel trattamento delle podocitopatie

Tra le possibili alternative terapeutiche tuttora in fase di studio, in base all’effetto riconosciuto dei glucocorticoidi sul citoscheletro podocitario, le proteine costituenti il diaframma di filtrazione, nonché sulla regolazione dell’apoptosi podocitaria, è stato ipotizzato un razionale nell’uso dell’ormone adrenocorticotropo (ACTH) nella riduzione della proteinuria. Uno studio non controllato su pazienti corticoresistenti ha dimostrato una remissione completa o parziale nel 29% dei soggetti [58], tuttavia l’eterogeneità dei soggetti coinvolti non permette una chiara indicazione all’utilizzo nella FSGS [31, 59].

Altri target possono essere la riduzione dello stress di parete secondario all’iperfiltrazione glomerulare, che agisce da stimolo sui podociti sani per la de-differenziazione comportandone la perdita dei pedicelli. In quest’ottica, oltre gli inibitori del sistema renina angiotensina conosciuti, lo studio di fase 2 DUET ha proposto una molecola di combinazione (sparsentan) che antagonizza il recettore di tipo A dell’endotelina (ETA) ed il recettore di tipo 1 dell’angiotensina II (AT1). Il confronto tra irbesartan e sparsentan in pazienti affetti da MCD ed FSGS ha dimostrato una significativa riduzione della proteinuria nel braccio sperimentale in 8 settimane [60].

 

Conclusioni

Il danno podocitario ed il distacco dalla membrana basale glomerulare sono eventi fondamentali nello sviluppo di aree sclerotiche glomerulari. La MCD rappresenta una delle entità patologiche incluse nella famiglia delle podocitopatie, nel cui spettro rientra anche la FSGS, che alla luce delle ultime evidenze non è più da considerarsi una vera e propria patologia di per sé, quanto una lesione istologica che può caratterizzare una podocitopatia primitiva o secondaria. L’appiattimento podocitario e la progressiva transizione epitelio-mesenchimale possono essere indotti da fattori circolanti, mutazioni genetiche chiave nella differenziazione podocitaria, uso di farmaci, infezioni o risposte maladattative alla perdita di nefroni.

Clinica, storia anamnestica e tipizzazione istologica con microscopia ottica ed elettronica devono essere integrati per offrire indicazioni dirimenti nella differenziazione tra MCD e le forme primitive, genetiche, secondarie o di causa sconosciuta di FSGS, ed indirizzare il Nefrologo verso il trattamento più corretto. Ulteriori studi randomizzati sono necessari per includere nuovi agenti terapeutici nella pratica clinica con maggiori livelli di evidenza.

 

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Old and new transplant histocompatibility antigens

Abstract

The genetic system that most influences the outcome of organ transplants is the Major Histocompatibility Complex (MHC), which in humans is also known as the HLA (Human Leucocyte Antigens) system. These genes are highly polymorphic, meaning that each individual in the population has inherited a set of genes that combine in an almost unique way. They encode cell surface glycoproteins which therefore vary from one individual to another and are recognized as a target in the case of transplantation by the recipient’s immune system.

It is considered that the right match for HLA characteristics between donor and recipient can explain less than half of the immunological causes of transplant failure. It is well known that differences in other genetic characteristics may be responsible for a not small share of transplant failure due to immunological causes. These characteristics are defined as minor histocompatibility genes (and antigen their products).

The new approaches to study the genome allow to examine all the variability of a recipient, and compare it with that of the donor: in this way it is possible to evaluate whether particular genetic collisions (i.e. incompatibility for some of them) can influence the outcome of the transplant. These studies made it possible to define new genes whose compatibility between donor and recipient may be relevant for the success of the transplant.

Keywords: transplants, genomics, histocompatibility

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Introduzione

La prevalenza globale della malattia renale allo stadio terminale (ESRD) continua a crescere. Nel 2016 negli Stati Uniti sono stati eseguiti 19.301 trapianti di rene e circa cinque volte di più nel mondo. Grazie ai miglioramenti nelle tecniche chirurgiche, nei protocolli di immunosoppressione e nella gestione clinica delle complicanze post-trapianto, i tassi di sopravvivenza a cinque anni del trapianto per i reni ottenuti da donatori deceduti e viventi hanno raggiunto livelli massimi rispettivamente del 75,3% e dell’85,3% [1-3]. Tuttavia, la prevalenza di casi di ESRD negli Stati Uniti ha continuato ad aumentare di circa 20.000 casi all’anno negli ultimi tre decenni, creando una maggiore necessità di allotrapianti renali. Si ritiene che questo aumento sia dovuto principalmente al peggioramento delle diete e ad altri fattori modificabili associati allo stile di vita occidentale, ma anche all’aumento della longevità dei casi di ESRD pre-trapianto.

È ben noto che i fattori genetici contribuiscono allo sviluppo e alla progressione di specifici tipi di malattia renale cronica (CKD), tuttavia molti studi precedenti sono stati di portata limitata a causa delle piccole dimensioni del campione e delle strategie di genotipizzazione [4-8]. Gli studi su famiglie con fenotipi gravi di malattie, come la sindrome di Alport e la malattia di Fabry, hanno contribuito in modo significativo alla comprensione delle caratteristiche genetiche di queste condizioni [9-11]. Tuttavia, le forme più lievi di queste malattie e il loro ruolo nello sviluppo dell’ESRD devono ancora essere esplorate in modo approfondito.

 

Array di genotipizzazione a livello del genoma

La genotipizzazione dell’intero genoma basata su array da diverse popolazioni di pazienti facilita la determinazione molto precisa dell’ascendenza utilizzando metodi come l’analisi delle componenti principali [12, 13]. Gli studi di associazione sull’intero genoma (GWAS) tra i pazienti con CKD hanno rilevato varianti genetiche sia rare sia comuni significativamente associate al declino della velocità di filtrazione glomerulare stimata (eGFR) e alla microalbuminuria, alcuni dei più forti predittori di esiti di CKD, nonostante l’80% dei partecipanti GWAS avesse eGFR nell’intervallo normale [7, 14-18].

I risultati degli studi sull’intero genoma possono anche fornire nuovi bersagli terapeutici per rallentare la progressione dell’insufficienza renale cronica a ESRD, che può ritardare o influire sulla necessità di trapianto in alcune popolazioni di pazienti [19, 20]. Ad esempio, la cistinosi nefropatica, una rara malattia autosomica recessiva, è causata da una delezione di 57 kb nel gene CTNS in circa il 75% dei pazienti di origine europea e progredisce in ESRD se non trattata [21]. Tuttavia, è stato riscontrato che il trattamento con cisteamina orale entro i cinque anni di età riduce significativamente la prevalenza e ritarda l’insorgenza di ESRD [21]. Inoltre, almeno 38 geni sono stati associati allo sviluppo della glomerulosclerosi segmentaria focale genetica (FSGS), alcuni dei quali hanno dimostrato di essere responsivi al trattamento con glucocorticoidi [22]. I risultati del GWAS possono anche fornire informazioni sulla biologia dell’ESRD, aiutando a rimuovere l’eterogeneità diagnostica.

È stato riscontrato che i due alleli di rischio APOL1 (G1 e G2) trovati in alta frequenza nelle popolazioni dell’Africa subsahariana e fortemente associati a FSGS e nefropatia da HIV attivano la protein chinasi R, inducendo così danno glomerulare e proteinuria [23-25].

Nel complesso, i risultati dello screening dell’intero genoma possono consentire ai medici di fornire diagnosi genetiche accurate per la causa primaria dell’ESRD, consentendo una gestione terapeutica tempestiva ed efficace e aiutando nella valutazione dei membri della famiglia come donatori viventi [26].

 

Sequenziamento dell’intero esoma e dell’intero genoma

Nell’ultimo decennio, gli approcci di sequenziamento dell’intero esoma (WES) e di sequenziamento dell’intero genoma (WGS) sono stati utilizzati con successo per scoprire e diagnosticare disordini genetici in un contesto clinico [27-30]. Il WES in genere fornisce una copertura del sequenziamento sufficiente su circa il 95% dei nucleotidi nelle regioni codificanti catturate ed è stato utilizzato per diagnosticare rari disturbi mendeliani ad alta penetranza, scoprire varianti comuni e identificare mutazioni causali nel cancro [31, 32]. Il WES è stato recentemente implementato come strumento diagnostico di prima linea nella medicina clinica.

In uno studio su feti con anomalie congenite del rene e delle vie urinarie (CAKUT), sono state scoperte varianti patogene nel 13% dei casi [33]. Il WES è stato applicato anche all’insufficienza renale cronica e all’ESRD a esordio nell’adulto, in cui circa il 10% dei casi è causato da mutazioni mendeliane [28, 30, 34]. In una coorte di >3.000 pazienti con insufficienza renale cronica avanzata ed ESRD accertati per uno studio clinico, WES ha identificato varianti diagnostiche nel 9,3% dei pazienti che comprendevano 66 malattie monogeniche [30]. Delle 343 varianti rilevate, 141 (40%) non erano state precedentemente segnalate come patogene. Inoltre, sono state identificate varianti diagnostiche nel 17,1% degli individui con nefropatia di origine sconosciuta, modificando la gestione medica avviando cure multidisciplinari, richiedendo il rinvio a studi clinici e guidando la selezione dei donatori per il trapianto [30].

Tuttavia, va notato che molti studi sulla CKD che utilizzano WES hanno avuto difficoltà per ottenere popolazioni di controllo adeguate.

WGS è l’approccio più completo per il rilevamento di varianti ereditarie a causa di una copertura più completa dell’intero genoma, sebbene vi siano ulteriori sfide rispetto a WES. WGS può catturare varianti genetiche a singolo nucleotide, piccole inserzioni e delezioni (Indels) e varianti di numero di copie (Cnvs) in tutto il genoma umano, comprese le regioni non codificanti proteine. Sebbene abbia un costo per campione più elevato e possa essere più difficile da analizzare rispetto a WES, risultati diagnostici sono evidenti nei pazienti con risultati WES negativi o inconcludenti [35-36]. È stato dimostrato che il WGS identifica una variante genetica diagnostica in circa il 10-50% degli individui con una sospetta malattia genetica, a seconda della popolazione dello studio clinico sottoposta a screening [30, 37, 38].

Nonostante i progressi tecnologici che consentono di condurre la ricerca su scala genomica, molti studi sono stati ostacolati da piccole dimensioni del campione in singoli centri di trapianto, nonché dal vasto numero di covariate cliniche complesse di donatori e riceventi e fenotipi correlati alla malattia osservati nel trapianto.

Il Wellcome Trust Case Control Consortium (WTCCC) ha realizzato il primo GWAS su larga scala con DNA sia del donatore che del ricevente di trapianto di rene con l’obiettivo di identificare varianti genetiche, oltre alle regioni HLA, che contribuiscono in modo significativo a lungo e/o breve termine alla sopravvivenza dell’allotrapianto renale [39]. In questo studio iniziale, a livello genomico non sono stati osservati con significatività segnali riferiti a regioni diverse dall’HLA, illustrando la necessità di armonizzare coorti di trapianto di rene più ampie e con fenotipo certo. Oltre alla variante comune CYP3A5*3 di perdita di funzione (rs776746), scoperta in precedenza, lo studio DeKAF (Deterioration of Kidney Allograft Function) ha identificato due varianti del CYP3A5, rs10264272 e rs41303343, e una variante del CYP3A4, rs35599367, che spiegano ulteriori porzioni di varianza osservate per le concentrazioni ematiche di Tacrolimus aggiustate per la dose (TAC) per i trapiantati di rene sia afroamericani (AA) sia europei (EA) [40-43]. Questi risultati illustrano l’utilità degli studi sull’intero genoma nel determinare i regimi di terapia immunosoppressiva post-trapianto, contribuendo potenzialmente a miglioramenti nella sopravvivenza dell’allotrapianto renale. Un altro studio [44] ha mostrato che il GWAS può predire le complicanze post-trapianto. I punteggi di rischio poligenico calcolati dal GWAS del cancro della pelle diversi dal melanoma (NMSC) nella popolazione generale hanno predetto il rischio e il tempo di insorgenza nel post-trapianto di NMSC e hanno aggiunto un valore predittivo aggiuntivo oltre a quello spiegato dalle variabili cliniche [45].

Gli array di genotipizzazione dell’intero genoma sono ben consolidati come mezzo efficace per l’identificazione di CNV noti e nuovi [46-48]. Lo screening delle CNVs all’interno dei soggetti è di grande interesse sia per la valutazione dell’architettura genetica della malattia primaria sia per gli studi di eventuali ulteriori regioni genomiche i cui prodotti sono bersaglio di una risposta alloimmune. iGeneTRAiN ha sviluppato un’ampia pipeline di perdita di funzione (Loss of Function – LoF) che include la ricostruzione dell’aplotipo di oltre 10 milioni di varianti genotipizzate e imputate direttamente. Si è particolarmente interessati a varianti di perdita di funzione in entrambe le copie dello stesso gene (mediante varianti a singolo nucleotide e/o CNV). Le combinazioni più interessanti sono quelle in cui il ricevente risulta LoF per entrambe le copie di un gene, mentre il donatore risulta omozigote per copie corrette o eterozigote per una LoF. L’analisi di queste combinazioni donatore-ricevente (o “collisioni genomiche”), consente di identificare associazioni tra regioni genomiche precedentemente ignorate con eventi di rigetto e perdita del trapianto [44].

Lo screening CNV in regioni a priori coinvolte per la malattia primaria è stato eseguito in coorti iGeneTRAiN. Ad esempio, è stato eseguito lo screening CNV in pazienti con nefronoftisi (NPH), la causa genetica più comune di ESRD nei bambini e spesso causata da delezioni omozigoti del gene NPHP1 completo [49-52]. In iGeneTRAiN, è stata precedentemente esaminata questa regione in un sottogruppo ad esordio nell’adulto (circa 5.600 pazienti). Dei soggetti analizzati, 26 pazienti hanno mostrato delezioni omozigoti di CNV in NPHP1. È interessante notare che solo il 12% di questi pazienti era stato precedentemente diagnosticato come affetto da NPH e molti presentavano ESRD più tardi nell’età adulta [26]. Pertanto, l’utilizzo della perdita del gene in due copie di NPHP1 dagli array genomewide per accertare lo stato dell’NPH ed esaminare le informazioni relative all’NPH, inclusa l’accuratezza dell’accertamento del caso e l’età di insorgenza, mostra una forte prova di principio per l’uso in altre malattie autosomiche recessive/dominanti ad alta penetranza e la necessità di un ulteriore sequenziamento per varianti rare a singolo nucleotide in pazienti con ESRD ad esordio adulto. Inoltre, in una recente analisi dell’intero genoma delle CNV in quasi 3.000 casi di CAKUT, sono stati identificati 45 disturbi genomici distinti e noti in 37 loci genomici indipendenti nel 4% dei casi di CAKUT e sono stati trovati nuovi disturbi genomici in un ulteriore ~ ​​2% di casi [47].

Grazie ad un approccio del genere, in un recente studio collaborativo di più coorti di pazienti di origine geografica differente sottoposti a trapianto di rene, è stato identificato LIMS1 come nuovo antigene minore di istocompatibilità. In maniera riproducibile in tutte le coorti, i riceventi che risultavano possedere varianti LoF di questo gene in entrambe le copie, avevano una prospettiva di successo del trapianto significativamente peggiore, ed un rischio di rigetto aumentato. È stato inoltre possibile rilevare nei sieri dei pazienti omozigoti per varianti LoF di LIMS1, la presenza di anticorpi in grado di riconoscere la proteina prodotta da questo gene [48].

La genotipizzazione e l’imputazione dell’intero genoma utilizzando grandi set di dati di sequenziamento dell’intero genoma (WGS), come il progetto 1000 genomes (1KGP), in genere non è in grado di identificare varianti nelle popolazioni ancestrali più comuni con una frequenza allelica minore (MAF) di <0,005, tuttavia è spesso possibile identificare CNV rare utilizzando sonde monomorfiche o basate su SNP che siano specifiche per i loci di interesse.

 

Conclusioni

Gli studi di genotipizzazione dell’intero genoma sono diventati molto convenienti e semplificati. Tuttavia, sono necessarie grandi dimensioni del campione, dell’ordine di 10.000-100.000, per rilevare sia varianti rare con contributi grandi che varianti comuni con contributi minori a uno o più fenotipi specifici [53]. Sebbene sia molto importante rafforzare il potere statistico per rilevare le basi genetiche dei fenotipi correlati al trapianto aggregando coorti simili, è necessario prestare grande attenzione quando si combinano set di dati di genotipizzazione e fenotipizzazione, soprattutto perché le covariate dello studio dei trapianti sono molto complesse e possono variare notevolmente in base all’era e regione geografica. Occorre disporre di una pipeline unificata di analisi GWAS per il controllo dei dati e per garanzia di qualità, compresi gli aggiustamenti per la stratificazione basata sulla popolazione [49].

Le analisi degli studi di associazione si adattano a tutte le covariate di studio note/disponibili, inclusi i dati demografici del paziente e le caratteristiche cliniche. Gli array di genotipizzazione dell’intero genoma sono generalmente scarsi nel rilevare varianti patogene di frequenza più rare, ad eccezione di CNV medio-grandi. I progressi significativi nelle tecnologie genomiche e il costo decrescente delle analisi WES/WGS negli ultimi anni hanno reso sempre più fattibile condurre studi sull’intero genoma meglio progettati in un ambiente clinico [54]. Tuttavia, esistono ancora vantaggi significativi nell’avere set di dati di array di genotipizzazione dell’intero genoma, poiché sul DNA originale vengono generalmente eseguite rigorose misure di controllo della qualità e della concordanza di genere, di discendenza e di tipizzazione HLA, che possono essere fatte prima di passare alle piattaforme WES o WGS per una caratterizzazione genetica più approfondita. I GWAS sono in grado di fornire informazioni dettagliate sui punteggi di rischio genetico e sui CNV patogeni, poiché le varianti dell’intero genoma sono coperte da array convenzionali di genotipizzazione dell’intero genoma [13, 26, 44, 55, 56]. Ad esempio, una metanalisi su 36 articoli ha identificato tre varianti genetiche che sono significativamente associate al diabete di nuova insorgenza dopo il trapianto (NODAT), tutte varianti note di fattori di rischio per il diabete di tipo 2. L’integrazione e l’analisi di set di dati multi-omici ampi e complessi è stata dimostrata in una serie di recenti pubblicazioni ad alto impatto, che in generale aumentano, di circa 10 volte, il potere statistico di rilevare e illustrare varianti funzionali [57-60].   I dati genomici possono essere integrati con i risultati di studi sui trapianti di proteomica, metabolomica e trascrittomica per caratterizzare ulteriormente i rischi clinici e consentire trattamenti personalizzati, poiché numerosi studi dispongono di set di dati/campioni multi-omici [48].

L’avvento del sequenziamento dell’RNA unicellulare (RNASeq) ha prodotto importanti approfondimenti sulla biologia della CKD. Gli atlanti dei tratti quantitativi di espressione (eQTL) sono stati generati per i compartimenti glomerulari e tubulari da cellule renali umane. È stato dimostrato che l’integrazione dei risultati degli studi sull’intero genoma della CKD con eQTL da RNAseq e delle mappe della regione regolatoria nota permette di identificare nuovi geni della CKD [61].

Il progetto Human Cell Atlas è un’importante iniziativa internazionale che mira a creare mappe di riferimento complete di tutte le cellule umane per ottenere informazioni fondamentali sulla comprensione della salute umana e aiuterà senza dubbio nella diagnosi e nella sorveglianza di una serie di malattie [62].

Poiché la popolazione dei trapiantati di rene e dei donatori continua a crescere, con l’aumentare dei risultati post-trapianto, saremo in grado di aumentare ulteriormente la nostra conoscenza delle basi genetiche dell’ESRD, della malattia primaria e degli esiti post-trapianto, come rigetto acuto e perdita dell’innesto. Questi approcci di sequenziamento possono fornire ulteriori informazioni sulle interazioni donatore-ricevente che influenzano i risultati del trapianto. Sebbene sia ben stabilito che le corrispondenze alleliche tra i loci HLA influiscono sugli esiti clinici dopo il trapianto, vi è una scarsità di ricerche sull’intero genoma condotte per identificare le interazioni donatore-ricevente indipendentemente dall’HLA [8, 48, 63, 64]. Un recente studio iGeneTRAiN sul trapianto di rene ha mostrato una ridotta sopravvivenza dell’allotrapianto nei riceventi che presentano un aumento degli SNP non sinonimi (nsSNP) che coinvolgono proteine transmembrana renale. È stato inoltre dimostrato che è possibile rilevare alloanticorpi contro peptidi amminoacidici personalizzati progettati con un certo numero di questi nsSNP transmembrana renali utilizzando sieri di questi pazienti [65]. Infine, i dati di tutti gli studi sui trapianti di rene possono essere utilizzati per tutti gli altri organi al fine di ottenere ulteriori informazioni sulla genetica del rigetto acuto, della sopravvivenza dell’allotrapianto/paziente e degli esiti farmacogenomici.

 

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Update nelle vasculiti ANCA-Associate

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Introduzione

Le vasculiti ANCA-associate (AAV) sono un gruppo di rare malattie autoimmuni, la cui incidenza è stimata attorno ai 20-30 casi per milione [1]. Si tratta di vasculiti necrotizzanti che coinvolgono i vasi di piccolo e, talvolta, anche medio calibro, con conseguente danno d’organo [2]. L’interessamento renale è frequente, e si manifesta come glomerulonefrite a semilune necrotizzante pauci-immune. La glomerulonefrite da AAV rappresenta la più comune forma di glomerulonefrite di nuova insorgenza negli adulti al di sopra dei 50 anni [3].

In questo lavoro rivedremo brevemente alcuni aspetti fondamentali relativi alla patogenesi e classificazione delle AAV, per poi soffermarci su alcune novità nella pratica clinica che stanno emergendo negli ultimi anni.

 

Classificazione e patogenesi

Le AAV vengono sottoclassificate in 3 sindromi, a seconda delle caratteristiche patologiche e cliniche [2]:

  • Poliangioite microscopica (MPA)
  • Granulomatosi con poliangioite (GPA, precedentemente nota come granulomatosi di Wegener)
  • Granulomatosi eosinofilica con poliangioite (EGPA, precedentemente nota come sindrome di Churg-Strauss)

La MPA è espressione esclusivamente di vasculite dei piccoli vasi. Il coinvolgimento renale è molto frequente, e spesso coesiste anche capillarite polmonare. Si tratta di una diagnosi di esclusione, formulata in assenza delle caratteristiche tipiche delle altre due forme.

La lesione caratteristica della GPA consiste in infiammazione granulomatosa necrotizzante extravascolare, per lo più a carico del distretto testa-collo, delle vie aeree e del polmone, con noduli che spesso evolvono in cavitazione. Si associano frequentemente lesioni vasculitiche, di per sé non distinguibili dalla MPA.

L’EGPA è la più rara delle sindromi AAV. Come la GPA, è caratterizzata da infiammazione granulomatosa spesso a carico delle vie respiratorie, ma ha la peculiarità di essere ricca di eosinofili. Si associano asma ed eosinofilia periferica.

Gli ANCA, anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili, sono autoanticorpi diretti contro la mieloperossidasi (MPO) o la proteinasi 3 (PR3), componenti dei granuli dei neutrofili. Questi autoanticorpi sono riscontrabili nella maggioranza di pazienti con AAV, fatta eccezione per l’EGPA. Oltre a essere degli importanti biomarcatori per la diagnosi e il monitoraggio delle AAV, gli ANCA contribuiscono direttamente alla patogenesi della vasculite, come supportato da decenni di studi in vitro e in modelli animali [1]. Brevemente, in seguito al priming dei neutrofili, indotto per esempio da citochine in corso di un evento infettivo, MPO e PR3 vengono esposti maggiormente sulla superficie dei neutrofili. Gli autoantigeni diventano quindi accessibili agli autoanticorpi ANCA circolanti, che, legandosi ai recettori Fcγ sulla superficie dei neutrofili, ne aumentano lo stato di attivazione. I neutrofili attivati dagli ANCA inducono direttamente danno vascolare, infiltrando le pareti dei vasi, e amplificano ulteriormente la risposta infiammatoria, rilasciando chemochine, citochine, NETs (neutrophil extracellular traps, filamenti di materiale nucleare con effetti pro-infiammatori) e attivando la via alterna del complemento. Quest’ultima porta alla generazione dell’anafilotossina C5a, con conseguente ulteriore amplificazione dell’infiammazione e priming dei neutrofili [4].

 

ANCA, caratteristiche cliniche e genetica

Il sottotipo di ANCA (anti-MPO o PR3) è molto rilevante dal punto di vista clinico. I pazienti con MPA sono più frequentemente positivi per gli ANCA anti-MPO (55-65%), mentre i pazienti con GPA presentano più spesso ANCA anti-PR3 (65-75%) [5]. Nel caso dell’EGPA invece solo una minoranza di pazienti, circa il 30-40%, è positiva per gli ANCA, pressoché esclusivamente anti-MPO. La positività degli ANCA nell’EGPA si accompagna a una maggiore prevalenza di manifestazioni prettamente vasculitiche, come glomerulonefrite e mononeurite multipla, che sono invece raramente osservate nei pazienti ANCA-negativi [6]. È importante notare che il profilo ANCA nell’EGPA sembra anche associarsi a una risposta differenziale alla terapia, con maggiori tassi di risposta al rituximab osservati nei pazienti ANCA-positivi [7].

Altre importanti caratteristiche cliniche associate al profilo ANCA sono il rischio di recidiva, che è nettamente più elevato nei pazienti PR3-ANCA positivi [8], e la risposta preferenziale al rituximab, anziché alla ciclofosfamide, che è stata descritta nei pazienti PR3-ANCA positivi con recidiva di vasculite [9].

La specificità ANCA è anche sottesa da diversi profili di suscettibilità genetica, come ben dimostrato dai 2 maggiori GWAS (genome-wide association studies) in GPA e MPA [10, 11]. La positività per ANCA MPO o PR3 ha diverse associazioni con gli alleli di istocompatibilità maggiore (in HLA-DQ per MPO, HLA-DP per PR3), mentre altri polimorfismi sono associati esclusivamente al subset di pazienti PR3-ANCA positivi. Queste varianti si trovano nel gene PRTN3, che codifica per PR3 stessa, e in SERPINA1, il gene che codifica per alfa1-antitripsina, un inibitore enzimatico di PR3. È interessante che è emersa anche un’associazione genetica comune ai sottogruppi PR3- e MPO-ANCA positivi. Si tratta di una variante nel gene PTPN22, una tirosin-fosfatasi che modula la responsività dei recettori dei linfociti T e B. Questa variante è stata identificata anche in associazione a molte altre malattie autoimmuni, come artrite reumatoide e diabete mellito tipo I, rappresentando quindi un fattore di rischio comune allo sviluppo di autoimmunità [12].

Analogamente a GPA e MPA, anche nel caso dell’EGPA la specificità ANCA si associa a diversi profili genetici. Il recente GWAS dell’European Vasculitis Genetics Consortium ha mostrato che solo i pazienti MPO-ANCA positivi presentano associazione genetica con il locus HLA-DQ, mentre associazioni con geni associati al mantenimento della barriera mucosale sono emerse esclusivamente nei pazienti ANCA-negativi [13]. D’altro canto, sono state identificate anche associazioni genetiche comuni a tutti i pazienti con EGPA, indipendentemente dalla positività per ANCA. Si tratta di polimorfismi associati ad un’aumentata conta di granulociti eosinofili e all’asma, che determinano una suscettibilità genetica comune per l’EGPA.

Alla luce di queste importanti differenze cliniche e genetiche che correlano con il profilo ANCA, diversi autori hanno proposto di ripensare la classificazione delle AAV, incorporando la specificità ANCA nella classificazione [14, 15]. Questo cambio di nomenclatura potrebbe facilitare il disegno dei futuri studi clinici e la successiva personalizzazione del trattamento.

 

Approcci terapeutici

La terapia immunosoppressiva rappresenta il cardine del trattamento delle forme severe di AAV, con grave danno d’organo (per esempio, coinvolgimento renale o alveolite emorragica) che, in assenza di trattamento, conducono rapidamente alla morte. Negli ultimi 40-50 anni, il progresso negli schemi immunosoppressivi ha permesso un progressivo miglioramento della prognosi dei pazienti, con un graduale aumento della sopravvivenza a 5 anni fino all’attuale 70-80% [16, 17]. A grandi linee, si distingue in genere una fase di induzione della remissione di malattia, caratterizzata da immunosoppressione ad alta intensità (solitamente basata su glucocorticoidi in associazione a ciclofosfamide e/o rituximab ed, eventualmente, plasmaferesi), seguita da una fase di mantenimento, in cui l’immunosoppressione viene proseguita a minore intensità (usando per lo più un farmaco tra rituximab, azatioprina, metotrexate o MMF, possibilmente con glucocorticoidi a bassa dose), al fine di prevenire le recidive e il conseguente danno d’organo. Gli schemi immunosoppressivi attualmente impiegati sono molto efficaci ed inducono la remissione nella maggior parte dei casi. D’altro canto, però, le infezioni rappresentano la più frequente causa di mortalità nel primo anno dalla diagnosi, e le recidive di malattia sono frequenti, attorno al 50% entro i 5 anni [6, 17]. Si rende quindi necessario personalizzare gli approcci terapeutici, bilanciando il controllo della malattia, nel breve e lungo termine, con il rischio infettivo e di tossicità legato al trattamento stesso.

Le linee guida sul trattamento delle AAV sono state recentemente aggiornate, sia dall’American College of Rheumatology [18], sia dal gruppo internazionale KDIGO (Kidney Disease Improving Global Outcomes) [19]. Queste raccomandazioni offrono una panoramica esaustiva e aggiornata sul trattamento dei pazienti con AAV. Ci soffermeremo qui su alcuni aspetti emergenti negli ultimi anni, in particolare il ruolo della plasmaferesi, il dosaggio dei corticosteroidi, l’uso di inibitori del complemento e strategie nella terapia di mantenimento.

 

Ruolo della plasmaferesi

Il ruolo della plasmaferesi nel trattamento delle AAV è controverso. Il primo grande studio prospettico al riguardo, il trial MEPEX, ha randomizzato 137 pazienti con grave coinvolgimento renale (creatinina >5.8 mg/dl) a ricevere 7 sedute di plasma exchange (gruppo PLEX) o 3 g di metilprednisolone ev (gruppo controllo), in aggiunta a ciclofosfamide orale e prednisolone [20]. Il gruppo PLEX ha mostrato migliori risultati riguardo all’outcome primario, l’indipendenza dalla dialisi a 3 mesi [69% vs 49% nel gruppo di controllo, p=0.02]. Tuttavia, questo beneficio non si è tradotto in significative differenze nella mortalità a 12 mesi. Un successivo follow-up a lungo termine della stessa coorte (tempo di osservazione mediano 3.95 anni) non ha dimostrato significativi benefici della PLEX sull’incidenza di insufficienza renale cronica terminale e/o mortalità [21].

In questo contesto di incertezza sull’utilità clinica della PLEX, è stato disegnato PEXIVAS, uno studio randomizzato controllato con design fattoriale 2×2 [22]. Questo studio si è posto l’obiettivo di studiare contemporaneamente l’effetto di 2 diversi interventi in pazienti con grave AAV: la PLEX e l’adozione di diversi dosaggi di glucocorticoidi. Sono stati reclutati 704 pazienti in 16 Paesi, che fanno di PEXIVAS il più grande studio in AAV ad oggi condotto [23]. La quasi totalità dei pazienti presentava vasculite renale, con necessità di terapia sostituiva in un quinto dei casi, mentre solo il 18% dei partecipanti presentava emorragia polmonare. In linea con la pratica clinica al tempo del reclutamento, la maggioranza dei pazienti hanno ricevuto induzione con ciclofosfamide, e il 15% circa con rituximab. Dopo una mediana di follow-up di 2.9 anni, l’outcome primario, un end-point composito di morte o malattia renale terminale, si è verificato nel 28% del gruppo PLEX e nel 31% del gruppo no PLEX. Queste differenze non sono risultate statisticamente significative, anche se si è osservata una tendenza alla superiorità della PLEX nei primi anni dal trattamento, con successiva perdita dell’effetto. ​​Non sono emerse significative differenze neppure per alcun outcome secondario, né in termini di efficacia né di sicurezza. Le analisi secondarie in sottogruppi specificati non hanno dimostrato significative differenze in base a età, gravità clinica, specificità ANCA o regime immunosoppressivo, anche se si è osservato un trend per un possibile beneficio della PLEX nei pazienti con coinvolgimento renale o polmonare più grave.

Nel complesso, le evidenze ad oggi disponibili non giustificano l’uso della PLEX nella maggior parte dei pazienti con AAV. D’altra parte però, nonostante la notevole numerosità campionaria per una malattia rare come AAV, il potere statistico dello studio PEXIVAS rimane insufficiente per escludere definitivamente un possibile beneficio della PLEX nei pazienti con manifestazioni cliniche più gravi, e ulteriori studi saranno necessari a chiarire questo aspetto.

 

Dosaggio dei corticosteroidi

L’altro aspetto su cui si è focalizzato lo studio PEXIVAS è il dosaggio dei glucocorticoidi [23]. Tutti i pazienti sono stati trattati con boli di metilprednisolone, e quindi randomizzati a dose standard o ridotta di glucocorticoidi per os. Entrambi gli schemi di dosaggio partono da una dose di prednisone di 1 mg/kg. Dopo la prima settimana, lo schema a dose ridotta comincia un rapido decalage, risultante in una riduzione del 54% della dose cumulativa a 3 mesi. Non si sono osservate significative differenze tra i due gruppi nell’end-point primario di morte o insufficienza renale terminale, mentre è emerso un importante segnale di safety a favore del dosaggio ridotto, con un minor rischio di infezioni severe a un anno (27.2%, vs. 33% nel gruppo dose standard).

Un simile segnale a favore di dosi ridotte di corticosteroidi è stato osservato nel trial LoVas, uno studio multicentrico, open label di fase 4 che ha reclutato 140 pazienti in Giappone [24]. Questo studio si è focalizzato su una popolazione di pazienti meno gravi rispetto a PEXIVAS, escludendo pazienti con eGFR < 15 mL/min/1.73 m2 o con emorragia alveolare. Tutti i pazienti hanno ricevuto induzione con rituximab e sono stati randomizzati a prednisolone a dose ridotta (0.5 mg/kg/giorno, scalato fino alla sospensione a 5 mesi) o alta (1 mg/kg/giorno, scalato fino a 10 mg a 5 mesi). La dose ridotta di prednisolone ha raggiunto l’end-point di non inferiorità per l’outcome primario di remissione a 6 mesi, con una significativa riduzione del tasso di eventi avversi seri, di gravi infezioni e di alcune pre-specificate complicanze legate agli steroidi, come diabete ed insonnia.

Complessivamente, questi studi hanno mostrato, in pazienti con un ampio spettro di gravità clinica, che un dosaggio ridotto di corticosteroidi, in associazione ad induzione con ciclofosfamide o rituximab, è non inferiore a dosaggi più elevati, con il vantaggio di una significativa riduzione dei rischi, soprattutto infettivi, associati al trattamento.

 

Inibitori del complemento

Un altro approccio per limitare la tossicità legata all’immunosoppressione, e in particolare ai glucocorticoidi, consiste nell’impiego di agenti immunomodulanti alternativi. Particolarmente promettenti appaiono gli inibitori del complemento. Lo sviluppo di questi farmaci in AAV è stato fortemente supportato da modelli murini, che hanno dimostrato che la via alterna del complemento svolge un ruolo patogenetico fondamentale nel mediare il danno renale da anticorpi anti-MPO [25]. Questi dati pre-clinici hanno spianato la via a studi clinici con inibitori del complemento in AAV, in particolare con avacopan, una piccola molecola che antagonizza il recettore per C5 C5aR. Due studi di fase 2 con avacopan in AAV non hanno rilevato particolari segnali di safety e hanno mostrato promettenti dati preliminari di efficacia [26, 27]. Sono stati recentemente pubblicati i dati dello studio di fase 3, ADVOCATE, che ha arruolato 331 pazienti seguiti per 60 settimane [28]. Tutti i pazienti hanno ricevuto induzione con ciclofosfamide, seguita da mantenimento con azatioprina, o rituximab, e sono stati randomizzati ad avacopan per 52 settimane, oppure a un ciclo di prednisolone a scalare per 20 settimane. Il trattamento con avacopan si è dimostrato non inferiore nell’end-point di remissione a 26 settimane, e superiore nell’end-point di remissione sostenuta a 52 settimane. I tassi di eventi avversi seri sono stati simili nei due bracci, ma il gruppo avacopan ha mostrato una ridotta frequenza di eventi avversi correlabili ai glucocorticoidi e migliore percezione della qualità di vita. Le analisi secondarie hanno evidenziato dei promettenti segnali di superiorità dell’avacopan negli outcome renali, con una più marcata riduzione precoce dell’albuminuria e un miglior recupero del filtrato glomerulare. Quest’ultimo effetto è risultato particolarmente rilevante nei pazienti con più grave coinvolgimento renale (eGFR <30 mL/min/1.73 m2 all’arruolamento), che hanno mostrato un recupero di eGFR a 52 settimane maggiore di 5.6 ml/min [95%CI 1.7-9.5] nel gruppo avacopan, rispetto al prednisolone.

Gli inibitori del complemento rappresentano delle attrattive alternative terapeutiche ai glucocorticoidi in AAV, con un migliore profilo di tossicità, soprattutto in termini di qualità di vita, e un interessante profilo di efficacia, specie nelle forme renali. Ulteriori studi saranno necessari per meglio definire lo spazio terapeutico di questi farmaci, così come i dosaggi e timing ottimali del trattamento.

 

Strategie nella terapia di mantenimento

I più recenti studi sulla terapia di mantenimento in AAV hanno mostrato la superiorità del rituximab rispetto all’azatioprina nel mantenere la remissione in diversi contesti clinici, senza che siano emersi significativi segnali di safety. In particolare, lo studio MAINRITSAN [29] ha confrontato il mantenimento con rituximab o azatioprina dopo induzione con ciclofosfamide, mentre lo studio RITAZAREM ha paragonato i due farmaci dopo induzione con rituximab in pazienti con recidiva di vasculite [30].

Una delle più rilevanti domande riguardo alla terapia di mantenimento è quale sia la durata ideale. A questo proposito, due recenti studi hanno confrontato diverse durate della terapia di mantenimento, MAINRITSAN3 [31] (rituximab vs placebo per 18 mesi, dopo iniziale mantenimento con rituximab di 18 mesi) e REMAIN [32] (interruzione dell’azatioprina a 24 mesi dalla diagnosi vs prosecuzione fino a 48 mesi). In entrambi i casi, la prosecuzione della terapia si è dimostrata superiore nel prevenire le recidive e, aspetto molto rilevante, nel preservare la funzione renale residua: nello studio REMAIN si sono verificati 4 casi di insufficienza renale terminale, tutti nel gruppo che aveva sospeso l’azatioprina [p=0.012]. Nonostante questi studi non avessero una numerosità campionaria sufficiente per valutare differenze in safety, sono emersi degli iniziali segnali di aumentato rischio di tossicità nei pazienti sottoposti a trattamenti immunosoppressivi più prolungati (ipogammaglobulinemia in corso di rituximab; maggior frequenza di citopenie, infezioni e complicanze cardiovascolari con azatioprina). Si rende quindi necessaria un’attenta valutazione del rapporto rischi-benefici nel singolo paziente, con un conseguente approccio personalizzato al trattamento immunosoppressivo. A questo fine, può essere utile considerare i fattori di rischio per recidiva ad oggi identificati, ossia positività per gli ANCA-PR3, fenotipo granulomatoso, storia di precedenti recidive, e persistente positività degli ANCA al momento della sospensione della terapia immunosoppressiva [8, 32]. La ricerca di biomarcatori predittivi del rischio di recidiva rappresenta un campo attivo di ricerca, che potrebbe significativamente migliorare la stratificazione del rischio e la personalizzazione del trattamento.

 

Conclusioni

Il trattamento delle vasculiti ANCA-associate necessita di un delicato equilibrio tra il controllo della malattia con farmaci immunosoppressori e il rischio di importanti tossicità legate al trattamento stesso. Recenti studi hanno contribuito a meglio definire il ruolo di diversi approcci terapeutici. Si è dimostrato che la plasmaferesi non ha comprovati benefici nella maggior parte dei pazienti, mentre potrebbe essere utile in un piccolo, selezionato sottogruppo di pazienti con le presentazioni cliniche più gravi. L’adozione di dosaggi più bassi di glucocorticoidi ha mostrato un’efficacia paragonabile alle dosi più alte, con una significativa riduzione del rischio di infezioni. La disponibilità di nuovi farmaci, come gli inibitori del complemento, sta aprendo la via a nuovi schemi terapeutici altamente efficaci in assenza di steroidi, con dei risultati molto promettenti soprattutto nelle vasculiti renali. La durata ottimale della terapia immunosoppressiva rimane incerta, e verosimilmente non è la stessa per tutti i pazienti. È necessario personalizzare l’approccio terapeutico al singolo paziente, tenendo conto sia dei rischi legati alla recidiva di malattia, sia di quelli secondari alla tossicità sul lungo termine della terapia immunosoppressiva. Questo sarà facilitato dallo sviluppo di strumenti innovativi per la stratificazione del rischio, come biomarcatori che permettano di meglio valutare lo stato immunologico del paziente.

 

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Le nefriti tubulointerstiziali acute

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Definizione, epidemiologia ed eziologia

Il termine nefrite interstiziale acuta (acute interstitial nephritis, AIN) viene comunemente utilizzato per definire un pattern di danno renale caratterizzato, istopatologicamente, da infiammazione ed edema dell’interstizio renale e, clinicamente, da un quadro di danno renale acuto (acute kidney injury, AKI). Questo termine è stato utilizzato per la prima volta nel 1898 da Councilman per descrivere le alterazioni istopatologiche osservate in campioni di tessuto renale proveniente da esami autoptici di pazienti affetti da difterite e infezioni streptococciche [1]. Sebbene il termine nefrite interstiziale acuta sia quello più frequentemente utilizzato (sia nella pratica clinica sia in letteratura), il termine nefrite tubulointerstiziale acuta (acute tubulointerstitial nephritis, ATIN) fornisce una descrizione più accurata del danno istologico, sottolineando il coinvolgimento dell’interstizio renale e delle strutture tubulari.

Da un punto di vista eziopatogenetico le nefriti tubulointerstiziali rappresentano un’entità eterogenea, che pur condividendo aspetti istopatologici comuni, mostrano differenti eziologie (a partire da forme secondarie a farmaci, le cosiddette drug-induced interstitial nephritis, per arrivare a forme secondarie a patologie sistemiche autoimmuni e a forme secondarie a patologie infettive) alle quali sottendono differenti meccanismi immunopatogenetici.

Sulla base dei dati di Registro provenienti da diverse aree geografiche, l’incidenza di ATIN risulta essere compresa tra il 2 e il 5% dei casi istologici [2-4], mostrandosi sostanzialmente stabile nei vari continenti.

Un’ulteriore analisi dei dati di Registro evidenzia un’incidenza compresa tra il 13% e il 27% dei pazienti sottoposti ad accertamento istologico per danno renale acuto o insufficienza renale rapidamente evolutiva [5]. I dati provenienti dal Registro spagnolo delle biopsie renali e pubblicati da Goicochea et al. nel 2013 hanno mostrato un significativo aumento della prevalenza di ATIN istologicamente diagnosticata nel periodo 1994-2009, con passaggio dal 3,6% al 10,5% delle biopsie renali eseguite. Questo trend risultava ancor più significativo nei soggetti di età > 65 anni, nei quali, nel periodo di tempo sopra descritto, la prevalenza di ATIN istologicamente determinata passava da 1,6% a 12,6% [5]. Le motivazioni alla base di tale andamento non sono di univoca interpretazione, ma verosimilmente due fattori sono i maggiori responsabili di tale trend: in primo luogo la modifica delle politiche dei singoli Centri che ha portato ad estendere l’indicazione all’esecuzione di agobiopsia renale anche in quei pazienti più anziani e fragili, in secondo luogo il significativo incremento dell’utilizzo di farmaci antiinfiamamtori non steroidei (FANS) e antibiotici con un conseguente reale incremento delle forme secondarie a farmaci (drug-induced interstitial nephritis , DI-ATIN).

La reale incidenza di ATIN è, però, probabilmente superiore rispetto a quanto sopradescritto. Nella pratica clinica quotidiana un numero non trascurabile di casi di AKI non viene sottoposto ad accertamento istologico e viene clinicamente classificato come danno tubulare acuto (acute tubular injury, ATI): verosimilmente una quantità significativa di questi casi è imputabile ad ATIN non istologicamente diagnosticate e clinicamente misconosciute. La mancata diagnosi di queste forme di ATIN ha delle chiare implicazioni clinico-prognostiche, poiché il mancato riconoscimento e trattamento favorisce la cronicizzazione dei processi di danno renale risultando in fibrosi interstiziale, atrofia tubulare e, in ultima analisi, perdita della funzione renale. La correlazione tra ATIN e malattia renale cronica (chronic kidney disease, CKD) è ben descritta in letteratura. Una riduzione permanente della funzione renale si osserva nel 40-60% dei pazienti in seguito ad un episodio di ATIN, con circa il 2% dei casi di CKD (prevalenza mondiale pari a 10 milioni di casi) che risulta essere secondario a ATIN; l’evoluzione verso una condizione di insufficienza renale terminale (end-stage renal disease, ESRD) non è un’eventualità remota, considerando che il 3-4% dei pazienti incidenti in dialisi presenta come causa primaria della sua nefropatia una condizione di ATIN [6]. Dai dati epidemiologici sopraesposti appare evidente l’importanza di una diagnosi precoce di ATIN, poiché questa condizione risulta essere una delle poche cause di danno renale acuto per le quali, a fronte di una identificazione tempestiva, siano disponibili opzioni terapeutiche in grado di modificare la prognosi renale del paziente.

Da un punto di vista eziologico, le cause di ATIN possono essere classificate in 4 grandi gruppi (Tabella 1),  la cui incidenza e prevalenza varia sensibilmente in casistiche provenienti da diverse aree geografiche: forme farmaco-indotte (DI-ATIN), forme infettive, forme idiopatiche (comprendenti la sindrome nefrite tubulointerstiziale-uveite, TINU-syndrome, e la malattia da anticorpi anti-membrana basale tubulare, anti-TBM disease) e forme associate a patologie sistemiche (sarcoidosi, sindrome di Sjogren, lupus eritematoso sistemico, IgG4-related disease).

Tabella 1: Cause di nefrite tubulointerstiziale acuta.
Tabella 1: Cause di nefrite tubulointerstiziale acuta.

Come evidenziato nella Tabella 2, la DI-ATIN è di gran lunga la più frequente forma di ATIN in Europa e Nord America, dove rappresenta oltre il 70% dei casi diagnosticati, seguita dalle forme associate a malattie sistemiche. Le casistiche provenienti da Africa ed alcune regioni dell’Asia (prevalentemente India e Pakistan), accanto ad una prevalenza di DI-ATIN pari al 50%, mostrano un’elevata prevalenza di forme infettive (40-50% dei casi) riconducibili principalmente infezioni da micobatterio tubercolare.

Tabella 2: Prevalenza ed eziologia della nefrite tubulointerstiziale acuta.
Tabella 2: Prevalenza ed eziologia della nefrite tubulointerstiziale acuta.

Nell’ambito della DI-ATIN il panorama di farmaci associati a tale entità è estremamente ampio e in continua evoluzione: oltre 250 farmaci sono stati associati a DI-ATIN e, virtualmente, ogni farmaco può essere responsabile di tale condizione. Storicamente le due classi di farmaci principalmente associati a tale entità clinica sono stati i farmaci antibiotici e i farmaci antiinfiammatori non steroidei (FANS) [7]. I dati di letteratura più recenti mostrano una parziale variazione delle cause di DI-ATIN: pur persistendo l’importante ruolo di antibiotici (con una riconosciuta e crescente importanza delle forme di DI-ATIN secondarie all’uso di chinolonici) e FANS, un’enfasi crescente è stata posta sugli inibitori di pompa protonica (PPIs), una classe di farmaci il cui utilizzo è estremamente diffuso anche al di fuori delle indicazioni specialistiche e che in alcune casistiche è riconosciuta quale causa del 35% delle DI-ATIN osservate [8]. Come rappresentato in Tabella 3, una delle principali sfide per il clinico risiede nell’inquadramento eziologico di quelle forme DI-ATIN insorte nel contesto di terapie polifarmacologiche, nelle quali individuare il singolo farmaco responsabile del quadro clinico renale può addirittura risultare impossibile. Nella più recente casistica pubblicata da Caravaca-Fontan et al su 205 casi istologicamente accertati di ATIN, l’eziologia risultava ignota nel 31% dei casi, mentre nel 17% delle forme definite come drug-induced l’anamnesi farmacologica rivelava molteplici farmaci quali potenziali responsabili della nefrite interstiziale [9]. Nello stesso lavoro gli autori pongono un’importante enfasi sulla difficoltà nel porre diagnosi eziologica in corso di ATIN: la valutazione di 22 casi di ATIN ricorrente mostrava come in ben 10 pazienti una rivalutazione conseguente alla recidiva di ATIN permettesse di modificare la diagnosi eziologica posta in occasione del primo episodio, determinando in tutti e dieci i casi una modifica della condotta terapeutica inizialmente adottata [9].

Recentemente, un’importanza crescente è stata riconosciuta alla classe di farmaci immunoterapici rappresentata dagli inibitori dell’immuno-checkpoint (immune checkpoint inhibitors, ICPI). Questi farmaci, utilizzati in ambito oncologico per il trattamento di numerosi tumori solidi, sono stati associati, con meccanismi immunopatogenetici peculiari e correlati allo stesso meccanismo d’azione sfruttato per il loro effetto terapeutico, alla comparsa di nefriti tubulointerstiziali acute. Un pronto riconoscimento di tale evento avverso e una sua corretta gestione clinico terapeutica rappresenta un’importante sfida per il clinico, specie in relazione all’importanza dell’utilizzo degli ICI in ambito oncologico.

Tabella 3: Cause di nefrite tubulointerstiziale da farmaci.
Tabella 3: Cause di nefrite tubulointerstiziale da farmaci.

 

Patogenesi

La formazione di un infiltrato infiammatorio tubulointerstiziale, che rappresenta l’elemento istopatologico caratteristico in corso di ATIN, può essere il risultato di differenti meccanismi immunopatogenetici che sottendono differenti processi eziologici.

Gli studi su modelli sperimentali di ATIN hanno mostrato l’esistenza di differenti meccanismi patogenetici, con un coinvolgimento sia dell’immunità cellulo-mediata, sia dell’immunità umorale. Gli antigeni che possono indurre l’attivazione della risposta immunitaria sono classificabili in tre grandi gruppi: antigeni costitutivi della membrana basale tubulare (come per esempio le glicoproteine 3M-1 e TIN-Ag/TIN1), proteine secrete nel lume tubulare (es. proteina di Tamm-Horsfall) e proteine non espresse costitutivamente nel tessuto renale (antigeni non self “impiantati” a livello renale, antigeni circolanti che si depositano in sede renale sotto forma di immunocomplessi).

Il meccanismo immunopatogenetico più frequentemente implicato nella patogenesi delle ATIN vede un ruolo centrale da parte dell’attivazione dell’immunità cellulo-mediata, come suggerito dalla prevalenza T-linfocitaria nell’infiltrato infiammatorio interstiziale. Questo meccanismo patogenetico è alla base della maggior parte delle forme di DI-ATIN, nonché di alcune forme di ATIN su base autoimmune, quali quelle osservate in corso di sarcoidosi e TINU syndrome. In maniera schematica è possibile riconoscere 3 fondamentali fasi in questo processo patogenetico:

  1. fase di riconoscimento e presentazione dell’antigene
  2. fase integrativa o regolatoria
  3. fase effettrice

L’elemento iniziale del processo patogenetico è la presentazione dell’antigene (sia esso un aptene farmacologico, un antigene-self o un antigene batterico) da parte delle cellule dell’epitelio tubulare o delle cellule interstiziali peritubulari con la conseguente attivazione delle cellule dendritiche. Queste ultime sono dei monociti residenti che assolvono un ruolo di “sentinelle immunologiche”: in condizioni di quiescenza questi elementi cellulari entrano in contatto con la superficie basolaterale delle cellule epiteliali tubulari [10]. L’attivazione delle cellule dendritiche determina l’esposizione, sulla loro superficie cellulare, di peptidi antigenici legati a molecole del complesso maggiore di istocompatibilità di classe II: una volta attivate, le cellule dendritiche migrano attraverso i linfatici renali fino a raggiungere le stazioni linfonodali dove l’antigene viene presentato alle T cellule naive [11]. Contestualmente i macrofagi residenti dell’interstizio renale vengono attivati contribuendo all’infiammazione interstiziale che viene ulteriormente amplificata dal reclutamento di granulociti neutrofili ed eosinofili. Questa fase iniziale è seguita dalle due successive fasi (integrativa ed effettrice), nelle quale il cross-talk tra cellule dell’infiltrato infiammatorio e parenchima renale (sostenuto principalmente dall’azione paracrina delle citochine proinfiammatorie prodotte dai linfociti T attivati) determina il decorso e la severità del danno renale. I macrofagi attivati sono responsabili del rilascio di collagenasi ed elastasi che determinano un’amplificazione del danno tissutale avviato dall’attivazione T linfocitaria: contestualmente l’attivazione dei neutrofili promuove la comparsa della tubulite mentre l’attivazione fibroblastica è alla base dell’evoluzione fibrotica dell’edema interstiziale. L’intensità della fase “effettrice” è strettamente correlata alla durata dell’esposizione allo stimolo (farmacologico, infettivo, autoimmune) che promuove l’infiammazione: il riconoscimento tempestivo e il rapido avvio dei necessari provvedimenti terapeutici è alla base della possibilità di prevenire l’evoluzione verso un danno renale irreversibile rappresentato dall’evoluzione fibrotica [12].

I meccanismi immunopatogenetici basati su un’attivazione preminente dell’immunità anticorpo-mediata sono raramente i principali responsabili dell’insorgenza di ATIN, sebbene in alcuni specifici contesti siano stati descritti due distinti meccanismi:

  1. formazione di complessi antigene-anticorpo in situ. Tale meccanismo è coinvolto nella patogenesi di alcune forme di ATIN idiopatiche il cui esempio principale è rappresentato dalla malattia da anticorpi anti-membrana basale tubulare, caratterizzata dalla presenza di anticorpi diretti contro una proteina non-collagenica della membrana basale tubulare (TIN-Ag/TIN1) [13]. Alcune forme di DI-ATIN sembrerebbero riconoscere un meccanismo analogo, attraverso la produzione di anticorpi diretti contro apteni farmacologici impiantati sulla membrana basale tubulare: questo processo immunopatogenetico è stato descritto in corso di DI-ATIN associata a meticillina [14];
  2. deposizione di immunocomplessi a livello della membrana basale tubulare. Questo meccanismo patogenetico è stato descritto pressoché esclusivamente nelle forme di ATIN che “accompagnano” glomerulonefriti da immunocomplessi. Un esempio di tale condizione è costituito dall’infiltrato infiammatori interstiziale che si osserva in circa il 70% dei casi di nefrite lupica, come evidenziato dal riscontro della deposizione di immunocomplessi lungo la membrana basale tubulare.

Un peculiare meccanismo patogenetico è quella associato all’ATIN secondaria a farmaci inibitori dell’immunocheck-point (ICPI), una classe di anticorpi monoclonali ampiamente utilizzata per il trattamento di numerose patologie oncologiche. Il loro meccanismo d’azione si basa sull’inibizione di alcuni recettori espressi sulla superficie dei T linfociti quali cytotoxic T lymphocyte–associated protein 4 (CTLA-4), programmed cell death protein 1 (PD-1), and PD-ligand 1 (PD-L1). L’inibizione di tali recettori, coinvolti nella down-regulation dell’attività dei linfociti T determina una persistente attivazione T linfocitaria, con conseguente esaltazione dell’attività antitumorale. L’ipotesi patogenetica principale per l’ATIN secondaria a ICPI, prevede un ruolo fondamentale dell’inibizione di molecole quali PD-1 e CTLA-4 che favorirebbe l’espansione e l’attivazione di cloni T linfocitari autoreattivi diretti contro specifici antigeni tissutali dell’interstizio renale. Un’altra ipotesi patogenetica prevede che l’azione dei ICPI favorisca l’attivazione e perdita di tolleranza da parte dei linfociti T già oggetto di priming innescato da altri farmaci: questa ipotesi sarebbe supportata dall’evidenza che la maggior parte dei casi di ATIN associata a ICPI sia osservata in pazienti che assumono altri farmaci noti per essere associati all’insorgenza di DI-ATIN, quali inibitori di pompa protonica o antibiotici beta-lattamici [15].

 

Clinica, istopatologia e diagnosi

La sindrome clinica nefrologica che rappresenta la manifestazione clinica dell’ATIN è rappresentata dal danno renale acuto (AKI). I dati provenienti dalle più numerose casistiche mostrano come nella totalità dei casi i pazienti affetti da ATIN esordiscano con un quadro di danno renale acuto, generalmente non oligurico, con una necessità di terapia sostitutiva della funzione renale riportata fino al 40% dei casi [3, 16]. La triade clinica descritta in associazione con la nefrite interstiziale acuta, espressione di reazioni di tipo immunoallergico e rappresentata da febbre, rash cutaneo ed eosinofilia, è stata storicamente ritenuta essere un elemento patognomonico per la diagnosi di nefrite interstiziale nelle prime case series pubblicate in letteratura. I dati più recenti evidenziano, però, come tale triade sia presente in meno del 10% dei casi di ATIN [7] e l’incidenza di ciascuno dei tre elementi che la compongono sia relativamente bassa: la febbre è stata osservata nel 19-36% dei casi, il rash nel 8-22% e l’eosinofilia nel 26-35% [3, 9]. Da una risanima di questi dati, appare evidente come la diagnosi di nefrite interstiziale richieda un elevato sospetto clinico e rappresenti una sfida per il clinico, data l’assenza, in un’elevata percentuale di casi, di segni clinici specifici che possano orientare fortemente verso tale diagnosi. La più frequente presentazione clinica dell’ATIN è rappresentata da un danno renale acuto associato a reperti urinari indicativi di danno tubulare (o comunque aspecifici) quali leucocituria (75-82%), proteinuria tubulare (93%), microematuria (53-67%), basso peso specifico urinario e glicosuria. Tali reperti clinico-laboratoristici, per quanto aspecifici, possono immediatamente orientare verso un sospetto clinico di ATIN nel caso in cui il contesto clinico sia fortemente suggestivo: pazienti in terapia con ICPI, concomitante presenza di uveite anteriore (suggestiva di TINU syndrome), diagnosi nota di patologie sistemiche associate a nefrite interstiziale (es. sindrome di Sjogren, sarcoidosi) o presenza di elementi clinici indicativi delle suddette patologie sistemiche (es. sindrome sicca, positività anticorpi anti-SSA e anti-SSB, reperti radiologici suggestivi di sarcoidosi). Nei restanti casi, la diagnosi di ATIN pone dei chiari problemi di diagnosi differenziale con altre cause di AKI, prima tra tutte la necrosi tubulare acuta (acute tubular necrosis, ATN), con la quale condivide i reperti laboratoristici indicativi di danno tubulare. Nell’ottica di una corretta diagnosi differenziale, storicamente, sono stati proposti diversi potenziali markers laboratoristici e strumentali, nessuno dei quali ha però mostrato sensibilità e specificità adeguate.

Muriithi et al hanno analizzato i casi di 566 pazienti sottoposti a biopsia renale presso la Mayo Clinic, per i quali erano disponibili i dati relativi alla presenza di eosinofiluria al momento della biopsia renale: l’eosinofiluria è stata osservata in un numero estremamente ampio di condizioni. 91 pazienti presentavano una diagnosi istologica di ATIN, nell’80% dei casi definita come DI-ATIN.  L’utilizzo di una definizione di eosinofiluria basata su una quantità di eosinofili al sedimento urinario > 1% dei leucociti osservati, permetteva di individuare il 31% dei casi di ATIN: contestualmente il 29% dei casi di ATN mostrava valori di eosinofili urinari > 1%. La sensibilità e la specificità di valori di eosinofili urinari > 1% per la diagnosi di ATIN sono risultate pari, rispettivamente al 30% e al 68%. Anche utilizzando un cut-off del 5%, l’eosinofiluria non ha permesso di discriminare in maniera ottimale tra ATIN e ATN [17].

Contestualmente i dati riguardanti i test di imaging mostrano come ecografia, TC, PET e scintigrafia con gallio siano anch’essi strumenti diagnostici subottimali per la diagnosi di ATIN. In un’analisi retrospettiva condotta su 76 pazienti (23 dei quali presentavano un sospetto clinico di ATIN) l’utilizzo della scintigrafia renale con Ga67 mostrava un AUC di 0,75; in realtà soltanto 20 pazienti erano stati sottoposti a biopsia renale per confermare il quadro di ATIN e, oltretutto, i risultati della scintigrafia con Ga67 erano noti ai clinici responsabili della diagnosi clinica di ATIN [18].

Sulla base di tali dati appare evidente che il gold standard per la diagnosi di ATIN risulta essere ancora oggi la biopsia renale. I reperti istologici che definiscono l’ATIN sono rappresentati dall’infiltrato infiammatorio in sede interstiziale, dall’edema interstiziale e dalla tubulite. L’infiltrato infiammatorio presenta, tipicamente, una predominanza di linfociti e monociti, con quote meno rappresentative di eosinofili, plasmacellule, neutrofili e istiociti. La tipizzazione dell’infiltrato infiammatorio può essere un elemento utile nella definizione della diagnosi eziologica dell’ATIN: una predominanza di eosinofili risulta essere tipicamente associata a DI-ATIN, una prevalenza di neutrofili è maggiormente indicativa di forme infettive ad eziologia batterica, mentre un infiltrato con preponderanza di plasmacellule IgG4 positive è suggestivo di ATIN in corso di IgG4-related disease.

La presenza di infiltrato infiammatorio organizzato in lesioni di tipo granulomatoso definisce le nefriti tubulo-interstiziali granulomatose; tipicamente tali lesioni sono state associate ad interessamento renale in corso di patologie granulomatose di natura infettiva (infezione tubercolare) o autoimmune (sarcoidosi). Una recente revisione della letteratura pubblicata da Janssen et al ha raggruppato 186 casi di nefrite tubulointerstiziale ad impronta granulomatosa: la sarcoidosi renale risultava la causa più frequente (31% dei casi), però una quota significativa di pazienti presentava un quadro di DI-ATIN (22% dei casi) o forme idiopatiche (18% dei casi). La presenza di un’impronta granulomatosa non risulta, quindi, patognomonica per sarcoidosi o forme infettive da micobatterio tubercolare ed impone una completa diagnosi differenziale con tutte le altre potenziali cause di ATIN [19].

La tubulite è definita dalla presenza di cellule infiammatorie (tipicamente linfociti) nel contesto dell’epitelio tubulare: tale lesione rappresenta l’estensione oltre la membrana basale tubulare del processo infiammatorio che interessa l’interstizio renale. La tubulite si accompagna tipicamente ad alterazioni di tipo degenerativo, quali ectasia del lume tubulare, perdita dell’orletto a spazzola e semplificazione citoplasmatica delle cellule dell’epitelio tubulare. Il processo infiammatorio che caratterizza le fasi iniziali dell’ATIN si associa all’edema interstiziale: tale lesione, in assenza di interruzione dei processi patogenetici alla base del danno tubulointerstiziale, evolve verso l’atrofia tubulare e la fibrosi interstiziale, con inziali segni di fibrosi visibili già a distanza di 7-10 giorni dall’inizio del processo infiammatorio. In corso di ATIN i glomeruli e le strutture vascolari non sono interessati da processi patologici, pur potendo presentare alterazioni riconducibili alle comorbidità del paziente (es. ipertensione arteriosa, diabete). L’immunofluorescenza è tipicamente negativa nella maggioranza dei casi di ATIN, sebbene depositi lineari o granulari di IgG (con o senza complemento) possono essere osservati lungo la membrana basale tubulare.  La presenza di depositi di IgG localizzati lungo la membrana basale tubulare, con aspetto lineare e omogeno è suggestiva di nefrite da anticorpi anti-membrana basale tubulare, sebbene alcune forme di DI-ATIN (storicamente quelle associate a meticillina) possano evidenziare degli analoghi reperti all’immunofluorescenza. La microscopia elettronica non mostra delle lesioni specifiche; nei casi di ATIN secondaria a FANS associati a sindrome nefrosica il tipico reperto è quello di una diffusa fusione dei pedicelli podocitari.

L’importanza della biopsia renale non è limitata al suo ruolo diagnostico. Recenti evidenze pubblicate in letteratura mostrano una correlazione tra aspetti istologici e prognosi in corso di ATIN. Un recente lavoro retrospettivo pubblicato da Rankin et al ha mostrato una correlazione tra entità dell’atrofia tubulare, entità dell’infiltrato infiammatorio in aree non fibrotiche e outcomes clinici. Nello specifico, l’entità dell’atrofia tubulare risultava essere inversamente correlata al raggiungimento di un outcome clinico positivo (riduzione della creatininemia del 50% rispetto al valore d’esordio e raggiungimento di valori di eGFR > 60 ml/min) mentre l’entità dell’infiltrato infiammatorio in aree di interstizio non fibrotico risultava mostrare una correlazione diretta. I due parametri sono stati inclusi in un sistema di score (TANFI score) che ha mostrato una correlazione con gli outcome sopracitati: quando l’analisi è stata limitata ai pazienti trattati con terapia steroidea la correlazione è stata confermata, supportando l’utilizzo del TANFI score quale utile strumento per individuare i pazienti che possano trarre maggior beneficio dalla terapia steroidea [20].

Sebbene dalle evidenze sopracitate appaia chiaro come, allo stato attuale, la diagnosi di nefrite tubulointerstiziale acuta debba passare necessariamente attraverso la conferma istologica di un sospetto clinico, alcune recenti evidenze supportano la possibilità di ottenere, nel prossimo futuro, dei biomarkers in grado di supportare una diagnosi clinica di ATIN. Moledina et al in uno studio prospettico pubblicato nel 2019 hanno mostrato come i livelli urinari di interleuchina-9 (IL-9) e tumor necrosis factor-alfa (TNFa) fossero significativamente più elevati nei pazienti con diagnosi istologica di ATIN rispetto a pazienti che presentavano un quadro di AKI con differente diagnosi istologica (nefropatia diabetica, ATN, glomerulopatie) [21]. Un più recente lavoro, pubblicato dal medesimo gruppo, ha posto in relazione i livelli urinari di IL-9 e gli outcomes clinici dei pazienti con diagnosi istologica di ATIN [22]. I livelli sierici di IL-9 sono risultati essere inversamente correlati con il valore di eGFR a sei mesi dalla diagnosi nei pazienti non sottoposti a terapia steroidea. Nel gruppo di pazienti sottoposti a terapia steroidea, il valore di eGFR a sei mesi mostrava, invece, una correlazione diretta con i livelli urinari di IL-9. Sulla base di tali risultati i livelli urinari di IL-9 (citochina espressa dal pathway di attivazione Th9 dei linfociti CD4+) appaiono essere, in associazione con i livelli di TNFa, promettenti biomarkers per la diagnosi di ATIN; al tempo stesso i livelli urinari di IL-9 sembrerebbero correlati in maniera diretta con l’entità del processo infiammatorio a livello interstiziale e tubulare, permettendo di identificare i pazienti che necessitino dell’utilizzo di terapia steroidea.

 

Terapia

La gestione terapeutica dei pazienti con ATIN rappresenta una sfida per il clinico, in quanto le evidenze attualmente disponibili in letteratura si basano esclusivamente su studi di natura retrospettiva, estremamente eterogenei nel loro disegno e nei loro risultati. Sulla base di tali presupposti non è possibile usufruire di Linee Guida evidence-based che possano aiutare il clinico nella pratica quotidiana.

Nel corso di questa trattazione ci soffermeremo esclusivamente sulla terapia delle forme di ATIN farmaco-indotte e sulle forme idiopatiche (compresa la TINU syndrome), rimandando la trattazione della terapia delle forme secondarie alle numerose fonti presenti in Letteratura.

DI-ATIN

L’estrema variabilità dei dati presenti in letteratura circa la gestione terapeutica delle forme farmaco-indotte di ATIN rappresenta il principale ostacolo alla compilazione di Linee Guida evidence-based ed è l’elemento alla base dell’ampia eterogeneità nella pratica clinica quotidiana.

L’unico chiaro caposaldo della terapia della DI-ATIN è rappresentato dalla sospensione del farmaco considerato responsabile, con l’obiettivo di rimuovere il trigger scatenante la reazione immunomediata alla base del danno renale. Sebbene tale indicazione possa sembrare ovvia, la sua messa in pratica può rappresentare un vero e proprio rompicapo per il clinico per diversi ordini di motivi. In primo luogo l’individuazione del farmaco responsabile può essere particolarmente difficile in contesti di pazienti trattati con una terapia polifarmacologica (specie se più farmaci sono stati inseriti in terapia contemporaneamente) e nei casi in cui i pazienti facciano abbondante ricorso ad “automedicazione” con prodotti da banco. In tali condizioni appare razionale procedere all’eliminazione progressiva di tutti i farmaci assunti dal paziente, partendo da quello che per le sue caratteristiche appare essere come il più verosimile “colpevole” del quadro di ATIN. Il principale problema clinico da affrontare in questo contesto è, sicuramente, quello della reale possibilità clinica di sospendere un trattamento farmacologico in atto e della possibile sostituibilità del farmaco responsabile del quadro di nefrite interstiziale acuta. In alcuni casi il farmaco responsabile della ATIN può essere facilmente sostituito (es. sostituzione di inibitore di pompa protonica con antiH2), in altri la scelta deve necessariamente richiedere un’attenta valutazione multidisciplinare (es. modifica di una classe di antibiotici in corso di infezioni da germi multiresistenti o sospensione della terapia con ICPI in corso di patologia neoplastica).

Il ruolo del trattamento farmacologico nella gestione dei pazienti affetti da DI-ATIN rimane, allo stato attuale, ancora dibattuto. Il razionale alla base dell’introduzione della terapia steroidea in corso di DI-ATIN risiede nei meccanismi immunopatogenetici di tipo immuno-allergico responsabili del danno renale acuto, ed è stato supportato ad alcuni iniziali studi retrospettivi che mostravano una drammatica risposta (con rapida ripresa della diuresi e recupero della funzione renale) alla terapia corticosteroidea [23, 24]. Il limite principale di questi studi risiedeva, però, nella esigua numerosità del campione di pazienti studiato. I risultati provenienti dai lavori retrospettivi pubblicati negli ultimi venti anni risultano almeno in parte discordanti tra loro, non fornendo dei risultati univoci in supporto alla terapia steroidea (Tabella 4). Come apprezzabile dalla Tabella 4 i lavori mostrano tra loro un significativo grado di eterogeneità, sia in merito alla posologia della terapia steroidea, sia in merito alla severità del danno renale acuto osservato al momento della diagnosi.

Sintesi dei principali studi retrospettivi sull’utilizzo della terapia steroidea
Tabella 4: Sintesi dei principali studi retrospettivi sull’utilizzo della terapia steroidea nel trattamento delle nefriti tubulointersitiziali acute. ATIN: nefrite tubulo-interstiziale acuta; DI-ATIN: nefrite tubulointerstiziale farmaco indotta; sCr: creatinina sierica; RRT: terapia sostitutiva della funzione renale; PRED: prednisone; MPL: metilprednisolone.

È interessante evidenziare, in primo luogo, come due lavori nei quali non si osservano degli outcomes migliori nei pazienti trattati con terapia steroidea, presentassero un significativo bias di selezione: il gruppo di pazienti che era stato sottoposto a terapia con corticosteroidi era costituito da pazienti con forme più severe di nefrite tubulointerstiziale, come evidenziato dai valori di funzionalità renale, significativamente peggiori, al momento della diagnosi [25, 26].

Un’altra casistica retrospettiva che evidenzia un’assenza di differenza negli outcomes clinici tra pazienti trattati con terapia steroidea (metilprednisolone per via endovenosa seguito da prednisone per via orale) e pazienti non sottoposti a tale terapia è quella pubblicata da Clarkson nel 2004 [3]. I pazienti analizzati mostravano una severa riduzione della funzione renale, tale da richiedere terapia sostitutiva della funzione renale nel 58% dei casi; il trattamento steroideo è stato praticato nel 60% dei casi. Il principale spunto di riflessione proveniente dall’analisi dei dati di questo lavoro risiede nella notevole latenza tra esordio clinico della nefrite interstiziale e diagnosi istologica (valore mediano di 3 settimane) al quale conseguiva una ovvia latenza tra esordio della nefrite interstiziale e inizio della terapia steroidea (iniziata entro 4 giorni dall’esecuzione della biopsia renale). L’intervallo di tempo tra esordio clinico e inizio della terapia è verosimilmente superiore al periodo necessario per l’evoluzione in fase fibrotica dell’edema interstiziale, giustificando l’assenza di benefici osservata dagli autori nei pazienti trattati con terapia steroidea. L’importanza della tempestività della diagnosi e del conseguente inizio della terapia appare evidente se si analizzano i dati provenienti dagli studi che hanno mostrato un outcome positivo nei pazienti trattati con terapia steroidea. Nella casistica pubblicata da Raza et al l’intervallo medio tra la diagnosi di danno renale acuto e l’esecuzione dell’accertamento istologico risultava pari a 3 giorni, con metà dei pazienti sottoposta a biopsia renale entro 24 ore dalla diagnosi [27]. Un chiaro supporto circa l’importanza di un precoce inizio della terapia steroidea emerge dal lavoro di Gonzalez pubblicato nel 2008: i pazienti trattati con successo con terapia steroidea mostravano una latenza tra diagnosi e inizio della terapia significativamente inferiore rispetto ai pazienti che non presentavano benefici dalla terapia (13 vs 34 giorni) [28].

L’insieme di queste evidenze a favore della terapia steroidea, unitamente al forte razionale fisiopatologico, rendono attualmente il trattamento con corticosteroidi come terapia di prima linea per la gestione delle nefriti tubulointerstiziali acute farmaco-indotte. I protocolli di terapia sono, però, estremamente eterogenei nell’ambito delle casistiche pubblicate in letteratura, elemento che si riflette anche nella scarsa omogeneità della pratica clinica. Un’importante evidenza proveniente dai dati del Gruppo Spagnolo per lo studio della Malattie Glomerulari (GLOSEN) riguarda la durata della terapia steroidea: analizzando una casistica multicentrica comprendente 182 casi di DI-ATIN trattati con terapia steroidea, gli autori hanno mostrato come la durata della terapia steroidea non fosse correlata all’outcome renale. In particolare, stratificando i pazienti in tre gruppi si evidenziava come i pazienti trattati con terapia steroidea ad alte dosi per più di tre settimane non mostrassero, dopo un follow-up di 6 mesi, valori di funzione renale migliori rispetto ai pazienti trattati con alte dosi di corticosteroide per meno di due settimane [28].

Le evidenze presenti in letteratura, già esigue e discordanti in merito all’utilizzo della terapia steroidea, assumono dei contorni quasi “aneddotici” nel momento in cui si prendono in considerazione le possibili alternative, sia per i casi resistenti alla terapia steroidea, sia per i casi di “steroido-dipendenza”. L’unico lavoro presente in letteratura è stato pubblicato da Preddie nel 2006 e descrive 8 casi di pazienti affetti da ATIN (2 DI-ATIN, 1 sarcoidosi, 1 forma associata a connettivite mista e 4 forme ad eziologia ignota) steroido-dipendente (definito come rapido peggioramento della funzione renale al tentativo di sospensione della terapia steroidea) trattati con mofetile micofenolato (MMF). Sei pazienti su otto mostravano un miglioramento della funzione renale con l’introduzione della terapia con MMF e a distanza di sei mesi cinque pazienti presentavano una persistente remissione del danno renale acuto anche dopo la sospensione del MMF [29].

Sulla base delle evidenze precedentemente esposte e sulla base dell’esperienza clinica, nel nostro Centro è stato adottato un protocollo di terapia per le nefriti tubulointerstiziali che orienta le scelte terapeutiche sulla base della severità del danno renale acuto all’esordio, dei dati istologici e della risposta all’iniziale terapia steroidea (Figura 1).

Algoritmo terapeutico per DI-ATIN
Figura 1: Algoritmo terapeutico per DI-ATIN adottato presso la SC di Nefrologia e Dialisi dell’ARNAS G. Brotzu di Cagliari. ATIN: nefrite tubulointerstiziale acuta; DI-ATIN: nefrite tubulointerstiziale farmaco indotta; AKI: danno renale acuto; RRT: terapia sostitutiva della funzione renale; PRED: prednisone; MPL: metilprednisolone; MMF: mofetile micofenolato.

Un caso particolare di DI-ATIN: inibitori dell’immunocheckpoint

La terapia con corticosteroidi rappresenta il caposaldo della gestione della nefrite tubulointerstiziale acuta associata a ICPI. In assenza di studi clinici randomizzati, tale condotta terapeutica è fortemente supportata da studi di natura retrospettiva. Un ampio studio multicentrico pubblicato da Cortazar et al nel 2020 (138 pazienti con AKI indotto da ICPI) ha evidenziato come su 119 pazienti trattati con terapia steroidea (in associazione alla sospensione della terapia con ICPI) ben 103 (87%) mostrassero un recupero parziale o completo della funzione renale [30]. Sulla base delle esperienze pubblicate in letteratura non vi sono evidenza circa la superiorità di un regime di terapia corticosteroidea: l’approccio consigliato da alcuni autori non differisce in maniera marcata da quanto descritto per le altre forme di DI-ATIN. L’utilizzo di prednisone alla dose di 1 mg/kg/die rappresenta la pratica più comune, seguito da un lento scalaggio; in casi di severa riduzione della funzione renale tale schema può essere preceduto dalla somministrazione di metilprednisolone per vie endovenosa [15]. Accanto alla terapia steroidea sono presenti in letteratura diverse segnalazioni circa l’utilizzo di altri farmaci immunosoppressori, quali MMF, rituximab e ciclofosfamide [15]. Un interessante approccio terapeutico, descritto in alcuni case reports, si fonda sul ruolo centrale dell’TNFa nei meccanismi patogenetici dell’ATIN associata a ICPI: in considerazione dall’upregulation di tale citochina nei pazienti trattati con ICPI, l’utilizzo di un farmaco anti- TNFa (infliximab) è stato descritto quale rescue-therapy in casi di nefrite tubulointerstiziale resistente alla terapia steroidea e alla terapia con MMF [31, 32].

In considerazione dell’estrema importanza della terapia con ICPI (specie in pazienti per i quali sono precluse alternative terapeutiche) nella gestione della patologia oncologica, la possibilità di sospendere definitivamente l’utilizzo di tali farmaci potrebbe comportare delle conseguenze negative sulla prognosi quoad vitam del paziente. In tale ottica, a fronte di una sospensione temporanea della terapia, appare necessario un attento ragionamento circa la possibilità di reintrodurre la terapia con ICPI una volta risoltosi l’episodio di AKI. Sebbene le Linee Guida della Società Americana di Oncologia raccomandino la sospensione definitiva della terapia in caso di AKI stadio III [33], i dati provenienti dall’ampia casistica pubblicata da Cortazaar mostrano come su 31 pazienti nei quali la terapia con ICPI è stata reintrodotta dopo un episodio di ATIN, solo sette abbiano sperimentato un nuovo episodio di AKID; tra questi sette pazienti ben sei hanno mostrato un successivo recupero completo o parziale della funzione renale [30]. Sulla base di tali evidenze la possibilità di reintrodurre la terapia con ICPI dopo in episodio di ATIN non andrebbe esclusa a priori, specie in quei pazienti per i quali tale categoria di farmaci rappresenta l’ultima risorsa efficace per il controllo della patologia oncologica.

TINU syndrome e forme idiopatiche

In analogia a quanto sopradescritto, e in considerazione dell’estrema rarità di questa condizione, non vi sono protocolli terapeutici evidence-based che possano guidare il clinico nella terapia della TINU syndrome e delle nefriti tubulointerstiziali idiopatiche. La terapia immunosopressiva di prima scelta è rappresentata dalla terapia steroidea: sulla base di piccole casistiche retrospettive, i principali schemi terapeutici utilizzati prevedono l’uso di prednisone o prednisolone al dosaggio iniziale di 1-1,5 mg/kg/die [34]. La durata della terapia e la velocità di riduzione e scalaggio del corticosteroide dipendono, principalmente, dalla rapidità e dall’entità della risposta clinica alla terapia. La mancata risposta alla terapia steroidea o la steroido-dipendenza rappresentano indicazioni per l’utilizzo di altri farmaci immunosoppressori. Le esperienze pubblicate in letteratura (piccole case series o case reports) descrivono l’utilizzo di ciclofosfamide [35], ciclosporina [36], methotrexate [37] e mofetile micofenolato [38].

 

Conclusioni

Le nefriti tubulointerstiziali acute sono un’importante causa di danno renale acuto potenzialmente suscettibile di trattamento specifico, la cui importanza epidemiologica è in aumento specie nella popolazione anziana. L’eterogeneità dei processi di immunopatogenesi è una peculiarità della nefrite tubulointerstiziale acuta, che si associa ad una estrema eterogeneità eziologica.

La DI-ATIN rappresenta la causa più frequente di nefrite interstiziale, con un ruolo importante di FANS, antibiotici e inibitori di pompa protonica. La biopsia renale rappresenta il gold standard per la diagnosi di nefrite tubulo interstiziale e fornisce informazioni fondamentali da un punto di vista diagnostico. Recenti evidenze sembrano supportare un possibile ruolo, sia diagnostico sia prognostico per alcuni biomarkers, nello specifico IL-9 e TNFa urinari.

L’utilizzo della terapia steroidea, precocemente rispetto all’esordio della nefrite tubulointerstiziale, rappresenta il principale strumento terapeutico per il trattamento dell’ATIN: le evidenze attualmente disponibili in letteratura non forniscono però delle indicazioni ben definite rispetto a posologia e durata della terapia steroidea. Maggiori informazioni in merito potrebbero essere fornite dal un trial clinico randomizzato attualmente in corso e finalizzato a confrontare terapia steroidea vs placebo nella terapia della ATIN [39].

 

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