Supplemento S80 -

Le nefriti tubulointerstiziali acute

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Definizione, epidemiologia ed eziologia

Il termine nefrite interstiziale acuta (acute interstitial nephritis, AIN) viene comunemente utilizzato per definire un pattern di danno renale caratterizzato, istopatologicamente, da infiammazione ed edema dell’interstizio renale e, clinicamente, da un quadro di danno renale acuto (acute kidney injury, AKI). Questo termine è stato utilizzato per la prima volta nel 1898 da Councilman per descrivere le alterazioni istopatologiche osservate in campioni di tessuto renale proveniente da esami autoptici di pazienti affetti da difterite e infezioni streptococciche [1]. Sebbene il termine nefrite interstiziale acuta sia quello più frequentemente utilizzato (sia nella pratica clinica sia in letteratura), il termine nefrite tubulointerstiziale acuta (acute tubulointerstitial nephritis, ATIN) fornisce una descrizione più accurata del danno istologico, sottolineando il coinvolgimento dell’interstizio renale e delle strutture tubulari.

Da un punto di vista eziopatogenetico le nefriti tubulointerstiziali rappresentano un’entità eterogenea, che pur condividendo aspetti istopatologici comuni, mostrano differenti eziologie (a partire da forme secondarie a farmaci, le cosiddette drug-induced interstitial nephritis, per arrivare a forme secondarie a patologie sistemiche autoimmuni e a forme secondarie a patologie infettive) alle quali sottendono differenti meccanismi immunopatogenetici.

Sulla base dei dati di Registro provenienti da diverse aree geografiche, l’incidenza di ATIN risulta essere compresa tra il 2 e il 5% dei casi istologici [2-4], mostrandosi sostanzialmente stabile nei vari continenti.

Un’ulteriore analisi dei dati di Registro evidenzia un’incidenza compresa tra il 13% e il 27% dei pazienti sottoposti ad accertamento istologico per danno renale acuto o insufficienza renale rapidamente evolutiva [5]. I dati provenienti dal Registro spagnolo delle biopsie renali e pubblicati da Goicochea et al. nel 2013 hanno mostrato un significativo aumento della prevalenza di ATIN istologicamente diagnosticata nel periodo 1994-2009, con passaggio dal 3,6% al 10,5% delle biopsie renali eseguite. Questo trend risultava ancor più significativo nei soggetti di età > 65 anni, nei quali, nel periodo di tempo sopra descritto, la prevalenza di ATIN istologicamente determinata passava da 1,6% a 12,6% [5]. Le motivazioni alla base di tale andamento non sono di univoca interpretazione, ma verosimilmente due fattori sono i maggiori responsabili di tale trend: in primo luogo la modifica delle politiche dei singoli Centri che ha portato ad estendere l’indicazione all’esecuzione di agobiopsia renale anche in quei pazienti più anziani e fragili, in secondo luogo il significativo incremento dell’utilizzo di farmaci antiinfiamamtori non steroidei (FANS) e antibiotici con un conseguente reale incremento delle forme secondarie a farmaci (drug-induced interstitial nephritis , DI-ATIN).

La reale incidenza di ATIN è, però, probabilmente superiore rispetto a quanto sopradescritto. Nella pratica clinica quotidiana un numero non trascurabile di casi di AKI non viene sottoposto ad accertamento istologico e viene clinicamente classificato come danno tubulare acuto (acute tubular injury, ATI): verosimilmente una quantità significativa di questi casi è imputabile ad ATIN non istologicamente diagnosticate e clinicamente misconosciute. La mancata diagnosi di queste forme di ATIN ha delle chiare implicazioni clinico-prognostiche, poiché il mancato riconoscimento e trattamento favorisce la cronicizzazione dei processi di danno renale risultando in fibrosi interstiziale, atrofia tubulare e, in ultima analisi, perdita della funzione renale. La correlazione tra ATIN e malattia renale cronica (chronic kidney disease, CKD) è ben descritta in letteratura. Una riduzione permanente della funzione renale si osserva nel 40-60% dei pazienti in seguito ad un episodio di ATIN, con circa il 2% dei casi di CKD (prevalenza mondiale pari a 10 milioni di casi) che risulta essere secondario a ATIN; l’evoluzione verso una condizione di insufficienza renale terminale (end-stage renal disease, ESRD) non è un’eventualità remota, considerando che il 3-4% dei pazienti incidenti in dialisi presenta come causa primaria della sua nefropatia una condizione di ATIN [6]. Dai dati epidemiologici sopraesposti appare evidente l’importanza di una diagnosi precoce di ATIN, poiché questa condizione risulta essere una delle poche cause di danno renale acuto per le quali, a fronte di una identificazione tempestiva, siano disponibili opzioni terapeutiche in grado di modificare la prognosi renale del paziente.

Da un punto di vista eziologico, le cause di ATIN possono essere classificate in 4 grandi gruppi (Tabella 1),  la cui incidenza e prevalenza varia sensibilmente in casistiche provenienti da diverse aree geografiche: forme farmaco-indotte (DI-ATIN), forme infettive, forme idiopatiche (comprendenti la sindrome nefrite tubulointerstiziale-uveite, TINU-syndrome, e la malattia da anticorpi anti-membrana basale tubulare, anti-TBM disease) e forme associate a patologie sistemiche (sarcoidosi, sindrome di Sjogren, lupus eritematoso sistemico, IgG4-related disease).

Tabella 1: Cause di nefrite tubulointerstiziale acuta.
Tabella 1: Cause di nefrite tubulointerstiziale acuta.

Come evidenziato nella Tabella 2, la DI-ATIN è di gran lunga la più frequente forma di ATIN in Europa e Nord America, dove rappresenta oltre il 70% dei casi diagnosticati, seguita dalle forme associate a malattie sistemiche. Le casistiche provenienti da Africa ed alcune regioni dell’Asia (prevalentemente India e Pakistan), accanto ad una prevalenza di DI-ATIN pari al 50%, mostrano un’elevata prevalenza di forme infettive (40-50% dei casi) riconducibili principalmente infezioni da micobatterio tubercolare.

Tabella 2: Prevalenza ed eziologia della nefrite tubulointerstiziale acuta.
Tabella 2: Prevalenza ed eziologia della nefrite tubulointerstiziale acuta.

Nell’ambito della DI-ATIN il panorama di farmaci associati a tale entità è estremamente ampio e in continua evoluzione: oltre 250 farmaci sono stati associati a DI-ATIN e, virtualmente, ogni farmaco può essere responsabile di tale condizione. Storicamente le due classi di farmaci principalmente associati a tale entità clinica sono stati i farmaci antibiotici e i farmaci antiinfiammatori non steroidei (FANS) [7]. I dati di letteratura più recenti mostrano una parziale variazione delle cause di DI-ATIN: pur persistendo l’importante ruolo di antibiotici (con una riconosciuta e crescente importanza delle forme di DI-ATIN secondarie all’uso di chinolonici) e FANS, un’enfasi crescente è stata posta sugli inibitori di pompa protonica (PPIs), una classe di farmaci il cui utilizzo è estremamente diffuso anche al di fuori delle indicazioni specialistiche e che in alcune casistiche è riconosciuta quale causa del 35% delle DI-ATIN osservate [8]. Come rappresentato in Tabella 3, una delle principali sfide per il clinico risiede nell’inquadramento eziologico di quelle forme DI-ATIN insorte nel contesto di terapie polifarmacologiche, nelle quali individuare il singolo farmaco responsabile del quadro clinico renale può addirittura risultare impossibile. Nella più recente casistica pubblicata da Caravaca-Fontan et al su 205 casi istologicamente accertati di ATIN, l’eziologia risultava ignota nel 31% dei casi, mentre nel 17% delle forme definite come drug-induced l’anamnesi farmacologica rivelava molteplici farmaci quali potenziali responsabili della nefrite interstiziale [9]. Nello stesso lavoro gli autori pongono un’importante enfasi sulla difficoltà nel porre diagnosi eziologica in corso di ATIN: la valutazione di 22 casi di ATIN ricorrente mostrava come in ben 10 pazienti una rivalutazione conseguente alla recidiva di ATIN permettesse di modificare la diagnosi eziologica posta in occasione del primo episodio, determinando in tutti e dieci i casi una modifica della condotta terapeutica inizialmente adottata [9].

Recentemente, un’importanza crescente è stata riconosciuta alla classe di farmaci immunoterapici rappresentata dagli inibitori dell’immuno-checkpoint (immune checkpoint inhibitors, ICPI). Questi farmaci, utilizzati in ambito oncologico per il trattamento di numerosi tumori solidi, sono stati associati, con meccanismi immunopatogenetici peculiari e correlati allo stesso meccanismo d’azione sfruttato per il loro effetto terapeutico, alla comparsa di nefriti tubulointerstiziali acute. Un pronto riconoscimento di tale evento avverso e una sua corretta gestione clinico terapeutica rappresenta un’importante sfida per il clinico, specie in relazione all’importanza dell’utilizzo degli ICI in ambito oncologico.

Tabella 3: Cause di nefrite tubulointerstiziale da farmaci.
Tabella 3: Cause di nefrite tubulointerstiziale da farmaci.

 

Patogenesi

La formazione di un infiltrato infiammatorio tubulointerstiziale, che rappresenta l’elemento istopatologico caratteristico in corso di ATIN, può essere il risultato di differenti meccanismi immunopatogenetici che sottendono differenti processi eziologici.

Gli studi su modelli sperimentali di ATIN hanno mostrato l’esistenza di differenti meccanismi patogenetici, con un coinvolgimento sia dell’immunità cellulo-mediata, sia dell’immunità umorale. Gli antigeni che possono indurre l’attivazione della risposta immunitaria sono classificabili in tre grandi gruppi: antigeni costitutivi della membrana basale tubulare (come per esempio le glicoproteine 3M-1 e TIN-Ag/TIN1), proteine secrete nel lume tubulare (es. proteina di Tamm-Horsfall) e proteine non espresse costitutivamente nel tessuto renale (antigeni non self “impiantati” a livello renale, antigeni circolanti che si depositano in sede renale sotto forma di immunocomplessi).

Il meccanismo immunopatogenetico più frequentemente implicato nella patogenesi delle ATIN vede un ruolo centrale da parte dell’attivazione dell’immunità cellulo-mediata, come suggerito dalla prevalenza T-linfocitaria nell’infiltrato infiammatorio interstiziale. Questo meccanismo patogenetico è alla base della maggior parte delle forme di DI-ATIN, nonché di alcune forme di ATIN su base autoimmune, quali quelle osservate in corso di sarcoidosi e TINU syndrome. In maniera schematica è possibile riconoscere 3 fondamentali fasi in questo processo patogenetico:

  1. fase di riconoscimento e presentazione dell’antigene
  2. fase integrativa o regolatoria
  3. fase effettrice

L’elemento iniziale del processo patogenetico è la presentazione dell’antigene (sia esso un aptene farmacologico, un antigene-self o un antigene batterico) da parte delle cellule dell’epitelio tubulare o delle cellule interstiziali peritubulari con la conseguente attivazione delle cellule dendritiche. Queste ultime sono dei monociti residenti che assolvono un ruolo di “sentinelle immunologiche”: in condizioni di quiescenza questi elementi cellulari entrano in contatto con la superficie basolaterale delle cellule epiteliali tubulari [10]. L’attivazione delle cellule dendritiche determina l’esposizione, sulla loro superficie cellulare, di peptidi antigenici legati a molecole del complesso maggiore di istocompatibilità di classe II: una volta attivate, le cellule dendritiche migrano attraverso i linfatici renali fino a raggiungere le stazioni linfonodali dove l’antigene viene presentato alle T cellule naive [11]. Contestualmente i macrofagi residenti dell’interstizio renale vengono attivati contribuendo all’infiammazione interstiziale che viene ulteriormente amplificata dal reclutamento di granulociti neutrofili ed eosinofili. Questa fase iniziale è seguita dalle due successive fasi (integrativa ed effettrice), nelle quale il cross-talk tra cellule dell’infiltrato infiammatorio e parenchima renale (sostenuto principalmente dall’azione paracrina delle citochine proinfiammatorie prodotte dai linfociti T attivati) determina il decorso e la severità del danno renale. I macrofagi attivati sono responsabili del rilascio di collagenasi ed elastasi che determinano un’amplificazione del danno tissutale avviato dall’attivazione T linfocitaria: contestualmente l’attivazione dei neutrofili promuove la comparsa della tubulite mentre l’attivazione fibroblastica è alla base dell’evoluzione fibrotica dell’edema interstiziale. L’intensità della fase “effettrice” è strettamente correlata alla durata dell’esposizione allo stimolo (farmacologico, infettivo, autoimmune) che promuove l’infiammazione: il riconoscimento tempestivo e il rapido avvio dei necessari provvedimenti terapeutici è alla base della possibilità di prevenire l’evoluzione verso un danno renale irreversibile rappresentato dall’evoluzione fibrotica [12].

I meccanismi immunopatogenetici basati su un’attivazione preminente dell’immunità anticorpo-mediata sono raramente i principali responsabili dell’insorgenza di ATIN, sebbene in alcuni specifici contesti siano stati descritti due distinti meccanismi:

  1. formazione di complessi antigene-anticorpo in situ. Tale meccanismo è coinvolto nella patogenesi di alcune forme di ATIN idiopatiche il cui esempio principale è rappresentato dalla malattia da anticorpi anti-membrana basale tubulare, caratterizzata dalla presenza di anticorpi diretti contro una proteina non-collagenica della membrana basale tubulare (TIN-Ag/TIN1) [13]. Alcune forme di DI-ATIN sembrerebbero riconoscere un meccanismo analogo, attraverso la produzione di anticorpi diretti contro apteni farmacologici impiantati sulla membrana basale tubulare: questo processo immunopatogenetico è stato descritto in corso di DI-ATIN associata a meticillina [14];
  2. deposizione di immunocomplessi a livello della membrana basale tubulare. Questo meccanismo patogenetico è stato descritto pressoché esclusivamente nelle forme di ATIN che “accompagnano” glomerulonefriti da immunocomplessi. Un esempio di tale condizione è costituito dall’infiltrato infiammatori interstiziale che si osserva in circa il 70% dei casi di nefrite lupica, come evidenziato dal riscontro della deposizione di immunocomplessi lungo la membrana basale tubulare.

Un peculiare meccanismo patogenetico è quella associato all’ATIN secondaria a farmaci inibitori dell’immunocheck-point (ICPI), una classe di anticorpi monoclonali ampiamente utilizzata per il trattamento di numerose patologie oncologiche. Il loro meccanismo d’azione si basa sull’inibizione di alcuni recettori espressi sulla superficie dei T linfociti quali cytotoxic T lymphocyte–associated protein 4 (CTLA-4), programmed cell death protein 1 (PD-1), and PD-ligand 1 (PD-L1). L’inibizione di tali recettori, coinvolti nella down-regulation dell’attività dei linfociti T determina una persistente attivazione T linfocitaria, con conseguente esaltazione dell’attività antitumorale. L’ipotesi patogenetica principale per l’ATIN secondaria a ICPI, prevede un ruolo fondamentale dell’inibizione di molecole quali PD-1 e CTLA-4 che favorirebbe l’espansione e l’attivazione di cloni T linfocitari autoreattivi diretti contro specifici antigeni tissutali dell’interstizio renale. Un’altra ipotesi patogenetica prevede che l’azione dei ICPI favorisca l’attivazione e perdita di tolleranza da parte dei linfociti T già oggetto di priming innescato da altri farmaci: questa ipotesi sarebbe supportata dall’evidenza che la maggior parte dei casi di ATIN associata a ICPI sia osservata in pazienti che assumono altri farmaci noti per essere associati all’insorgenza di DI-ATIN, quali inibitori di pompa protonica o antibiotici beta-lattamici [15].

 

Clinica, istopatologia e diagnosi

La sindrome clinica nefrologica che rappresenta la manifestazione clinica dell’ATIN è rappresentata dal danno renale acuto (AKI). I dati provenienti dalle più numerose casistiche mostrano come nella totalità dei casi i pazienti affetti da ATIN esordiscano con un quadro di danno renale acuto, generalmente non oligurico, con una necessità di terapia sostitutiva della funzione renale riportata fino al 40% dei casi [3, 16]. La triade clinica descritta in associazione con la nefrite interstiziale acuta, espressione di reazioni di tipo immunoallergico e rappresentata da febbre, rash cutaneo ed eosinofilia, è stata storicamente ritenuta essere un elemento patognomonico per la diagnosi di nefrite interstiziale nelle prime case series pubblicate in letteratura. I dati più recenti evidenziano, però, come tale triade sia presente in meno del 10% dei casi di ATIN [7] e l’incidenza di ciascuno dei tre elementi che la compongono sia relativamente bassa: la febbre è stata osservata nel 19-36% dei casi, il rash nel 8-22% e l’eosinofilia nel 26-35% [3, 9]. Da una risanima di questi dati, appare evidente come la diagnosi di nefrite interstiziale richieda un elevato sospetto clinico e rappresenti una sfida per il clinico, data l’assenza, in un’elevata percentuale di casi, di segni clinici specifici che possano orientare fortemente verso tale diagnosi. La più frequente presentazione clinica dell’ATIN è rappresentata da un danno renale acuto associato a reperti urinari indicativi di danno tubulare (o comunque aspecifici) quali leucocituria (75-82%), proteinuria tubulare (93%), microematuria (53-67%), basso peso specifico urinario e glicosuria. Tali reperti clinico-laboratoristici, per quanto aspecifici, possono immediatamente orientare verso un sospetto clinico di ATIN nel caso in cui il contesto clinico sia fortemente suggestivo: pazienti in terapia con ICPI, concomitante presenza di uveite anteriore (suggestiva di TINU syndrome), diagnosi nota di patologie sistemiche associate a nefrite interstiziale (es. sindrome di Sjogren, sarcoidosi) o presenza di elementi clinici indicativi delle suddette patologie sistemiche (es. sindrome sicca, positività anticorpi anti-SSA e anti-SSB, reperti radiologici suggestivi di sarcoidosi). Nei restanti casi, la diagnosi di ATIN pone dei chiari problemi di diagnosi differenziale con altre cause di AKI, prima tra tutte la necrosi tubulare acuta (acute tubular necrosis, ATN), con la quale condivide i reperti laboratoristici indicativi di danno tubulare. Nell’ottica di una corretta diagnosi differenziale, storicamente, sono stati proposti diversi potenziali markers laboratoristici e strumentali, nessuno dei quali ha però mostrato sensibilità e specificità adeguate.

Muriithi et al hanno analizzato i casi di 566 pazienti sottoposti a biopsia renale presso la Mayo Clinic, per i quali erano disponibili i dati relativi alla presenza di eosinofiluria al momento della biopsia renale: l’eosinofiluria è stata osservata in un numero estremamente ampio di condizioni. 91 pazienti presentavano una diagnosi istologica di ATIN, nell’80% dei casi definita come DI-ATIN.  L’utilizzo di una definizione di eosinofiluria basata su una quantità di eosinofili al sedimento urinario > 1% dei leucociti osservati, permetteva di individuare il 31% dei casi di ATIN: contestualmente il 29% dei casi di ATN mostrava valori di eosinofili urinari > 1%. La sensibilità e la specificità di valori di eosinofili urinari > 1% per la diagnosi di ATIN sono risultate pari, rispettivamente al 30% e al 68%. Anche utilizzando un cut-off del 5%, l’eosinofiluria non ha permesso di discriminare in maniera ottimale tra ATIN e ATN [17].

Contestualmente i dati riguardanti i test di imaging mostrano come ecografia, TC, PET e scintigrafia con gallio siano anch’essi strumenti diagnostici subottimali per la diagnosi di ATIN. In un’analisi retrospettiva condotta su 76 pazienti (23 dei quali presentavano un sospetto clinico di ATIN) l’utilizzo della scintigrafia renale con Ga67 mostrava un AUC di 0,75; in realtà soltanto 20 pazienti erano stati sottoposti a biopsia renale per confermare il quadro di ATIN e, oltretutto, i risultati della scintigrafia con Ga67 erano noti ai clinici responsabili della diagnosi clinica di ATIN [18].

Sulla base di tali dati appare evidente che il gold standard per la diagnosi di ATIN risulta essere ancora oggi la biopsia renale. I reperti istologici che definiscono l’ATIN sono rappresentati dall’infiltrato infiammatorio in sede interstiziale, dall’edema interstiziale e dalla tubulite. L’infiltrato infiammatorio presenta, tipicamente, una predominanza di linfociti e monociti, con quote meno rappresentative di eosinofili, plasmacellule, neutrofili e istiociti. La tipizzazione dell’infiltrato infiammatorio può essere un elemento utile nella definizione della diagnosi eziologica dell’ATIN: una predominanza di eosinofili risulta essere tipicamente associata a DI-ATIN, una prevalenza di neutrofili è maggiormente indicativa di forme infettive ad eziologia batterica, mentre un infiltrato con preponderanza di plasmacellule IgG4 positive è suggestivo di ATIN in corso di IgG4-related disease.

La presenza di infiltrato infiammatorio organizzato in lesioni di tipo granulomatoso definisce le nefriti tubulo-interstiziali granulomatose; tipicamente tali lesioni sono state associate ad interessamento renale in corso di patologie granulomatose di natura infettiva (infezione tubercolare) o autoimmune (sarcoidosi). Una recente revisione della letteratura pubblicata da Janssen et al ha raggruppato 186 casi di nefrite tubulointerstiziale ad impronta granulomatosa: la sarcoidosi renale risultava la causa più frequente (31% dei casi), però una quota significativa di pazienti presentava un quadro di DI-ATIN (22% dei casi) o forme idiopatiche (18% dei casi). La presenza di un’impronta granulomatosa non risulta, quindi, patognomonica per sarcoidosi o forme infettive da micobatterio tubercolare ed impone una completa diagnosi differenziale con tutte le altre potenziali cause di ATIN [19].

La tubulite è definita dalla presenza di cellule infiammatorie (tipicamente linfociti) nel contesto dell’epitelio tubulare: tale lesione rappresenta l’estensione oltre la membrana basale tubulare del processo infiammatorio che interessa l’interstizio renale. La tubulite si accompagna tipicamente ad alterazioni di tipo degenerativo, quali ectasia del lume tubulare, perdita dell’orletto a spazzola e semplificazione citoplasmatica delle cellule dell’epitelio tubulare. Il processo infiammatorio che caratterizza le fasi iniziali dell’ATIN si associa all’edema interstiziale: tale lesione, in assenza di interruzione dei processi patogenetici alla base del danno tubulointerstiziale, evolve verso l’atrofia tubulare e la fibrosi interstiziale, con inziali segni di fibrosi visibili già a distanza di 7-10 giorni dall’inizio del processo infiammatorio. In corso di ATIN i glomeruli e le strutture vascolari non sono interessati da processi patologici, pur potendo presentare alterazioni riconducibili alle comorbidità del paziente (es. ipertensione arteriosa, diabete). L’immunofluorescenza è tipicamente negativa nella maggioranza dei casi di ATIN, sebbene depositi lineari o granulari di IgG (con o senza complemento) possono essere osservati lungo la membrana basale tubulare.  La presenza di depositi di IgG localizzati lungo la membrana basale tubulare, con aspetto lineare e omogeno è suggestiva di nefrite da anticorpi anti-membrana basale tubulare, sebbene alcune forme di DI-ATIN (storicamente quelle associate a meticillina) possano evidenziare degli analoghi reperti all’immunofluorescenza. La microscopia elettronica non mostra delle lesioni specifiche; nei casi di ATIN secondaria a FANS associati a sindrome nefrosica il tipico reperto è quello di una diffusa fusione dei pedicelli podocitari.

L’importanza della biopsia renale non è limitata al suo ruolo diagnostico. Recenti evidenze pubblicate in letteratura mostrano una correlazione tra aspetti istologici e prognosi in corso di ATIN. Un recente lavoro retrospettivo pubblicato da Rankin et al ha mostrato una correlazione tra entità dell’atrofia tubulare, entità dell’infiltrato infiammatorio in aree non fibrotiche e outcomes clinici. Nello specifico, l’entità dell’atrofia tubulare risultava essere inversamente correlata al raggiungimento di un outcome clinico positivo (riduzione della creatininemia del 50% rispetto al valore d’esordio e raggiungimento di valori di eGFR > 60 ml/min) mentre l’entità dell’infiltrato infiammatorio in aree di interstizio non fibrotico risultava mostrare una correlazione diretta. I due parametri sono stati inclusi in un sistema di score (TANFI score) che ha mostrato una correlazione con gli outcome sopracitati: quando l’analisi è stata limitata ai pazienti trattati con terapia steroidea la correlazione è stata confermata, supportando l’utilizzo del TANFI score quale utile strumento per individuare i pazienti che possano trarre maggior beneficio dalla terapia steroidea [20].

Sebbene dalle evidenze sopracitate appaia chiaro come, allo stato attuale, la diagnosi di nefrite tubulointerstiziale acuta debba passare necessariamente attraverso la conferma istologica di un sospetto clinico, alcune recenti evidenze supportano la possibilità di ottenere, nel prossimo futuro, dei biomarkers in grado di supportare una diagnosi clinica di ATIN. Moledina et al in uno studio prospettico pubblicato nel 2019 hanno mostrato come i livelli urinari di interleuchina-9 (IL-9) e tumor necrosis factor-alfa (TNFa) fossero significativamente più elevati nei pazienti con diagnosi istologica di ATIN rispetto a pazienti che presentavano un quadro di AKI con differente diagnosi istologica (nefropatia diabetica, ATN, glomerulopatie) [21]. Un più recente lavoro, pubblicato dal medesimo gruppo, ha posto in relazione i livelli urinari di IL-9 e gli outcomes clinici dei pazienti con diagnosi istologica di ATIN [22]. I livelli sierici di IL-9 sono risultati essere inversamente correlati con il valore di eGFR a sei mesi dalla diagnosi nei pazienti non sottoposti a terapia steroidea. Nel gruppo di pazienti sottoposti a terapia steroidea, il valore di eGFR a sei mesi mostrava, invece, una correlazione diretta con i livelli urinari di IL-9. Sulla base di tali risultati i livelli urinari di IL-9 (citochina espressa dal pathway di attivazione Th9 dei linfociti CD4+) appaiono essere, in associazione con i livelli di TNFa, promettenti biomarkers per la diagnosi di ATIN; al tempo stesso i livelli urinari di IL-9 sembrerebbero correlati in maniera diretta con l’entità del processo infiammatorio a livello interstiziale e tubulare, permettendo di identificare i pazienti che necessitino dell’utilizzo di terapia steroidea.

 

Terapia

La gestione terapeutica dei pazienti con ATIN rappresenta una sfida per il clinico, in quanto le evidenze attualmente disponibili in letteratura si basano esclusivamente su studi di natura retrospettiva, estremamente eterogenei nel loro disegno e nei loro risultati. Sulla base di tali presupposti non è possibile usufruire di Linee Guida evidence-based che possano aiutare il clinico nella pratica quotidiana.

Nel corso di questa trattazione ci soffermeremo esclusivamente sulla terapia delle forme di ATIN farmaco-indotte e sulle forme idiopatiche (compresa la TINU syndrome), rimandando la trattazione della terapia delle forme secondarie alle numerose fonti presenti in Letteratura.

DI-ATIN

L’estrema variabilità dei dati presenti in letteratura circa la gestione terapeutica delle forme farmaco-indotte di ATIN rappresenta il principale ostacolo alla compilazione di Linee Guida evidence-based ed è l’elemento alla base dell’ampia eterogeneità nella pratica clinica quotidiana.

L’unico chiaro caposaldo della terapia della DI-ATIN è rappresentato dalla sospensione del farmaco considerato responsabile, con l’obiettivo di rimuovere il trigger scatenante la reazione immunomediata alla base del danno renale. Sebbene tale indicazione possa sembrare ovvia, la sua messa in pratica può rappresentare un vero e proprio rompicapo per il clinico per diversi ordini di motivi. In primo luogo l’individuazione del farmaco responsabile può essere particolarmente difficile in contesti di pazienti trattati con una terapia polifarmacologica (specie se più farmaci sono stati inseriti in terapia contemporaneamente) e nei casi in cui i pazienti facciano abbondante ricorso ad “automedicazione” con prodotti da banco. In tali condizioni appare razionale procedere all’eliminazione progressiva di tutti i farmaci assunti dal paziente, partendo da quello che per le sue caratteristiche appare essere come il più verosimile “colpevole” del quadro di ATIN. Il principale problema clinico da affrontare in questo contesto è, sicuramente, quello della reale possibilità clinica di sospendere un trattamento farmacologico in atto e della possibile sostituibilità del farmaco responsabile del quadro di nefrite interstiziale acuta. In alcuni casi il farmaco responsabile della ATIN può essere facilmente sostituito (es. sostituzione di inibitore di pompa protonica con antiH2), in altri la scelta deve necessariamente richiedere un’attenta valutazione multidisciplinare (es. modifica di una classe di antibiotici in corso di infezioni da germi multiresistenti o sospensione della terapia con ICPI in corso di patologia neoplastica).

Il ruolo del trattamento farmacologico nella gestione dei pazienti affetti da DI-ATIN rimane, allo stato attuale, ancora dibattuto. Il razionale alla base dell’introduzione della terapia steroidea in corso di DI-ATIN risiede nei meccanismi immunopatogenetici di tipo immuno-allergico responsabili del danno renale acuto, ed è stato supportato ad alcuni iniziali studi retrospettivi che mostravano una drammatica risposta (con rapida ripresa della diuresi e recupero della funzione renale) alla terapia corticosteroidea [23, 24]. Il limite principale di questi studi risiedeva, però, nella esigua numerosità del campione di pazienti studiato. I risultati provenienti dai lavori retrospettivi pubblicati negli ultimi venti anni risultano almeno in parte discordanti tra loro, non fornendo dei risultati univoci in supporto alla terapia steroidea (Tabella 4). Come apprezzabile dalla Tabella 4 i lavori mostrano tra loro un significativo grado di eterogeneità, sia in merito alla posologia della terapia steroidea, sia in merito alla severità del danno renale acuto osservato al momento della diagnosi.

Sintesi dei principali studi retrospettivi sull’utilizzo della terapia steroidea
Tabella 4: Sintesi dei principali studi retrospettivi sull’utilizzo della terapia steroidea nel trattamento delle nefriti tubulointersitiziali acute. ATIN: nefrite tubulo-interstiziale acuta; DI-ATIN: nefrite tubulointerstiziale farmaco indotta; sCr: creatinina sierica; RRT: terapia sostitutiva della funzione renale; PRED: prednisone; MPL: metilprednisolone.

È interessante evidenziare, in primo luogo, come due lavori nei quali non si osservano degli outcomes migliori nei pazienti trattati con terapia steroidea, presentassero un significativo bias di selezione: il gruppo di pazienti che era stato sottoposto a terapia con corticosteroidi era costituito da pazienti con forme più severe di nefrite tubulointerstiziale, come evidenziato dai valori di funzionalità renale, significativamente peggiori, al momento della diagnosi [25, 26].

Un’altra casistica retrospettiva che evidenzia un’assenza di differenza negli outcomes clinici tra pazienti trattati con terapia steroidea (metilprednisolone per via endovenosa seguito da prednisone per via orale) e pazienti non sottoposti a tale terapia è quella pubblicata da Clarkson nel 2004 [3]. I pazienti analizzati mostravano una severa riduzione della funzione renale, tale da richiedere terapia sostitutiva della funzione renale nel 58% dei casi; il trattamento steroideo è stato praticato nel 60% dei casi. Il principale spunto di riflessione proveniente dall’analisi dei dati di questo lavoro risiede nella notevole latenza tra esordio clinico della nefrite interstiziale e diagnosi istologica (valore mediano di 3 settimane) al quale conseguiva una ovvia latenza tra esordio della nefrite interstiziale e inizio della terapia steroidea (iniziata entro 4 giorni dall’esecuzione della biopsia renale). L’intervallo di tempo tra esordio clinico e inizio della terapia è verosimilmente superiore al periodo necessario per l’evoluzione in fase fibrotica dell’edema interstiziale, giustificando l’assenza di benefici osservata dagli autori nei pazienti trattati con terapia steroidea. L’importanza della tempestività della diagnosi e del conseguente inizio della terapia appare evidente se si analizzano i dati provenienti dagli studi che hanno mostrato un outcome positivo nei pazienti trattati con terapia steroidea. Nella casistica pubblicata da Raza et al l’intervallo medio tra la diagnosi di danno renale acuto e l’esecuzione dell’accertamento istologico risultava pari a 3 giorni, con metà dei pazienti sottoposta a biopsia renale entro 24 ore dalla diagnosi [27]. Un chiaro supporto circa l’importanza di un precoce inizio della terapia steroidea emerge dal lavoro di Gonzalez pubblicato nel 2008: i pazienti trattati con successo con terapia steroidea mostravano una latenza tra diagnosi e inizio della terapia significativamente inferiore rispetto ai pazienti che non presentavano benefici dalla terapia (13 vs 34 giorni) [28].

L’insieme di queste evidenze a favore della terapia steroidea, unitamente al forte razionale fisiopatologico, rendono attualmente il trattamento con corticosteroidi come terapia di prima linea per la gestione delle nefriti tubulointerstiziali acute farmaco-indotte. I protocolli di terapia sono, però, estremamente eterogenei nell’ambito delle casistiche pubblicate in letteratura, elemento che si riflette anche nella scarsa omogeneità della pratica clinica. Un’importante evidenza proveniente dai dati del Gruppo Spagnolo per lo studio della Malattie Glomerulari (GLOSEN) riguarda la durata della terapia steroidea: analizzando una casistica multicentrica comprendente 182 casi di DI-ATIN trattati con terapia steroidea, gli autori hanno mostrato come la durata della terapia steroidea non fosse correlata all’outcome renale. In particolare, stratificando i pazienti in tre gruppi si evidenziava come i pazienti trattati con terapia steroidea ad alte dosi per più di tre settimane non mostrassero, dopo un follow-up di 6 mesi, valori di funzione renale migliori rispetto ai pazienti trattati con alte dosi di corticosteroide per meno di due settimane [28].

Le evidenze presenti in letteratura, già esigue e discordanti in merito all’utilizzo della terapia steroidea, assumono dei contorni quasi “aneddotici” nel momento in cui si prendono in considerazione le possibili alternative, sia per i casi resistenti alla terapia steroidea, sia per i casi di “steroido-dipendenza”. L’unico lavoro presente in letteratura è stato pubblicato da Preddie nel 2006 e descrive 8 casi di pazienti affetti da ATIN (2 DI-ATIN, 1 sarcoidosi, 1 forma associata a connettivite mista e 4 forme ad eziologia ignota) steroido-dipendente (definito come rapido peggioramento della funzione renale al tentativo di sospensione della terapia steroidea) trattati con mofetile micofenolato (MMF). Sei pazienti su otto mostravano un miglioramento della funzione renale con l’introduzione della terapia con MMF e a distanza di sei mesi cinque pazienti presentavano una persistente remissione del danno renale acuto anche dopo la sospensione del MMF [29].

Sulla base delle evidenze precedentemente esposte e sulla base dell’esperienza clinica, nel nostro Centro è stato adottato un protocollo di terapia per le nefriti tubulointerstiziali che orienta le scelte terapeutiche sulla base della severità del danno renale acuto all’esordio, dei dati istologici e della risposta all’iniziale terapia steroidea (Figura 1).

Algoritmo terapeutico per DI-ATIN
Figura 1: Algoritmo terapeutico per DI-ATIN adottato presso la SC di Nefrologia e Dialisi dell’ARNAS G. Brotzu di Cagliari. ATIN: nefrite tubulointerstiziale acuta; DI-ATIN: nefrite tubulointerstiziale farmaco indotta; AKI: danno renale acuto; RRT: terapia sostitutiva della funzione renale; PRED: prednisone; MPL: metilprednisolone; MMF: mofetile micofenolato.

Un caso particolare di DI-ATIN: inibitori dell’immunocheckpoint

La terapia con corticosteroidi rappresenta il caposaldo della gestione della nefrite tubulointerstiziale acuta associata a ICPI. In assenza di studi clinici randomizzati, tale condotta terapeutica è fortemente supportata da studi di natura retrospettiva. Un ampio studio multicentrico pubblicato da Cortazar et al nel 2020 (138 pazienti con AKI indotto da ICPI) ha evidenziato come su 119 pazienti trattati con terapia steroidea (in associazione alla sospensione della terapia con ICPI) ben 103 (87%) mostrassero un recupero parziale o completo della funzione renale [30]. Sulla base delle esperienze pubblicate in letteratura non vi sono evidenza circa la superiorità di un regime di terapia corticosteroidea: l’approccio consigliato da alcuni autori non differisce in maniera marcata da quanto descritto per le altre forme di DI-ATIN. L’utilizzo di prednisone alla dose di 1 mg/kg/die rappresenta la pratica più comune, seguito da un lento scalaggio; in casi di severa riduzione della funzione renale tale schema può essere preceduto dalla somministrazione di metilprednisolone per vie endovenosa [15]. Accanto alla terapia steroidea sono presenti in letteratura diverse segnalazioni circa l’utilizzo di altri farmaci immunosoppressori, quali MMF, rituximab e ciclofosfamide [15]. Un interessante approccio terapeutico, descritto in alcuni case reports, si fonda sul ruolo centrale dell’TNFa nei meccanismi patogenetici dell’ATIN associata a ICPI: in considerazione dall’upregulation di tale citochina nei pazienti trattati con ICPI, l’utilizzo di un farmaco anti- TNFa (infliximab) è stato descritto quale rescue-therapy in casi di nefrite tubulointerstiziale resistente alla terapia steroidea e alla terapia con MMF [31, 32].

In considerazione dell’estrema importanza della terapia con ICPI (specie in pazienti per i quali sono precluse alternative terapeutiche) nella gestione della patologia oncologica, la possibilità di sospendere definitivamente l’utilizzo di tali farmaci potrebbe comportare delle conseguenze negative sulla prognosi quoad vitam del paziente. In tale ottica, a fronte di una sospensione temporanea della terapia, appare necessario un attento ragionamento circa la possibilità di reintrodurre la terapia con ICPI una volta risoltosi l’episodio di AKI. Sebbene le Linee Guida della Società Americana di Oncologia raccomandino la sospensione definitiva della terapia in caso di AKI stadio III [33], i dati provenienti dall’ampia casistica pubblicata da Cortazaar mostrano come su 31 pazienti nei quali la terapia con ICPI è stata reintrodotta dopo un episodio di ATIN, solo sette abbiano sperimentato un nuovo episodio di AKID; tra questi sette pazienti ben sei hanno mostrato un successivo recupero completo o parziale della funzione renale [30]. Sulla base di tali evidenze la possibilità di reintrodurre la terapia con ICPI dopo in episodio di ATIN non andrebbe esclusa a priori, specie in quei pazienti per i quali tale categoria di farmaci rappresenta l’ultima risorsa efficace per il controllo della patologia oncologica.

TINU syndrome e forme idiopatiche

In analogia a quanto sopradescritto, e in considerazione dell’estrema rarità di questa condizione, non vi sono protocolli terapeutici evidence-based che possano guidare il clinico nella terapia della TINU syndrome e delle nefriti tubulointerstiziali idiopatiche. La terapia immunosopressiva di prima scelta è rappresentata dalla terapia steroidea: sulla base di piccole casistiche retrospettive, i principali schemi terapeutici utilizzati prevedono l’uso di prednisone o prednisolone al dosaggio iniziale di 1-1,5 mg/kg/die [34]. La durata della terapia e la velocità di riduzione e scalaggio del corticosteroide dipendono, principalmente, dalla rapidità e dall’entità della risposta clinica alla terapia. La mancata risposta alla terapia steroidea o la steroido-dipendenza rappresentano indicazioni per l’utilizzo di altri farmaci immunosoppressori. Le esperienze pubblicate in letteratura (piccole case series o case reports) descrivono l’utilizzo di ciclofosfamide [35], ciclosporina [36], methotrexate [37] e mofetile micofenolato [38].

 

Conclusioni

Le nefriti tubulointerstiziali acute sono un’importante causa di danno renale acuto potenzialmente suscettibile di trattamento specifico, la cui importanza epidemiologica è in aumento specie nella popolazione anziana. L’eterogeneità dei processi di immunopatogenesi è una peculiarità della nefrite tubulointerstiziale acuta, che si associa ad una estrema eterogeneità eziologica.

La DI-ATIN rappresenta la causa più frequente di nefrite interstiziale, con un ruolo importante di FANS, antibiotici e inibitori di pompa protonica. La biopsia renale rappresenta il gold standard per la diagnosi di nefrite tubulo interstiziale e fornisce informazioni fondamentali da un punto di vista diagnostico. Recenti evidenze sembrano supportare un possibile ruolo, sia diagnostico sia prognostico per alcuni biomarkers, nello specifico IL-9 e TNFa urinari.

L’utilizzo della terapia steroidea, precocemente rispetto all’esordio della nefrite tubulointerstiziale, rappresenta il principale strumento terapeutico per il trattamento dell’ATIN: le evidenze attualmente disponibili in letteratura non forniscono però delle indicazioni ben definite rispetto a posologia e durata della terapia steroidea. Maggiori informazioni in merito potrebbero essere fornite dal un trial clinico randomizzato attualmente in corso e finalizzato a confrontare terapia steroidea vs placebo nella terapia della ATIN [39].

 

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