Triple stenosis of brachio-basilic arteriovenous fistula: percutaneous transluminal angioplasty utility, case report and literature review

Abstract

The major haemodialysis arteriovenous fistula (AVF) complication is stenotic disease. It is represented by a reduction of the arterial or venous caliper forming the AVF. Most frequently it is located in the juxta- anastomotic region of the venous segment.
There are a lot of mechanisms responsible for the stenosis formation; some are correlated by the shear stress in the wall of venous tract with a lot of biochemical mechanisms, others are associated with the repetition of venipuncture during haemodialisys treatment
It is recommended that each dialysis center activate an AVF monitoring program capable of identifying and treating stenosis.
We describe a clinical case of a young woman with a multiple stenosis disease of a brachio-basilical transposed AVF.

Keywords: AVF, haemodialysis, stenosis, PTA, ecoguided PTA

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Introduzione

Tra le complicanze della fistola arterovenosa (FAV) per emodialisi (Tabella I), vanno annoverate le stenosi; trattasi di una complicanza strutturale a cui è esposta la FAV. Le stenosi delle FAV native possono interessare sia il versante venoso che quello arterioso. L’incidenza di stenosi coinvolgenti il sistema venoso della FAV risulta essere di gran lunga maggiore rispetto a quello arterioso [15]. Le stenosi sono senza dubbio la causa più frequente di failure della fistola arterovenosa; la caduta di portata di cui sono responsabili riduce l’efficienza dialitica con calo del Kt/V, inoltre sono causa di un incremento della pressione negativa nel circuito, ostacolano il ritorno venoso, favoriscono il ricircolo [6, 7].

COMPLICANZE STRUTTURALI COMPLICANZE EMODINAMICHE
Ridotto/assente inflow (stenosi vaso afferente) Ridotta portata della FAV per perdita dell’inflow
Ridotto/assente outflow (stenosi del vaso efferente) Sindrome da furto (Steal syndrome)
Stenosi della porzione centrale del vaso efferente Presenza di collaterali venose che riducono la portata
Ematoma Scompenso cardiaco congestizio
Aneurisma Edema del braccio
Pseudoaneurisma
Calcificazioni
Tabella I: complicanze della FAV (Meola M: Ecografia clinica in nefrologia. Fistola arterovenosa, p 1308. Meola M. Eureka editore 2015).

Alcuni autori hanno classificato le stenosi del versante venoso della FAV in iuxta-anastomotiche o distali, a seconda che la sede della stenosi sia rispettivamente entro o oltre i 2 cm dall’anastomosi; anche se per Tessitore [8] vanno considerate tali anche le stenosi entro i 5 cm dall’anastomosi; questo sottotipo è responsabile dell’80 % delle stenosi.

Altra possibile classificazione riguardante la sede delle stenosi prevede la distinzione di stenosi centrali, iuxta-anastomotiche e stenosi riguardanti il tratto di vena compreso tra queste due regioni. Infine, da un punto di vista emodinamico, possiamo classificarle in stenosi dell’inflow e stenosi dell’outflow. Le prime determinano, da un punto di vista emodinamico, una riduzione della portata della fistola e riguardano le stenosi arteriose e le stenosi venose iuxta-anastomotiche; le seconde, invece, sono le stenosi venose distali che determinano un ostacolo al deflusso venoso anche in presenza di una valida portata [9].

La sede più frequente di stenosi è la porzione iuxta-anastomotica [1013], ma sono frequenti anche le stenosi della porzione centrale della vena efferente sede di venopuntura. Possiamo definire critica una stenosi quando la riduzione del diametro del lume vasale è superiore al 50 % rispetto a quello misurato nella porzione prestenotica. Ma tale definizione non può prescindere dalle alterazioni emodinamiche causate dalla stenosi: una riduzione della portata, l’aumento degli indici di resistenza, l’incremento della velocità di picco sistolico in corrispondenza della stenosi e, non ultima, l’inadeguata efficienza dialitica che accompagnano la stenosi [14].

La FAV è un “bene prezioso” per il paziente emodializzato; il patrimonio vascolare non è illimitato e il ricorso al catetere venoso centrale dovrebbe essere una seconda scelta. La stenosi deve essere considerata come l’iniziale processo di chiusura della FAV: se precocemente riconosciuta e trattata può evitare la chiusura definitiva dell’accesso vascolare.

 

Case report

Descriviamo il caso di una paziente di 54 anni, ipertesa, uremica in trattamento emodialitico da 3 anni, affetta da sindrome Nail-Patella. All’avvio al trattamento veniva confezionata una FAV radio-cefalica distale all’avambraccio sinistro previo mapping preoperatorio dell’arto che evidenziava una vena cefalica di 2 mm che incrementava il suo diametro a più del 50% dopo posizionamento del laccio emostatico; arteria radiale di 2,2 mm con portata di 15 ml/m e un test dell’iperemia reattiva che mostrava una caduta delle resistenze e incremento della portata.

Dopo 6 mesi la FAV andava incontro a failure, per cui veniva posizionato un catetere venoso centrale definitivo in vena giugulare destra. Allestita una nuova FAV distale radio-cefalica a carico dell’avambraccio di destra, quest’ultima andava incontro ad early failure nonostante il mapping preoperatorio mostrasse vasi aggredibili con buona compliance vascolare. Veniva quindi allestita una FAV prossimale brachio-basilica a carico del braccio sinistro con trasposizione della basilica. La portata della fistola, calcolata sull’arteria brachiale, dopo 7 giorni dall’allestimento era pari a 765 ml/m e incrementava a 1130 ml/m dopo 30 giorni.

Durante i trattamenti emodialitici si riscontravano pressioni venose elevate nell’accesso vascolare e pressioni arteriose eccessivamente negative. Veniva intrapreso quindi un follow-up ecografico e veniva posticipata la rimozione del CVC definitivo. Un controllo a distanza di 8 mesi mostrava una caduta della portata a 880 ml/m. L’accesso vascolare, monitorato nei mesi successivi, mostrava una progressiva riduzione di portata: 760 ml/m dopo 10 mesi dall’allestimento; 600 ml/m dopo 13 mesi. Giunge alla nostra osservazione a marzo 2022. L’esame doppler metteva in evidenza una portata pari a 465 ml/min. IR pari a 0,5 e l’evidenza di 3 stenosi lungo il decorso della vena basilica trasposta. Di queste, una si presentava in regione iuxta-anastomotica, con velocità di picco sistolico (PSV) calcolata in corrispondenza della stenosi pari a 350 cm/sec e le due restanti in regione distale con PSV rispettivamente di 617 cm/sec e 387 cm/sec. Si concludeva dunque per FAV malfunzionante con patologia stenotica multipla, con impatto emodinamico significativo. Per difficoltà operativa nel reperire un accesso unico che consentisse di trattare tutte e tre le stenosi contemporaneamente, veniva pianificato un trattamento di PTA in due tempi:

  1. PTA delle due stenosi distali con approccio anterogrado.
  2. PTA della stenosi iuxta-anastomotica con approccio retrogrado.

Veniva eseguita una prima procedura di PTA ecoguidata con balloon non compliante ad alta pressione delle dimensioni di 6 x 30 mm gonfiato fino a 24 atmosfere con completa distensione delle due lesioni stenotiche. Immediatamente dopo la procedura la portata dell’accesso vascolare risultava essere di 1100 ml/min con IR pari a 0,42 (Figure 1-5).

Figura 1: B-Mode. Scansione longitudinale su vena basilica efferente la FAV. Si nota esteso tratto stenotico.
Figura 1: B-Mode. Scansione longitudinale su vena basilica efferente la FAV. Si nota esteso tratto stenotico.
Figura 2: Color-doppler. Portata calcolata su arteria brachiale: 465ml/min; IR 0.5.
Figura 2: Color-doppler. Portata calcolata su arteria brachiale: 465ml/min; IR 0.5.
B-Mode. Gonfiaggio del pallone per angioplastica nel lume
Figura 3: B-Mode. Gonfiaggio del pallone per angioplastica nel lume venoso in corrispondenza del tratto stenotico. Si notano due incisure disegnate sul profilo del pallone, sede di maggiore resistenza della stenosi, che verranno completamente sfiancate al raggiungimento di 24 atmosfere.
B-Mode. Risultato finale della procedura. Assenza di recoil della stenosi, omogeneo il lume vascolare.
Figura 4: B-Mode. Risultato finale della procedura. Assenza di recoil della stenosi, omogeneo il lume vascolare.
Color-doppler. Portata calcolata su arteria brachiale successivamente alla procedura.
Figura 5: Color-doppler. Portata calcolata su arteria brachiale successivamente alla procedura. Si nota un incremento della portata a 1094 ml/min con riduzione indici di resistenza a 0,41.

A distanza di 15 giorni veniva eseguita seconda proceduta di PTA ecoguidata su stenosi iuxta-anastomotica. Veniva utilizzato balloon non compliante ad alta pressione delle dimensioni di 6 x 30 mm gonfiato fino a 24 atmosfere con completa risoluzione della stenosi (Figure 6-10).

Scansione longitudinale su vena basilica efferente la FAV in corrispondenza della regione iuxta-anastomotica stenotica.
Figura 6: B-Mode. Scansione longitudinale su vena basilica efferente la FAV in corrispondenza della regione iuxta-anastomotica stenotica.
Figura 7: Color-doppler. Portata calcolata su arteria brachiale: 920 ml/min con IR 0.49.
Figura 7: Color-doppler. Portata calcolata su arteria brachiale: 920 ml/min con IR 0.49.
Gonfiaggio del pallone per angioplastica nel lume venoso in corrispondenza del tratto stenotico.
Figura 8: B-Mode. Gonfiaggio del pallone per angioplastica nel lume venoso in corrispondenza del tratto stenotico. Pallone completamente disteso, gonfiato a 24 atmosfere.
Figura 9: B-Mode. Risultato finale della procedura. Assenza di recoil della stenosi, omogeneo il lume vascolare.
Figura 9: B-Mode. Risultato finale della procedura. Assenza di recoil della stenosi, omogeneo il lume vascolare.
Portata calcolata su arteria brachiale successivamente alla procedura
Figura 10: Color-doppler. Portata calcolata su arteria brachiale successivamente alla procedura. Si nota un incremento della portata a 1756 ml/min con riduzione indici di resistenza a 0,37.

La portata dell’accesso al termine della procedura risultava pari a 1600 ml/min con IR pari a 0,37. Contestualmente nella stessa seduta operatoria veniva rimosso CVC giugulare definitivo destro. In Figura 11 è riportato l’andamento della portata della FAV dal suo allestimento fino all’espletamento dell’ultima procedura descritta.

Figura 11: Il grafico, portata/tempo, mostra l’andamento del flusso prima e dopo le due procedure di angioplastica.
Figura 11: Il grafico, portata/tempo, mostra l’andamento del flusso prima e dopo le due procedure di angioplastica.

 

Discussione

Il primum movens del processo di stenosi è rappresentato dall’iperplasia neointimale, a sua volta legata ad un incremento dello shear-stress di parete per l’imponente incremento di flusso cui è sottoposto il vaso dopo la creazione dell’anastomosi. Concorrono, al processo di stenosi, anche lo stato pro infiammatorio proprio della malattia renale cronica, le venipunture ripetute, lo stress chirurgico, fattori genetici. Tutti questi elementi sono responsabili del rimodellamento della parete vascolare e di una anomala proliferazione [15] e migrazione delle cellule muscolari lisce mediata da una serie di fattori: citochine, chemochine, ossido di azoto, endotelina, osteopontina, apolipoproteina [10, 16-21].

È inoltre dimostrata una migrazione di fibroblasti dall’avventizia all’intima e la loro trasformazione in miofibroblati che contribuisce in maniera significativa alla riduzione del lume vascolare [2228]. Alcuni studi hanno incentrato l’attenzione sulla natura delle cellule che costituiscono la neointima: la loro identificazione pone infatti le basi per azioni terapeutiche volte a inibire il processo di proliferazione neointimale. In particolare la recente evidenza di fibroblasti migrati dall’avventizia all’intima e trasformati in miofibroblasti ha sottolineato il ruolo fondamentale di queste cellule nella produzione di matrice extracellulare della neointima. Tutto questo rimarca l’importanza dell’avventizia come attore in prima linea nel processo di iperplasia neointimale e la pone al centro dell’attenzione di interventi terapeutici che mirino al controllo di tutti questi elementi cellulari (fibroblasti, miofibroblasti, cellule muscolari lisce). Da ciò la proposta di alcuni autori di utilizzare farmaci antiproliferativi ad azione perivascolare [29-31]. Non ultima la necessità di una corretta manipolazione chirurgica intraoperatoria finalizzata a preservare l’avventizia e i vasa vasorum [29]; è dimostrato infatti che il ridotto traumatismo della parete vasale riduce in maniera significativa l’iperplasia neointimale [32].

Il malfunzionamento dell’accesso vascolare è una temuta complicanza del paziente in trattamento emodialitico: la sorveglianza clinica e il monitoraggio strumentale della FAV tendono a scongiurare questo pericolo. Negli anni si sono sviluppati programmi di sorveglianza clinico/strumentale spesso dissociati in quanto il nefrologo non sempre è il fulcro di questa sorveglianza, demandando al chirurgo vascolare o al radiologo la parte tecnico/strumentale. Nel nostro centro da tempo è stata posta l’attenzione a questo tipo di problematica e un team dedicato, oltre ad effettuare una sorveglianza clinica (esame ispettivo della FAV, Kt/V, ricircolo dell’accesso, monitoraggio delle pressioni venose ed arteriose intradialitiche), provvede al monitoraggio ecografico delle FAV a rischio di chiusura. L’ecocolordoppler infatti va ritenuto l’unica indagine capace di fornire informazioni strutturali e funzionali sull’accesso vascolare [33-36]; la metodica, infatti, oltre ad identificare deficit funzionali, mediante la valutazione della portata [3547], è in grado di individuare stenosi e trombosi da correggere mediante interventi di angioplastica, anch’essi ecoguidati, con i quali lo stesso nefrologo può cimentarsi.

Va comunque precisato che i programmi di sorveglianza degli accessi vascolari a tutt’oggi sono oggetto di discussione, in quanto lì dove studi osservazionali indicano che la correzione preventiva delle stenosi riduca la percentuale di fallimento dell’accesso vascolare [47] e le stesse linee guida NKF-K-DOQI [48] consigliano di sottoporre gli emodializzati portatori di FAV ad un programma di sorveglianza dell’accesso vascolare, ci sono pareri discordanti che attribuiscono una scarsa efficacia a detti programmi [4951].

I dati presenti in letteratura mostrano come vi sia una tendenza alla recidiva della stenosi dopo trattamento mediante PTA.

Le varie casistiche identificano una pervietà della FAV tra il 50-60% ad un anno dal trattamento. L’ipotesi eziopatogenetica è identificata nella iperplasia reattiva dei miociti della parete del vaso sottoposto a stretching durante la procedura con conseguente reazione sclerotico-cicatriziale e riformazione della stenosi [52]. A tal ragione vengono usati con maggiore frequenza balloon medicati (DCB), ricoperti da farmaci antiproliferativi come il Placitaxel, che rilasciati nella parete vascolare durante la dilatazione della stenosi vanno ad inibire la proliferazione reattiva. Grazie all’utilizzo di tali dispositivi si è ottenuta una pervietà primaria maggiore rispetto ai ballon convenzionali: fino all’80% a 6 mesi [53].

 

Conclusioni

La FAV va considerata l’accesso vascolare di prima scelta, la sua sopravvivenza deve essere garantita con l’utilizzo di tutti i mezzi a nostra disposizione: osservazione clinica e strumentale, monitoraggio intradialitico, accuratezza nella venopuntura. Le stenosi rappresentano la causa più frequente di malfunzionamento della FAV, se precocemente riconosciute e trattate l’accesso vascolare “sopravvive”. È nostra esperienza che la restenosi di una FAV, sottoposta ad angioplastica, è una evenienza possibile, ma proprio la sorveglianza di queste FAV a rischio ci consente di reintervenire concedendo all’accesso vascolare un ulteriore periodo di utilizzo.

 

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Discovering uncommon nephropathies: a case of acute kidney damage from malaria

Abstract

Malaria is one of the most common infectious diseases in the world with a high prevalence in developing countries. Renal impairment occurs in 40% of Plasmodium falciparum infections; glomeruli, tubules or interstitium can be involved with different pathophysiological mechanisms. We describe a case of severe acute renal failure caused by P. falciparum malaria in a young woman from the Ivory Coast. Renal biopsy revealed severe and widespread acute tubular necrosis and the presence of blackish pigment granules in the glomerular and peritubular capillaries, negative for iron histochemical staining; in electron microscopy we found rounded-oval-shaped structures containing cytoplasmic organelles, electrondensic granules and cellular debris, likely of infectious origin, within monocyte-macrophages located in the tubular lumen. Specific Antigen for P. falciparum and malarial parasite in blood were positive, with very rare trophozoites and gametocytes compatible with Plasmodium falciparum. Steroid therapy and specific antiparasitic therapy were set up with progressive functional improvement until complete recovery. This case highlights the importance of paying maximum attention to low incidence pathologies in our country, considering the continuous migratory movements of these years that can cause an increase in these diseases; anamnestic data are essential for a timely diagnosis which can contribute to a rapid remission avoiding severe complications.

Keywords: malaria, acute kidney failure, tubular necrosis, Plasmodium falciparum

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Introduzione

La malaria è una malattia endemica in Asia, Africa e America Latina. Si può riscontrare un interessamento renale nel 40% dei casi in corso di infezione da Plasmodium falciparum; possono esser colpiti glomeruli, tubuli e interstizio con diversi meccanismi fisiopatologici. Viene riportato un caso di severa insufficienza renale acuta da necrosi tubulare (diagnosi istologica) in corso di malaria da P. falciparum con successiva ripresa e normalizzazione funzionale. Il caso descritto evidenzia l’importanza dell’attenzione anche verso forme di patologie spesso misconosciute per la bassa incidenza nel nostro Paese; i dati anamnestici, spesso difficili da raccogliere anche per barriere linguistiche, risultano essenziali per una tempestiva diagnosi che può contribuire ad una rapida remissione anche di severe complicanze.

 

Caso clinico

Donna di 22 anni giunta in Italia in data 3/04/21, proveniente dalla Costa D’Avorio. Anamnesi patologica remota muta, una gravidanza a termine senza riferite complicanze. Non familiarità per diabete, malattie cardiovascolari, nefropatie. Non segnalati episodi di macroematuria; non presenti eruzioni cutanee né artromialgie.

Il 25/04 la paziente accedeva in PS per comparsa a partire dal 12/04 di astenia, malessere, nausea e vomito; in un contesto di relativa barriera linguistica veniva segnalato dal marito un recente episodio di subittero sclerale ed emissione di urine riferite marsalate. Non segnalati episodi febbrili a domicilio. Agli esami ematici si riscontrava severa anemizzazione con Hb 7.1 g/dl, PTLs 303000/mmc, insufficienza renale con creatinina 10,3 mg/dl, iponatremia con Na 118 mmol/l, Potassio 3,8 mmol/L. Alla EGAa HCO3 29, pH 7,49. All’esame urine presenza di proteine 30 mg/l, esterasi leucocitaria positiva, emoglobinuria, microematuria (29/ul) e leucocituria (169/ul). Diuresi conservata.

All’ecografia addome i reni risultavano in sede, di dimensioni regolari con parenchima conservato in spessore, non idronefrosi; non segnalate alterazioni negli altri organi parenchimatosi. All’Rx torace non lesioni pleuroparenchimali, non segni di scompenso del microcircolo.

La paziente veniva ricoverata in ambito nefrologico. All’ingresso la paziente si presentava astenica, apiretica, PA 110/60 mmHg, diuresi attiva (circa 1700 cc/die senza stimolazione diuretica). Assenti segni di sovraccarico cardiocircolatorio, così come segni clinici di disidratazione. Veniva impostata terapia infusionale nel tentativo di riequilibrare il bilancio elettrolitico ed acido/base. Si registrava una progressiva normalizzazione del quadro idroelettrolitico; pur in presenza di diuresi conservata persistevano valori di creatinina plasmatica di 9,5-10 mg/di con urea fino a 174 mg/dl. In considerazione dell’anemia persistente la paziente veniva sottoposta a trasfusioni di GRC con premedicazione con Urbason 40 mg per presenza di Test di Coombs diretto positivo e indiretto negativo. In data 28/04 per comparsa di febbre >38°C veniva avviata terapia antibiotica su base empirica (cefalosporina).

Per indagare le cause di nefropatia e la comparsa di piressia sono stati effettuati i seguenti esami: dosaggio di immunoglobuline (IgA, IgM e IgG con sottoclassi) risultate nella norma, Beta2microglobulina aumentata (15,6 ug/l), ANA reflex positivi 1:640, spekled, AntiDNA negativi, ENA reflex negativi, ANCA negativi, elettroforesi sierica negativa per CM, AntiGBM negativi, LAC debolmente positivo. PU delle 24 ore lievemente al di sopra della norma (0,41 g/die), aptoglobine non consumate (0,74 g/L), LDH elevato (fino a 474 U/L), indici di funzionalità epatica sostanzialmente nella norma, bilirubinemia diretta lievemente aumentata (0,69mg/dl). TSH nella norma. AntiHIV, antiHCV e HBV reflex negativi, iperferritinemia (1469 ug/l) ed elevati livelli di vitamina B12 (2949 pmol/l). Quantiferon indeterminato ripetuto 2 volte per cui eseguito esame colturale per micobatteri e PCR per BK con esito negativo. Urinocoltura negativa.

In data 30/04 si procedeva ad esecuzione di biopsia renale e dal 1/05 veniva avviata terapia steroidea con 80 mg di Urbason al giorno (1,5 mg/kg/die) nell’ipotesi di un danno tubulo-interstiziale. Per la persistenza di anemia con LDH aumentata veniva effettuato studio di emocromo di II livello che mostrava anisocitosi moderata, poichilocitosi lieve, emazie con punteggiatura basofila e policromasia, non segnalati schistociti. Data la provenienza della paziente, venivano effettuati: ricerca di emoglobine patologiche risultate negative, dosaggio di G6PDH risultato nella norma (16,5 u/g), dosaggio di piombemia nella norma. La ricerca di schistosoma era negativa. Riscontro agli esami ematici del 4/05 di positività per Ag specifico per P. falciparum e per parassita malarico, con rarissimi trofozoiti e gametociti compatibili con Plasmodium falciparum (parassitemia <0,05%). La valutazione infettivologica deponeva per quadro di malaria grave all’esordio (nausea/vomito, IRA con anemia da sospetta emolisi intravascolare per riferito subittero); veniva pertanto avviata terapia con artesunato 2,4 mg/kg (3 somministrazione) e successivamente eurartesim (fino all’11/05). In contemporanea si proseguiva terapia steroidea a dosaggio scalare.

L’indagine istologica renale (Figure 1 e 2) ha evidenziato:

  • Microscopia ottica (MO): quadro di severa e diffusa ATN, con aspetti di rigenerazione cellulare, lieve flogosi interstiziale, ricca componente plasmacellulare IgG4-, lieve capillarite peritubulare; segnalata presenza di granuli di pigmento nerastro nei capillari glomerulari e peritubulari, negativi alla colorazione istochimica per il ferro (possibile pigmento malarico).
granuli di pigmento nerastro nei capillari glomerulari
Figura 1: A) granuli di pigmento nerastro nei capillari glomerulari e peritubulari, negativi alla colorazione istochimica per il ferro. B)  Necrosi tubulare acuta con aspetti di rigenerazione cellulare, lieve flogosi interstiziale, ricca componente plasmacellulare IgG4-, lieve capillarite peritubulare.
  • Immunofluorescenza (IF) negativa.
  • Microscopia elettronica (ME): modesta espansione mesangiale e compromissione del comparto tubulare, segnalati lumi capillari occlusi da cellule endoteliali ipertrofiche e degenerate, presenza di strutture all’interno dei monociti-macrofagi, contenuti nel lume tubulare, di forma rotondeggiante-ovalare contenenti organelli citoplasmatici, granuli elettrondensi e detriti cellulari, di possibile origine infettiva.
 lume tubulare con elementi infiammatori
Figura 2: C) lume tubulare con elementi infiammatori, cellule epiteliali di sfaldamento e materiale filamentoso. D)  lume tubulare contenente un elemento di non chiara origine che potrebbe essere riferibile a patogeno contenente varie strutture organellari. E) particolare a maggiore ingrandimento della struttura (immagine D).

Dal punto di vista clinico si è riscontrato un progressivo miglioramento del quadro generale dopo terapia infusionale e correzione delle alterazioni del quadro elettrolitico ed acido/base. Non si è reso necessario un trattamento sostitutivo artificiale; la diuresi è rimasta sempre presente. La funzione renale ha iniziato a migliorare (Figura 3) dopo impostazione di terapia steroidea e successiva specifica terapia antimalarica. La paziente è stata dimessa 11/05 con normofunzione renale (creatininemia di 1 mg/dl), esame urine privo di reperti patologici; steroide a dosaggio scalare terminato il 4/06. Dal punto di vista infettivologico la paziente è stata dichiarata guarita.

Figura 3: Andamento funzionale renale (creatinina plasmatica e diuresi) in corso di ricovero. Timing terapia steroidea e anti-malarica.
Figura 3: Andamento funzionale renale (creatinina plasmatica e diuresi) in corso di ricovero. Timing terapia steroidea e anti-malarica.

 

Discussione

La malaria è una delle malattie infettive più comuni al mondo con un’elevata prevalenza nei Paesi in via di sviluppo [1]. Nel 2019 sono stati stimati globalmente circa 229 milioni di casi, in calo da 238 milioni nel 2000, e i decessi per malaria sono diminuiti costantemente in tale periodo, da 736 000 nel 2000 a 409 000 nel 2019. L’Africa registra circa il 94% dei casi, principalmente in Nigeria (27%), Repubblica Democratica del Congo (12%), Uganda (5%), Mozambico (4%) e Niger (3%) [2].

La malaria viene trasmessa dalla puntura infettiva della femmina di zanzara anofele; cinque specie parassitarie sono responsabili della malattia nell’uomo: 1) Plasmodium falciparum; 2) vivax; 3) malariae; 4) ovale; 5) knowlesi.

Lo spettro clinico dell’infezione può variare da asintomatico a semplice malaria, caratterizzata da sintomi parossistici non specifici come febbre, cefalea e muscoli doloranti, a grave malaria, caratterizzata da sintomi potenzialmente letali, inclusa grave anemia, coma, danno renale acuto e acidosi metabolica [5].

L’insufficienza renale è una complicanza comune della forma grave di malaria da Plasmodium falciparum ed è stata segnalata fino al 40% di tutti i casi [6]. Il coinvolgimento renale è considerato un fattore prognostico negativo [10]. Le caratteristiche istopatologiche tipiche nel danno renale acuto correlato alla malaria includono necrosi tubulare acuta (ATN) e, meno comunemente, nefrite interstiziale o glomerulonefrite [7, 8].

I meccanismi patogeni dell’insufficienza renale acuta nella malaria non sono ancora completamente definiti, sebbene vi siano molteplici processi patologici che possono convergere sul rene, compreso il sequestro parassitario, la disfunzione endoteliale, lo stress ossidativo, il danno immuno-mediato, l’emolisi intravascolare e l’instabilità emodinamica. Il verificarsi sinergico di questi processi, culminando nell’esacerbazione di una vigorosa risposta infiammatoria sistemica, potrebbe rappresentare il meccanismo predominante attraverso il quale la malaria grave porta allo sviluppo di danno renale acuto [9].

Relativamente allo sviluppo della necrosi tubulare acuta, come precedentemente detto, sembrerebbero concorrere vari meccanismi [12]:

  • citoaderenza, cioè l’adesione dei globuli rossi infetti agli altri eritrociti e alle cellule endoteliali vascolari. Il meccanismo induce la formazione di grappoli e rosette intravascolari provocando il sequestro dei globuli rossi dalla circolazione degli organi vitali, alterazione del microcircolo, anemia e trombocitopenia causando ipossia tissutale [1316]. I ligandi adesivi sulle membrane dei globuli rossi parassitati sono stati chiamati B-knobs; la proteina della membrana eritrocitaria del Plasmodio falciparum (pfEMP), codificata dal genoma del parassita, sembra essere il determinante più significativo di adesività eritrocitaria [17]; altre famiglie di proteine adesive comprendono rifine, rosettine, e proteine ricche di istidina [1820];
  • rilascio di citochine infiammatorie, specie reattive dell’ossigeno e ossido nitrico;
  • ipovolemia, determinata da perdite (febbre, distress respiratorio), scarsa assunzione di cibo e liquidi per os, vomito, quadri che possono concorre a determinare ipotensione e ipoperfusione renale;
  • massiccia emolisi con conseguente emoglobinuria (febbre dell’acqua nera) [21]. Questa condizione potrebbe essere il risultato della distruzione dei globuli rossi determinata sia dall’infezione sia farmaco-indotta dai farmaci antimalarici; pazienti con deficit di G6PD sono maggiormente a rischio per questa complicanza [7];
  • iperbilirubinemia coniugata con colestasi; l’ittero in quasi tutti i pazienti si presenta “bifasico”, con una componente non coniugata derivante dall’eccessiva emolisi e da una coniugata derivante dalla colestasi [11];
  • raramente, rabdomiolisi [7] o microangiopatia trombotica.

A livello istologico possono essere visualizzati all’interno dei tubuli dei pazienti che sviluppano ATN depositi di emosiderina; inoltre è stato documentato edema, necrosi cellulare e infiltrazioni monocellulari a livello dell’interstizio [22].

Il coinvolgimento glomerulare nell’infezione da P. falciparum non è comune; quando presente è generalmente caratterizzato da proliferazione mesangiale, con lieve espansione della matrice mesangiale e ispessimento occasionale della membrana basale, con deposito di materiale eosinofilo granulare nell’endotelio, nel mesangio e nella capsula di Bowman, depositi di IgM, IgG e C3 all’immunofluorescenza. Alla microscopia elettronica è possibile il riscontro di depositi densi di elettroni nella regione subendoteliale e mesangiale, associati alla presenza di materiale granulare, fibrillare e amorfo.  L’infezione da P. malariae può associarsi a glomerulonefriti membranoproliferative e più raramente a glomerulonefriti rapidamente progressive. Nel primo caso le manifestazioni cliniche si manifestano in due modi: un pattern benigno, con proteinuria lieve e transitoria che compare nella seconda o terza settimana di infezione, senza alterazione della funzione renale, e un pattern grave, con proteinuria persistente o sindrome nefrosica.  Il danno renale acuto da P. vivax non è comune, sebbene studi recenti in aree endemiche lo abbiano registrato nel 16% dei casi [23].

Sono disponibili due classi di medicinali per il trattamento parenterale della malaria grave: i derivati ​​dell’artemisinina (artesunato o artemetere) e gli alcaloidi della china (chinino e chinidina). Tuttavia, mentre il dosaggio dei derivati ​​dell’artemisinina non deve essere aggiustato per i pazienti con disfunzione degli organi vitali, il chinino rischia di accumularsi in queste situazioni. In caso di danno renale acuto persistente e assenza di miglioramento clinico entro 48h, la dose di chinino deve essere ridotta, ad eccezione di paziente in emodialisi o emofiltrazione. Dopo il trattamento parenterale iniziale è essenziale continuare e completare il trattamento con un farmaco antimalarico orale efficace somministrando un ciclo completo di ACT (Artemisin-based Combination Therapy) [24].

La terapia steroidea non è raccomandata nel trattamento della malaria grave [24]; nel nostro caso la terapia è stata impostata precocemente in maniera empirica, nell’attesa dei risultati laboratoristici ed istologici, alla luce del quadro renale acuto e dell’assenza, in fase iniziale, di reperti clinici correlabili con una infezione in atto. A posteriori, a nostro giudizio, potrebbe aver contribuito alla riduzione del quadro infiammatorio sistemico ed al miglioramento del danno tubulo interstiziale renale.

In conclusione, la malaria è una malattia ad elevata prevalenza con gravi complicanze a livello renale. Nonostante la malaria endemica sia stata debellata nei Paesi europei, alcuni casi di malaria sono stati notificati in Europa (Francia); si tratta generalmente di casi importati, riscontrati nei viaggiatori di ritorno o nei migranti che si spostano da Paesi in cui la malaria è endemica [3].

La pandemia di COVID-19 ha rappresentato una preoccupante minaccia ai già fragili programmi di controllo della malattia, gravando ulteriormente sui sistemi sanitari nei Paesi endemici [4]; molti Paesi hanno infatti segnalato riduzioni nell’accesso a trattamenti antimalarici efficaci nel 2020 [2].

Nel caso descritto l’andamento clinico, gli esami laboratoristici infettivologici, la risposta alla terapia, il quadro istologico (MO e ME) hanno portato alla diagnosi di insufficienza renale acuta secondaria ad infezione malarica. L’alterazione volemica conseguente a nausea e vomito nei giorni precedenti il ricovero può aver contribuito allo sviluppo della compromissione renale, ma non sembra costituire l’elemento fisiopatologico essenziale; all’ingresso non erano presenti chiari segni di disidratazione né significative alterazioni emodinamiche.

Il caso descritto mette in evidenza l’importanza di un’accurata anamnesi, anche se spesso difficoltosa per problemi di barriera linguistica, per impostare una corretta terapia quanto prima possibile. In caso di flussi migratori o viaggi intercontinentali nella diagnosi differenziale vanno considerate anche nefropatie secondarie a malattie endemiche presenti in altre parti del mondo [25].

La collaborazione interdisciplinare costituisce un importante valore aggiunto all’attività clinica specialistica nefrologica.

 

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Skin reaction with Eosinophilia and Systemic Symptoms after lenalidomide in peritoneal Dialysis

Abstract

The Drug Reaction with Eosinophilia and Systemic Symptoms (DRESS) syndrome is a fatal and immune-mediated idiosyncratic drug reaction, with symptoms of fever, skin eruptions (that involves more than half of the body surface), facial oedema and hematological disorders, all presenting within the latent period following drug intake. Effects can also be seen on multiple organs, most notably hepatitis in liver and acute interstitial nephritis in kidney, generally post-administration of allopurinol. The European Registry of Severe Cutaneous Adverse Reactions (RegiSCAR) classifies the DRESS Syndrome cases as “definite”, “probable” or “possible”, based on clinical and laboratory features. Different pathogenetic mechanisms have been involved in this disease, including immunological reactions and HHV-6 reactivation. In our experience, a 72-year-old male, affected by myeloma in peritoneal dialysis, developed a rare case of DRESS syndrome after lenalidomide administration (less than ten cases are known) with HHV-6 reactivation. According to literature, we withdrew the drug and gave methylprednisolone 0,8 mg/kg orally and IVIG 1 gr/kg for two days. Despite this therapy, DRESS syndrome relapsed during steroid taper with rash, thrombocytopenia, hepatitis and high troponin level. A single cycle of intravenous immunoglobulin 0,5 g/kg for four days was enough for syndrome remission. Only few cases are reported in literature, but because of the increasing use of lenalidomide and the autoimmune sequelae of DRESS syndrome, a broad workup and a multidisciplinar careful approach could help in diagnosis, treatment and follow-up.

Keywords: eosinophilia, systemic drug reaction, DRESS Syndrome, interstitial nephritis, multiple myeloma, Lenalidomide

Introduction

Drug Reaction with Eosinophilia and Systemic Symptoms (DRESS) syndrome is a rare, immune-mediated idiosyncratic and fatal drug reaction, characterized by a latent period after intake of the inciting drug (2-6 weeks). Other signs and symptoms are fever higher than 38,5°C, skin eruptions, eosinophilia (in 66-95% of patients), mononucleosis-like atypical lymphocytes (27-67% of patients), thrombocytopenia, lymphadenopathy (in 54% of patients), and multiple organ involvement. The prevalence ranges from 1:1000 to 1:10000 of drug exposures; mortality has been estimated to be up to 10% because of myocarditis and liver failure [1]. It is difficult to pinpoint the exact moment at which the organ damage and blood alterations occur, except in the cases of already hospitalized patients [2]. Generally, the rash covers more than half of the body surface. Cutaneous lesions have polymorphic presentations: maculopapular, urticarial, exfoliative, lichenoid, pustular, bullous, target-like or eczema-like lesions. The facial oedema (found in 76% of patients) is the hallmark feature of the disease. In 50-60% of patients, two or more organs are affected, most frequently liver (hepatomegaly, hepatitis with ALT> 2 times and ALP> 1,5 times the upper limit), kidney (acute interstitial nephritis, most often induced by allopurinol) and lung (interstitial pneumonia). Cardiovascular involvement occurs lately (up to four months after recovery) with myocarditis, decreased LV function and elevated troponin [3]. The nomenclature of this syndrome has significantly evolved over the last 80 years. The current name, DRESS, as defined in 1996 by Bocquet et al [4], but in the past it was named “drug induced pseudolymphoma”, “anticonvulsant hypersensitivity syndrome” and “drug induced hypersensitivity syndrome” (DIHS). This syndrome requires a high index of suspicion by clinicians and exclusion of infectious, inflammatory, autoimmune and neoplastic conditions, besides other similar cutaneous drug reactions. DRESS syndrome could have long-term sequelae like the development of autoimmune disease, including thyroiditis, diabetes mellitus type I and systemic erythematosus lupus [5]. These manifestations can occur early, like in our patient, to years following the initial episode. There is no pathognomonic sign or diagnostic test for DRESS. The leucocyte transformation/activation test (LAT) measures T cells response to a drug. It lacks of sensitivity, but a positive LAT is useful to confirm the diagnosis, because of very low false positive results (only 2%) [6, 7]. Confirmation or exclusion of DRESS syndrome diagnosis is based on clinical and laboratory features. The European Registry of Severe Cutaneous Adverse Reactions (RegiSCAR) classifies the cases as “definite”, “probable” or “possible”.

 

Case Report

A 72-year-old male, affected by end-stage kidney disease (ESKD) because of nephroangiosclerosis and ischemic nephropathy in peritoneal dialysis, was diagnosed with micromolecular multiple myeloma kappa in June 2019. In November he stared lenalidomide 5 mg days 1-21 in 28-days cycle without steroids because of his comorbidities. The patient suffered from hypertension, ischemic cardiomyopathy with reduced ejection fraction of 25% (he had two NSTEMI, the last in March 2019), and chronic kidney disease for about six years and started automated peritoneal dialysis in March 2019.

After 18 days of therapy with lenalidomide, he presented a violet maculopapular rash covering more than 50% of his body, fever (38,5 °C), and leukopenia with negative C-reactive protein. Lenalidomide was withdrawn and oral steroid with anti-histamine were administered. One week later he was admitted to our Nephrology Unit for a syncopal episode. Laboratory tests revealed leukocytosis (white blood cells were 12250/mm3), eosinophilia (until 56%, 4550/mm3), and cholestatic-cellular liver damage (ALT 1448 U/l, ALP 308 U/l) requiring albumin infusion. In suspicion of a hidden infection, blood/peritoneal cultures and viral/bacterial tests were performed and a broad-spectrum empirical therapy was prescribed. In the absence of liver and vascular abnormalities during an ultrasound abdominal study, an autoimmune workup was performed: ANA, ANCA, SMA, LKM, AMA were negative. Blood markers of HBV, HCV and herpetic viruses were negative, except for Human herpes virus 6 (HHV-6) reactivation with 420 copies/ml. Because of the persistence of the rash, the patient underwent a skin biopsy, that demonstrated sparse vacuolization of epidermis and dermal-epidermal inflammation with some eosinophils and CD8+ T cells, suggesting a drug reaction (shown in Figures IA and IB).

Histopathological examination of the skin biopsy specimen revealing hyperkeratosis, spongiosis.
Figure IA: Histopathological examination of the skin biopsy specimen revealing hyperkeratosis, spongiosis, dermis swelling and chronic perivascular inflammation with some eosinophils. IB: Immunohistochemical examination revealing CD8+ T cells dermal-epidermal infiltration, suggesting a drug reaction.

For clinical, laboratory and pathological features, according to RegiSCAR score system this case has been evaluated as “definite DRESS” with score 6, because of rash, eosinophilia and liver damage. We started intravenous immunoglobulin 1 g/kg for 2 days and oral methylprednisolone with reduced dose for comorbidities (50 mg/die for 0,8 mg/kg daily). After one week the patient had fully recovered and was discharged home with methylprednisolone 37,5 mg/die (for 0,6 mg/kg). Seven days after discharge, the patient showed a pruritic rash. Laboratory tests showed elevated ALT, AST and troponin (until 330 ng/l) and thrombocytopenia (platelets 50.000/mm3). HHV-6 was undetected. Hospital admission was not necessary and an outpatient follow-up was started. Because of the high risk of late onset of myocarditis with elevated troponin, we performed an electrocardiogram (normal) and an echocardiogram that showed a low ejection fraction like the previous. Despite the clinical suspicion, heart magnetic resonance imaging (MRI) ruled out this complication. Most likely, the elevation of troponin was related to an increased hydro-saline retention, which was responsive to the enhancement of peritoneal dialysis treatment. Taking into account the renal failure, the chronic ischemic heart disease and the DRESS syndrome relapse, we treated the patient with only intravenous immunoglobulin (IVIG) 0,5 g/kg for four consecutive days with clinical and laboratory benefits. After recovery, a multiple myeloma second-line therapy with orally Cyclophosphasmide 300 mg once weekly and prednisone 25 mg/die was started, but it was interrupted two weeks later because of melena and clinical worsening. Sixteen weeks after discharge the patient is still alive, he undergoes nephrological/hematological outpatient visits twice a week and receives palliative therapy. Liver tests and troponin levels are normal.

 

Discussion

DRESS syndrome is an idiosyncratic hypersensitivity reaction to a medication. Mortality has been estimated to be up to 10% because of myocarditis and liver failure. Renal involvement is usually secondary to liver (about 11-28% of patients); renal damage could be related to interstitial nephritis or to acute tubular necrosis, but sometimes the patient could develop vasculitis with renal failure. Sometimes patients need short-term or long-term hemodialysis. In a survey conducted by Asian Research Committee on Severe Cutaneous Adverse Reactions (ASCAR) on 145 patients affected by DRESS syndrome [5], four of them with underlying diseases (IgA nephritis, renal disease and chronic renal failure) developed end-stage renal disease and culprit drug was allopurinol in two cases. 24 patients with Drug-Induced Hypersensitivity Syndrome were evaluated in a French study [8]: 11 patients on 24 (46%) were immunocompromised, the median latency time of onset was 15 days and myocarditis appeared in several cases with hypotension. Our patient developed these features and the suspicion of late myocarditis was very high because of troponin elevation, low cardiac ejection fraction and severe clinical impairment; however cardiac MRI showed that it was secondary to hyperhydration and previous cardiac disease. Furthermore, several studies suggest that myocarditis is often underestimated, because it needs a post-mortem histopathologic examination. The pathogenic bases of DRESS syndrome are still unclear. Some authors suggest that drug reactive metabolites, secondary to detoxification defect, could stimulate a delayed immunological reaction mediated by CD-8 T-lymphocyte and eosinophil degranulation; interestingly, the medication could also trigger viral reactivation, usually HHV-6. Cacoub et al reported 172 cases of DRESS: the most frequent “trigger-drugs” were carbamazepine, allopurinol, sulfasalazine, phenobarbital, nevirapine, and HHV-6 reactivation was positive in 80% of studied cases [9].

Generally, patients affected by DRESS syndrome develop renal complications presenting with creatinine elevation, sterile pyuria and sometimes with proteinuria and hematuria [10]. In our experience it was not possible to identify renal involvement, because our patient was already treated with peritoneal dialysis. Genetic predisposition to DRESS syndrome has been demonstrated: HLA-B*5801 in Chinese population treated with allopurinol is associated to kidney involvement in DRESS syndrome [11]. A French study [8] highlighted that 20 of 24 patients developed DIHS during winter, as our case, and that 75% of them had low level of Vitamin D. It is widely known that the nephrological population has chronic Vitamin D deficiency and that it has anti-inflammatory properties, so we can believe that it could be a risk factor for our patients treated with “trigger” drugs. Nevertheless, assessing clinical features of patients affected by DRESS syndrome described in literature, chronic kidney disease does not represent a risk factor for this syndrome (shown in Table 1).

Cacoub et al [9] Mona Ben m’rad et al [8] Kano Y et al [5]    Avancini J et al [15]
Number of patients 172 24 145 27
Age (years) 40,7 ± 20,9 50,4 ± 17,1 51 ± 18,8 36 ± 16,4
Male 53 % 50 % 40,7 % 62,9 %
Onset weeks (mean) 3,9 ± 2,3 2 5,6 ± 5,3
Liver involvement 94 % 54 % 85,2 % (23 patients)
Kidney involvement 8 % 17 % HD in 4 patients with pre-existing renal disease 33,3 % (9 patients)
Cases resulting in death 5,2 % 0 % 3,7 % (1 patients)
Autoimmune sequelae 23,4 % (34 patients)
Table 1: Comparison of clinical features and outcomes of patients affected by DRESS syndrome observed in four different mentioned studies. HD: chronic hemodialysis.

As described by Vlachopanos [12], DRESS syndrome after receiving Lenalidomide for multiple myeloma in people in renal replacement therapy has a very unfavorable course. According to literature (Table 2), the culprit drug should be withdrawn and, in cases of visceral involvement, systemic steroids are indicated (oral methylprednisolone 1 mg/kg/die with slow taper over 3-6 months). Rapid tapering is associated with relapse, like in our patient, and the benefit of antiviral medications is unclear. In severe and corticosteroid-resistant cases, other immunosuppressant medications including cyclosporine, azathioprine, and mycophenolate have been used, sometimes alongside adjunctive treatment with IVIG and plasmapheresis [13, 14]. In our experience IVIG has been a good ally to control DRESS syndrome relapse.

Primary disease Age Medical history Therapy Time after LND Virus Systemic involvement Treatment Reference

MM

IgG kappa

65 years UN LND 25 mgA – DXSB 6 weeks No AIN

Hepatitis

PS 80mg Shaaban H. et al [16]

MM

IgG lambda

75 years Diabetes mellitus

hypertension heart failure

CKD stage III

LND 5 mgA – DXSB 4 weeks UN Acute on CKD MPSL 80 mg Shanbhag A. et al [17]
MM 78 years Hypertension

Diabetes mellitus

LND 25 mgA 4 weeks HHV-6 AKI

Hepatitis

PS 20mg Foti C. et al [18]
MM 62 years CKD on hemodialysis LND 5 mgA 5 days UN Non erosive oropharyngeal  mucositis dysphagia PSL Vlachopanos G. et al [12]
MM 59 years UN Bortezomib-DXSB-LND 5-6 weeks HHV-6

CMV

None PS 20 mg/die Osada S. et al [19]

MM

IgA lambda

67 years UN Carfilzomib-DXS-

LND 25 mgA

7 weeks CMV Hepatitis PSL 1mg/kg/die Relapse: IVI

G 0,5 g/kg/die for 4 days

Gajewska M. et al [20]
Table 2: Summary of lenalidomide-induced DRESS syndrome described in literature. Comparison of clinical features, multiple myeloma therapy, organ involvement of DRESS syndrome, virus reactivation and therapy.
Abbreviations: Multiple Myeloma: MM; Lenalidomide: LND; Dexamethasone: DXS; Prednisone: PS; Methylprednisolone: MPSL; Prednisolone: PSL; Unavailable: UN. A: Lenalidomide 25 mg/die on days 1-21 in 28-days cycle. B: Dexamethasone 40 mg/die once a week in 28-days cycle.

Statements

  1. The variety of drugs, the clinical course with slow resolution and relapse and HHV-6 reactivation suggest that drugs cannot be the sole etiology of DRESS.
  2. Drugs with immunomodulatory activity or immunosuppression could contribute to the hypersensitivity reaction of DRESS syndrome.
  3. Few cases of DRESS syndrome in end-stage kidney disease are reported in literature, but because of the increasing use of drugs and its several autoimmune sequelae, a broad workup and a multidisciplinary careful approach could help in diagnosis, treatment and follow-up.
  4. Patients affected by chronic kidney disease may develop renal failure if DRESS Syndrome is complicated by severe acute interstitial nephritis or vasculitis.
  5. Therapy: oral methylprednisolone 1 mg/kg/die with slow taper over 3-6 months; quick taper encourages relapse, which could be treated only with IVIG 0,5 g/kg for 4 days.

 

Bibliography

  1. Tennis P, Stern RS. Risk of serious cutaneous disorders after initiation of use of phenytoin, carbamazepine, or sodium valproate: a record linkage study. Neurology 1997; 49:542. https://doi.org/10.1212/wnl.49.2.542.
  2. Cho YT, Yang CW, Chu CY. Drug Reaction with Eosinophilia and Systemic Symptoms (DRESS): An Interplay among Drugs, Viruses, and Immune System. Int J. Mol Sci 2017, 18, 1243. https://doi.org/10.3390/ijms18061243.
  3. James J, Sammour Y M, Virata A R, Nordin TA, Dumic I. Drug Reaction with Eosinophilia and Systemic Symptoms (DRESS) Syndrome Secondary to Furosemide: Case Report and Review of Literature. Am J Case Rep. 2018 Feb 14;19:163-170. https://doi.org/10.12659/ajcr.907464.
  4. Bocquet H, Bagot M, Roujeau JC. Drug-induced pseudolymphoma and drug hypersensitivity syndrome (Drug Rash with Eosinophilia and Systemic Symptoms: DRESS). Semin Cutan Med Surg. 1996 Dec;15(4):250–7. https://doi.org/10.1016/s1085-5629(96)80038-1.
  5. Kano Y et al. Sequelae in 145 patients with drug-induced hypersensitivity syndrome/drug reaction with eosinophilia and systemic symptoms: survey conducted by the Asian Research Committee on Severe Cutaneous Adverse Reactions (ASCAR). J Dermatol 2015 Mar;42(3):276-82. https://doi.org/10.1111/1346-8138.12770.
  6. Mori F, Caffarelli C, Caimmi S et al. Drug reaction with eosinophilia and systemic symptoms (DRESS) in children. Acta Biomed. 2019; 90(Suppl 3): 66–79. https://doi.org/10.23750/abm.v90i3-S.8167.
  7. Pichler WJ, Tilch J. The lymphocyte transformation test in the diagnosis of drug hypersensitivity. Allergy 2004 Aug;59(8):809-20 https://doi.org/10.1111/j.1398-9995.2004.00547.x
  8. Ben m’rad M, Leclerc-Mercier S, Blanche P, Franck N, Rozenberg F, Fulla Y, et al. Drug-induced hypersensitivity syndrome: clinical and biologic disease patterns in 24 patients. Medicine (Baltimore). 2009 May;88(3):131-40. https://doi.org/10.1097/MD.0b013e3181a4d1a1.
  9. Cacoub P et al. The DRESS Syndrome: a Literature review. The American Journal of Medicine, Vol 124, No7, July 2011. https://doi.org/10.1016/j.amjmed.2011.01.017.
  10. Isaacs M, Cardones AR, Rahnama-Moghadam S. DRESS syndrome: clinical myths and pearls. Cutis. 2018 Nov;102(5):322-326. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/30566546/
  11. Martínez-Cabriales SA, Rodríguez-Bolaños F, Shear NH. Drug Reaction with Eosinophilia and Systemic Symptoms (DReSS): How Far Have We Come? Am J of Clin Dermatol volume 20, pages 217–236 (2019). https://doi.org/10.1007/s40257-018-00416-4.
  12. Vlachopanos G, Kokkona A, Zerva A, Stavroulaki E, et al. A. Atypical DRESS Syndrome Induced by Lenalidomide in Chronic Hemodialysis J Clin Exp Pathol 2016, 6:3 https://doi.org/10.4172/2161-0681.1000277.
  13. Joly P, Janela B, Tetart F, et al. Poor benefit/risk balance of intravenous immunoglobulins in DRESS. Arch Dermatol 2012; 148:543. https://doi.org/10.1001/archderm.148.4.dlt120002-c.
  14. Singer EM, Wanat KA, Rosenbach MA. A case of recalcitrant DRESS syndrome with multiple autoimmune sequelae treated with intravenous immunoglobulins. JAMA Dermatol 2013; 149:494. https://doi.org/10.1001/jamadermatol.2013.1949.
  15. Avancini J, et al. Drug reaction with eosinophilia and systemic symptoms/drug-induced hypersensitivity syndrome: clinical features of 27 patients. Clin Exp Dermatol. 2015. https://doi.org/10.1111/ced.12682.
  16. Shaaban H. et al. A case of DRESS (drug reaction with eosinophilia and systemic symptoms) with acute interstitial nephritis secondary to lenalidomide. Oncol Pharm Pract. 2014 Aug;20(4):302-4. https://doi.org/10.1177/1078155213502569.
  17. Shanbhag A. et al. Highly Probable Drug Reaction With Eosinophilia and Systemic Symptoms Syndrome Associated With Lenalidomide. Hosp Pharm. 2017 Jun;52(6):408-411. https://doi.org/10.1177/0018578717717394.
  18. Foti C. et al. Drug reaction with eosinophilia and systemic symptoms caused by lenalidomide. Eur J Dermatol. Nov-Dec 2012;22(6):799-800. https://doi.org/10.1684/ejd.2012.1853.
  19. Osada S. et al. Drug-induced Hypersensitivity Syndrome/Drug Reaction with Eosinophilia and Systemic Symptoms Caused by Lenalidomide: Case Report and Review of the Literature. Acta Derm Venereol. 2021 May 28;101(5):adv00468. https://doi.org/10.2340/00015555-3835.
  20. Gajewska M. et al. DRESS syndrome after KRd (carfilzomib, lenalidomide, dexamethasone) therapy in a patient with multiple myeloma. Pol Arch Intern Med. 2021 Oct 27;131(10):16056. https://doi.org/10.20452/pamw.16056.

Campylobacter: a vintage pathogen to the fore

Abstract

Campylobacteriosis is caused by Gram bacteria. Most common species are C. jejuni and C. coli. Campylobacteriosis is a rare cause of sepsis, and in some European countries it is more common than salmonellosis, becoming a public health problem.
We have treated a 66-year-old patient, hypertensive, ischemic cardiopathic, scheduled for coronary angiography, hospitalized with AKI, in a state of shock after some days of acute diarrhea.
Because of the pathogen’s seasonal nature and the patient’s clinical features, in addition to common coproculture also Campylobacter has been sought, and found. Treated with volume repletion and antibiotics, within one week normal kidney functions were fully restored. He had a coronary angiography a week after being discharged from the hospital.

Keywords: Campylobacteriosis, AKI, diarrhea

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Introduzione

La campylobatteriosi è causata da batteri GRAM-negativi, pleomorfi, spesso di forma incurvata (dal greco Kampylos, cioè curvo) a S, elicoidale, spiraliforme o ad “ala di gabbiano”, della lunghezza di 2-5 μm e del diametro di 0,2-0,9 μm.

Inizialmente descritta come rara causa di sepsi nei pazienti immunodepressi, nel 1972 è stata inclusa tra le cause di malattie diarroiche. Le specie più frequenti (oltre il 90% delle infezioni) sono C. jejuni e C. coli.

Negli ultimi anni il tasso di incidenza della campilobatteriosi ha superato in alcuni paesi europei quello relativo alle salmonellosi, diventando un concreto problema di salute pubblica [7].

Ha un andamento stagionale e risulta più frequente nel periodo giugno-settembre. Le fasce di età più colpite sono 0-5 anni e > 65 anni. 

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Controversy in estimating glomerular filtration rate through traditional equations in transgender people: discussion through a case report

Abstract

Introduction: Chronic kidney disease (CKD) and the number of transgender people is on the rise. Hormone replacement therapy may be associated with the development of adverse effects, including kidney disease.
Objective: To report the case of a transgender patient using hormone therapy who developed CKD.
Case Report: Male transgender patient, 28 years old, using testosterone cypionate every 15 days, without any comorbidity. Evolved with hypertensive peaks of 160-150/110 mmHg and loss of kidney function (Ur 102 mg/dl, Cr 3.5 mg/dl, estimated Glomerular Filtration Rate (eGFR) of 22 ml/min/1.73m2 considering male gender and 16.6 ml/min/1.73m2 considering female gender). Abdominal ultrasound showed chronic parenchymal nephropathy. Due to the significant reduction in eGFR, the patient was referred for kidney transplantation, but he was not included in the list because he had a creatinine clearance of 23 ml/min/1.73m2 for males and 21.5 ml/min/1.73m2 for females in the most recent tests.
Conclusion: Hormone replacement may have contributed to the increase in the patient’s blood pressure and, consequently, to the development of CKD. There is still no well-established consensus on the best way to estimate the GFR in transgender people, and it seems to be more appropriate to consider the gender to which the person self-identifies or to perform the calculation for both genders, obtaining an estimate of the range in which the patient’s GFR lies.

Keywords: Transgender persons, chronic renal insufficiency, hypertension, hormone replacement therapy.

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Introduzione

La malattia renale cronica (MRC) è un grave problema di salute pubblica in tutto il mondo, che colpisce tra il 9,1% e il 15% degli adulti [1, 2]. In Brasile, l’insufficienza renale cronica ha mostrato un numero crescente negli ultimi decenni, con oltre 144 000 pazienti attualmente in dialisi [3]. Parallelamente, c’è un numero crescente di persone transgender, con una stima di oltre 1 milione negli Stati Uniti e 150 000 in Canada [46]. In un recente studio epidemiologico, è stato stimato che in Brasile l’1,9% della popolazione si identifica come non binaria e lo 0,69% come transgender [7], che corrisponderebbe a circa 1,4 milioni di transgender. 

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Hyperphosphatemic pseudotumoral calcinosis due to FGF23 mutation with secondary amyloidosis

Abstract

A 44 years old man was admitted for nephrotic syndrome and rapidly progressive renal failure. Two firm, tumour-like masses were localized around the left shoulder and the right hip joint. Since the age of 8 years old, the patient had a history of metastatic calcification of the soft tissues suggesting hyperphosphatemic pseudotumoral calcinosis. Despite treatment for a long time with phosphate binders the metastatic calcinosis had to be removed with several surgeries. The patient had also a history of recurrent fever associated with pain localized toward the two masses and underwent multiple antibiotic courses. Laboratory findings at admission confirmed nephrotic syndrome. S-creatinine was 2.8 mg/dl. Calcium was 8.4 mg/dl, Phosphorus 8.2 mg/dl, PTH 80 pg/ml, 25 (OH)VitD 8 ng/ml. Serum amyloid A was slightly increased. We performed renal biopsy and we found AA amyloid deposits involving the mesangium and the tubules. The bone marrow biopsy revealed the presence of AA amyloid in the vascular walls. During the next two months renal failure rapidly progressed and the patient started hemodialysis treatment. We performed genetic analysis that confirmed homozygous mutation of the FGF23 gene. After 14 months on hemodialysis, the patient’s lesions are remarkably and significantly reduced in dimension. The current phosphate binder therapy is based on sevelamer and lanthanum carbonate. Serum amyloid A is persistently slightly increased as well as C reactive protein. Proteinuria is in the nephrotic range without nephrotic syndrome.

Keywords: pseudotumoral calcinosis, tumoral calcinosis, FGF23, AA amyloid, renal failure, dialysis

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Introduzione

La calcinosi pseudotumorale iperfosfatemica è una rara condizione dovuta a deficit o resistenza all’azione del fibroblast growth factor 23 (FGF23). Dal punto di vista genetico, essa è associata a varianti patogenetiche a trasmissione autosomica recessiva, nei geni codificanti per FGF23 [21] e GALNT3. Quest’ultimo, a sua volta, codifica per una proteina responsabile della glicosilazione di FGF 23 [2123] e KL, regolatrici di KLOTHO, noto co-recettore fondamentale per la trasmissione intracellulare di FGF23 [3]. Ricordiamo che l’azione di FGF23 (Klotho-dipendente) si manifesta in modo simile a quella del paratormone (PTH) a livello del tubulo prossimale, dove inibisce i cotrasportatori sodio-fosforo IIa e IIc, con conseguente effetto fosfaturico. Sull’attivazione della Vit D3, invece, l’azione è opposta a quella del PTH, infatti FGF23 inibisce l’attività della 1-alfa idrossilasi e, quindi, causa una riduzione della 1-25 (OH) Vit D con conseguente inibizione, regolata dal cotrasportatore sodio-fosforo IIb, dell’assorbimento intestinale sia di calcio che di fosforo. In corso di calcinosi pesudotumorale iperfosfatemica, dunque, le mutazioni portano alla perdita della funzione fosfaturica dell’FGF23 con incremento del riassorbimento tubulare del fosforo e dell’1,25 diidrossi Vitamina D; il calcio di solito è normale-elevato e i livelli di PTH sono di solito normali o bassi. 

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Intoxications in nephrology: clinical cases and local experience of Sciacca Hospital

Abstract

Intoxications are a common problem all over the world and cause acid-base balance disturbances, dysionias or acute renal failure; they can develop rapidly leading to severe cellular dysfunction and death.

Intoxications and drug overdoses often require the intervention of Nephrologists, for the correction of acidosis, the administration of selective inhibitory enzymes and also hemodialysis treatment. Extracorporeal therapies have been used to remove toxins for over fifty years and have acquired an increasing role, thanks to the use of new treatment modalities in intoxicated patients. In our clinical practice in the Covid period we have found an increase in clinical cases of intoxication with psychiatric drugs, including benzodiazepines, clozapine, lithium, quetiapine and cocaine.

KEYWORDS: intoxication, neuroleptic abuse, rhabdomyolysis, extracorporeal therapy, Covid 19.

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Introduzione

Le intossicazioni acute da farmaci sono responsabili di circa il 5-15% di tutte le ospedalizzazioni; di esse, il 25-75 % sono evitabili [1]. Attualmente si preferisce sostituire il termine di “intossicazione accidentale” con le espressioni più realistiche di overdose senza volontà di morte, suicidio, effetto secondario e interazione farmacologica [2].

I disturbi del sonno, l’ansia, la depressione ed i disturbi psichiatrici in generale sono diventati molto più frequenti dopo l’inizio della pandemia da Covid-19, ovvero da Marzo 2020 a tutt’oggi, e l’uso di alcuni farmaci così come alcune dipendenze e i disturbi da uso di sostanze, sono in continuo aumento. I rischi di “curarsi da soli” attraverso l’abuso di alcool e di sostanze psicoattive sono aumentati, così come la propensione ad adottare comportamenti patologici come il gioco d’azzardo e la dipendenza da Internet. Le sostanze di cui si è abusato maggiormente durante la pandemia da Covid-19, così come emerge da uno studio italiano [3], sono state principalmente la cocaina e, a seguire, l’alcol, la cannabis, l’eroina e la ketamina.

Precedenti studi suggeriscono che la depressione, i disturbi dell’ansia, l’abuso di sostanze, l’incremento di tentativi di suicidio e il PTSD (stress post-traumatico) comunemente insorgono poco dopo l’appalesarsi della crisi economica nei disastri naturali [4,5]. Dati recenti di letteratura riportano inoltre che più del 40% dei pazienti sopravvissuti al Covid ha sperimentato lo stress post-traumatico [6].

Nel 2019, secondo quanto riportato dall’American Association of Poison Control Centers (AAPCC), sono stati registrati 2,1 milioni di casi di intossicazioni [7]. Nel 2020 il numero dei casi è stato sovrapponibile, anche se le richieste di informazioni e di aiuto telefonico sono state nettamente superiori, ovvero 1,1 milione rispetto alle 350.000 dell’anno precedente. Le sostanze maggiormente coinvolte nelle intossicazioni sono state, in ordine decrescente: gli analgesici, i prodotti per la pulizia della casa, i cosmetici, gli antidepressivi e gli antipsicotici [8].

Il Covid-19 ha determinato quindi dei cambiamenti riguardanti non soltanto la salute fisica ma anche quella mentale. Le persone in tutto il mondo sono costantemente alle prese con la paura e la preoccupazione riguardante il proprio stato di salute, condizioni che, associate alle conseguenze socio-economiche derivanti dalla disoccupazione, dal lockdown e dalla quarantena, hanno determinato delle importanti ripercussioni sulla popolazione generale [9].

Il Covid 19 associato al lockdown ha determinato anche un ritardo nell’arrivo in ospedale, che ha contribuito a fare registrare un alto tasso di mortalità [10]. I pazienti con storia di abuso di sostanze, già ad alto rischio di suicidio ed overdose, sono ulteriormente esposti a tali rischi nel caso in cui siano incapaci di reperire gli agonisti degli oppiacei [11].

Le complicanze renali dell’uso di oppiacei sono numerose e comprendono principalmente la rabdomiolisi con insufficienza renale acuta in corso di mioglobinuria, la nefrite interstiziale, la glomerulosclerosi focale e segmentaria, la glomerulonefrite membrano proliferativa e la glomerulonefrite a depositi mesangiali di IgA [12].

Pertanto, nella diagnosi di insufficienza renale acuta (IRA) o Acute Kidney Injury (AKI) organica da intossicazione da farmaci, oltre al quadro clinico, laboratoristico e strumentale [13], un ruolo fondamentale è svolto dall’anamnesi farmacologica [14] che, nella maggior parte dei casi, consente un orientamento diagnostico.

Lo stato mentale, i segni vitali e l’esame delle pupille sono degli elementi altrettanto importanti e permettono la classificazione in pazienti con uno stato di fisiologica eccitazione (che si riscontra frequentemente in caso di intossicazione da cocaina), depressione (come nell’intossicazione da benzodiazepine) ed effetti fisiologici misti (come nell’intossicazione da antidepressivi triciclici) [15].

Andamento temporale dei ricoveri, delle intossicazioni acute da farmaci e dei tentati suicidi

2016 2017 2018 2019 2020 2021 2022*
Ricoveri 200 200 198 200 146 162 43
Intossicazione 18 10 36 9
Tentato suicidio 0 2 5 1
Figura 1: Andamento temporale dei ricoveri, delle intossicazioni acute da farmaci e dei tentati suicidi attraverso l’abuso farmacologico presso l’UO di Psichiatria dell’Ospedale Giovanni Paolo II di Sciacca dal 2016 al 2022*(dato aggiornato a marzo 2022) 

Come mostrato nella Figura 1, abbiamo analizzato l’andamento dei ricoveri negli ultimi 6 anni (2016-2021) presso l’Unità Operativa di Psichiatria dell’Ospedale Giovanni Paolo II di Sciacca, riscontrando un calo nel biennio pandemico 2020-2021. Abbiamo quindi focalizzato la nostra attenzione sui casi di intossicazioni acute da farmaci e sui tentati suicidi attraverso l’abuso farmacologico dal 2019 al 2021, riscontrando un forte aumento di questi nel biennio pandemico 2020-2021. I dati del primo trimestre del 2022 dicono che si sono già riscontrati 9 casi di intossicazione e 1 tentativo di suicidio.

Tra tutti i casi di intossicazione ne abbiamo selezionati 5 occorsi in pazienti psichiatrici e/o tossicodipendenti, che hanno richiesto l’intervento della nostra unità operativa di Nefrologia e Dialisi e che illustreremo di seguito (Tabella 1).

  Paziente 1 (intossicato da benzodiazepine) Paziente 2 (intossicato da clozapina) Paziente 3 (intossicato da litio) Paziente 4 (intossicato da quetiapina) Paziente 5 (intossicato da cocaina)
pH 7,22 7,26 7,3 7,18 7,33
HCO3 12 16 20 13 18
Azotemia (mg/dl) 602 167 60 140 146
Creatinina (mg/dl) 7,76 7,2 1,3 2,04 9,1
K+ (mEq/L) 4 3,4 3,2 3,8 4,6
Na+ (mEq/L) 169 136 143 171 135
Leucociti/mm3 15700 12140 6700 13000 15750
Hb (gr/dl) 19,7 12,6 10,4 11 14,8
PLT/µL 84000 219000 120000 150000 208000
GOT/GPT (U/L) 211/85 180/44 66/113 50/120 33/11
Mioglobina (ng/ml) 2209 2500 300 2846 235
CK (U/L) 300 600 200 2522 1103
LDH (U/L) 751 1645 170 1500 1050
ECG Allungamento del tratto QT Tachicardia marcata. Deviazione assiale sinistra Allungamento del tratto QT Allungamento del tratto QT Allungamento del tratto QT
Sedimento urinario/p.c.m. 5-10 cilindri

>50 emazie

10-20 emazie

5-10 leucociti

5-10 leucociti 5-10 cilindri

10-20 emazie

5-10 emazie

5-20 leucociti

Tabella 1: Dati laboratoristici e strumentali (all’ingresso) nei pazienti affetti da overdose da farmaci

 

Caso clinico 1: AKI da intossicazione da benzodiazepine

Il primo caso clinico è quello di un uomo di 63 anni, con anamnesi positiva per schizofrenia paranoide nota dall’età adulta, in trattamento presso un Centro di Salute Mentale, e con storia di diabete mellito tipo 2.

Giungeva in pronto soccorso (PS) in condizioni di severa disidratazione e in alterato stato di coscienza e, come riferito dal fratello, in delirio di veneficio da circa un mese con conseguente rifiuto dell’alimentazione e all’idratazione.

Agli esami ematici si riscontrava una severa insufficienza renale (creatinina pari a 7,7 mg/dl) mentre nella documentazione esibita veniva documentata una funzione renale pregressa sempre nella norma; un esame ecografico delle vie urinarie aveva escluso una causa ostruttiva dell’IRA. Si apprendeva inoltre che il paziente assumeva da qualche anno litio carbonato, risperidone ed acido valproico.

In PS veniva eseguita una TC encefalo senza mezzo di contrasto (MDC) che risultava negativa per lesioni ischemiche e/o emorragiche. Veniva inoltre effettuato tampone molecolare per Sars Cov 2, anch’esso negativo.

Alla luce dell’anamnesi (rifiuto all’alimentazione e all’idratazione da un mese) e del severo stato di disidratazione, che facevano pensare almeno inizialmente ad una insufficienza renale acuta pre-renale, veniva impostata terapia idratante e veniva disposto il ricovero presso la nostra unità operativa.

Dalle analisi, dato il quadro suggestivo di AKI organica verosimilmente da rabdomiolisi e data l’oligoanuria persistente, si decideva di iniziare trattamento emodialitico previo posizionamento di CVC in vena giugulare interna destra.

L’esame del sedimento urinario su urine a fresco mostrava cilindri pigmentati di mioglobina ed emazie.

I risultati delle analisi tossicologiche rivelavano un quadro di intossicazione da benzodiazepine, verosimilmente assunte a scopo suicidario (Tabella 2).

Cocaina (ng/ml) 1 V.R. 0-300
Oppiacei (ng/ml) 13 V.R. 0-300
Cannabinoidi (ng/ml) 11 V.R. 0-50
Benzodiazepine (ng/ml) 1128 V.R. 0-300
Tabella 2: Screening su campione di urine per droghe di abuso, valore di riferimento (V.R.)

Veniva quindi somministrato come antidoto l’antagonista del sito di legame per le benzodiazepine sul recettore GABA A (Flumazenil fiala 0,3 mg per via endovenosa) con miglioramento dello stato di coscienza. Ulteriori segni di intossicazione riscontrati erano la presenza di un QT allungato di 0,46 sec e la piastrinopenia, verosimilmente secondaria all’assunzione di acido valproico. La severa ipernatriemia, associata ai valori elevati di osmolarità plasmatica (300 mOsm/L), è stata trattata con sedute di dialisi a concentrazione di sodio profilato [16] permettendo all’inizio il bilanciamento della riduzione dell’osmolarità con alte concentrazioni di sodio nel dialisato (>145 mEq/L), concentrazioni che sono state via via ridotte nel corso della seduta, seguendo un gradiente lineare per evitare l’insorgenza di sintomi quali cefalea, nausea, vomito tipici della sindrome da disequilibrio.

Dopo 3 sedute emodialitiche della durata di 4 ore ciascuna e dopo graduale idratazione, inizialmente con soluzioni ipotoniche, si assisteva ad un progressivo miglioramento delle condizioni cliniche, con ripresa dello stato di coscienza e miglioramento degli indici di funzionalità renale (Figura 2).

Si riscontrava inoltre la comparsa di vomito caffeano, motivo per il quale il paziente veniva sottoposto ad EGDS, con riscontro di lesioni da caustici non altrimenti specificata (Figura 3).

Contattato immediatamente il centro antiveleni, veniva avviata terapia con gastroprotettore e sostanze tamponate. Dal successivo colloquio psichiatrico effettuato nei giorni successivi, in condizioni di maggiore lucidità, si apprendeva che il paziente aveva ingerito sapone e candeggina al fine di “lavare il tubo gastroenterico”.

Giorno 1° Giorno 2 ° Giorno 3° Giorno 4 ° Giorno 5 ° Giorno 6 °
Creatinina (mg/dl) 7.76 6.5 3.84 2.9 2.8 2.8
Na+ (mEq/I) 169 157 141 136 140 140
GB/mm3 15130 13000 11800 10500 7520 7400
GR/mm3 19.7 18.9 15.8 13.9 11.1 11
HcT % 63 58 50 48 30.3 30
PLT/ 84.000 82000 56.000 41.000 40.000 61.000
Bil. Tot (mg/dl) 5 4.8 4.6 3.53 2 2
Bil. Dir. (mg/dl) 4.4 4.5 4.2 3 1.6 1.6
GPT (mg/dl) 85 68 58 62 47 30
GOT (mg/dl) 211 181 155 147 113 62
MGB (mg/dl) 2209 1500 727 300 150 70
Figura 2: Andamento temporale dei principali parametri laboratoristici monitorati
Figura 3: Immagine endoscopica dell’esofago con lesioni da caustici
Figura 3: Immagine endoscopica dell’esofago con lesioni da caustici

 

Caso clinico 2: AKI da intossicazione da clozapina

Un paziente di 57 anni, con storia di schizofrenia paranoica in terapia con clozapina 650 mg/die, arrivava in pronto soccorso in condizione di disidratazione mucoso cutanea e con addome teso, ipertimpanico in assenza di peristalsi, con alterati indici di funzionalità renale (creatinina 7,2 mg/dl, azotemia 167 mg/dl, proteinuria delle 24 ore 1 gr/die) e contrazione della diuresi. Alla TC addome veniva riscontrato un quadro compatibile con ileo paralitico, con dilatazione delle anse intestinali e multipli fecalomi a carico del trasverso, discendente, retto e sigma in assenza di idronefrosi (Figura 4).

Scansione TC addominale che mostra quadro compatibile con ileo paralitico
Figura 4: Scansione TC addominale che mostra quadro compatibile con ileo paralitico, con dilatazione delle anse intestinali e multipli fecalomi a carico del trasverso, discendente, retto e sigma in assenza di idronefrosi

Iniziava terapia emodialitica con Continuous Renal Replacement Therapy (CRRT) in modalità emodiafiltrazione veno-venosa continua (CVVHDF) per la presenza di instabilità emodinamica. Successivamente insorgeva uno stato di coma, accompagnato da iperpiressia e crisi epilettiche generalizzate. Nel sospetto di sindrome neurolettica maligna (malattia neuropsichiatrica caratterizzata da ipertermia, rigidità muscolare, disfunzione del sistema nervoso autonomo ed alterazioni dello stato di coscienza), iniziava terapia con Bromocriptina (composto semisintetico derivato dall’ergotamina) ad un dosaggio di 2,5 mg ogni 8 ore, con progressivo miglioramento dello stato di coscienza.

La clozapina è un antipsicotico di seconda generazione che, nonostante la sua efficacia, è riservato, per i suoi effetti collaterali, ai casi di schizofrenia resistenti ad altre terapie. I principali effetti collaterali, ampiamente noti, sono la severa neutropenia, l’ipomotilità gastro-intestinale, la sindrome neurolettica maligna [17], la pancreatite e l’insufficienza renale [18]. Nonostante sia stato riconosciuto il rischio che la clozapina possa causare quadri di nefrite interstiziale acuta come effetto collaterale, si tende comunque a sottovalutarne l’importanza. In letteratura sono riportati 14 casi di insufficienza renale acuta associati al trattamento con clozapina (Tabella 3).

Tabella 3: Casi riportati in letteratura di insufficienza renale acuta associati all’uso di clozapina

Rimane difficile, nonostante tutto, determinare i fattori di rischio, i criteri diagnostici e l’appropriata gestione dei casi di insufficienza renale associati all’uso di clozapina; l’assenza di idronefrosi, la rabdomiolisi, la storia anamnestica di assunzione di psicofarmaci sono stati per noi fortemente suggestivi di danno renale acuto secondario ad intossicazione.

Nel nostro paziente intossicato da clozapina, così come negli altri pazienti intossicati da psicofarmaci ricoverati presso la nostra U.O. nel periodo Covid, si è deciso di non effettuare la biopsia renale per le importanti problematiche neurologiche presenti, per il subentrante aggravamento delle condizioni cliniche generali e per l’arrivo celere degli esami tossicologici, i cui risultati sono stati considerati, in alcuni casi, indicazioni urgenti all’inizio della terapia emodialitica [19].

 

Caso clinico 3: AKI da intossicazione da litio

Il litio è un farmaco utilizzato nel trattamento del disturbo bipolare, psicosi maniaco-depressive, stati maniacali e/o ipomaniacali e nelle psicosi depressive croniche. Tuttavia, è un farmaco poco maneggevole, infatti è importante che venga mantenuto entro un particolare range terapeutico (0,6-1,2 meq/l).

La nefrotossicità è legata al superamento di tale range terapeutico e quindi alla possibile insorgenza di vari quadri clinici, come il diabete insipido nefrogenico, l’acidosi renale tubulare di tipo I, la sindrome nefrosica associata a glomerulonefrite a lesioni minime o a glomerulosclerosi focale e segmentale e la nefrite cronica interstiziale.

Per definizione si parla di “tossicità lieve” quando il range terapeutico è compreso tra 1,5 e 2,5 Meq/l, “tossicità moderata” quando è compreso tra 2,5 e 3,5 Meq/l e “tossicità severa” quando supera i 3,5 Meq/l [20]. In casi selezionati, le metodiche depurative extracorporee svolgono un ruolo importante nei casi di intossicazione da tale farmaco.

Il caso clinico in questione è quello di una paziente di anni 72 che giungeva in pronto soccorso in stato di severa disidratazione e di alterazione della coscienza. Attraverso il colloquio con la figlia, si apprendeva che la paziente era in trattamento con litio da circa 30 anni. Da circa una settimana a domicilio, erano comparse clonie agli arti inferiori, diarrea e vomito. La TC encefalo senza MDC risultava negativa per lesioni ischemiche e/o emorragiche. Data la storia farmacologica della paziente, veniva dosata la litiemia, che risultava pari a 1,78 mEq/L (range terapeutico 0,42-0,83). La creatinina risultava pari a 1,3 mg/dl, azotemia: 60 mg/dl, sodio sierico: 143 mEq/l e potassio sierico: 3,2 mEq/l.

Nonostante, secondo la definizione, si trattasse di una “tossicità lieve”, veniva iniziato trattamento sostitutivo emodialitico a causa dello stato soporoso persistente della paziente [21].

Durante la degenza venivano effettuate in totale due sedute emodialitiche di tipo depurativo, con miglioramento repentino del quadro clinico della paziente. Alla fine della prima seduta emodialitica la litiemia risultava pari a 1,2 mEq/L mentre, alla fine della seconda ed ultima seduta, era pari a 0,2 mEq/L. Insieme al miglioramento dei dati laboratoristici, si assisteva contemporaneamente a un miglioramento progressivo della sintomatologia neurologica.

 

Caso clinico 4: AKI da intossicazione da quetiapina

Il quarto caso clinico è quello di un uomo di 68 anni, giunto alla nostra osservazione ad ottobre 2021. Attraverso il colloquio con il suo amministratore di sostegno e i suoi due caregivers, si apprendeva dell’insorgenza di psicosi in età giovanile, motivo per il quale il paziente era in trattamento da qualche anno con un antipsicotico atipico, ovvero quetiapina, che assumeva abitualmente ad un dosaggio pari a 100 mg due volte al giorno.

Alla stessa classe di farmaci appartengono anche il risperidone e l’olanzapina, il cui utilizzo ha largamente soppiantato gli antipsicotici di prima generazione, grazie ad un maggior profilo di tollerabilità. Tali farmaci, andando ad antagonizzare i recettori alfa adrenergici, muscarinici, serotoninergici e solo in minima parte dopaminergici, sarebbero associati ad una minore insorgenza dei sintomi extrapiramidali come tremore, discinesia tardiva e rigidità [22], frequenti al contrario con gli antipsicotici di prima generazione. I neurolettici si distinguono in tipici (o di prima generazione) e atipici (o di seconda generazione) [23] (Tabella 4).

Neurolettici tipici (o di prima generazione) Neurolettici atipici (o di seconda generazione)
Antagonizzano recettori dopaminergici Antagonizzano recettori dopaminergici e serotoninergici
Fenotiazine a loro volta suddivise in:

Alfalitiche (clorpromazina)

Piperaziniche (fufenazina)

Piperidiniche (tioridazina)

Tioxantemi

Butirrofenoni (aloperidolo, droperidolo

Dibenzodiazepine:

Clozapina

Quetiapina

Olanzapina

Levolpiride

Pimozide

Remoxipride

Tabella 4: Neurolettici di prima e seconda generazione

Questi farmaci sono attualmente usati nel trattamento della schizofrenia, del disturbo bipolare e dei disordini comportamentali legati alla demenza [24].

Da sottolineare infatti, che il paziente in questione era affetto anche da deterioramento cognitivo, legato ad un’encefalopatia vascolare insorta da circa dieci anni.

Giungeva in PS a causa di insorgenza, da qualche giorno, di forte agitazione psicomotoria, comportamento incongruo, aggressività, aggravamento del deficit di memoria e disorientamento. In tale occasione veniva sottoposto a TC encefalo (due esami a distanza di 24 ore), negativa per lesioni ischemiche e/o emorragiche. A causa dell’aggravamento della situazione neurologica, veniva sottoposto anche ad una risonanza magnetica (RM) encefalica, anch’essa negativa per eventi acuti, e a consulenza psichiatrica e neurologica.

Veniva inviato alla nostra attenzione a causa del riscontro di un peggioramento dei parametri di funzionalità renale (creatinina: 2,04 mg/dl, azotemia: 140 mg/dl, sodio sierico: 171 mEq/l, potassio sierico: 3.8 mEq/l) con una diuresi conservata.

All’esame obiettivo era evidente una condizione di disidratazione. Veniva pertanto avviata terapia reidratante con soluzione glucosata al 5% in infusione continua, alla luce del severo quadro di ipernatremia che verosimilmente aggravava maggiormente il quadro neurologico. Veniva inoltre eseguito sin da subito un ECG, che evidenziava un QT allungato, segno ulteriore di possibile intossicazione farmacologica [25] (Figura 5).

Figura 5: evidenza elettrocardiografica di allungamento del QTc
Figura 5: evidenza elettrocardiografica di allungamento del QTc

Venivano inoltre eseguite a completamento diagnostico una TC addome completa senza MDC e una TC torace senza MDC, entrambe negative. Nei giorni seguenti, a causa del persistere delle severe condizioni neurologiche del paziente (permanentemente non contattabile), veniva avviata procedura di rachicentesi, al fine di escludere meningiti e/o encefaliti di natura infettiva con esito negativo.

Una volta esclusa una possibile encefalite e/o meningite infettiva, il nostro inquadramento diagnostico era quello di una sindrome da neurolettici. Sono pochi i casi riportati in letteratura di AKI da intossicazione da quetiapina [26,27]. Tuttavia, il progressivo miglioramento degli indici di funzionalità renale e degli enzimi di lisi muscolare alla sospensione dell’antipsicotico era fortemente suggestivo di tale diagnosi (Tabella 5).

  Giorno 1 Giorno 2 Giorno 3 Giorno 4 Giorno 5 Giorno 6 Giorno 7
Creatinina 2,04 1.93 1.77 1.52 1.25 1.16 1.08
Azotemia 140 139 121 119 115 90 83
NA 171 167 165 158 155 147 145
K 3.8 3.7 3.6 4 3.8 4.1 3.8
CK 2522 1877 1122 1000 902 425 125
Mioglobina 2846 1915 1353 916 825 576 327
Tabella 5: Andamento temporale dei principali parametri laboratoristici monitorati

La diuresi, così come il potassio, sono stati ottimali sin dall’inizio e, per la tempestiva ed incoraggiante discesa dei ritentivi renali e degli enzimi muscolari, la nostra scelta è stata quella di non dializzare il paziente.

Dopo circa 12 giorni di ricovero, si assisteva ad un miglioramento delle condizioni cliniche generali ed il paziente risultava maggiormente risvegliabile e contattabile. Veniva inoltre, una volta dimesso, avviato alle cure del Centro di Salute Mentale della zona e a terapia neuroriabilitativa.

 

Caso Clinico 5: AKI da intossicazione da cocaina

L’ultimo caso clinico è quello di un ragazzo tossicodipendente di 28 anni che afferiva in pronto soccorso per stato confusionale. Gli esami di laboratorio mettevano in evidenza un’alterazione degli indici di funzionalità renale (azotemia di 34 mg/dl, creatinina 1,5 mg/dl); dopo due giorni, in seguito alla contrazione della diuresi nonostante terapia reidratante, gli indici di funzionalità andavano incontro ad un grave peggioramento, con riscontro di azotemia 146 mg/dl e creatinina 9,1 mg/dl, motivo per cui il paziente veniva sottoposto a trattamento emodialitico.

L’esito dell’esame tossicologico metteva in evidenza, oltre all’abuso di cocaina, anche quello di benzodiazepine (Tabella 6).

Cocaina (ng/ml) 8390 H V.R. 0-300
Oppiacei (ng/ml) 27 V.R. 0-300
Cannabinoidi (ng/ml) 4 V.R. 0-50
Benzodiazepine (ng/ml) 1636 H V.R. 0-300
Tabella 6: Screening su campione di urine per droghe di abuso (metodo immunochimico), valore di riferimento (V.R.)

Il paziente veniva sottoposto a quattro sedute emodialitiche, con successiva ripresa della diuresi. La causa scatenante dell’insufficienza renale acuta dovuta all’abuso di cocaina è sicuramente la rabdomiolisi, che compare dopo qualche ora dalla sua somministrazione. La gravità della rabdomiolisi è direttamente proporzionale alla gravità dell’intossicazione da cocaina; i pazienti con creatinina-fosfo-chinasi (CPK) molto elevati tendono ad avere le complicanze più gravi [28,29].

I meccanismi della rabdomiolisi in seguito ad abuso di cocaina sono dovuti alla degenerazione acuta delle miofibrille scheletriche, fino ad arrivare all’ischemia ed alla necrosi muscolare [30]. La mioglobina rilasciata ha la potenzialità di determinare l’insufficienza renale acuta in seguito alla vasocostrizione renale, citotossicità diretta, necrosi tubulare acuta, generazione di radicali liberi, formazione di cast intraluminali e inibizione dell’effetto vasodilatatorio dell’ossido nitrico [31].

Anche in questo caso, l’inizio della terapia emodialitica ha determinato un miglioramento repentino del quadro clinico del paziente, tanto da decidere la sua dimissione solo dopo una settimana di degenza.

 

Conclusioni

Come viene dimostrato dai casi clinici elencati, la tempestiva valutazione nefrologica e l’inizio precoce della terapia emodialitica determina un miglioramento rapido del quadro neurologico e delle condizioni cliniche generali nell’insufficienza renale acuta da intossicazione da neurolettici e/o da abuso di cocaina. È altresì vero che, alla luce di quanto è stato ampiamente documentato, una reciproca collaborazione tra Psichiatri e Nefrologi nella scelta dei farmaci psichiatrici sarebbe sempre auspicabile, al fine di evitare l’insorgenza di effetti collaterali sia precoci che tardivi a carico di pazienti già vulnerabili.

Per la scelta della terapia extracorporea bisogna sempre valutare le caratteristiche delle tossine da rimuovere, ovvero la loro massa molecolare, il loro volume di distribuzione e il loro legame proteico; in generale, viene sempre preferita l’emodialisi intermittente nei pazienti che presentano una stabilità emodinamica. Attualmente, infatti, con l’emodialisi si riescono a rimuovere un numero maggiore di tossine uremiche (in particolar modo le medie molecole) e con i filtri ad alto cut-off si possono rimuovere sostanze con peso molecolare vicino ai 50.000 Da.

La terapia extracorporea avrà sempre maggiore importanza come opzione di trattamento nelle intossicazioni e i Nefrologi sono fondamentali in questi contesti. In conclusione, nel caso in cui siano presenti alcune condizioni tra cui una alterazione dello stato mentale del paziente, l’allungamento del tratto QT all’ECG, la rabdomiolisi, la storia anamnestica di assunzione di psicofarmaci, l’insufficienza renale acuta in assenza all’esame ecografico di idronefrosi, è lecito pensare ad un quadro di intossicazione da farmaci.

 

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Rupture of renal cyst secondary to blunt trauma: case report and review of the literature

Abstract

Rupture of a renal cyst can be spontaneous, iatrogenic or consequent to a trauma even of minor entity, especially in predisposing conditions such as cysts, tumors or hydronephrosis.

Kidneys are, in fact, involved in about 25% of abdominal traumas. The grading system of the American Association for the Surgery of Trauma (AAST) classifies renal injuries into five categories based on renal involvement and abnormalities detected on contrast-enhanced CT, modality of choice in the evaluation of abdominal trauma with suspicion of intraperitoneal hemorrhage.

Hematuria and/or flank pain are the most frequent presenting symptoms, although some patients may be also asymptomatic.

Treatment is usually conservative, but sometimes nephrectomy may be necessary.

In our manuscript we describe the case of a patient who comes to our observation with left side pain reporting a minor accidental fall occurred the day before.

Ultrasound examination and CT with contrast medium revealed hemoretroperitoneum resulting from rupture of a hemorrhagic renal cyst. We will describe the imaging characteristics and therapeutic choices below.

Keywords: renal cyst, renal hemorrhage, blunt renal trauma, hemoperitoneum

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Introduzione

Le cisti renali semplici rappresentano le masse renali più comuni, infatti nella popolazione generale si stima che circa il 50% delle persone con più di 50 anni ne abbia almeno una [1, 2]. Solitamente sono asintomatiche, ma in alcuni casi possono causare ostruzione, infezione o emorragia. La presenza di cisti inoltre rappresenta un fattore di rischio aggiuntivo nel coinvolgimento dei reni nei traumi addominali. La rottura post-traumatica di una cisti renale può avvenire nel sistema collettore, nello spazio subcapsulare e perinefritico, nel retroperitoneo o nella cavità peritoneale. L’emorragia renale massiva è un evento relativamente raro [3].

Descriviamo nel nostro lavoro il caso di un paziente giunto presso il nostro Pronto Soccorso per dolore addominale a causa della rottura di una cisti renale in seguito ad un piccolo trauma addominale chiuso avvenuto il giorno precedente.

 

Caso clinico

Paziente maschio di 55 anni giunge presso il Pronto Soccorso del nostro Ospedale per epigastralgia e dolore acuto al fianco sinistro. Riferisce caduta accidentale nella giornata precedente. In anamnesi presenta ipertensione arteriosa in terapia farmacologica; nessuna assunzione di farmaci antiaggreganti o anticoagulanti.

All’ingresso in ospedale clinicamente l’addome è trattabile, ma dolente in fianco sinistro.

La pressione arteriosa è 135/90 mmHg e la frequenza cardiaca 77 bpm ritmica.

Gli esami ematochimici mostrano solo un lieve incremento della PCR (1.6 mg/dl) con emoglobina nella norma.

Viene richiesta un’ecografia addominale che mostra la presenza, al rene di sinistra, di una cisti a contenuto disomogeneo, prevalentemente iperecogeno come da cisti emorragica, con sottile falda fluida perisplenica e modico incremento dello spazio splenorenale (Figura 1).

L’ecografia eseguita all’ingresso in Pronto Soccorso documenta al rene di sinistra la presenza di cisti complicata sepimentata
Figura 1: L’ecografia eseguita all’ingresso in Pronto Soccorso documenta al rene di sinistra la presenza di cisti complicata sepimentata, con pareti ispessite e contenuto misto ipo-iperecogeno (a). Concomita in sede perisplenica la presenza di falda fluida (b, freccia).

Si sospetta pertanto una rottura di tale cisti e si richiede TC con mdc ev, che conferma la presenza di versamento ematico libero perirenale e nello spazio splenorenale, secondario a rottura della nota cisti renale sinistra, senza significativi segni di sanguinamento attivo (Figura 2).

Figura 2: La TC con mdc conferma la presenza di versamento ematico perisplenico (freccia) e perirenale a sinistra (freccia tratteggiata) secondario a rottura di cisti renale (*).
Figura 2: La TC con mdc conferma la presenza di versamento ematico perisplenico (freccia) e perirenale a sinistra (freccia tratteggiata) secondario a rottura di cisti renale (*).

Essendo il paziente emodinamicamente stabile, viene scelta una strategia conservativa.

Nei tre giorni successivi il paziente resta stabile; al quarto giorno si assiste ad un brusco peggioramento delle condizioni cliniche con netta riduzione dell’emoglobina sierica (fino a raggiungere valori di 8,8 g/dl (Tabella 1).

 

GIORNO 0

 

GIORNO 1

 

GIORNO 2

 

GIORNO 3

 

GIORNO 4

EMOGLOBINA

(v.n. 12-17 g/dl)

 

 

15,6 g/dl

 

15,2 g/dl

 

15,1 g/dl

 

14,2 g/dl

11,2 g/dl

10,6 g/dl

8,8 g/dl

CREATININA

(v.n. 0,6 –1,17 mg/dl)

 

 

0,9 mg/dl

 

0,8 mg/dl

 

0,8 mg/dl

 

0,9 mg/dl

 

1,0 mg/dl

PCR

(v.n. 0-1 mg/dl)

 

 

1,6 mg/dl

 

4,8 mg/dl

 

5,0 mg/dl

 

7 mg/dl

 

15,7 mg/dl

Tabella 1: Valori ematochimici giornalieri seriati dal giorno 0 al giorno 4 (v.n.:valori normali)

Nel sospetto di una massiva perdita ematica, viene quindi sottoposto ad ulteriore TC con mdc, con riscontro di netto incremento dell’emoperitoneo ed emoretroperitoneo (Figura 3). Il paziente viene sottoposto ad intervento chirurgico di laparotomia esplorativa, nel corso del quale il rene appare dismorfico, con multiple e voluminose cisti emorragiche, e con quota parenchimale notevolmente ridotta. Pertanto viene optata, anche per la presenza di numerosi coaguli e aderenze, l’asportazione del rene di sinistra.

Figura 3: La TC con mdc eseguita dopo 4 giorni
Figura 3: La TC con mdc eseguita dopo 4 giorni, in seguito a peggioramento clinico e laboratoristico del paziente, documenta un netto incremento dell’emoperitoneo (freccia tratteggiata) ed emoretroperitoneo a sinistra (freccia) con dislocazione antero-mediale del rene omolaterale.

 

Discussione e review

I reni sono coinvolti in circa il 25% dei traumi addominali, soprattutto in presenza di condizioni predisponenti, quali idronefrosi, cisti o tumori [4].

L’emoperitoneo, ossia la presenza di sangue all’interno della cavità peritoneale, può essere spontaneo oppure conseguente ad un trauma. Il sanguinamento di qualsiasi organo addominale, compreso il rene, ne può essere responsabile.

Nei pazienti che presentano dolore addominale acuto, segni di instabilità emodinamica o evidenza di perdita di sangue agli esami ematochimici, è indispensabile un approfondimento diagnostico con esame di imaging [58].

Il nostro paziente riferiva dolore addominale, in assenza di segni di instabilità emodinamica.

Sia l’ecografia che la TC possono essere utilizzate nel sospetto di emoperitoneo in pazienti con trauma renale chiuso. La TC è sicuramente più accurata rispetto all’ ecografia, ma può dare falsi negativi se eseguita troppo precocemente [9].

Con l’ecografia è possibile identificare facilmente la presenza di raccolte, ma non è possibile differenziare il sangue coagulato dal tessuto solido [8, 10]. Tuttavia, essa risulta utile soprattutto nei bambini, oppure negli adulti con trauma minore, dal momento che ha un elevato valore predittivo negativo (circa 98%) [11, 12].

La TC con mdc rappresenta la metodica di scelta nel trauma con sospetto di emorragia intra-addominale. Nelle acquisizioni pre-contrastografiche, le raccolte ematiche si presentano come masse renali ben circoscritte, con valori densitometrici compresi tra 40 e 90 HU, maggiori rispetto al parenchima renale; a volte al loro interno può essere presente un livello fluido-fluido. Nelle acquisizioni post-contrastografiche, invece, i valori densitometrici delle raccolte ematiche risultano inferiori rispetto al parenchima renale; a volte può essere presente stravaso di mezzo di contrasto, segno di sanguinamento attivo [8, 13, 14].

Uno studio propone un metodo per valutare, attraverso una formula lineare, il volume dell’emoperitoneo, in relazione allo spessore del fluido nella tasca del Morrison rilevato con la TC; questa misurazione può essere utile per decidere la strategia terapeutica [15].

Prima dell’introduzione della TC, per la valutazione dei traumi renali si faceva ricorso all’urografia endovenosa e alla cistografia. Spesso, però, come riportato in diversi studi in letteratura, i reperti risultavano normali a causa della scarsa sensibilità e specificità [16].

Secondo l’American Association for the Surgery of Trauma (AAST), i traumi renali possono essere classificati in cinque gradi sulla base del coinvolgimento renale e delle anomalie riscontrabili alla TC [17]:

  • Grado I: comprende contusioni renali ed ematomi sottocapsulari; rappresentano il tipo di trauma renale più frequente (circa 80%);
  • Grado II: comprende gli ematomi perirenali confinati al retroperitoneo e piccole lacerazioni (< 1 cm) della corteccia, senza stravaso di urina;
  • Grado III: comprende lacerazioni più profonde (>1 cm) senza coinvolgimento del sistema collettore o stravaso di urina;
  • Grado IV: comprende le lacerazioni parenchimali con coinvolgimento della corticale, della midollare e del sistema collettore, oppure infarti renali segmentari causati da trombosi, dissezioni o lacerazioni delle arterie segmentarie;
  • Grado V: in caso di frantumazione renale o di avulsione dell’ilo renale e conseguente devascolarizzazione del rene.

Le principali complicanze che si possono manifestare dopo un trauma renale sono: stravaso di urina, urinoma, emorragie secondarie, ascesso perirenale, pseudoaneurisma, ipertensione e fistola artero-venosa [18].

Per investigare meglio le cause di rottura di cisti renali, con conseguente emoperitoneo, abbiamo effettuato una ricerca su PubMed utilizzando le parole “Renal Injury”, “Renal Hemorrhage”.

Uno studio in letteratura [19] riporta che la rottura di una cisti renale può essere spontanea, avvenire in seguito ad un trauma renale chiuso oppure essere iatrogena (ad esempio in seguito ad un’endoscopia retrograda effettuata per altri motivi).

La rottura spontanea o traumatica delle cisti renali si manifesta molto comunemente con ematuria o con dolore al fianco. A volte può essere presente anche la febbre. Raramente il paziente è asintomatico.

Alcune condizioni che predispongono alla rottura delle cisti renali sono: infezioni del tratto urinario, trauma, uropatia ostruttiva, ipertensione, anomalie di coagulazione del sangue [19].

Per quanto riguarda la patogenesi, in caso di trauma penetrante si viene a creare una comunicazione diretta tra cisti e gli spazi adiacenti. Nei traumi renali chiusi, invece, si verifica, come nel caso da noi descritto, un rapido aumento della pressione all’interno della cisti, per cui si può avere un’emorragia interna, o immediatamente oppure in un secondo momento. In caso di infezione di una cisti renale, oltre all’aumento della pressione al suo interno, la rottura può verificarsi anche a causa dell’indebolimento delle pareti [20].

Per quanto riguarda la rottura di cisti renali in seguito a trauma renale chiuso, in letteratura sono riportati diversi casi con quadri clinici di diversa gravità, in relazione all’entità del trauma stesso: la maggior parte dei pazienti è trattata in maniera conservativa, in alcuni è necessario ricorrere a nefrectomia. Sporadicamente sono descritti anche alcuni casi di morte (ad esempio uno riguardante un paziente in terapia anticoagulante, un altro riguardante un paziente senza patologie preesistenti ma in cui si era verificata una lesione vascolare) [3, 6, 19, 21, 22, 23, 24].

 

Conclusioni

La rottura di una cisti renale in seguito ad un trauma renale chiuso è un’evenienza molto rara e spesso il trattamento è conservativo, tuttavia non va sottovalutata perché, anche se di piccola entità, potrebbe rappresentare un’insidia diagnostica ed essere fatale per la vita del paziente.

 

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Staphylococcus-associated glomerulonephritis without IgA deposits: a case report

Abstract

Staphylococcus-associated glomerulonephritis (SAGN) represents a possible version of parainfectious glomerulonephritis and is a pathological entity that’s now constantly increasing in developed countries. It is known how bacterial infections can be a possible trigger for various type of glomerulonephritis with clinical onset and evolution comparable to the ones observed in parainfectious glomerulonephritis. Furthermore, in clinical practice the identification and isolation of the pathogenic microorganism responsible for the development of parainfectious glomerulonephritis is not always possible. Therefore, in those cases in which SAGN is suspected, it is often necessary to recur to kidney biopsy in order to come to as much as possible correct diagnosis. Historically, according to scientific literature, the most distinctive anatomopathological feature of SAGN is represented by predominant or codominant mesangial IgA deposits, sometimes associated with C3 deposits. These findings make the differential diagnosis between SAGN and IgA nephropathy often necessary. However, many reports describe how SAGN can also be characterized by a varying spectrum of immunological deposits. In some cases, for example, IgA deposits can be absent and in some other cases it is described a net dominance of C3 deposits. In this case, it becomes extremely important to exclude a possible occurrence of C3 glomerulopathy (C3GN), considering how different are the therapeutic approach and the prognostic implications associated to it. However, the differential diagnosis between SAGN and C3GN can be very hard.

Here’s a case report about a patient who has been hospitalized into our Unit after developing a form of Staphylococcus Aureus associated glomerulonephritis which presented atypical anatomopathological features.

Keywords: staphylococcus-associated glomerulonephritis, C3GN, differential diagnosis, histopathology features.

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Introduzione 

Fino allo scorso secolo il prototipo di glomerulonefrite (GN) associata ad infezione batterica era rappresentato dalla glomerulonefrite acuta “post-streptococcica”, caratterizzata dalla comparsa di sindrome nefritica dopo completa risoluzione di un’infezione streptococcica in pazienti prevalentemente in età pediatrica. Questo tipo di glomerulonefrite, ad oggi, continua ad essere altamente diffusa nei Paesi in via di sviluppo, mentre nei Paesi occidentali negli ultimi decenni si è assistito ad un aumento delle glomerulonefriti cosiddette “parainfettive”; esse risultano caratterizzate da un esordio clinico che avviene durante la fase attiva di infezione da parte di un più ampio spettro di patogeni. Il termine di glomerulonefrite post-infettiva viene pertanto riservato a casi insorti dopo un periodo di latenza dalla completa risoluzione dell’infezione, e la forma post-streptococcica sembra essere ad oggi l’unica entità che rientri in questa denominazione [1]. Il patogeno più frequentemente responsabile di glomerulonefrite parainfettiva nell’adulto e nel paziente anziano è rappresentato dallo stafilococco aureo, prevalentemente ceppi meticillino-resistenti (MRSA). Le manifestazioni renali insorgono quando l’infezione scatenante è ancora in fase di piena attività e sono costituite nella maggior parte dei casi da sindrome nefritica, con insufficienza renale acuta associata ad anomalie urinarie con microematuria (raramente macroematuria) e/o proteinuria, talora anche in range nefrosico; agli esami di laboratorio è inoltre frequente il riscontro di ipocomplementemia (C3 con o senza riduzione del C4) che tende a normalizzarsi dopo circa 2 mesi dall’esordio, tranne nei casi di infezione persistente [2].

La glomerulonefrite associata ad infezione stafilococcica (SAGN) presenta caratteri istologici distinti dalle altre forme di GN parainfettiva, in particolare la presenza dominante o codominante di IgA a livello mesangiale e il riscontro alla microscopia elettronica di depositi elettrondensi (humps) sempre in sede mesangiale, talora anche subendoteliale, intramembranosa o subepiteliale. Tuttavia, i reperti istologici di SAGN non sono patognomonici; infatti possono essere in alcuni casi mascherati o coesistenti con altri derivanti dalle comorbidità del paziente (in particolare il diabete mellito) [3]. Le principali difficoltà di diagnosi differenziale si riscontrano con la glomerulonefrite acuta post-streptococcica, la nefropatia a depositi mesangiali di IgA (IgAN) e la glomerulonefrite da depositi di C3 (C3GN) [4].

L’attivazione del complemento gioca un ruolo centrale nella patogenesi della SAGN. Il sistema del complemento, infatti, è coinvolto nella omeostasi immunologica anche in corso di infezione batterica che può essere un trigger per l’attivazione della via alterna (più frequentemente) o della via lectinica [5]. Il passaggio chiave nella cascata del complemento è la scissione di C3 in C3a e C3b influenzata dall’attività della C3 convertasi. La cascata del complemento terminale viene avviata dalla convertasi C5 e, infine, genera il complesso di attacco della membrana che induce la lisi cellulare, l’attivazione di segnali infiammatori e il conseguente danno tissutale [6].

La terapia della SAGN, come nelle altre glomerulonefriti parainfettive, richiede l’eradicazione del focolaio infettivo, mentre l’effettiva efficacia dei corticosteroidi rimane ad oggi ancora dubbia e peraltro non scevra da rischi. Come nelle altre forme di GN parainfettive anche i pazienti con SAGN presentano maggior rischio di mortalità e di ESRD rispetto alla classica GN post-streptococcica, in quanto tale patologia colpisce pazienti spesso di età avanzata e con patologie croniche concomitanti [7].

 

Caso clinico

Riportiamo il caso di un paziente di sesso maschile, etnia caucasica, di 61 anni, giunto alla nostra osservazione per insufficienza renale acuta sviluppata in corso di sepsi da stafilococco aureo meticillino-sensibile (MSSA) con focolai multipli (ossei, oculari e polmonari). In anamnesi il paziente presentava un singolo evento di trombosi retinica associato a positività per anticorpi antifosfolipidi risalente a 10 anni prima, motivo per il quale era in terapia antiaggregante, calcolosi renale non complicata, pregresso intervento di emorroidectomia e dislipidemia.

Il paziente veniva inizialmente ricoverato presso il reparto di Medicina Interna per iperpiressia, severa lombalgia associata ad artralgie diffuse, edemi declivi di discreta entità ed un riferito singolo episodio di macroematuria nei giorni immediatamente precedenti. Agli esami di laboratorio veniva documentato un quadro infettivo sistemico caratterizzato da leucocitosi neutrofila ed incremento degli indici di flogosi (PCR 272 mg/l, PCT 28 ng/ml), mentre la funzione renale risultava inizialmente conservata (sCr 0.9 mg/dl) seppur con presenza di anomalie urinarie quali proteinuria dosabile (178 mg/dl), leucocituria e microematuria con alcuni cilindri ialino-granulosi al sedimento. In seguito all’isolamento di stafilococco aureus meticillino-sensibile (MSSA) dalle emocolture eseguite all’ingresso, veniva modificata la terapia antibiotica empirica, sostituendo piperacillina/tazobactam ed azitromicina con oxacillina per via endovenosa in infusione continua, che il paziente effettuerà per 43 giorni complessivi. Durante la degenza presso il reparto di Medicina Interna venivano riscontrati diversi focolai di infezione, tra cui localizzazioni polmonari bilaterali in forma di addensamento, osteoarticolari con spondilodiscite coinvolgente le vertebre lombari e le prime vertebre sacrali, complicate da raccolte ascessuali intracanalari in sede peridurale, ed oculari con essudati cotonosi a carico dell’occhio sinistro. Risultava invece negativo per endocardite lo studio ecocardiografico transesofageo.

Dal punto di vista nefrologico, tra la quinta e la settima giornata rispetto all’insorgenza dei sintomi correlabili allo stato settico, si registrava un iniziale peggioramento della funzione renale con valori di creatininemia che da 0,9 mg/dl raggiungevano gli 1,86 mg/dl. Nonostante la risoluzione dello stato settico con riduzione degli indici infiammatori plasmatici e della sintomatologia riferita, la funzione renale risultava essere in costante peggioramento anche nei giorni successivi fino a raggiungere il valore massimo di creatininemia di 4 mg/dl alla trentacinquesima giornata di degenza; inoltre a partire dalla settima/ottava giornata di ricovero si assisteva al consumo isolato del fattore C3 del complemento, mentre il fattore C4 si manteneva in range di normalità, durante tutto la durata del ricovero.
A scopo di approfondimento diagnostico il paziente veniva pertanto trasferito presso il nostro reparto e veniva sottoposto ad agobiopsia renale ecoguidata al polo renale inferiore sinistro in trentesima giornata di ricovero, senza complicanze, in particolare non macroematuria, che mostrava i seguenti reperti:

– Alla microscopia ottica presenza di dodici glomeruli con moderata ipercellularità mesangiale di tipo diffuso e globale associata a minimo incremento della matrice mesangiale e assenza di crescents, ipercellularità endocapillare con abbondante infiltrato infiammatorio interstiziale rappresentato per lo più da neutrofili, linfociti di piccola taglia e plasmacellule. La popolazione neutrofila presentava tendenza a migrare nei tubuli in corrispondenza del materiale proteinaceo presente. Si evidenziavano poi aree focali di necrosi tubulare, edema e aree focali di necrosi interstiziale. Non trombosi dei vasi. (Fig. 1 e 2)

Figura 1: Biopsia renale. Microscopia ottica (PAS; 20x) – Inclusione in paraffina sezione 3-μm. Un glomerulo con ipercellularità mesangiale diffusa con espansione della matrice ed infiltrato infiammatorio (> neutrofili). Assenza di crescents.
Figura 2: Biopsia renale. Microscopia ottica (PAS; 40x) – Inclusione in paraffina sezione 3-μm. Necrosi tubulare e atrofia tubulare.

– All’immunofluorescenza (IF) presenza di sei glomeruli caratterizzati da lievi depositi focali e segmentari a livello mesangiale e delle anse di IgM (1+) e IgG (1+) ed intensa positività per il fattore C3 (3+). Vi era invece negatività completa per IgA. (immagini non disponibili)

– Alla microscopia elettronica è stata esaminata l’ultrastruttura di due glomeruli in cui si osservava normale spessore delle membrane basali, ipertrofia endoteliale, ipercellularità mesangiale segmentale, numerosi depositi elettrondensi (non strutturati) su anse glomerulari (prevalentemente sub-endoteliali ed intramembranosi) e nel mesangio e paramesangio in assenza di franchi aspetti tipo “humps”, ampi tratti di fusione dei pedicelli (pari a circa il 40% della loro estensione) e minima iperplasia villosa dei podociti. (Fig. 3)

Figura 3: Biopsia renale. Microscopia elettronica – Membrane basali di normale spessore; ipercellularità mesangiale segmentale; numerosi depositi elettrondensi su anse (subendoteliali ed intramembranosi) e nel mesangio/paramesangio (non humps); tratti di fusione dei pedicelli (fino a 40%); non aspetti riferibili a DDD.

Data la scarsa specificità del quadro anatomopatologico, in particolare il quadro evidenziato all’immunofluorescenza di negatività completa per IgA con forte intensità per il fattore C3 del complemento, si rendeva necessario escludere un quadro di C3GN. Per ottenere un elemento aggiuntivo a favore della diagnosi di glomerulonefrite parainfettiva si procedeva ad esecuzione di immunoistochimica per il fattore C4d alla microscopia ottica, che risultava essere lievemente e diffusamente positivo a livello della parete capillare (Fig.4), indicativo pertanto di un effettivo danno mediato da immunocomplessi con attivazione della via classica o lectinica del complemento. Le notizie cliniche, laboratoristiche ed anatomo-patologiche a nostra disposizione, indirizzavano alla diagnosi di SAGN; veniva quindi iniziata terapia con prednisone alla dose di 0.5 mg/kg/die per os. Il paziente veniva quindi trasferito presso una struttura riabilitativa per la prosecuzione delle cure.

Figura 4: Biopsia renale. Immunoistochimica C4d positiva, espressione discontinua in alcune anse capillari glomerulari.

Dopo 8 giorni dalla dimissione il paziente veniva nuovamente ricoverato presso il nostro reparto per insufficienza renale acuta secondaria ad urosepsi da germi Gram negativi dovuta a litiasi ureterale sinistra ostruttiva, trattata con posizionamento di stent ureterale sinistro DJ e terapia antibiotica endovenosa; in tale occasione lo steroide veniva sospeso dopo rapido scalo. Una volta stabilizzato il quadro clinico, il paziente veniva nuovamente trasferito il giorno presso la struttura di provenienza con valori sierici di creatinina intorno a valori di 3.4 mg/dl (eGFR 18 ml/min sec. CKD-EPI 2009) (Grafico 1), mentre i livelli ematici del fattore C3 del complemento risultavano in aumento (Grafico 2) e successivamente normalizzati, e con valori di PCR in progressiva riduzione (Grafico 3). Dopo un mese dalla seconda dimissione il paziente si presentava ad una rivalutazione ambulatoriale in buone condizioni generali e gli esami mostravano un lieve ulteriore miglioramento della funzione renale (creatinina 2.9 mg/dl) con completa regressione delle anomalie urinarie; ai successivi controlli il paziente presentava lento e progressivo, seppur incompleto, recupero della funzione renale con stabilizzazione della creatininemia a distanza di un anno intorno a valori di 2 mg/dl (eGFR 35 ml/min sec. CKD-EPI 2009).

Grafico 1: Andamento della creatininemia mg/dl nel tempo (giorni).
Grafico 1: Andamento della creatininemia mg/dl nel tempo (giorni).
Grafico 2: Andamento fattori del complemento C3 (in rosso) e C4 (in blu) mg/dl nel tempo (giorni).
Grafico 2: Andamento fattori del complemento C3 (in rosso) e C4 (in blu) mg/dl nel tempo (giorni).
Grafico 3: Andamento della proteina C reattiva (PCR) mg/l nel tempo (giorni).
Grafico 3: Andamento della proteina C reattiva (PCR) mg/l nel tempo (giorni).

 

Discussione

Ad oggi, vi sono pochi studi dedicati in modo esclusivo alla glomerulonefrite associata ad infezione stafilococcica, pertanto le caratteristiche demografiche e clinico-patologiche di questa nefropatia non sono ancora state ben caratterizzate. Nella maggior parte delle casistiche di biopsie renali, la SAGN rappresenta meno dell’1% dei casi [7] ed è pertanto considerata una forma di glomerulonefrite rara, nonostante sia ormai ben noto un trend in aumento della sua incidenza nei Paesi industrializzati, probabilmente sottostimata; infatti per poter diagnosticare la SAGN sono necessari non solo un quadro anatomopatologico compatibile, ma anche l’isolamento colturale del patogeno che per varie ragioni può non essere disponibile (mancata raccolta di campioni, infezione subclinica misconosciuta, inizio precoce di terapia antibiotica). Le casistiche più numerose di SAGN sono quelle raccolte da Hemminger et al. (78 casi su 9500 biopsie eseguite in 13 anni) [4] e quella di Nasr (109 casi di glomerulonefrite parainfettiva, dei quali 50 erano secondari ad infezione stafilococcica) [7]; in entrambe si registrava la netta predominanza nel sesso maschile, con un rapporto medio di 3.5:1, e nelle etnie caucasiche ed asiatiche. L’età media dei pazienti è di 55-58 anni con un range d’età però molto ampio (in media 13-90 anni), indicativo di un interessamento anche delle fasce di popolazione più giovane legato all’abuso di sostanze stupefacenti per via endovenosa che espone a rischio infettivo. Tra i fattori di rischio legati all’aumento dell’incidenza di SAGN vi sono inoltre il diabete, l’alcolismo, la cirrosi epatica, l’abuso di sostanze stupefacenti per via endovenosa e le neoplasie. Il paziente giunto alla nostra osservazione tuttavia non presentava alcun noto fattore di rischio e, pur mostrando un interessamento multiorgano, non è stato possibile riconoscere il focolaio primitivo.

Dal punto di vista clinico il paziente ha presentato una riduzione dei livelli di C3 dopo 7 giorni dall’ospedalizzazione con andamento pressoché parallelo alla concomitante riduzione della funzione renale; le anomalie urinarie costituivano invece la manifestazione d’esordio della nefropatia in quanto già presenti all’ingresso in ospedale. Dati simili si riscontrano anche in letteratura, dove circa il 90% dei pazienti presenta insufficienza renale acuta con microematuria e proteinuria di vario grado [8]. Nella casistica di Hemminger il 30% dei pazienti presentava bassi livelli sierici di fattore C3 ed il 14% presentava bassi livelli sierici di C4, mentre in quella di Nasr la prevalenza di ipocomplementemia era del 35-80%, nella maggior parte dei casi riguardante solo il fattore C3; valori normali di complementemia pertanto non costituiscono un affidabile criterio di esclusione di SAGN. Il dosaggio del titolo anticorpale ANCA risultava negativo; casi di positività sono tuttavia stati descritti prevalentemente in pazienti con endocardite stafilococcica senza evidenti segni clinici di vasculite [9].

Abbiamo deciso di sottoporre il paziente a biopsia renale poiché il quadro clinico di sindrome nefritica in corso di infezione sistemica in atto poteva essere riconducibile a vari tipi di glomerulonefrite (nefrite lupica, glomerulonefrite da crioglobulinemia, glomerulonefrite a depositi di C3 o C3GN, IgAN, vasculite ANCA+) [10]. Gli elementi istologici atipici in questo paziente erano rappresentati dall’assenza all’immunofluorescenza di depositi di IgA con una netta predominanza di C3, a fronte di un quadro proliferativo-essudativo alla microscopia ottica riconducibile a SAGN. I primi studi, che hanno cercato di identificare le caratteristiche peculiari di SAGN rispetto alle altre forme di glomerulonefrite parainfettiva, mostravano la presenza in tutte le biopsie di una dominanza all’IF di depositi di IgA [11]; tuttavia, questo assunto è stato messo in discussione da lavori successivi in cui è stata osservata un’ampia variabilità dell’entità di tali depositi, che addirittura possono risultare del tutto assenti in circa il 25% dei pazienti [12]. In molti casi inoltre i depositi di C3 risultano dominanti, ponendo pertanto problemi di diagnosi differenziale con la C3 glomerulopathy, gruppo di glomerulonefriti in cui lo staining di C3 all’immunofluorescenza sia di almeno 2 volte superiore a quello di altri marcatori [13]. Esistono infatti diversi punti in comune, sia clinici che anatomopatologici, tra i due tipi di glomerulonefriti che spesso non consentono una chiara definizione della nefropatia in atto. Le infezioni batteriche possono infatti rappresentare il trigger in entrambe le patologie, e causare frequentemente il consumo isolato del fattore C3 nel siero. Alla biopsia renale il quadro tipico di C3GN alla microscopia ottica è quello di una glomerulonefrite membranoproliferativa, ma in una minoranza di casi si possono riscontrare pattern di proliferazione mesangiale con componente essudativa di vario grado come nelle SAGN; anche l’IF (intensa positività per il fattore C3, eventuale debole positività per IgG ed assenza di positività per IgA) e la microscopia elettronica (immunodepositi subendoteliali, mesangiali, subepiteliali) possono presentare reperti pressoché sovrapponibili ad entrambi i tipi di nefropatia [14]. È intuibile pertanto come alcune forme di SAGN, in particolare quelle con quadro di glomerulonefrite membranoproliferativa e con assenza di IgA all’immunofluorescenza, possano essere indistinguibili dalla C3 glomerulopathy. Alcuni autori hanno proposto lo studio dei depositi di C4d per distinguere se la presenza di C3 sia secondaria all’attivazione della via classica o lectinica del complemento (da immunocomplessi, come nel nostro caso, con diffusa positività per C4d) o della via alterna (assenza di C4d, verosimile C3GN) [15]. In una casistica di GN parainfettive con depositi di IgA (78% dei casi secondarie ad infezioni da stafilococco aureo) si registrava positività per C4d nel 65% dei pazienti, ed era correlata sia alla presenza di pattern proliferativi sia ad un ridotto intervallo di tempo tra l’esordio della nefropatia e l’esecuzione della biopsia renale [16]. Tuttavia, si trovano diverse segnalazioni in letteratura di casi di glomerulonefrite parainfettive con successiva progressione della nefropatia come da C3GN cronica, in cui l’evento infettivo iniziale rappresenta il trigger per un’attivazione cronica della via alterna del complemento [17]. Secondo alcuni autori pertanto nei pazienti con glomerulonefrite con dominanza di depositi di C3 o con anomalie cliniche persistenti come ipocomplementemia, proteinuria o insufficienza renale, andrebbe eseguito lo studio dei fattori della via alterna del complemento [14]. Questi test specifici per la diagnosi di C3GN sono disponibili solo in pochi centri, sono costosi e richiedono tempi lunghi di refertazione.

La diagnosi differenziale tra glomerulonefrite parainfettiva e C3GN presenta quindi ad oggi numerosi limiti e l’esclusione di quest’ultima richiede spesso il follow-up prolungato del paziente, in particolare la normalizzazione a distanza di 8-12 settimane dall’insorgenza dell’infezione dei livelli sierici del fattore C3, la graduale ripresa della funzione renale e la regressione delle anomalie urinarie [18]. Ciò comporta comunque un elevato rischio di diagnosi tardiva di C3GN e conseguentemente un aumentato rischio per il paziente di progressione verso ESRD. Nel nostro caso il paziente ha avuto un decorso favorevole con un lento ma parziale recupero della funzione renale associato alla normalizzazione dell’esame urine e dei valori di C3; si è deciso pertanto di non eseguire esami di approfondimento volti alla ricerca di anomalie del complemento.

La terapia di SAGN, come per le glomerulonefriti parainfettive, si basa sull’eradicazione dell’infezione tramite terapia antibiotica. L’utilizzo invece di steroidi o altri immunosoppressori maggiori non è ancora stato testato all’interno di trials clinici prospettici; i dati a disposizione si basano per lo più su studi di tipo retrospettivo e non sembrano identificare alcun beneficio in termini di outcome [2, 7, 19]. Esistono tuttavia alcuni case reports di pazienti con SAGN sottoposti a terapia corticosteroidea con buoni risultati in termini di recupero della funzione renale [20]. Nel nostro caso clinico, il razionale dell’utilizzo di terapia steroidea era rappresentato dalla concomitante presenza di estesi infiltrati infiammatori anche a carico dell’apparato tubulo-interstiziale con focali aree di necrosi tubulare, reperti correlati a peggior prognosi renale [21]; in considerazione inoltre della stretta vicinanza temporale dalla risoluzione del quadro infettivo, si decideva di utilizzare una bassa dose di cortisone che veniva comunque prematuramente sospeso per un nuovo intercorrente episodio infettivo.

 

Conclusioni 

La comparsa di insufficienza renale con anomalie urinarie in corso di infezione rappresenta un’indicazione ormai diffusamente condivisa all’esecuzione di biopsia renale, in quanto può sottendere a diversi tipi di nefropatia. Le GN parainfettive rappresentano un gruppo raro di glomerulonefrite e lo stafilococco aureo è il patogeno più spesso associato ad esse; la SAGN è pertanto una variante di GN parainfettiva caratterizzata dalla frequente presenza di depositi mesangiali di IgA di varia entità e di C3, talora codominanti. Casi atipici con predominanza del C3 o talora l’assenza di IgA possono porre problemi diagnostici differenziali con la C3GN: non esistono, infatti, ad oggi aspetti clinici, laboratoristi o istologici tipici che possano distinguere le due patologie, che richiedono peraltro due approcci terapeutici opposti. Risulta fondamentale, quindi, monitorare l’evoluzione del paziente e valutare la ricerca di un’effettiva disregolazione nella via alterna del complemento, qualora vi sia un mancato recupero della funzione renale o addirittura una progressione dell’insufficienza renale. L’efficacia della terapia steroidea nella SAGN è dubbia a fronte di un aumentato rischio di eventi avversi e di una prognosi renale spesso non favorevole.

 

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COVID-19 recurrence due to reinfection with SARS-CoV-2 in a hemodialysis patient: there and back again

Abstract

The COVID-19 pandemic has caused millions of infections and deaths so far. After recovery, the possibility of reinfection has been reported.

Patients on hemodialysis are at high risk of contracting SARS-CoV-2 and developing serious complications. Furthermore, they are a relatively hypo-anergic population, in which the development and duration of the immune and antibody response is still partially unknown. This may play a role in the possible susceptibility to reinfection. To date, only 3 cases of SARS-CoV-2 reinfection from strains prior to the Omicron variant in patients on chronic hemodialysis have been reported in literature. In all of them, the first infection was detected by screening in the absence of symptoms, potentially indicating a poor immune response, and there are no data about the antibody titre developed.

We report a case of recurrence of COVID-19 in 2020 − first infection likely from Wuhan strain; reinfection likely from English variant (Alpha) after 7 months − in a hemodialysis patient with clinical symptoms and pulmonary ultrasound abnormalities. Swabs were negative in the interval between episodes (therefore excluding any persistence of positivity) and the lack of antibody protection after the first infection was documented by the serological test.

The role of the potential lack − or rapid loss − of immune protection following exposure to SARS-CoV-2 in hemodialysis patients needs to be better defined, also in consideration of the anti-COVID vaccination campaign and the arrival of the Omicron variant, which appears to elude the immunity induced by vaccines and by previous variants. For this purpose, prospective multicenter studies are in progress in several European countries.

This case also highlights the need for a careful screening with nasopharyngeal swabs in dialysis rooms, even after patients overcome infection and/or are vaccinated.

 

Keywords: SARS-CoV-2, COVID, hemodialysis, COVID-19 recurrence

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Introduzione

L’infezione e la reinfezione da SARS-CoV-2: epidemiologia e meccanismi di risposta immune

La pandemia causata da SARS-CoV-2 ha finora causato oltre 270 milioni di infezioni e 5 milioni di morti in tutto il mondo [1]. Si tratta di una malattia virale estremamente contagiosa, sia nella forma “wild type” che nelle successive varianti emerse.

Dopo guarigione dalla COVID-19 la reinfezione è un evento possibile e documentato in letteratura, seppur raro prima dell’arrivo della variante Omicron: il rischio è stato difatti stimato allo 0,02% e il tasso di incidenza di reinfezione a 0,36 per 10.000 settimane-persona [2]. Il meccanismo della reinfezione da SARS-CoV-2 appare sostenuto dalla dimostrazione che non tutti gli individui infettati sviluppano una immunità protettiva, oppure possono perderla in un breve lasso di tempo, soprattutto in caso di forme di COVID-19 lievi-moderate nell’infezione primaria o stati di immunodepressione.

Le valutazioni relative allo sviluppo o meno di immunità sono state per lo più incentrate sulla quantificazione della presenza di anticorpi specifici nel siero, al loro titolo e alla loro durata nel tempo [3,4] seppure siano ben note problematiche di standardizzazione delle metodiche e di individuazione di cut off sierologici condivisi.

Con tutti i limiti suddetti, nella popolazione generale è stato stimato che dopo infezione da SARS-CoV-2 mediamente si verifica una sieroconversione IgM e IgG dopo circa una settimana dall’insorgenza dei sintomi. Il titolo anticorpale aumenta fino alla quarta settimana e si riduce successivamente; entro la settima settimana le IgM non vengono più rilevate nella maggior parte casi, mentre le IgG persistono più a lungo, anche se per un periodo di tempo ancora sconosciuto [5].

In merito al ruolo dell’immunità cellulo-mediata, anche nella infezione da SARS-CoV-2 le cellule T CD4+ appaiono cruciali nel network che conduce alla generazione di anticorpi neutralizzanti, e le cellule T CD8+ di memoria antigene-specifiche sono fondamentali per prevenire le reinfezioni. A dimostrazione di ciò, cellule T CD4+ e CD8+ specifiche sono state identificate nel sangue periferico rispettivamente del 100% e del 70% di pazienti da poco guariti da COVID-19 [6]. Tuttavia − dal momento che le analisi delle risposte immunitarie cellulari sono proceduralmente più complesse rispetto alle analisi anticorpali − esse sono state meno utilizzate su larga scala a scopo di dimostrare la presenza o meno dello sviluppo di immunità protettiva dopo infezione e/o dopo vaccinazione versus SARS-CoV-2, anche perché a complicare il quadro vi è la possibilità della presenza di cellule T di memoria cross-reattive derivanti da precedenti incontri con altri coronavirus, il cui ruolo funzionale non è affatto chiaro [7].

Indipendentemente dai diversi meccanismi alla base, ciò che è stato postulato anche dal punto di vista epidemiologico è che la protezione immunitaria vs SARS-CoV-2 sia transitoria e, particolarmente in alcune situazioni, labile. Tale assunto sta alla base dell’indicazione a procedere a vaccinazione anche negli individui che abbiano superato l’infezione naturale, nonché costituisce il razionale per la somministrazione − dopo ciclo vaccinale primario e/o infezione naturale − di dosi vaccinali addizionali e booster.

La pandemia COVID-19 nella popolazione dialitica

Per quanto riguarda nello specifico la popolazione dialitica, la pandemia di COVID-19 ha avuto un impatto particolarmente importante: nei pazienti in dialisi è stato infatti dimostrato un maggior rischio di contagio rispetto alla popolazione generale (favorito dagli spostamenti ripetuti, dalla permanenza protratta in ambienti comuni e dai frequenti accessi ospedalieri) ed un tasso di mortalità assai più elevato (oltre 1/3 di decessi nei pazienti infettati) [8,9,10].

Questo eccesso di mortalità riscontrato nei dializzati è verosimilmente correlato anche all’elevato tasso in questa specifica popolazione di comorbidità quali diabete, ipertensione, pregresso uso di farmaci immunodepressori etc. Tali fattori di rischio rendono questi pazienti più fragili rispetto alle probabilità a priori di poter avere un decorso negativo, sia in generale che specifico della patologia COVID-19.

Un’altra motivazione che sta alla base di questa maggiore suscettibilità ad ammalarsi e a sviluppare forme gravi è legata all’effetto deleterio che l’uremia ha sul sistema immunitario: i pazienti uremici sono difatti noti per essere ipo-anergici, sia sul versante dell’immunità innata (deplezione e disfunzione delle cellule dendritiche, alterazione della degranulazione e delle capacità fagocitarie dei PMN) che su quello dell’immunità adattativa (precoce “ageing” immunologico, alterazione del microambiente citochinico, scarso rinnovo del comparto T e B cell con aumentata apoptosi delle cellule memoria) [11,12,13]. A conferma di questa senescenza immunitaria precoce, recenti studi hanno dimostrato un accelerato accorciamento dei telomeri leucocitari nei pazienti emodializzati [14].

Inoltre, al di là dell’uremia in senso stretto, un importante ruolo nella demodulazione immunitaria dei pazienti dializzati può essere attribuito anche allo stato di flogosi e attivazione infiammatoria cronica. Esso appare legato alla MIA syndrome [15], al contatto con le membrane artificiali, alle soluzioni dializzanti, a tutto ciò che – pur nell’aumentata biocompatibilità raggiunta grazie ai progressi della tecnica [16,17] – rende il paziente dializzato un paziente cronicamente infiammato, e pertanto maggiormente soggetto alla “cytokine storm” così cruciale nella COVID-19 [18].

Si deve tenere in conto anche il fatto che i pazienti dializzati abbiano una risposta spesso insoddisfacente nei confronti degli stimoli vaccinali, come per esempio è stato dimostrato per la vaccinazione anti HBV [19,20].

Per tutte le motivazioni suddette, nel corso della pianificazione della campagna vaccinale anti-COVID gli individui sottoposti a trattamento dialitico sono stati considerati “super fragili”, ottenendo quindi la priorità sia rispetto al ciclo vaccinale primario che per le dosi booster e/o addizionali [21].

I dati riguardanti la percentuale di sviluppo e la durata della risposta immune sia ai vaccini che all’infezione primaria da SARS-CoV-2 sono solo parzialmente conosciute nei dializzati, e non è altrettanto chiaro se la loro nota ipo-anergia o meglio dissinergia immunitaria possa giocare un ruolo non solo nelle probabilità di contrarre l’infezione, ma anche nella suscettibilità alla reinfezione, nonché quale parte abbia in esso la dimostrazione dell’aver sviluppato o meno un titolo anticorpale specifico.

A nostra conoscenza ad oggi sono stati segnalati in letteratura solo 3 casi di reinfezione sospetta da SARS-CoV-2 da ceppi antecedenti la variante Omicron in pazienti con ESRD sottoposti a emodialisi cronica [22,23]; in tutti e 3 i casi la prima infezione è stata documentata per screening, in assenza di sintomi (fattore rilevante, poiché pare che l’infezione asintomatica causi una risposta immune inferiore) [24].

Descriviamo qui il caso di una recidiva di COVID-19 risalente al 2020 – prima infezione verosimilmente da ceppo di Wuhan; reinfezione verosimilmente da variante inglese (Alpha) – in un paziente emodializzato il quale ha avuto sintomi clinici e alterazioni laboratoristiche ed ecografiche polmonari in entrambi gli episodi. Essi si sono verificati a distanza di 7 mesi, con conferma di positività per SARS-CoV-2 al tampone nasofaringeo con RT-PCR in entrambi gli episodi e negatività dei tamponi seriati nel periodo intercorrente tra le due infezioni, escludendo quindi una eventuale persistenza di malattia tra i due episodi. Inoltre, è stata documentata l’assenza di protezione anticorpale dopo la prima infezione al test sierologico, comparsa invece dopo il secondo episodio, seppure a basso titolo.

 

Il caso

Un paziente di sesso maschile di 89 anni in emodialisi trisettimanale da 1 anno, con anamnesi di ipertensione e insufficienza renale cronica “end stage” da nefropatia proteinurica di origine sconosciuta, ha segnalato in data 3 aprile 2020 la comparsa nelle 24 ore precedenti di nausea, iporessia, mialgia e tosse senza distress respiratorio. È stato sottoposto il giorno stesso a tampone rinofaringeo per SARS-CoV-2, ed è risultato positivo all’analisi in RT-PCR.

Oltre alla patologia renale aveva una storia medica di ipertensione, diabete di lieve entità in trattamento con linagliptin e presenza in anamnesi di una linfocitosi B monoclonale a tipo leucemia linfatica cronica (considerata clinicamente irrilevante dagli ematologi, e pertanto non in follow up specialistico) con lieve trombocitopenia.

Al momento della positività era in buone condizioni cliniche, pressione arteriosa 140/60 mmHg, frequenza cardiaca 65 bpm, saturazione di ossigeno 99% in aria ambiente, temperatura corporea normale. L’obiettività polmonare non era significativa.

Il paziente è stato immediatamente posto in isolamento domiciliare e sottoposto a trattamento dialitico in sala contumaciale dedicata con trasporto individuale, come da protocollo del nostro centro dialisi per i pazienti positivi. Nell’ambito della sorveglianza clinica riservata ai pazienti emodializzati affetti da COVID-19 è stato sottoposto a:

  • panel di ematochimici, che ha mostrato globuli bianchi normali (7.000/mm3 con neutrofili 50%, linfociti 37%), anemia compatibile con ESRD con emoglobina 11 g/dL e trombocitopenia cronica nota 105.000/mm3. I marker infiammatori erano moderatamente elevati (Proteina C-reattiva 9,8 mg/dL, D-dimero 16.450 ng/mL, LDH 422 UI/L, IL-6 21,8 pg/mL e Ferritina 520 ng/mL);
  • controllo ecografico polmonare e calcolo del LUS score. Si tratta di una tecnica bedside non invasiva per la diagnostica di diversi quadri polmonari molto utilizzata nell’ambito della medicina d’urgenza [25,26]. Viene applicata una valutazione a 12 zone in cui ciascun emitorace è virtualmente suddiviso in tre aree longitudinali (anteriore, laterale e posteriore) e ognuna di queste è ulteriormente suddivisa in due ulteriori zone, superiore e inferiore. Ogni zona viene esaminata mediante sonda convex a media frequenza con un piano di scansione sia coincidente con gli spazi intercostali che trasversale. Vengono valutati la linea pleurica (aspetto e movimento), il parenchima (artefatti e immagini tissutali) e il contenuto pleurico (spazio virtuale, gas o fluido). In particolare, per quanto riguarda la sindrome interstiziale tipica della malattia COVID-19, il coinvolgimento viene espresso da un punteggio che esprime diversi livelli di severità da 0 (normale) a 3 (severo) che sono applicati a ognuna delle 12 zone e che possono essere sommati per definire un LUS score generale (minimo 0, massimo 36) [27]. Il paziente aveva alcune linee B isolate in due sezioni, con un punteggio LUS score di 2.
Figura 1: Immagine tratta da Cibinel GA, Paglia S, Magnacavallo A, et al. [27]
Figura 1:Immagine tratta da Cibinel GA, Paglia S, Magnacavallo A, et al. [27]
Come da protocollo di trattamento adottato nella cosiddetta “prima ondata” di COVID-19 il paziente è stato quindi sottoposto a terapia con idrossiclorochina 200 mg/die ed eparina a basso peso molecolare a dose profilattica aggiustata per ESRD per 10 giorni. Si è osservato un buon decorso clinico con la gestione ambulatoriale, senza necessità di ricovero ospedaliero. Il paziente si è infatti ripreso rapidamente dai sintomi, ed è risultato negativo a ripetuti tamponi il 21/4, 28/4, 11/9, 20/10 e 3/11/2020.

In data 17/11/2020 a fine dialisi ha riportato un episodio ipotensivo con transitoria perdita di coscienza seguita da brividi, febbricola, subcianosi ungueale senza desaturazione e tosse senza dispnea. È stato pertanto eseguito un altro tampone nasofaringeo RT-PCR per SARS-CoV-2, risultato nuovamente positivo dopo 7 mesi dalle precedenti manifestazioni di COVID-19, in un periodo di elevata circolazione della cosidetta “variante inglese” (Alpha).

Al momento della seconda positività il paziente era in buone condizioni cliniche, con una saturazione di ossigeno del 97% in aria ambiente. Gli esami di laboratorio hanno rivelato una normale conta leucocitaria (6.590/mm3 con neutrofili 53%, linfociti 32,5%), lieve anemia emoglobina 9 g/dL e trombocitopenia 84.000/mm3. I marker infiammatori sono risultati meno elevati rispetto al primo episodio (proteina C-reattiva 0,7 mg/dL, D-dimero 7.907 ng/mL, LDH 272 UI/L, IL-6 11,8 pg/mL e Ferritina 1211 ng/mL), e l’esame ecografico polmonare ha mostrato un punteggio LUS score di 4, lievemente superiore rispetto al primo episodio.

Il paziente è stato quindi trattato con sintomatici come paracetamolo e copertura antibiotica con amoxicillina/clavulanato, come da indicazioni relative alla gestione clinica della “seconda ondata”. Anche nel caso della reinfezione non ha necessitato di ricovero ospedaliero.

In occasione del riscontro della seconda positività, nel sospetto di una mancata risposta alla infezione primaria (o ad una rapida perdita della protezione immunitaria) è stata effettuata la misurazione degli anticorpi contro la spike protein di SARS-CoV-2 (S1/S2) mediante immunodosaggio in chemiluminescenza indiretta: essa ha dimostrato una completa assenza di anticorpi (IgG e IgM entrambi negativi).

In data 2/12/2020 – dopo 15 giorni dalla reinfezione – si è riscontrata la comparsa di una iniziale risposta anticorpale vs S1/S2, seppure a basso titolo: IgM negative; IgG 26 UA/mL (test positivo >15).

Il paziente si è rapidamente ripreso dai sintomi, ed è risultato negativo al tampone nasofaringeo di controllo in data 9/12/2020.

Si è poi monitorato il titolo anticorpale a distanza, riscontrando un ulteriore aumento delle IgG anti S1/S2 a 41,6 UA/ml il 17/02/21 (a 3 mesi dalla reinfezione).

In data 7/6/21 e 28/6/21 è stato sottoposto a vaccinazione con Comirnaty Pfizer, senza complicanze.

Paziente uomo, 89 anni, età dialitica 12 mesi

Sintomi clinici Score ecografico polmonare (LUS) PaO2/FiO2 PCR (mg/dL) IL-6 (ng/mL) Ddimero (ng/mL)

Durata malattia (tampone pos → neg)

1^ episodio (apr 2020)

Tosse, mialgia, nausea

2 300 9,8 21,8 16.454 28 gg
2^ episodio (nov 2020)

Febbricola, tosse, astenia

4 620 0,7 11,8 7.907 23 gg
Tabella I: Quadro clinico, laboratoristico e strumentale nei due episodi
  IgM (UA/mL; cut off>15) IgG (UA/mL; cut off>15)
Dopo 7 mesi dal 1^ episodio neg neg
Dopo 15 gg dal 2^ episodio neg pos (26)
Dopo 3 mesi dal 2^ episodio neg pos (41,6)
Tabella II: Andamento sierologia nei due episodi

 

Discussione

La risposta immunitaria a SARS-CoV-2 nella popolazione dialitica

È stato recentemente ipotizzato che la ridotta protezione immunitaria nei confronti specificamente di SARS-CoV-2 nella popolazione dialitica sia dovuta proprio ad una risposta T difettosa e alla mancata generazione di titoli anticorpali neutralizzanti, così come evidenziato in uno studio francese dopo due dosi di vaccino a mRNA [28].

La relativa anergia del paziente dializzato e quindi la sua relativa difficoltà a montare una risposta immunitaria adeguata potrebbe condizionare una maggiore suscettibilità non solo ad infettarsi, ma anche a reinfettarsi, rispetto alla popolazione generale.

Infatti, ciò che pare evidenziarsi in letteratura è che una robusta risposta immunitaria iniziale – sia umorale che cellulo-mediata – sembra proteggere più a lungo dal rischio di reinfezione [29]; nello stesso tempo l’invecchiamento (sia anagrafico che – come nel caso dei pazienti dializzati – biologico) determina un impairment immunitario in particolare sul versante adattativo, con maggior suscettibilità e sviluppo di malattia COVID-19 più grave [30].

Al momento i dati relativi specificamente all’efficacia clinica dello sviluppo e della durata di una risposta immunitaria – cellulare e/o anticorpale, indotta da infezione contratta o da vaccinazione – versus SARS-CoV-2 nei dializzati, e quale ruolo essa possa avere nello sviluppo di forma più o meno gravi di COVID-19, sono ancora in via di acquisizione. In particolare, non vi sono ancora esiti di ampi trial con end-point clinici in merito [35].

Tuttavia, in letteratura sono presenti (e in incremento) diversi lavori che – avendo valutato la risposta immune sia alla vaccinazione che all’infezione nei dializzati – possono fornire un panorama e consentire di formulare alcune ipotesi.

In merito alla risposta dopo infezione, uno studio inglese ha valutato i titoli anticorpali specifici per SARS-CoV-2 6 mesi dopo l’infezione in pazienti dializzati, riscontrando che l’85% dei pazienti con sieroconversione dopo l’infezione aveva ancora anticorpi specifici per SARS-CoV-2, ma il cui titolo significativamente diminuiva nel tempo [38].

In merito alla risposta dopo vaccinazione, in alcuni lavori viene segnalata una risposta nei dializzati ai vaccini a mRNA (mRNA-1273 and BNT162b2) ragguardevole, pari al 97% [34]. Parrebbe invece inferiore nella popolazione dializzata la risposta ai vaccini adenovirus-based, come AZD1222 [37]. Tuttavia, questa buona risposta immune – umorale e cellulare – conseguente al vaccino nei dializzati non appare durevole: essa pare infatti diminuire 4 mesi dopo completamento del ciclo vaccinale primario e perdersi del tutto nel 17,1% (razionale sul quale la popolazione dializzata è stata ritenuta prioritaria per la somministrazione delle dosi booster) [36].

Tutti questi lavori si basano su dati antecedenti alla comparsa della variante Omicron, la quale parrebbe eludere ulteriormente la risposta immune sia da infezione naturale dei pregressi ceppi che da vaccinazione anche con dosi booster; in tal senso, sarà interessante capire se e come la popolazione dializzata si discosterà dal tasso di reinfezione da variante Omicron rispetto alla popolazione generale.

In tale ottica appaiono assai importanti i risultati in itinere che arriveranno da due studi osservazionali prospettici europei, l’italiano COVID-VAX (Studio di coorte su efficacia e sicurezza della vaccinazione anti COVID-19 nelle persone in dialisi) promosso da SIN e ISS e il francese ROMANOV (Response of Hemodialyzed Patients to COVID-19 Vaccination) in merito all’incidenza e gravità della malattia COVID-19 in pazienti dializzati anche in base al loro stato di vaccinazione e al ruolo delle “terze” e “quarte” dosi vaccinali nell’aumento di effettori immunitari in questa peculiare popolazione [28,31].

Peculiarità del nostro caso rispetto agli altri casi di reinfezione in emodializzati in letteratura

A nostra conoscenza ad oggi sono stati segnalati in letteratura solo 3 casi di sospetta reinfezione da SARS-CoV-2 in pazienti con ESRD sottoposti a emodialisi cronica da ceppi antecedenti la variante Omicron [22,23]; in tutti e 3 i casi la prima infezione è stata documentata per screening, in assenza di sintomi (fattore che potrebbe giustificare lo sviluppo di una scarsa risposta immune dopo l’infezione primaria).

In uno dei tre casi il tampone molecolare in occasione del primo episodio è addirittura risultato negativo, e la prima infezione è stata supposta solo sulla base della sierologia, lasciando aperto il quesito se si trattasse realmente di una reinfezione o invece di una problematica di cross reazione del test per rilevare le IgG, come giustamente sottolineato dagli autori [22]. Negli altri due casi invece la documentata negatività dei tamponi tra un episodio e l’altro sembrerebbe confermare che si sia trattato effettivamente di una reinfezione, anche se in entrambi i casi vi è stato solo 1 tampone negativo tra i due episodi, e tutti ben conosciamo la possibilità di avere un tampone negativo e poi nuovamente uno positivo a breve distanza, come riscontrato più volte nella “prima ondata” quando il protocollo di guarigione prevedeva l’effettuazione doppio tampone negativo. Inoltre, in uno di questi due casi mancano completamente dati relativi alla sierologia [23].

Rispetto al nostro caso, in nessuno dei 3 casi riportati in letteratura sono stati svolti esami strumentali in entrambi gli episodi e pertanto non è noto se vi fosse un coinvolgimento polmonare o meno nel primo evento (anche se l’asintomaticità dei pazienti lascia supporre di no) e non sono noti dati ematochimici che possano fornire informazioni riguardo al livello di attivazione citochinica avvenuto.

Il tempo intercorso tra primo e secondo episodio in tutti e tre i casi precedentemente riportati risulta al massimo di 2 mesi, mentre nel nostro caso esso risulta di 7 mesi. Tale latenza temporale, unita ai ripetuti tamponi negativi tra i due episodi (ben 5), conferma in maniera inequivocabile che, nel nostro paziente, si sia trattato di una reale reinfezione a distanza.

Caratteristiche paziente

Sintomi clinici

(1^ episodio/
2^ episodio)

Tampone molecolare (1^episodio/
2^ episodio)
Sierologia IgG (1^ episodio/
2^ episodio)
Tempo intercorso tra 1^ e 2^ episodio

Tamponi negativi tra i 2 episodi (n°)

Uomo, 51 aa

Nessuno/

Febbre, dispnea,desaturazione

Neg/Pos Pos/Pos 2 mesi No
Uomo, 70 aa

Nessuno/

Tosse, dispnea, mialgie

Pos/Pos Non disponibile/

Pos

1 mese Si (1)
Donna, 55 aa

Nessuno/

Febbricola, mialgie

Pos/Pos Non disponibile/Non disponibile 2 mesi Si (1)
Tabella III: Caratteristiche degli altri casi di reinfezione da SARS-CoV-2 in pazienti in dialisi cronica segnalati in letteratura

Allo stato attuale pertanto il caso da noi riportato appare l’unico in letteratura relativo ad un paziente in emodialisi con reinfezione documentata in RT-PCR mediante tampone nasofaringeo risalente al 2020, ossia antecedente ai vaccini e alla variante Omicron. La prima infezione verosimilmente è stata determinata dal ceppo originale di Wuhan, mentre la reinfezione si è verificata a causa della variante inglese (Alpha). I ripetuti controlli intermedi negativi, l’evidenza di interessamento polmonare all’ecografia e le alterazioni in senso flogistico agli ematochimici in entrambi gli episodi, nonché l’assenza di risposta anticorpale dopo il primo episodio e la comparsa della stessa dopo il secondo episodio, costituiscono elementi di interesse di questo caso.

Il ruolo dell’ecografia polmonare (LUS) nei pazienti dializzati affetti da COVID-19

Considerando le suddette problematiche connesse alla morbilità e mortalità da COVID-19 nei pazienti in dialisi, nonché la possibilità che i sintomi possano essere in fase iniziale lievi o confondersi con altre problematiche (es. dispnea da sovraccarico), appare opportuno che nei pazienti infetti vi siano mezzi diagnostici opportuni per quantificare l’entità del coinvolgimento respiratorio e differenziare precocemente coloro gestibili ambulatorialmente da quelli meritevoli di ricovero.

In particolare, sarebbero consigliabili strategie di stratificazione del rischio e di definizione diagnostica pratiche, sensibili, affidabili, ripetibili e possibilmente utilizzabili al letto del paziente (onde evitare spostamenti in radiologia con rischio di diffusione del virus), e possibilmente prive di radiazioni ionizzanti.

In quest’ottica, presso il nostro centro dialisi abbiamo attuato nelle prime due ondate pandemiche – prima dell’avvento dei vaccini anti-COVID – una sorveglianza specifica dedicata ai pazienti ambulatoriali positivi per SARS-CoV-2, integrando al monitoraggio clinico e al panel di esami ematochimici l’applicazione dell’ecografia polmonare (LUS) secondo l’apposito score.

Monitoraggio clinico Esami ematochimici

Esami strumentali

Temperatura corporea, PA, FC, saturazione dell’ossigeno, rilevamento sintomatologia specifica

Emocromo con formula, proteina C reattiva, IL-6, LDH, ferritina, coagulazione completa, EGA arteriosa se sintomi respiratori

Ecografia polmonare con calcolo LUS score

Tabella IV: Protocollo sorveglianza 1° livello sala dialisi COVID pazienti ambulatoriali – prime due ondate pandemiche

Un LUS score all’ingresso superiore a 8-10 costituiva elemento di allarme, in particolare in associazione a alterazioni ematochimiche come linfopenia, PCR >2x e IL-6 >4x, anche in assenza di alterazioni della saturazione. I pazienti con tali caratteristiche venivano considerati per il ricovero ospedaliero.

La LUS prima della pandemia COVID-19 veniva effettuata di routine presso il nostro centro per la definizione del peso ideale dialitico in abbinamento alla valutazione del diametro e della collassabilità della vena cava inferiore, ma ha trovato una sua applicazione peculiare nei pazienti dializzati affetti da COVID-19, trattandosi come già detto di un esame molto affidabile ed utilizzato in ambito urgentistico [25,26,27].

Per quanto riguarda nello specifico i pazienti in dialisi, l’esame viene effettuato a inizio della seduta dialitica, mediante ecografo dedicato ai pazienti positivi. Le immagini ecografiche della polmonite da COVID-19 mostrano un tipico aspetto bilaterale caratterizzato da linee B multiple o confluenti con aree risparmiate, linea pleurica ispessita e irregolare e rari consolidamenti subpleurici; tali peculiarità, integrate con la valutazione della vena cava inferiore in termini di diametro e collassabilità inspiratoria, consentono di effettuare una diagnostica differenziale con le linee B da sovraccarico di volume.

L’approccio ultrasonografico polmonare al paziente dializzato positivo per SARS-CoV-2 appare quindi assai utile per la stratificazione e la gestione dei pazienti, in parallelo con quanto evidenziato nelle casistiche di medicina d’urgenza, ed è stato adottato anche in altri centri dialisi, come segnalato da alcune esperienze della letteratura [32].

Il ruolo dello screening con tampone nasofaringeo nelle sale dialisi

Le sale dialisi possono essere potenzialmente sede di focolai/cluster e per tale motivo i pazienti devono essere adeguatamente protetti con l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale (DPI). Rispetto allo screening periodico con tamponi nasofaringei, in letteratura le posizioni variano tra l’indicazione ad un periodico controllo a tappeto in tutti i pazienti all’effettuazione dell’esame solo nei sintomatici, così come variano i cut-off ritenuti indicati rispetto alla temperatura corporea al triage, la distanza ottimale tra i pazienti, e quando concludere l’isolamento dei positivi (e se applicare differenze nelle tempistiche e nella gestione tra vaccinati e non) [33].

Presso il nostro centro dialisi, in base anche all’esperienza di COVID-hospital durata 9 mesi e avendo sottoposto da inizio pandemia a trattamento dialitico più di 80 pazienti positivi, attuiamo:

  • trattamento in sala dialisi contumaciale per i positivi, sia vaccinati che non. In questi pazienti, in presenza di sintomi, effettuiamo sorveglianza mediante panel di ematochimici e ecografia polmonare (LUS). Rientro in sala dialisi solo dopo documentazione di tampone molecolare negativo secondo le tempistiche determinate dalle indicazioni ministeriali;
  • effettuazione immediata di tampone molecolare e trattamento in sala dialisi grigia dei sintomatici e degli asintomatici entrati in contatto con positivi, per una durata stabilita secondo le indicazioni ministeriali relative alla quarantena (differenziata pertanto tra vaccinati con booster, vaccinati solo parzialmente e non vaccinati). Tale approccio si applica anche ai pazienti guariti da precedente COVID-19;
  • screening periodico di tutti i pazienti mediante tamponi molecolari o antigenici di terza/quarta generazione, con cadenza differenziata e modulabile a seconda dello status vaccinale e della fase epidemiologica;
  • utilizzo costante per tutti i pazienti dei DPI (forniti dal centro dialisi stesso), misurazione della temperatura corporea e rilevamento di eventuali sintomi sentinella in tutte le sedute di dialisi;
  • controllo sierologico nei pazienti in lista attiva trapianto dopo guarigione dall’infezione. Non sono programmati controlli sierologici di routine negli altri casi.

 

Conclusioni

A nostra conoscenza questo è il 4° caso riportato in letteratura di recidiva di COVID-19 in un paziente con ESRD sottoposto a emodialisi cronica da ceppi antecedenti la variante Omicron.

La peculiarità del nostro caso rispetto a quelli segnalati in precedenza sta nella presenza di sintomi e alterazioni ecografiche polmonari ed ematochimiche in entrambi gli episodi, nella documentata assenza di risposta sierologica dopo il primo episodio, e nella ripetuta negatività dei tamponi intermedi nel tempo che esclude una persistenza di malattia.

In uno scenario di pandemia, rispetto alla quale i meccanismi patogenetici e immunologici che stanno alla base delle dinamiche della suscettibilità all’infezione da SARS-CoV-2 e della severità della malattia COVID-19 non sono stati ancora del tutto chiariti, il ruolo della rapida perdita o mancanza di sviluppo della protezione anticorpale e più in generale immunitaria dopo infezione e/o dopo vaccinazione nei pazienti in dialisi, e il suo impatto clinico, deve essere ulteriormente indagato.

Ciò appare particolarmente importante in una popolazione fragile e ipo-anergica come quella dializzata, anche per definire le strategie gestionali attuali e future.

Questo caso evidenzia a nostro parere anche la necessità di mantenere uno screening attento mediante tamponi nasofaringei per la ricerca di SARS-CoV-2 nelle sale dialisi, anche nei pazienti che abbiano superato l’infezione e/o siano stati vaccinati, nonché la prosecuzione attenta delle precauzioni di barriera e del distanziamento.

Sono in corso studi clinici multicentrici di numerosità ampia in diverse nazioni europee, come il COVID-VAX in Italia e il ROMANOV in Francia, i quali auspicabilmente dovrebbero poter aumentare la comprensione di tali questioni ancora aperte, soprattutto in merito alle dinamiche infettive post vaccinazione e post infezione.

 

Bibliografia

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