Self-efficacy and self-management in patients in hemodialysis: a narrative review of multidisciplinary theories

Abstract

Hemodialysis is the most common treatment in patients with end-stage chronic kidney disease and the wide accessibility of this therapy has prolonged the patients’ lifespan. However, it involves alterations in their emotional sphere and, often, a reduction in therapeutic compliance as the chronicity of kidney disease requires lifestyle changes difficult to maintain in the long term. The management of a chronic medical condition is in fact a complex process that necessarily requires multidisciplinary action.

The concepts of “Self-efficacy” and “Self-management” fall within the Self-Determination Theory and are relevant in this context because they refer to the beliefs that everyone has about their abilities to control behavior and determine the success in adhering to prescribed therapies.

Furthermore, the promotion of self-efficacy and self-management through an educational approach that makes use of so-called “eHealth” tools can help develop greater self-awareness in dialysis patient, a better control over their care choices and an increased adherence to therapeutic-dietary indications.

This article aims at highlighting the importance of implementing an approach based on eHealth in the management of hemodialysis patients. It also wants to raise awareness of the related multidisciplinary theories to be applied in this clinical context to promote greater therapeutic adherence, and therefore a better quality of life and care.

Keywords: self-efficacy, self-management, hemodialysis, kidney disease, eHealth

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Background

L’insufficienza renale (IRC), in particolare nello stadio più avanzato, è tra le più importanti cause di morte e disabilità in tutto il mondo [1]. L’emodialisi costituisce il trattamento più comune per chi soffre di IRC e il suo utilizzo ha portato a prolungare la vita dei pazienti [2], tuttavia esso comporta molteplici alterazioni, tra cui disturbi del sonno, neuropatia periferica, infezioni, anemia, prurito, disagio emotivo che influenzano diversi aspetti della qualità di vita dei pazienti [3].

Al pari delle altre malattie croniche, la gestione di questi pazienti richiede un processo multidisciplinare coordinato tra operatori sanitari e pazienti [4,5]. La cronicità della malattia renale impone infatti al paziente molte modifiche del proprio stile di vita che diventano spesso difficili da mantenere a lungo termine [6]. La qualità della vita del paziente emodializzato è significativamente compromessa dal vissuto emotivo di dipendenza, che costringe a vivere la propria esistenza con incertezza e preoccupazioni esistenziali costanti, nonché dai sintomi legati all’IRC, ad altre patologie coesistenti e alle caratteristiche del trattamento sostitutivo stesso [7]. Tali condizioni generano nei pazienti in emodialisi il bisogno di rivendicare continuamente il controllo della propria vita e, allo stesso tempo, avvertono una perdita di indipendenza e di mancanza di libertà. Inoltre, la visione del paziente è a volte in conflitto con l’opinione del professionista sanitario su ciò che è meglio per sé stesso (talvolta il paziente può preferire condizioni mediche meno ottimali dal punto di vista clinico o persino scegliere di interrompere la dialisi) in cambio di una maggiore libertà o controllo sugli aspetti della propria vita quotidiana [8]. Di conseguenza è importante che il paziente in dialisi, come accade per gli altri pazienti con patologie croniche, acquisisca un certo grado di autonomia nella gestione della propria condizione di salute attraverso lo sviluppo di abilità di self-care [5,9,10].

L’acquisizione di comportamenti utili a mantenere la condizione di salute nelle patologie croniche si verifica infatti quando le persone stesse considerano questi atteggiamenti importanti e li sviluppano attraverso una autonomia motivazionale conquistata senza pressioni da parte di altri, primi fra tutti gli operatori sanitari [4, 11,12]. Il concetto di autonomia è inteso come l’attuazione di comportamenti non influenzati o controllati da forze esterne che permette cambiamenti duraturi ed efficaci. Sono infatti i pazienti che interiorizzano la necessità di un cambiamento comportamentale che sviluppano maggiormente la capacità di aderire alle terapie raccomandate [13]. Questo significa che sviluppare l’autonomia e la competenza del paziente cronico è importante per favorire i processi di interiorizzazione di quei comportamenti utili a garantire salute e benessere [14].

Tale processo permette lo sviluppo di un’adeguata “Self-efficacy” (autoefficacia) che comporta la definizione delle intenzioni alla base del cambiamento per il raggiungimento di un obiettivo, anche di fronte ad imprevisti o difficoltà. La self-efficacy necessita anche di interventi di gestione autonoma della patologia, indicati con il termine “Self-management” (autogestione) [15,16].

Per promuovere lo sviluppo dell’autonomia, l’utilizzo di strumenti interattivi per la gestione a distanza del paziente con IRC può considerarsi un ulteriore strumento utile per aiutare i pazienti nello sviluppo di queste competenze e per favorire una maggior consapevolezza dei processi di cura a cui sono sottoposti [17].

Il termine “eHealth” è stato utilizzato per descrivere un’ampia gamma di tecnologie digitali e interventi utilizzati da una varietà di parti interessate in diversi contesti. Esistono per esempio interventi promettenti che utilizzano i telefoni cellulari per interagire con malati cronici, anche se sembrano essere poche le applicazioni sui pazienti con patologia renale [18]. I pazienti affetti da IRC sono spesso anziani e di basso status socioeconomico e bassa alfabetizzazione sanitaria. Tuttavia, la tecnologia mobile permette ai pazienti di migliorare la comunicazione complessiva paziente-operatore sanitario rafforzando l’autonomia del primo e consentendogli di affrontare i problemi di salute quotidiana, diventando partecipante attivo alle proprie cure e quindi, indirettamente, anche alla cura della popolazione. Anche la letteratura recente ha mostrato che strumenti di eHealth nel contesto di un approccio multidisciplinare garantiscono un’assistenza universalmente accessibile, economica e di alta qualità [19].

Scopo di questo lavoro è esplorare le teorie di self-efficacy e self-management al fine di applicarli, attraverso strumenti eHealth, alla cura dei pazienti dializzati. Lo scopo è considerare questi ultimi come partner paritari nella gestione delle proprie cure, consentendo loro di percepire una maggiore capacità di gestione della malattia di cui sono affetti, una maggiore libertà, autonomia e indipendenza.

 

Self-efficacy e self-management

Il concetto di self-efficacy (autoefficacia) è stato definito dallo psicologo canadese Bandura come un insieme di convinzioni nutrite dalla persona sulle proprie capacità di gestire adeguatamente situazioni e attuare comportamenti necessari per raggiungere obiettivi prefissati [8]. In particolare, la teoria sociocognitiva dell’autore considera fondamentale nella determinazione dell’autoefficacia l’interazione di tre fattori: la persona, il comportamento e l’ambiente. La nozione di self-efficacy viene inclusa tra i comportamenti rilevanti per la promozione della salute in quanto fa riferimento alle convinzioni che ognuno ha sulle proprie abilità di controllare il comportamento e, quindi, di determinare anche il successo o il fallimento nell’aderenza alle prescrizioni sanitarie. Il grado di self-efficacy dell’individuo può infatti influenzare il modo di fronteggiare gli eventi stressanti e modificare i comportamenti nocivi [20] e ha quindi un impatto sul suo stato di salute. L’autoefficacia risulta pertanto centrale nel definire le intenzioni alla base del cambiamento, nel modulare gli sforzi impiegati per il raggiungimento dell’obiettivo e nel determinare la perseveranza nel perseguire il proprio scopo, anche qualora dovessero presentarsi imprevisti o difficoltà [21]. È inoltre noto come un alto livello di autoefficacia relativa agli ambiti di cura possa favorire il mantenimento di comportamenti riguardanti l’aderenza al trattamento.

Il basso livello di aderenza al trattamento è un problema di rilevanza clinica esteso tra i pazienti affetti da patologia renale cronica. Uno studio italiano [22] ha esplorato l’adesione alle prescrizioni mediche nei pazienti emodializzati, mostrando che le principali cause di non adesione alla terapia riguardano la cronicità della malattia, la negazione della stessa con atteggiamenti di paura e fuga, gli ostacoli percepiti dal paziente nella comunicazione con il personale medico, la carenza di informazioni o la difficoltà a memorizzarle. Molteplici fattori possono influenzare l’aderenza al trattamento, tra cui la l’età, lo stato socio-economico e il supporto familiare, la complessità, la fiducia e la motivazione verso il trattamento [23]. Tra i fattori psicosociali possono essere inclusi la presenza di depressione, il supporto sociale, le dinamiche familiari, che vengono spesso correlati agli esiti del trattamento dei pazienti con malattia renale cronica o terminale sottoposti a emodialisi [24,25,26]. In letteratura viene inoltre mostrato come il supporto sociale e familiare possa influire sull’autoefficacia nei pazienti affetti da patologie croniche, influenzando la messa in atto di comportamenti salutari [27,28,29]. Inoltre, la self-efficacy, dopo un programma di intervento di self-management, risulta aumentata poiché viene riscontrata una correlazione positiva tra le due abilità.

Il self-management rappresenta un cambiamento di prospettiva sui pazienti che da destinatari “passivi” del trattamento diventano individui responsabilizzati che sono partner nella gestione efficace della loro salute [30]. Esso è caratterizzato da tre categorie: “Positive Lifelong Life Management”, “Positive Lifelong self-management” e “Positive Lifelong Relational Management”. Il primo include la componente emotiva del benessere, il secondo concerne le risorse individuali che permettono di affrontare in maniera adattiva i cambiamenti e le transizioni nel lavoro e nella vita ed il terzo comprende risorse per l’adattamento relazionale nei contesti lavorativi e di vita [31]. I concetti di self-efficacy e self-management rientrano nella Teoria dell’Autodeterminazione, o Self Determination Theory (SDT), che individua i processi attraverso i quali una persona viene motivata ad acquisire nuovi comportamenti legati alla salute e a mantenere tali comportamenti nel tempo.

 

Self-efficacy e self-management nella malattia renale cronica

Anche nella malattia renale cronica, la self-efficacy è correlata al self-management e comporta un aumento del benessere, delle risorse individuali e della capacità di adattamento ai cambiamenti indotti dalla malattia in situazioni di bisogno [32].

Di frequente si verificano meccanismi avversi rispetto a quelli appena citati, che causano scarsa aderenza nella gestione della malattia renale allo stadio terminale, come la mancata aderenza alle prescrizioni dialitiche, ai farmaci e alla dieta che possono condurre i pazienti ad esiti clinici avversi. I pazienti emodializzati inoltre, a seguito della confezione dell’accesso vascolare, devono occuparsi di mantenere la zona di accesso pulita, sostituire le bende dopo il trattamento dialitico, evitare di sollevare oggetti pesanti [33] ed occuparsi di controllare l’assunzione di liquidi tra una sessione di dialisi e l’altra, gestendo la sete e riflettendo sulle potenziali conseguenze dannose dei comportamenti che potrebbero innescare la sete (modificando ad esempio le proprie abitudini e le attività sociali al fine di ridurre l’esposizione al caldo o pressioni sociali che aumenterebbero la tentazione di assumere determinati cibi o liquidi) [34].

In questo contesto, identificare le persone che faticano ad aderire al regime di dialisi e adattare gli interventi per migliorare e supportare l’adesione diviene quindi una chiara esigenza clinica. Curtin et al. [35] sostengono che la chiave del successo per una vita lunga e sana in dialisi sia nel trasformare i pazienti in auto-gestori completi e attivi del proprio stato di salute.

Relativamente all’aderenza alle prescrizioni terapeutiche nei pazienti emodializzati, risultano importanti predittori la motivazione, la self-efficacy e l’empatia [36]. Pertanto, i soggetti che soffrono di una patologia renale cronica necessitano di costante supporto da parte di infermieri, medici e nutrizionisti, uniti in un approccio multidisciplinare [22]. Fattori ulteriori che possono aiutare a spiegare la non aderenza sono il tono dell’umore, il supporto sociale, la complessità della malattia e le percezioni riguardo al trattamento, ma anche il fenotipo associato al paziente [37]. Infatti, è mostrata in letteratura una considerevole variabilità di risultati tra i differenti soggetti ed è ormai ben noto quanto i fattori psicologici possano influire, modificando ad esempio la tenuta di regimi alimentari specifici, indispensabili in questi pazienti. Il distress psicologico è dunque riconosciuto come fattore di rischio che può portare ad esiti negativi nei trattamenti medici dei pazienti nefrologici [38,39].

L’aderenza al trattamento risulta migliore quando i clinici prendono in considerazione anche la fiducia in sé stessi e la capacità di raggiungere gli obiettivi mostrata dai pazienti [30,40]. A tal proposito Moattari e colleghi [41], attraverso uno studio clinico randomizzato su 48 pazienti sottoposti a trattamento dialitico sostitutivo, hanno dimostrato un miglioramento della qualità di vita, del controllo ponderale nel periodo inter dialitico, del controllo pressorio e delle variabili biochimiche come emoglobinemia a seguito di interventi di “empowerment” associati a sessioni di consulenza individuali e di gruppo. I moduli utilizzati identificavano nei pazienti le aree potenzialmente problematiche per l’autogestione ed evidenziavano le loro esigenze educative in dieci diversi aspetti, come evidenziate in Tabella 1.

1.     condizioni mediche
2.     relazioni con la famiglia e gli amici
3.     problemi associati con lavoro scuola e assicurazioni
4.     alimentazione
5.     futuro
6.     sentimenti
7.     responsabilità
8.     stile di vita
9.     attività quotidiane
10.   relazioni con il personale
Tabella I: Le aree problematiche del self-care nel paziente emodializzato. Adattato e tradotto da Moattari et al. [41]

 

La eHealth come alleata nella gestione della malattia renale cronica

La eHealth (electronic health, o salute elettronica), ha lo scopo di fornire soluzioni per l’empowerment dei pazienti e per un’assistenza sanitaria di valore. Infatti, l’integrazione della tecnologia nell’assistenza sanitaria è utile nell’operatività dell’empowerment, aiutando a creare un contesto specifico in cui questa entità concettuale dovrebbe essere ulteriormente esaminata ed implementata [42].

Le tecnologie della eHealth possono quindi essere utilizzate nei contesti sanitari come strategia di promozione del self-management, oltre che per promuovere la comunicazione con i pazienti e tra i pazienti ed il team di cura, facilitando il monitoraggio e l’autogestione da casa, che nel caso del paziente dializzato riguardano cinque domini della terapia: aderenza alle raccomandazioni riguardanti dieta, assunzione di liquidi, trattamento dialitico, farmaci e attività fisica [42].

Infatti, esiste una relazione positiva tra indice di massa corporea e sopravvivenza nei pazienti in dialisi. Il problema dell’obesità in dialisi è definito come un paradosso, in quanto i pazienti sono predisposti costantemente al rischio di malnutrizione. Questa situazione, definita “epidemiologia inversa”, è paradossale sia dal punto di vista epidemiologico che da quello clinico, rendendo questo dato in contrasto con la normale epidemiologia dell’obesità [43]. Sulla base di questo principio vorremmo implementare un progetto che preveda la promozione del self-care attraverso la eHealth, utilizzando una App contapassi nei pazienti dializzati in sovrappeso. L’obiettivo è quello di sensibilizzare il paziente a prendersi cura di sé stesso, aumentando i livelli di aderenza all’attività fisica sfruttando appunto lo smartphone.

L’effetto dell’attività fisica sul dimagrimento potrà essere valutato non solo attraverso il controllo dell’indice di massa corporea e dei valori impedenziometrici, ma anche attraverso esami biumorali eseguiti di routine, questionari di valutazione della qualità di vita e dell’attività fisica. Questo si collega a quanto viene riportato dai pazienti: gli interventi di eHealth dimostrano di facilitare il monitoraggio di sintomi, di migliorare l’autogestione fisica, e di rispettare la prescrizione al trattamento dialitico al fine di adattare lo stile di vita durante la dialisi [44]. Dal punto di vista del personale sanitario, consente l’acquisizione e lo scambio di dati in tempo reale, creando l’opportunità di fornire un feedback al paziente, specialmente nel momento in cui viene percepita una problematica che prevede uno sguardo multidisciplinare e multispecialistico. È possibile inoltre stabilire immediatamente la comunicazione tra il paziente e il professionista sanitario, per consentire la valutazione dell’ambiente domestico del paziente, l’aderenza alla tecnica prescritta, l’osservazione e la correzione di rischi potenziali o reali di infezione, ad esempio in caso di dialisi peritoneale [44]

Uno studio ha mostrato l’efficacia dell’utilizzo dell’eHealth nella gestione della patologia renale, con controllo dell’aumento del peso interdialitico, riduzione dell’assunzione di sodio nella dieta, diminuzione della mortalità [45, 46] e miglioramento della funzionalità renale. Questi studi evidenziano il potenziale della tecnologia applicata alla self-efficacy e self-management per migliorare in modo significativo la qualità e la sicurezza dei pazienti nell’assistenza sanitaria.

 

Discussione

L’insufficienza renale, soprattutto allo stadio terminale, è una patologia cronica in cui un’autogestione efficace da parte del paziente è particolarmente rilevante per evitare il peggioramento del suo stato di salute psico-fisico. Pertanto, approfondire la conoscenza e la comprensione dei componenti legati all’autogestione della malattia può aiutare pazienti, medici, infermieri e gli altri professionisti del team sanitario multidisciplinare a massimizzare i risultati positivi per la salute [4,29].

Tale processo di educazione può essere d’aiuto per aumentare la consapevolezza del paziente sulle indicazioni terapeutiche e stimolare il suo interesse nel completarle. Lo scopo dell’educazione del paziente è di aiutare le persone affette da malattia cronica a prendere decisioni consapevoli in merito alle loro cure e ad ottenere chiarezza circa i propri obiettivi, valori e motivazioni, con l’intento finale di aumentarne e migliorarne gli outcomes sensibili all’assistenza come la qualità di vita, parametri vitali, gestione dalla dieta e della terapia farmacologica [47,48,49]. Infatti, sono ben note le stime di non aderenza al farmaco, che variano dal 17 al 74% tra i pazienti con IRC e dal 3 all’80% tra i pazienti in emodialisi [50,51], mentre l’adesione alla dieta e all’assunzione di liquidi si attesta a meno del 40% [52]. Pertanto, identificare studi o strumenti di intervento specifici sull’aderenza può portare a benefici affidabili e duraturi rispetto allo stato di salute, diminuizione della mortalità e morbilità [45].

Accanto all’ approccio educativo classico, l’utilizzo della eHealth permette di incrementarne ulteriormente il potenziale. I dispositivi tecnologici, se utilizzati in ambito sanitario, supportano il processo educativo del paziente poiché facilitano l’aumento dell’autoefficacia e dell’autodeterminazione personale, e pertanto anche il benessere psicofisico [53]

I temi e le modalità di educazione e di autogestione della patologia renale cronica sono descritti in letteratura e comprendono: la gestione della dieta, l’esercizio fisico, l’aderenza alla terapia, la gestione dei sintomi. Gli strumenti a disposizione dei professionisti sanitari spaziano dalla carta stampata, con brochure o poster, ai colloqui motivazionali individuali o di gruppo, fino all’utilizzo di interventi web-based con collegamenti a pagine formative o utilizzo di e-mail o sms. Tali strumenti sostengono il processo educativo, aumentando la self-efficacy e il self-management [44].

 

Conclusioni

Nel corso degli ultimi decenni del XX secolo si è superato l’approccio di cura paternalistico, che vede il paziente come un mero esecutore delle prescrizioni fornite dal personale sanitario. L’introduzione in medicina di un approccio di cura fondato invece sulla partecipazione e decisionalità condivisa permette al paziente di non sentirsi negato il diritto individuale all’autodeterminazione. Stabilire una relazione di tipo simmetrico e non paternalistico tra il paziente e il team multidisciplinare risulta ancor più importante nei contesti sanitari che trattano patologie croniche, le quali spesso minimizzano il senso di libertà e di indipendenza del soggetto che ne è affetto.

L’adozione di una teoria che sostenga e promuova la self-efficacy e il self-management, anche attraverso l’adozione di strategie digitali applicate nelle organizzazioni sanitarie [53], offre approcci e tecniche sempre più innovative. Lo scopo è innanzitutto responsabilizzare il paziente, incoraggiando l’autogestione attiva della propria malattia, ma anche l’integrazione dei servizi sanitari con la vita del paziente e il contenimento dei costi sanitari.

Poiché modificare un comportamento come l’aderenza è un processo molto complesso e, al momento, non esiste un metodo standardizzato per stimare con precisione gli interventi che possono migliorare il self-management, sarebbe utile promuovere nuove ricerche, che prevedano percorsi multidisciplinari e che considerino anche l’utilizzo di tecnologie digitali di supporto.

 

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Hyperkalemia-induced acute flaccid paralysis: a case report

Abstract

Acute flaccid paralysis is a medical emergency that may be caused by primary neuro-muscular disorders, metabolic alterations, and iatrogenic effects. Severe hyperkalemia is also a potential cause, especially in elderly patients with impaired renal function. Early diagnosis is essential for appropriate management.

Here, we report the case of a 78-year-old woman with hypertension and diabetes presenting to the emergency department because of pronounced asthenia, rapidly evolving in quadriparesis. Laboratory examinations showed severe hyperkalemia of 9.9 mmol/L, metabolic acidosis, kidney failure (creatinine 1.6 mg/dl), and hyperglycemia (501 mg/dl). The electrocardiography showed absent P-wave, widening QRS, and tall T-waves. The patient was immediately treated with medical therapy and a hemodialysis session, presenting a rapid resolution of electrocardiographic and neurological abnormalities. This case offers the opportunity to discuss the pathogenesis, the clinical presentation, and the management of hyperkalemia-induced acute flaccid paralysis.

Keywords: hyperkalemia, acute flaccid paralysis, hemodialysis, diabetes

Introduction

Hyperkalemia is associated with poor outcomes and a high mortality rate among the general population, and among patients with cardiac and renal disease [1,2]. Hyperkalemia-related clinical complications and deaths are determined mainly by the cardiac electrophysiological effects of elevated potassium levels [3]. Indeed, hyperkalemia may result in ventricular arrhythmias and sudden death. Moreover, hyperkalemia may also cause other physiologic perturbations, such as muscle weakness and paralysis, paraesthesia, and metabolic acidosis.

Here, we report a case of severe hyperkalemia presenting with dramatic neurological manifestations in the form of acute flaccid paralysis (AFP).

 

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Hemodialysis shake-up on the front lines of the Covid-19 pandemic: the Treviglio Hospital experience

Abstract

The new coronavirus disease (Covid-19) pandemic in Italy formally started on 21st February 2020, when a 38-years old man was established as the first Italian citizen with Covid-19 in Codogno, Lombardy region. In a few days, the deadly coronavirus swept beyond expectations across the city of Bergamo and its province, claiming thousands of lives and putting the hospital in Treviglio under considerable strain.

Since designated Covid-dialysis hospitals to centrally manage infected hemodialysis patients were not set up in the epidemic areas, we arranged to treat all our patients. We describe the multiple strategies we had to implement fast to prevent/control Covid-19 infection and spread resources in our Dialysis Unit during the first surge of the pandemic in one of the worst-hit areas in Italy. The recommendations provided by existing guidelines and colleagues with significant experience in dealing with Covid-19 were combined with the practical judgement of our dialysis clinicians, nurses and nurse’s aides.

KEYWORDS: COVID-19, hemodialysis, end-stage kidney disease, coronavirus, pandemic.

Introduction

Since December 2019, an outbreak of new coronavirus disease (Covid-19), caused by severe acute respiratory syndrome coronavirus 2 (SARS-CoV-2), has developed into a global pandemic [1]. Its outburst in Italy officially dates back to February 21st, 2020. In a few days, the number of detected cases increased beyond expectations [2]. The deadly coronavirus swept across the city of Bergamo and its province, claiming thousands of lives and putting the hospital in Treviglio under considerable strain; all departments had to be readapted and most beds were rapidly occupied by infected patients. 

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Spondylodiscitis in hemodialysis patients: a new emerging disease? Data from an Italian Center

Abstract

Hemodialysis (HD) patients are at high risk for infectious complications such as spondylodiscitis. The aim of this retrospective study was to evaluate the cases of infective spondylodiscitis occurred between May 2005 and October 2019 among HD patients at our center.

In 14 years, there were 9 cases (mean age 69±12 years). The main comorbidities found were diabetes mellitus (55.6% of patients), hypertension (55.6%), bone diseases (22.2%), cancer (11.1%) and rheumatoid arthritis treated with steroids (11.1%). The clinical onset included back pain (100% of cases), fever (55.6%), neurological deficits (33.4%), leukocytosis (55.6%) and elevated CRP level (88.9%).

Most cases were diagnosed by magnetic resonance imaging (66.7%) with more frequent involvement of lumbar region (77.8%). Blood cultures were positive in five patients (mostly for S. aureus); three of them used catheters as vascular access and, in two cases, their removal was necessary. The mean time interval between the onset of symptoms and the diagnosis was 34±42 days.

All patients received antibiotic treatment for a mean duration of 6 weeks; most cases were initially treated with vancomycin or teicoplanin plus ciprofloxacin. Most patients (77.8%) recovered after a mean of 3.5 months; one patient had a relapse after 2 years and one patient had long-term neurologic sequelae.

Infective spondylodiscitis in HD must be suspected in the presence of back pain, even in the absence of fever or traditional risk factors. An early diagnosis could improve the outcome. Close monitoring of vascular access, disinfection procedures and aseptic techniques are important to avoid this complication.

 

Keywords: spondylodiscitis, hemodialysis, back pain, vascular access, infectious complications, bacteremia

Introduction

Septicemia and infections contribute to 12% of deaths in uremic patients [1].

Hemodialysis (HD) patients represent a risk category for bacteremia (in particular caused by S. aureus), because of the coexistence of multiple risk factors: the immunodepression typical of uremia, the frequent venopunctures of native and prosthetic fistulas and the presence of temporary or permanent venous catheters [23].

One of the possible complications of bacteremia is spondylodiscitis, defined as infection of the vertebra and intervertebral disc sometimes extended to the surrounding soft tissues [47]. The incidence of this disease varies between 1:250,000 patients/year [89] and 0,4-2,4:100.000 patients/year [5] in the general population, while the major studies carried out on HD patients report an incidence of 1:80–1:215 patients/year [1011].

Although bacterial spondylodiscitis is one of the most serious complications that can occur to dialysis patients, few cases have been reported in the literature; it is therefore not clear which is the best clinical management. Moreover, diagnosis may be often delayed due to the insidious onset of the symptoms.

Considering the cases occurred in our center, in this work we analyze the clinical features and the problems related to the diagnosis and the therapy of spondylodiscitis in HD patients; the possible risk factors related to the onset of this disease are also considered.

 

Methods

A retrospective study has been conducted by evaluating all cases of infective spondylodiscitis that occurred between May 2005 and October 2019 among the HD patients at our center (IRCCS Multimedica, Sesto San Giovanni, Milan, Italy).

Patients were identified according to a diagnosis of “spondylodiscitis” and “ESRD” from the hospital records. The diagnosis of infective spondylodiscitis was based on clinical data, laboratory results [5, 12] and diagnostic imaging tests [1213]. The exclusion criteria were as follows: post-operative spinal infection, patients affected by chronic renal insufficiency not in hemodialysis, patients who received HD for less than 14 days. We finally included 9 cases.

For each patient, demographic data, personal medical history, dialytic age and type of vascular access were collected. The baseline characteristics included age, gender, primary cause of ESRD and main comorbidities (diabetes mellitus, hypertension, malignancy, bone and joint diseases). Regarding infective spondylodiscitis, initial clinical symptoms, laboratory and culture test results, diagnostic tools and location of spinal infection were collected for each patient. We focused in particular on the time interval between the onset of symptoms and the diagnosis, often delayed.

Finally, we collected data regarding the treatments performed and the patients’ outcomes.

 

Results

In 14 years, there have been 9 cases of infective spondylodiscitis in our center, with an estimated incidence of 1:200 patients/year. The incidence was calculated by comparing the number of cases to the dialysis population over 14 years (we usually treat chronically 100 HD patients).

Table 1 shows the clinical characteristics of the patients with infective spondylodiscitis treated in our center. Sixty-seven percent of patients were male, the mean age was 69±12 years. The primary causes of ESRD included diabetic nephropathy (3 patients, 33.4%), obstructive nephropathy (2 patients, 22.2%), autosomal dominant polycystic kidney disease (1 patient, 11.1%), arterial hypertension (1 patient, 11.1%) and unknown causes (2 patients, 22.2%). Five patients (55.6%) were affected by diabetes mellitus, 11.1% by obesity, 55.6% by arterial hypertension and 22.2% by bone diseases. One patient was known for rheumatoid arthritis and was in chronic treatment with low-dose steroids and azathioprine; none of the other patients received chronic immunosuppressive therapy. One patient was affected by prostatic cancer.

All patients had back pain as an initial symptom, 55.6% had fever, while 33.4% had neurological symptoms, such as limb weakness and paresthesia (Table 2).

 

Patient Age [years] Gender Cause of ESRD Comorbidities
1 62 M Diabetes Diabetes
2 78 M Unknown Myelodysplasia
3 63 M Unknown Obesity, arterial hypertension, hypothyroidism, diabetes
4 78 F Unknown Rheumatoid arthritis, osteoporosis
5 69 F Nephrolithiasis Diabetes, secondary hyperparathyroidism
6 73 F ADPKD Diabetes, arterial hypertension, Graves’ disease, vasculopathy
7 88 M Obstructive nephropathy Arterial hypertension, prostatic cancer
8 48 M Diabetes Diabetes, arterial hypertension
9 61 M Arterial hypertension Arterial hypertension
ESRD, end stage renal disease; ADPKD, autosomal dominant polycystic kidney disease
Table 1: Characteristics of the patients with infective spondylodiscitis in care at our center.

 

Patient Back Pain Fever Neurological symptoms WBC CRP Diagnostic tools Location
1 Yes Yes No 26700 26.7 CT, MRI D9-D10
2 Yes Yes No 28000 22 MRI L5-S1
3 Yes No Yes 10200 5.83 MRI L3-L4
4 Yes No Yes 3800 9.9 MRI L4-L5
5 Yes Yes Yes 15500 10.1 MRI D4-D5
6 Yes No No 6230 8.52 CT, MRI L4-L5
7 Yes No No 5290 0.3 MRI L4-L5
8 Yes Yes No 22500 31.8 CT L4-L5
9 Yes Yes No 7130 3.7 MRI L1-L2
WBC, white blood cell count (cells/ml); CRP, c-reactive protein (mg/dl); MRI, magnetic resonance imaging
Table 2: Initial clinical presentation, initial laboratory results, diagnostic tools, location of infection.

 

Figure 1: MRI of the lumbosacral spine without gadolinium contrast showing discitis at the L4–L5 level (patient n. 6)

 

At hospital admission 55.6% of patients had leukocytosis, while 88.9% had elevated CRP levels (Table 2).

Six patients (66.7 %) had their diagnoses confirmed by magnetic resonance imaging (MRI) (Figure 1), while two had a CT performed prior to MRI (Table 2). One patient had his diagnosis confirmed by CT only (it was not possible to perform MRI because of the presence of a metallic foreign object in the patient’s body). All patients had performed a spine radiograph that turned out not to be diagnostic. In no case it was necessary to perform a FDG-PET for the diagnosis of spondylodiscitis. Echocardiography was performed in 2 cases, both negative for valvular vegetation, to exclude infective endocarditis.

The lumbar level was the most common site of infection (7 patients, 77.8 %); in 2 patients (22.2 %), the thoracic spine was also involved, while in no case the cervical spine was involved (Table 2).

The mean dialytic age was 33±38 months, as reported in Table 3. Four patients (44.4 %) used an arteriovenous fistula (AVF) as vascular access for hemodialysis, 1 patient (11.1 %) used an arteriovenous graft (AVG), 3 patients (33.4 %) used a tunneled cuffed catheter (TCC), and 1 patient (11.1 %) used a non-tunneled catheter (NTC) (Table 3). Two patients had experienced thrombosis of the arteriovenous fistula for hemodialysis and underwent endovascular surgery. The surgical interventions had not been successful; for this reason, central venous catheters for hemodialysis had been positioned (a tunneled cuffed catheter in one case, a non-tunneled catheter, then removed and replaced, in the other). Blood cultures were positive in five cases, four for S. aureus (Table 3) and one for S. agalactiae. In the first of our 9 cases, the non-tunneled catheter, which was the source of the infection, was removed and replaced. In the second case the infection was successfully treated without the need of removing the tunneled cuffed catheter. In the third and fourth cases, the patients had AVFs and no sign of local infection. In the fifth case, the removal of the TCC was necessary due to the persistence of a septic status related to the catheter. A NTC was subsequently placed and an AVF was created.

 

Patient Dialytic age [months] Vascular access Blood culture Bone biopsy Diagnostic delay
1 45 NTC S. aureus Not executed 1 month
2 24 AVF Negative Not executed 3 months
3 3 TCC S. aureus Not executed 5 days
4 57 AVF Negative Not executed 10 days
5 12 AVF S. aureus S. aureus 3 weeks
6 120 AVG Negative Negative 4 months
7 16 TCC Negative Not executed 3 weeks
8 1 TCC S. aureus Negative 3 days
9 15 AVF Streptococcus agalactiae Not executed 5 days
AVF, arteriovenous fistula; AVG, arteriovenous graft; NTC, non-tunneled catheter; TCC, tunneled cuffed catheter
Table 3: Dialytic age, vascular access for hemodialysis, culture results, time interval between onset of symptoms and diagnosis

 

A bone biopsy was performed in three instances (Table 3). In the first case, the patient developed a paraplegia with level D4 during hospitalization; she was therefore subjected to a neurosurgical operation of bone marrow decompression. The bone culture test confirmed the diagnosis of S. aureus spondylodiscitis. Despite surgical intervention and the use of targeted systemic antibiotic therapy, the recovery of lower limb function was not achieved. In the second case, a bone biopsy was performed because of the persistence of painful symptoms after months of antibiotic therapy; the cultural exam of the disc and the vertebral body was negative; the patient was then discharged with a diagnosis of chronic spondylodiscitis. In the third case, the bone biopsy was also performed due to the persistence of painful symptoms and the exam resulted negative.

The mean time interval between the onset of symptoms and the diagnosis was 34±42 days (Table 3). All patients received antibiotic treatment and the mean treatment duration was 6 weeks (Table 4). In most cases, vancomycin or teicoplanin plus ciprofloxacin were used as initial antibiotics (Table 4). The aim of the initial empiric treatment was to cover Staphylococci and Gram-negative bacilli. One patient underwent surgical intervention due to progressive neurologic deficits, as reported above. In four cases, the use of an orthopedic corset was prescribed (Table 4).

One patient had another infective spondylodiscitis within 2 years, caused by a different organism to in his first event. One patient had long-term neurologic sequelae despite surgical treatment. The others 7 patients recovered after a mean of 3.5 months (Table 4).

 

Patient Antibiotics Duration of antibiotic therapy Surgical treatment Orthopedic corset Outcome
1 Vancomycin plus gentamicin 4 weeks No Yes Recurrent after 2 years
2 Vancomycin plus ciprofloxacin; then teicoplanin plus ceftazidime 8 weeks No No Resolution after 2 months
3 Vancomycin plus ciprofloxacin plus ceftazidime 8 weeks No No Resolution after 3 months
4 Teicoplanin plus ciprofloxacin 4 weeks No Yes Resolution after 3 months
5 Vancomycin plus ciprofloxacin 8 weeks Yes, bone marrow decompression / Paraplegia D4
6 Levofloxacin plus rifampicin 4 weeks No Yes Resolution after 8 months
7 Ciprofloxacin 8 weeks No No Resolution after 3 months
8 Teicoplanin; then Linezolid 8 weeks No Yes Resolution after 4 months
9 Vancomycin plus levofloxacin 4 weeks No No Resolution after 1 month
Table 4: Treatments and outcome of patients

 

Discussion

In our center there have been 9 cases of infective spondylodiscitis over 14 years, with an estimated incidence of 1:200 patients/year, which is in line to what has been previously reported in the literature regarding HD patients [1011].

The mean age of the patients considered in our study was 69±12 years, suggesting, as is also reported in the literature, that in recent years spondylodiscitis has evolved from an acute pathology with a high mortality mostly affecting young patients to a more indolent disorder affecting elderly patients, with a reduced mortality but more frequent relapses and debilitating sequelae [14].

The most frequent comorbidities found in our patients were diabetes mellitus (55.6%), arterial hypertension (55.6%) and bone diseases (22.2%). Several risk factors for spondylodiscitis are reported in the literature: diabetes mellitus, intravenous drug abuse, liver disease, immunodeficiency, alcoholism, rheumatoid arthritis, steroid therapy, immunosuppressive therapy, tumors [1516]. The prevalence of arterial hypertension among our cases of spondylodiscitis appears lower than that of the hemodialysis population (55.6% vs 80%); however, the relationship reported in previous studies between arterial hypertension and spondylodiscitis in HD patients is an association, not a cause and effect relationship. The prevalence of diabetes mellitus in our sample appears to be higher than that reported in the literature among hemodialysis patients (55.6% vs 30%). This could indicate that diabetes can favor infectious processes, including spondylodiscitis, and confirms that diabetes mellitus could be a risk factor for vertebral infections, as reported in previous studies. It is interesting to note that in our case series one patient was treated for rheumatoid arthritis with low-dose steroids and azathioprine at the time of the spondylodiscitis episode; another patient was affected by prostatic cancer.

Our small sample of patients seems therefore representative of the main risk factors for spondylodiscitis, except for alcoholism and liver disease; in it we found diabetes mellitus, rheumatoid arthritis, steroid therapy and cancer. Moreover, other risk factors, related to the state of uremia and to dialysis treatment, may play a decisive role in the onset of spondylodiscitis: they are the immunodepression typical of uremia, the frequent use of central venous catheterization as vascular access for hemodialysis, the frequent venopuncture of the fistulas, both native and prosthetic, and the endovascular surgery procedures for thrombosis of the vascular access, with the consequent greater risk of bacteremia and infectious complications [23]. In our case series, 44.4% of patients used an AVF as vascular access for hemodialysis, 11.1% used an AVG, 33.4% used a TCC, and 11.1% used a NTC. Two patients had experienced thrombosis of the arteriovenous fistula, requiring endovascular surgery. Moreover, the blood cultures resulted positive for S. aureus in three of the four patients with central venous catheter and the catheter removal was necessary in two cases. A previous article reports that 91% of their spondylodiscitis cases used a central venous catheter instead of an arteriovenous fistula as vascular access for hemodialysis [17]. For this reason, possible preventive strategies in hemodialysis patients are the choice of AVF as vascular access, as it is associated with a lower incidence of spondylodiscitis compared to the TCC [11], and the close monitoring of the vascular access, paying particular attention to disinfection procedures and aseptic techniques [18].

In our case series, all patients had back pain at the onset of symptoms, while fever and neurological symptoms were present only in some. The literature also describes back pain as the main clinical manifestation of the disease; it is present in 90% of all cases, at the level of the affected bone metamer [15]. Fever is not a constant finding and is present only in half of the cases, while neurological symptoms are found in 30% of patients with spondylodiscitis [1516]. At hospital admission 55.6% of our patients had leukocytosis, 88.9% had elevated CRP levels. In the literature, leukocytosis is reported in 40% of cases and an increase in inflammatory indices in 80% of them [19].

Magnetic resonance imaging of the spine is the most sensitive and specific radiological method to diagnose vertebral osteomyelitis; it is also the procedure of choice to assess the extent of the disease, the involvement of soft tissues and neurological structures and the possible presence of abscesses [13]. Spine radiography is often performed first and shows alterations in 89% of cases [13]; however, it has a reduced sensitivity and specificity, especially in the early stages [20]. CT is less sensitive than MRI and is generally used when the latter is contraindicated, as well as to perform CT guided percutaneous biopsy [20]. A final exam that can help locate abnormalities and monitor the response to treatment is FDG-PET, which is especially indicated in cases where the patient cannot undergo MRI [12, 21]. In our case series, 66.7% of patients had their diagnoses confirmed by MRI, one patient had his diagnosis confirmed by CT, while two patients had a CT performed prior to MRI. In no case we performed FDG-PET.

In our sample of patients, the lumbar spine was the most common site of infection, followed by the thoracic spine. Generally, the lumbar vertebrae are the most frequently affected (60-70% of cases in the literature) given their wide vascularization [22]. As reported in previous studies, in 10% of cases the infection localizes at the cervical level (the site that can most frequently lead to neurological complications); in 20-30% of cases it is localized at the thoracic level, while the sacral localization is found in less than 10% of cases [5, 23].

In our study, blood cultures were positive in five instances, four for S. aureus and one for S. agalactiae. Spondylodiscitis are generally due to a hematogenous infection by S. aureus (50% of cases in the literature), but episodes caused by Gram-negative, P. aeruginosa, S. epidermidis, Streptococci of group C and G have been described (especially in diabetic patients) [4]. Generally, blood cultures are positive in 50-70% of patients with vertebral osteomyelitis [1516].

We performed a bone biopsy in three cases. CT-guided percutaneous vertebral disc biopsy may be considered in patients with negative blood cultures who do not respond to antibiotic therapy; it identifies the pathogen in 60-70% of cases. The possibility of identifying the causative pathogen is reduced if the patient has previously taken antibiotics. The histological examination of the biopsy may show disc necrosis and neutrophil infiltration, too [5]. In patients with suspected spondylodiscitis, with persistent symptoms despite antibiotic therapy and negative microbiological tests (blood culture and disc biopsy) it is indicated to repeat a second percutaneous biopsy and eventually proceed with an open biopsy, that is positive in 75% of cases [5, 12].

All our patients received antibiotic treatment, in most of the cases vancomycin or teicoplanin plus ciprofloxacin as initial therapy. Randomized controlled trials on empirical antibiotic therapy have not yet been conducted and therefore no antibiotic, alone or in an association, is currently considered superior to the others in treating this infection. Usually, an empirical antibiotic therapy is set up with broad-spectrum antibiotics with anti-staphylococcal activity (for example vancomycin or teicoplanin), also associating an agent with anti-negative bacilli activity [2425]. Antibiotic therapy should continue for at least 4-8 weeks (up to 6-12 weeks) [2425]. In our case series, the mean treatment duration was 6 weeks.

The recommended therapy also consists in immobilization, with bed rest with analgesia for at least 2-4 weeks, followed by the gradual mobilization with orthopedic corset; this was prescribed to four of our patients. Surgery can be indicated if there are neurological deficits, radicular compression, a need to prevent and correct instability and deformity, severe persistent pain, or when it is necessary to perform drainage of abscesses or open biopsy [6, 23]. In our case series, only one patient underwent surgical intervention due to progressive neurologic deficits.

The mortality rate for spondylodiscitis among HD patients is reported at 16.7%. In our case series, no patient died due to infection, although one had a second infective spondylodiscitis within 2 years and another suffered from long-term neurologic sequelae, despite surgical treatment. The others seven patients recovered after an average of 3.5 months.

An early diagnosis that identifies, where possible, the responsible microorganism, could prevent the development of such complications and could improve the outcome for patients, allowing for a prompt resolution of the infective episode [14]. An algorithm on the possible diagnostic/therapeutic workup for the management of suspected cases of spondylodiscitis among hemodialysis patients is shown in Figure 2.

 

Figure 2: Algorithm on the possible diagnostic/therapeutic workup for the management of suspected cases of spondylodiscitis among hemodialysis patients.

 

Our study certainly presents some limits due to the reduced number of cases and its descriptive and retrospective nature. However, it is the first Italian study that focuses on this rare disease, characterized by important mortality and complications, especially among hemodialysis patients, and on the diagnostic delay that often occurs.

 

Conclusions

Infective spondylodiscitis must be suspected in the presence of back pain in HD patients, even in the absence of fever and traditional risk factors. In order to improve the outcome for patients and obtain a prompt resolution, it is important to get an early diagnosis by identifying, if possible, the responsible microorganism, and to avoid any delays in the diagnosis. Finally, the close monitoring of vascular access, and a great attention to disinfection procedures and aseptic techniques are all important to avoid these serious infectious complications.

 

 

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  23. Hadjipavlou AG, Mader JT, Necessary JT, et al. Hematogenous Pyogenic Spinal Infections and Their Surgical Management. Spine (Phila Pa 1976) 2000; 25:1668-79. https://doi.org/10.1097/00007632-200007010-00010
  24. Grados F, Lescure FX, Senneville E, et al. Suggestions for managing pyogenic (non-tuberculous) discitis in adults. Joint Bone Spine 2007; 74:133-39. https://doi.org/10.1016/j.jbspin.2006.11.002
  25. Berbari EF, Kanj SS, Kowalski TJ, et al. Infectious Diseases Society of America (IDSA) Clinical Practice Guidelines for the Diagnosis and Treatment of Native Vertebral Osteomyelitis in Adults. Clin Infect Dis 2015; 61: e26-46. https://doi.org/10.1093/cid/civ482

Long-term efficacy and safety of etelcalcetide in hemodialysis patients with severe secondary hyperparathyroidism

Abstract

Introduction: Etelcalcetide has proven effective and well tolerated in the treatment of secondary hyperparathyroidism (IPS) in patients on hemodialysis (HD). Since long-term studies are scarce, we assessed the efficacy and safety of etelcalcetide in the treatment of severe IPS in a group of HD patients over a 12-month period. Patients and Methods: We selected 24 HD patients with PTH levels > 500 pg/mL (range 502-2148 pg/mL), despite following a therapy with cinacalcet and/or vitamin D analogues. The initial dosage of etelcalcetide was 7.5 mg/week, then it was adjusted based on the trend of the levels of the total albumin-corrected serum calcium (CaALb_c) and PTH. Treatment was temporarily suspended if CaALb_c levels were <7.5 mg/dL or if hypocalcemia was symptomatic. CaALb_c, phosphorus, PTH and total alkaline phosphatase (t-ALP) were measured monthly. The main endpoint was the decrease in PTH levels >30% compared to baseline values. Results: At F-U, the reduction in PTH levels was > 30% in 83% of our patients. PTH levels decreased from 1169 ± 438 to 452±241 pg/mL at F-U (P <0.001). The percentage of reduction in PTH levels at F-U was -56 ± 25%. CaALb_c and phosphate levels decreased from 9.8 ± 0.4 mg/dL to 9.0 ± 0.6 mg/dL (P <0.001), and from 6.1 ± 1.3 mg/dL to 4.9 ± 1.3 mg/dL (P <0.01), respectively. The main side effect was hypocalcaemia, but never so severe as to require the interruption of treatment. Hypocalcemia was more pronounced in patients with higher basal levels of PTH and t-ALP. During the study, the percentage of patients treated with calcium carbonate increased from 33% to 54% and that of patients treated with paricalcitol from 33% to 79%. At F-U the average weekly dosage of etelcalcetide was 21.0 ± 9.5 mg (range 7.5-37.5 mg/week). Conclusions: The treatment of severe IPS with etelcalcetide has been proved effective and safe in the long term. Hypocalcaemia, the most frequent side effect, was more evident in patients with the most severe forms of IPS and was probably due to a reduction in bone turnover rather than to the direct effect of etelcalcetide.

 

Key words: etelcalcetide, hemodialysis, secondary hyperparathyroidism, paricalcitol, cinacalcet.

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Introduzione

L’iperparatiroidismo secondario (IPS) è una complicanza comune e clinicamente significativa della malattia renale cronica (CKD), soprattutto nei pazienti in trattamento emodialitico (HD) [14].

Gli elevati livelli di paratormone (PTH), insieme alle alterazioni del calcio e del fosforo, si associano a calcificazioni vascolari, fratture scheletriche, aumentata morbilità e mortalità cardiovascolare [58]. In particolare, studi epidemiologici condotti in pazienti in HD hanno fornito evidenze sostanziali che livelli di PTH elevati, in particolare modo quando >600 pg/mL, sono associati ad un aumentato rischio di eventi cardiovascolari e mortalità cardiovascolare [9, 10]. Fino a pochi anni fa il trattamento dell’IPS era principalmente basato sull’impiego degli analoghi della vitamina D, dei calciomimetici e della paratiroidectomia [1, 2, 5, 1113]. Tuttavia, l’impiego degli analoghi della vitamina D è spesso gravato da effetti collaterali quali ipercalcemia ed iperfosforemia, che ne possono limitare l’impiego [14, 15]. L’impiego del calciomimetico cinacalcet, seppur più efficace rispetto agli analoghi della vitamina D nel controllo delle varie componenti della CKD-MBD [1620], è spesso limitato dalla elevata frequenza di effetti collaterali e dalla scarsa aderenza terapeutica [21]. Al fine di migliorare il trattamento dell’IPS, è stato recentemente introdotto un nuovo calciomimetico, l’etelcalcetide (Parsabiv®, Amgen Inc.), somministrabile per via endovenosa (e.v.) al termine della seduta HD [22, 23]. La sicurezza e l’efficacia dell’etelcalcetide è stata dimostrata da diversi trials clinici [2427]. L’etelcalcetide è risultato, rispetto al cinacalcet, più efficace nel controllo dei principali parametri della CKD-MBD [32]. Nel presente studio, della durata di 12 mesi, abbiamo valutato retrospettivamente l’efficacia, intesa come riduzione dei livelli di PTH >30% rispetto ai valori basali, e la tollerabilità dell’etelcalcetide in un gruppo selezionato di pazienti in HD con IPS grave nonostante fossero in trattamento con le terapie tradizionali (cinacalcet e/o paracalcitolo) o non passibili di trattamento con questi farmaci per la comparsa di effetti collaterali.

 

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SARS-CoV-2: recommendations on nursing care for dialyzed and transplanted patient

Abstract

Coronavirus disease 2019 is an infectious respiratory syndrome caused by the virus called SARS-CoV-2, belonging to the family of coronaviruses. The first ever cases were detected during the 2019-2020 pandemic. Coronaviruses can cause a common cold or more serious diseases such as Middle Eastern Respiratory Syndromes (MERS) and Severe Acute Respiratory Syndrome (SARS). They can cause respiratory, lung and gastrointestinal infections with a mild to severe course, sometimes causing the death of the infected person. This new strain has no previous identifiers and its epidemic potential is strongly associated with the absence of immune response/reactivity and immunological memory in the world population, which has never been in contact with this strain before. Most at risk are the elderly, people with pre-existing diseases and/or immunodepressed, dialyzed and transplanted patients, pregnant women, people with debilitating chronic diseases. They are advised to avoid contacts with other people, unless strictly necessary, and to stay away from crowded places, also observing scrupulously the recommendations of the Istituto Superiore di Sanità.

In this article we detail the recommendations that must be followed by the nursing care staff when dealing with chronic kidney disease patients in dialysis or with kidney transplant patients. We delve into the procedures that are absolutely essential in this context: social distancing of at least one meter, use of PPI, proper dressing and undressing procedures, frequent hand washing and use of gloves, and finally the increase of dedicated and appropriately trained health personnel on ward.

 

Keywords: COVID-19, hemodialysis, transmission, prevention

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Introduzione

COVID-19 acronimo dell’inglese COronaVIrus Disease-19), o malattia respiratoria acuta da SARS-CoV-2 (dall’inglese Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus [1], nome del virus) o più semplicemente malattia da coronavirus 2019, è una malattia respiratoria infettiva causata dal virus denominato SARS-CoV-2 appartenente alla famiglia dei coronavirus. I primi casi sono stati riscontrati durante la pandemia del 2019-2020.

Una persona positiva può presentare sintomi dopo un periodo di incubazione che varia tra i 2 e i 14 giorni circa (raramente, ci sono stati casi di 29 giorni), durante i quali può essere contagiosa [2,3].

Per limitarne la trasmissione devono essere applicate le precauzioni divulgate dall’Istituto Superiore della Sanità.

 

Proteggere sé stessi

Adottare un’accurata igiene personale, lavarsi spesso le mani con acqua e sapone o disinfettarle, se non visibilmente sporche, con gel alcoolico >70%:

  • dopo aver tossito o starnutito nelle mani
  • dopo aver prestato assistenza alle persone malate
  • quando ci si prende cura della casa e della persona
  • prima e dopo il contatto con il cibo

Oltre all’igiene delle mani è importante:

  • indossare la mascherina protettiva qualora si venga in contatto con altre persone
  • rispettare la distanza di sicurezza

 

Proteggere gli altri

Buona regola è utilizzare sempre il gomito interno/fazzoletto quando si tossisce o starnutisce, adottando alcune precauzioni:

  • il fazzoletto, se utilizzato, va gettato immediatamente, possibilmente all’interno di una busta senza riporlo nelle tasche
  • lavare le mani o utilizzare immediatamente il gel igienizzante per evitare le contaminazioni
  • mantenere la mascherina, indossata correttamente, se a contatto con altre persone
  • mantenere la distanza di sicurezza

Coloro che ritengono di essere venuti a contatto stretto con persone positive al COVID-19 devono rimanere in quarantena e rivolgersi immediatamente agli organi preposti al fine di ricevere le appropriate indicazioni.

Il COVID-19 si annida prevalentemente nelle vie aeree superiori ed inferiori provocando inizialmente una serie di sintomi pseudo-influenzali [4,5] con manifestazione di febbre (>37.5°), tosse, difficoltà di respiro, stanchezza, malessere muscolare e generalizzato, congiuntivite e disturbi gastrointestinali [6]. L’evoluzione nei casi più gravi si presenta con polmonite, sindrome da stress respiratorio acuto, sepsi e conseguente shock settico, insufficienza renale acuta, coma e morte; sono documentate anche complicazioni cliniche extra-respiratorie che condizionano pesantemente l’evoluzione della malattia e sono in parte responsabili della mortalità, in particolare: disturbi trombo-embolici polmonari, cardiaci, neurologici e renali [7,8,9]. Allo stato attuale non vi è un vaccino e/o trattamento specifico validato; il paziente andrà necessariamente isolato e la gestione dei sintomi clinici spesso richiede supporto respiratorio [5,10] in terapia intensiva.

 

Raccomandazioni per i pazienti in trattamento dialitico

La Società Italiana di Nefrologia (sezione SIN Lombardia [11] e SIN Emilia Romagna [12]) hanno pubblicato protocolli e raccomandazioni riguardanti i pazienti affetti da Malattia Renale Cronica (MRC) sottoposti a sedute di emodialisi, stilando informazioni e consigli di buona pratica per il personale che deve seguire il paziente acuto e/o cronico durante le già menzionate procedure. La Società Infermieri Area Nefrologica (SIAN) ha pensato di redigere un documento infermieristico che potesse raccogliere le raccomandazioni per i pazienti in trattamento dialitico/trapianto e indicazioni per il personale coinvolto.

Le persone affette da MRC sono più esposte a contrarre patologie infettive in quanto presentano multi-comorbidità, immunodepressione, e sono spesso anergici e/o paucisintomatici.

Alla luce di queste considerazioni, i medici ed il personale infermieristico che prestano servizio presso le strutture di dialisi devono ricevere informazioni utili sulla trasmissione e prevenzione dell’epidemia COVID-19, avere la garanzia di adeguate misure di protezione per la sicurezza personale, devono ricevere indicazioni chiare sulla gestione dei pazienti in trattamento sostitutivo e/o con trapianto e devono saper offrire informazione continua e costante ai malati, ai loro familiari ed al personale addetto ai trasporti, al fine di garantire la migliore aderenza possibile alle prescrizioni comportamentali fornite dal personale sanitario.

 

Considerazioni generali

  1. I pazienti con MRC sono più fragili e con comorbidità; queste condizioni, se in presenza di età avanzata, modificano, aggravandola, l’evoluzione clinica della malattia e ne aumentano la mortalità.
  2. L’infermiere di dialisi può ritenersi autonomo nella gestione della seduta dialitica non prima di 6 mesi di formazione/tutoraggio intensivi e specialistici e, quindi, un eventuale diffondersi del contagio tra il personale comporta l’impossibilità di immediata sostituzione con professionisti provenienti da altre Unità Operative.
  3. Il rispetto delle precauzioni universali e di quelle specifiche per la dialisi con igiene delle mani, utilizzo della cuffia, mascherina chirurgica, occhiali o visiera, guanti, disinfezione meticolosa esterna dei monitor e delle superfici circostanti l’area del malato, note a tutto il personale infermieristico, produce una differenza fondamentale nella riduzione della possibilità di contagio, con riduzione del numero di tamponi o di quarantena del personale.
  4. L’Infermiere informa, coinvolge, educa e supporta il paziente favorendo l’adesione al suo percorso di cura (art.17 Codice Deontologico), motivando le procedure atte a contenere il contagio COVID 19, educando l’utente al corretto lavaggio delle mani e/o utilizzo del gel antibatterico, ad indossare efficacemente la mascherina chirurgica a protezione di naso e bocca e ad evitare luoghi affollati e/o aree comuni non conformi alle direttive indicate.
  5. È necessario monitorare e registrare lo stato di salute di tutti gli operatori sul posto di lavoro e condurre un monitoraggio sanitario per gli operatori di prima linea, incluso il monitoraggio della temperatura corporea e dei sintomi respiratori.
  6. La condizione di emergenza porta i professionisti ad una elevata esposizione emotiva. Va dunque considerata l’importanza di un supporto per affrontare eventuali problemi psicologici e fisiologici emergenti con gli esperti pertinenti.

 

Considerazioni specifiche di buona pratica infermieristica [13]

  1. Il professionista sanitario deve eseguire l’igiene delle mani prima e dopo qualsiasi contatto con l’assistito e con materiali e suppellettili utilizzati dal paziente, nonché prima e dopo l’utilizzo e la rimozione di tutti i dispositivi di protezione individuale. In particolare, porre attenzione ed eseguire il lavaggio delle mani con acqua e sapone o con gel alcolico al termine della fase di svestizione, per rimuovere potenziali agenti patogeni.
  2. Il professionista sanitario deve prestare particolare attenzione alla igiene delle mani che, secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, può essere eseguita con soluzione a base alcoolica >70% (con procedura di 20’’-30’’) o con acqua e sapone se visibilmente sporche (con procedura fino ai 60’’).
  3. Il professionista sanitario deve ricevere una formazione adeguata sull’utilizzo dei DPI e deve dimostrare adeguata comprensione dei seguenti argomenti:
    1. quando utilizzarli
    2. quale DPI è necessario in una determinata situazione
    3. come indossarli, utilizzarli e rimuoverli correttamente in modo da prevenire l’auto-contaminazione
    4. come smaltirli o disinfettarli correttamente (se riutilizzabili)
    5. come effettuare una corretta manutenzione dei DPI e loro limitazioni
    6. eventuali DPI riutilizzabili devono essere adeguatamente decontaminati e puliti dopo l’uso con corretta manutenzione degli stessi.

Le strutture dovrebbero adottare protocolli e procedure che descrivano una sequenza raccomandata per indossare e rimuovere in sicurezza i DPI. I DPI raccomandati per la cura di un paziente con COVID-19 noto o sospetto includono:

  1. Mascherina adatta alla situazione contingente (FFP2 per caso sospetto, FFP3 per caso confermato, come da indicazioni SIN Lombardia [11]), aderente al volto (si veda anche Allegato 1):
    1. va indossata prima di entrare nella stanza del paziente o nel setting di cura
    2. va rimossa e correttamente smaltita dopo essere usciti dalla stanza del paziente, o dall’area in cui si è prestata assistenza al paziente, e aver chiuso la porta
    3. eseguire l’igiene delle mani dopo aver rimosso la mascherina
  2. Protezione per gli occhi:
    1. protezioni adeguate sono ad esempio occhialini protettivi o visiera monouso che copra la parte anteriore ed i lati del viso, indossate all’ingresso della stanza o dell’area in cui si trova il paziente
    2. gli occhiali personali e le lenti a contatto non sono considerati una protezione adeguata
    3. rimuovere la protezione per gli occhi prima di lasciare la stanza del paziente o l’area in cui si è prestata assistenza al paziente
    4. la protezione riutilizzabile (ad es. occhialini) deve essere detersa e disinfettata secondo le istruzioni tecniche fornite dal produttore prima del riutilizzo
    5. la protezione monouso deve essere correttamente smaltita dopo l’utilizzo
  3. Guanti:
    1. indossare guanti puliti e non sterili all’ingresso, nella stanza del paziente, nell’area in cui si trova il paziente
    2. sostituire i guanti se strappati o contaminati
    3. rimuovere ed eliminare i guanti quando si lascia la stanza del paziente, o l’area in cui si è prestata assistenza, ed eseguire immediatamente l’igiene delle mani
  4. Camici:
    1. indossare un camice pulito idrorepellente all’ingresso della stanza o nell’area in cui si trova il paziente
    2. cambiare il camice se contaminato
    3. rimuovere e smaltire il camice in un contenitore dedicato per rifiuti infetti o biancheria infetta prima di lasciare la stanza o l’area in cui si trova il paziente
    4. i camici monouso devono essere eliminati subito

 

Considerazioni specifiche per la gestione di tutti i pazienti in dialisi [14]

  1. Sensibilizzare il paziente ad informare immediatamente il personale di dialisi qualora insorga febbre a domicilio e/o un familiare abbia sintomi infettivi.
  2. Consegnare al paziente materiale informativo riguardante le indicazioni di buona pratica.
  3. Ove possibile, telefonare al domicilio del paziente il giorno precedente la dialisi ed eseguire un pre-triage del soggetto, della famiglia e/o del care-giver, con adozione di moduli da inserire nella documentazione personale del paziente.
  4. È indispensabile eseguire il triage dei pazienti prima dell’ingresso in sala dialisi (intervista per: febbre, tosse, congiuntivite, sintomi respiratori, presenza di familiari con sintomatologia indicativa di infezione da COVID-19), limitando allo stretto necessario il numero del personale che fornisce tale assistenza.
  5. Utilizzare termometri digitali per la rilevazione della febbre; l’operatore deve essere protetto con mascherina chirurgica e guanti monouso, da sostituire ad ogni paziente trattato, praticando l’igiene delle mani con soluzioni gel su base alcolica tra un paziente e l’altro.
  6. In caso di triage positivo a uno dei criteri clinici adottati, il paziente deve indossare la mascherina chirurgica (da mantenere per tutta la seduta dialitica), eseguire lavaggio delle mani e del braccio dove si trova la fistola, indossare i guanti monouso ed essere accompagnato in uno delle postazioni dialisi dedicate ai pazienti sospetti o positivi per gli accertamenti previsti dal percorso aziendale.
    Il personale indosserà i DPI durante l’assistenza: camice idrorepellente, mascherina FPP2/FPP3, se disponibile, doppio paio di guanti e soprascarpe (se non presenti, a termine trattamento le calzature verranno irrorate con Sodio Dicloroisocianurato Diidrato). Fino all’esito del tampone, il paziente verrà trattato come positivo in isolamento funzionale.
  1. Mettere a disposizione gel antibatterico per l’igiene delle mani dei pazienti prima dell’ingresso in dialisi e mascherina chirurgica per l’igiene respiratoria, da indossare per tutta la durata del trattamento. È consigliata inoltre la sospensione della distribuzione dei generi alimentari durante la seduta emodialitica per evitare la rimozione anche momentanea della mascherina, secondo le indicazioni fornite dall’Associazione Nazionale Emodializzati (ANED) [15].
  2. Nel caso in cui il paziente sia ricoverato in altra Unità Operativa per patologia non concomitante a COVID-19, vanno rispettate le pratiche sopra citate, compreso l’utilizzo di camice repellente, per tutto il personale coinvolto nelle manovre di trasferimento da letto a letto-bilancia.
  3. Dopo ogni manipolazione di materiali e prima e dopo l’assistenza diretta del paziente i guanti vanno sostituiti previo lavaggio delle mani.

 

Considerazioni specifiche nella gestione dei pazienti COVID positivi sospetti o accertati in stanze dedicate

  1. Per l’utilizzo dei dispositivi (vestizione e svestizione) vedere indicazioni ministeriali settoriali.
  2. La vestizione dell’operatore deve essere fatta all’esterno dalla sala dedicata.
  3. La svestizione deve essere fatta all’interno della stessa, prima dell’uscita.
  4. Se l’operatore necessita del cambio, chi lo sostituisce deve provvedere alla vestizione come da procedura concordata.
  5. Uno spazio di almeno 2 metri deve essere assicurato tra un letto e l’altro.
  6. Una volta che il paziente è stato dimesso o trasferito, il personale sanitario, compreso il personale dedicato alle pulizie ambientali, dovrebbe astenersi dall’entrare nella stanza fino a quando non sia trascorso il tempo sufficiente ad un adeguato ricambio d’aria, allo scopo di permettere la rimozione delle particelle potenzialmente infette. Trascorso questo tempo, la stanza deve essere sottoposta a un’adeguata detersione e disinfezione dei monitor e delle superfici circostanti l’unità del malato, dei presidi a contatto comune e ripetuto (tastiere, PC, telefoni, interruttori, maniglie delle porte e telefoni cellulari personali) che possono risultare fortemente critici nella diffusione del contagio. Si consiglia di utilizzare Ipoclorito di Sodio 1000 mg/l e/o alcool etilico >70%, ove possibile, prima di riutilizzare la postazione per un altro paziente.

 

VESTIZIONE SVESTIZIONE
1. Rimuovere tutti i monili come orologi, anelli o altri oggetti personali

2. Osservare l’igiene delle mani utilizzando acqua e sapone o soluzione alcolica

3. Indossare un paio di guanti lunghi, interni

4. Vestire un camice impermeabile con protezione a maniche lunghe che copriranno parte dei guanti indossati

5. Indossare mascherina di protezione filtrante, facendola aderire correttamente al volto e facendo la prova di tenuta del respiro

6. Indossare visiera o, in sostituzione, occhiali di protezione

7. Proteggere il capo con un copricapo impermeabile

8. Indossare ulteriore paio di guanti corti esterni, al di sopra di quelli già indossati

1. Svestirsi del camice monouso impermeabile e gettarlo nel contenitore rifiuti speciali

2. Rimuovere il copricapo

3. Togliere il paio di guanti esterni

4. Togliere la visiera o gli occhiali di protezione pluriuso e riporli in contenitore per la successiva sanificazione

5. Disinfettare le mani guantate con gel alcolico

6. Rimuovere la mascherina facendo attenzione a maneggiarla esclusivamente dalla parte posteriore e smaltirla nel contenitore

7. Togliere il paio di guanti lunghi interni

8. Eseguire l’igiene delle mani con soluzioni alcolica o con acqua e sapone

 

È importante, durante la svestizione, prestare massima attenzione nel rimuovere i DPI contaminati, che potrebbero inavvertitamente toccare il viso, le mucose, gli occhi e la cute. A questo proposito, risulta utile utilizzare una check list e l’aiuto di uno specchio o di un secondo operatore durante questa delicata procedura, ad alto rischio infettivo. Si devono smaltire i DPI monouso in un contenitore per rifiuti speciali che deve essere posizionato nella stessa area dove avviene la vestizione. I DPI riutilizzabili, che non vanno smaltiti, devono essere attentamente decontaminati.

 

Considerazioni specifiche nella gestione dei pazienti COVID positivi accertati

Per il trattamento dialitico in unità ad Alta Assistenza o in ambiente allestito per COVID-19 è preferibile l’impiego di monitor per tecniche continue, con modalità gestionale della seduta riservata ai medici che hanno utilizzato la tecnica sino quel momento. Vi è la possibilità di utilizzare la tecnica intermittente se il reparto di Dialisi e la logistica lo permettono (impianto di carico/scarico acqua), con ausilio di osmosi portatili. È imperativo rispettare le regole imposte per i DPI e la disinfezione del materiale non monouso utilizzato.

 

Considerazioni specifiche per i coordinatori infermieristici [14]

  1. Controllare, monitorare ed assicurare l’approvvigionamento del materiale specifico con formazione di tutto il personale sulle norme corrette da mantenere, compresa la vestizione e svestizione DPI, e loro importanza.
  2. Individuare, all’esterno del servizio, una zona COVID dedicata con percorsi pulito-sporco separati e fornire indicazioni di sanificazione dell’area utilizzata.
  3. Predisporre una sala di isolamento dove trattare eventuali pazienti positivi, in condizioni che non richiedano supporto respiratorio.
  4. È consigliabile attivare turni supplementari di dialisi, per aumentare la distanza di sicurezza tra i pazienti e, in caso di necessità, per poter accogliere un numero maggiore di pazienti.
  5. Il rapporto infermiere/paziente e medico/paziente può essere modificato, in aumento o in diminuzione, in base al contesto e alla criticità del paziente (si lascia alle singole situazioni la valutazione).
  6. Per distribuire meglio il peso lavorativo e assistenziale (fisico e psicologico) su tutti gli infermieri, il Coordinatore deve verificare personalmente l’area per gestirne l’organizzazione ed individuare i punti di criticità, organizzando i turni di lavoro in modo che un infermiere resti sempre “pulito” fuori dell’area in cui è previsto l’utilizzo dei DPI. Fondamentale, quindi, risulta la rotazione degli operatori ogni 4 ore durante l’orario di servizio, ponendo attenzione alla rimozione del materiale DPI utilizzato e alla corretta igienizzazione delle mani prima di lasciare la zona contaminata [16].
  7. Il trattamento dialitico in ambiente ad Alta Intensità può raggiungere numeri impensabili in passato; in accordo con il personale medico, va ipotizzato l’incremento di postazioni dializzanti e organizzato un numero maggiore di personale reperibile.
  8. Il trasporto del paziente in dialisi dovrà essere garantito coinvolgendo la famiglia o, in caso di trasporto “organizzato” attraverso viaggio singolo, posticipato rispetto al resto dell’utenza per evitare contatti con altri pazienti. In caso di più pazienti afferenti in sorveglianza attiva domiciliare, l’orario deve essere concordato in maniera sequenziale. Il paziente deve indossare la mascherina chirurgica dal proprio domicilio, mentre il personale di trasporto deve indossare mascherina chirurgica e guanti monouso, da sostituire ad ogni turno con indicazione di disinfezione del veicolo, preferibilmente con prodotti a base di ipoclorito di sodio 1000 mg/l o etanolo >70%.
  9. Vanno sorvegliati i luoghi dove non sia possibile mantenere la distanza di sicurezza prevista dal DPCM, intervallando gli ingressi nelle sale d’attesa, spogliatoi, luoghi di ritrovo del personale.
  10. Nel caso di pazienti con COVID-19 presunto o accertato che effettuano dialisi in un centro periferico che non dispone di strutture contumaciali e/o malattie infettive e/o rianimazione, o non sia nella possibilità di effettuare dialisi fuori dal proprio reparto, i pazienti vanno centralizzati nelle strutture ospedaliere che dispongono, oltre che della nefrologia, anche di questi requisiti.
  11. La Direzione Sanitaria, attraverso i suoi organi competenti, darà disposizioni riguardanti la rilevazione della temperatura di tutti gli operatori ad ogni inizio e termine servizio lavorativo [15,16].
  12. Per l’operatore asintomatico con storia di possibile contatto con caso positivo che ha utilizzato correttamente i DPI prescritti secondo le disposizioni vigenti non è necessario adottare alcun provvedimento, in quanto non rappresenta un “contatto stretto”, come si evince dalla Circolare del Ministero della Salute 0006360-27/02/2020.
  13. Per l’operatore asintomatico con storia di possibile contatto stretto (vedi definizione Centro Europeo per la Prevenzione e controllo delle malattie ECDC) con caso positivo in ambito lavorativo, senza aver utilizzato DPI idonei, oppure in ambito extra lavorativo viene prescritta esecuzione di tampone a 48-72 ore dall’avvenuto contatto; proseguirà l’attività lavorativa indossando mascherina chirurgica sino ad esito del tampone.
    • Qualora il tampone dovesse risultare positivo: esclusione dall’attività lavorativa ed esecuzione di tampone dopo 7 giorni dal precedente e a 14 giorni dall’avvenuto contatto. Qualora il 2° tampone dovesse risultare negativo, l’operatore può riprendere il servizio lavorativo indossando la mascherina chirurgica.
    • Qualora il tampone dovesse risultare negativo: ammissione all’attività lavorativa con utilizzo di mascherina e monitoraggio clinico ad ogni inizio turno, esecuzione di tampone da ripetere ogni 48-72 ore (in accordo con il Medico Competente e secondo la turnistica dell’operatore). Se vi è comparsa di sintomi, è necessaria l’esecuzione immediata del tampone e la sospensione dal servizio.

Quando non in servizio, l’operatore dovrà sottostare alle disposizioni previste dall’isolamento domiciliare fiduciario sino ad esito del tampone del 14° giorno.

  1. Gli operatori dei Centri dialisi, se addestrati adeguatamente e con protezione idonea, possono eseguire il tampone naso-faringeo per la PCR COVID-19 qualora non sia presente un gruppo dedicato e in accordo con l’infettivologo e/o con gli organi preposti come da protocollo aziendale.
  2. Per il paziente in dialisi peritoneale è raccomandata una gestione massimale domiciliare, evitando/rallentando la frequenza di accessi in ospedale per esami o visite. Il personale manterrà un contatto telefonico o di tele-sorveglianza (ove possibile). Bisogna poi segnalare al paziente ed al care-giver la necessità, in caso di sintomi sospetti per infezione da COVID-19, di avvisare il Servizio di Igiene Pubblica (oppure seguire le specifiche indicazioni locali). Allertare il paziente che, in caso di sintomi respiratori ingravescenti, è necessario coinvolgere il 112/118.
  3. Per il paziente in trattamento dialitico peritoneale ricoverato con positività al COVID-19, il trattamento dialitico verrà eseguito al letto del paziente nel reparto di ricovero. Qualora tale situazione non fosse praticabile, il trattamento verrà eseguito nelle stanze dedicate ai pazienti infetti della SOC di Nefrologia ed Emodialisi. Il personale dovrà essere dotato dei DPI specifici.
  4. Per il paziente portatore di trapianto renale, oltre alla adozione dei comportamenti già indicati e consigliati nelle fasi immediate al post-trapianto, in particolare evitare i contatti ravvicinati con altri soggetti e il rispetto della terapia indicata [15], si aggiungono, come suggerito dal Centro Nazionale Trapianti [17]:
    1. utilizzare la mascherina chirurgica qualora si esca di casa (che va sostituita ogni 4 o 5 ore o se bagnata)
    2. evitare di ospitare amici e parenti che hanno sintomatologia riconducibile a infezione da COVID-19 o che hanno effettuato viaggi di recente
    3. far areare frequentemente l’ambiente domestico
    4. lavare frequente le mani con acqua e sapone o con gel idroalcolico
    5. evitare strette di mano, abbracci o baci

Il paziente trapiantato, per qualsivoglia problematica e/o necessità, si rivolgerà al centro di riferimento. Il personale sanitario dovrà predisporre il triage telefonico e rispettare le misure e l’utilizzo dei PDI previsti dalle procedure [17].

 

Conclusioni

La SARS-CoV-2 ha stravolto la routine e la vita delle persone e ha comportato delle conseguenze psicologiche non indifferenti. È in atto in tutto il mondo la ricerca, l’individuazione, lo studio e lo sviluppo di politiche sanitarie che vadano in aiuto dei professionisti clinici, impegnati nell’affrontare sia le conseguenze acute sia le conseguenze a lungo termine di una pandemia. Essa ha fatto emergere l’importanza della presenza di personale sanitario adeguato nel numero e nella preparazione, ridisegnando anche i sistemi di formazione dei professionisti clinici con la mission di supportare con basi terapeutiche scientifiche tutti i gruppi a rischio e le persone colpite [18]. È indubbia l’importanza, come suggerito da uno studio cinese [19], di prestare attenzione particolare ai gruppi vulnerabili come giovani, anziani, donne e lavoratori migranti. È altrettanto importante rafforzare l’accessibilità alle risorse mediche e di cura, attivare servizi di erogazione di prestazioni telematici e avviare la costruzione di un sistema complessivo di prevenzione ed intervento attivo nelle crisi che includa monitoraggio epidemiologico, screening, segnalazione ed intervento capillare e specifico, per ridurre il disagio psicologico e prevenire importanti problemi di salute mentale [19].

Ancora non esiste un vaccino per questo tipo di coronavirus e le evidenze a supporto dell’efficacia di potenziali terapie sono veramente poche. La popolazione non possiede immunità pregressa, rendendo tutti soggetti suscettibili. La sintomatologia dovuta all’infezione da SARS-CoV-2 va dalla asintomaticità alla polmonite grave, fino alla morte. Il rischio di contrarre una forma grave di malattia a seguito di infezione è da considerarsi moderato nella popolazione generale ed elevato per anziani e individui con associate patologie croniche coesistenti, come l’insufficienza renale cronica [20], e in trattamento dialitico, ove si rendono necessarie le precauzioni rappresentate.

 

 

Allegato 1: Le mascherine: tipologie, funzioni, procedure di posizionamento

I DPI sono classificati in livelli: FFP1, FFP2 e FFP3, (FFP è acronimo di Filternig Face Pier, in italiano possiamo tradurlo con “potere filtrante”). La principale differenza tra i 3 livelli è nel potere filtrante delle particelle più grandi di 0,6 micron (1 micron equivale ad un millesimo di millimetro!):

FFP1==> ne filtrano almeno il 78%

FFP2==> ne filtrano almeno il 92%

FFP3==> ne filtrano almeno il 98%

Sono denominati diversamente a seconda della certificazione e delle norme tecniche del Paese di riferimento (https://www.aerofeel.com/salute/mascherine-kn95-n95-ffp2-un-confronto/)

FFP2==> certificati secondo lo standard di riferimento europeo EN 149-2001 + A1 -2009

KN95==> certificati secondo lo standard di riferimento cinese GB2626 -2006

N95==> certificati secondo lo standard di riferimento statunitense N95 del National Institute for Occupational Safety and Health

Tali dispositivi sono equivalenti dal momento che la capacità di filtrazione è equiparabile e che garantiscono lo stesso livello di protezione. Pertanto, questi possono essere utilizzati in modo alternativo a seconda della disponibilità dei prodotti.

Si comunica, inoltre, che tutti i dispositivi e mezzi di protezione COVID – prima della loro distribuzione ai lavoratori- sono controllati da una commissione aziendale interna che ne verifica l’idoneità all’utilizzo.

Non è consentito utilizzare DPI COVID che non siano stati indirizzati al corretto iter aziendale e, quindi, preliminarmente controllati dalla commissione sopraindicata.

 

 

Bibliografia

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  2. Centers for Disease Control and Prevention. Coronavirus Disease 2019 (COVID-19) Symptoms. https://www.cdc.gov/coronavirus/2019-ncov/symptoms-testing/symptoms.html (consultato l’11 febbraio 2020).
  3. Science Media Centre. Expert reaction to news reports that the China coronavirus may spread before symptoms show. https://www.sciencemediacentre.org/expert-reaction-to-news-reports-that-the-china-coronavirus-may-spread-before-symptoms-show/ (consultato l’11 febbraio 2020).
  4. Australian Government Department of Health. Coronavirus (COVID-19). https://www.health.gov.au/news/health-alerts/novel-coronavirus-2019-ncov-health-alert (consultato l’11 febbraio 2020).
  5. European Centre for Disease Prevention and Control. Q&A on COVID-19 https://www.ecdc.europa.eu/en/covid-19/questions-answers (consultato l’11 febbraio, archiviato il 16 febbraio 2020).
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  10. Ministero della Salute. FAQ – Covid-19, domande e risposte. http://www.ministerosalute.it/portale/nuovocoronavirus/archivioFaqNuovoCoronavirus.jsp (consultato il 26 marzo 2020).
  11. Società Italiana di Nefrologia. Protocollo CORONAVIRUS & DIALISI. https://sinitaly.org/2020/02/28/protocollo-coronavirus-dialisi/
  12. Società Italiana di Nefrologia, Sezione Emilia-Romagna. Raccomandazioni riguardanti i pazienti con malattia renale che necessitano di trattamento emodialitico. http://salute.regione.emilia-romagna.it/assistenza-ospedaliera/covid-19-indicazioni-organizzative-per-le-reti-cliniche-integrate-ospedale-territorio/covid-19-dialisi-regione-emilia-romagna.pdf
  13. Ministero della Salute. La salute nelle tue mani. http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_3_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=dossier&p=dadossier&id=21 (consultato il 15 marzo 2020).
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  15. Associazione Nazionale Emodializzati, Dialisi e Trapianto. Covid-19: la situazione per dializzati e trapiantati. https://www.aned-onlus.it/covid-19-la-situazione-per-dializzati-e-trapiantati (consultato il 27 giugno 2020).
  16. Evidence based nursing, speciale COVID-19. Handbook of COVID-19 Prevention and Treatment. http://www.evidencebasednursing.it/nuovo/Pubblicazioni/Covid/Handbook of COVID-19 Gestione e Nursing tradotto.pdf (consultato in data 27 giugno 2020).
  17. Centro Nazionale Trapianti, Istituto Superiore di Sanità. #COVID19 Raccomandazioni per i pazienti trapiantati. http://www.rssp.salute.gov.it/imgs/C_17_primopianoCNT_543_0_file.pdf (consultato il 26 giugno 2020).
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  19. Qiu J, Shen B, Zhao M, et al. A nationwide survey of psychological distress among Chinese people in the COVID-19 epidemic: implications and policy recommendations, General Psychiatry 2020; 33:e100213. https://doi.org/10.1136/gpsych-2020-100213
  20. European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC). Rapid risk assessment: Novel coronavirus disease 2019 (COVID-19) pandemic: increased transmission in the EU/EEA and the UK –sixth update (12 March 2020) https://www.ecdc.europa.eu/sites/default/files/documents/RRA-sixth-update-Outbreak-of-novel-coronavirus-disease-2019-COVID-19.pdf (consultato il 28 giugno 2020).

 

Economic impact of ferric carboxymaltose in haemodialysis patients

Abstract

Intravenous iron supplementation is essential in hemodialysis (HD) patients to recover blood loss and to meet the requirements for erythropoiesis and, in patients receiving erythropoietin, to avert the development of iron deficiency. In a recent real-world study, Hofman et al. showed that a therapeutic shift from iron sucrose (IS) to ferric carboxymaltose (FCM) in HD patients improves iron parameters while reducing use of iron and erythropoietin. The objective of this economic analysis is to compare the weekly cost of treatment of FCM vs IS in hemodialysis patients in Italy. The consumption of drugs (iron and erythropoietin) was derived from Hofman’s data, while the value was calculated at Italian ex-factory prices. The analysis was carried on the total patient sample and in two subgroups: patients with iron deficiency and patients anemic at baseline. In addition, specific sensitivity analyses considered prices currently applied at the regional level, simulating the use of IS vs iron gluconate (FG) and epoetin beta vs epoetin alfa. In the base-case analysis, the switch to FCM generates savings of -€12.47 per patient/week (-21%) in all patients, and even greater savings in the subgroups with iron deficiency -€17.28 (-27%) and in anemic patients -€23.08 (-32%). Sensitivity analyses were always favorable to FCM and confirmed the robustness of the analysis. FCM may represent a cost-saving option for the NHS, and Italian real-world studies are needed to quantify the real consumption of resources in dialysis patients.

 

Keywords: ferric carboxymaltose, intravenous iron supplementation, chronic kidney disease, hemodialysis, drugs consumption, economic impact

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Introduzione

La prevalenza dei pazienti con malattia renale cronica (MRC) è pari al 10-16% della popolazione adulta mondiale [1] con tassi di incidenza in aumento nel corso degli anni [1,2]. Questo trend rappresenta una sfida per i diversi Sistemi Sanitari e i pagatori in generale, particolarmente quando si consideri il più elevato consumo di risorse nei pazienti più anziani [3,4]. Soprattutto, va evidenziato che la mortalità legata alla MRC è quasi duplicata, tra il 1990 e il 2010, con un aumento, in termini di anni persi per morte prematura, inferiore solo a HIV-AIDS e diabete mellito [5].
 

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Cholecalciferol supplementation improves secondary hyperparathyroidism control in hemodialysis patients

Abstract

Introduction: Vitamin D deficiency is common among hemodialysis (HD) patients and is an important component in the pathogenesis of secondary hyperparathyroidism (SHPT). We herein report our experience on the impact of cholecalciferol supplementation on PTH levels in a group of HD patients.

Patients and methods: We selected 122 HD patients. The main selection criteria were 25-hydroxyvitamin D (25(OH)D) levels ≤30 ng/mL and SHPT defined as PTH levels >300 pg/mL or PTH levels between 150-300 pg/mL during therapy with cinacalcet or paricalcitol. 82 patients agreed to receive cholecalciferol at the fixed dose of 25,000 IU per week orally for 12 months, while the remaining 40 represented the control group. The main endopoints of the study were the reduction in PTH levels ≥30% compared to baseline values and the increase of 25(OH)D levels to values >30 ng/mL.

Results: At follow-up PTH levels decreased in the supplemented group from 476 ±293 to 296 ± 207 pg/mL (p<0.001), 25(OH)D levels increased from 10.3 ± 5.7 to 33.5 ± 11.2 ng/mL (p<0.001), serum calcium increased from 8.6 ± 0.5 to 8.8 ± 0.6 mg/dL (p<0.05) while serum phosphorus did not change. In this group the mean doses of paricalcitol were significantly reduced, from 8.7 ± 4.0 to 6.1 ± 3.9 µg/week (p<0.001). Moreover, in this group there were a significant increase of hemoglobin levels, from 11.6 ± 1.3 to 12.2 ± 1.1 g/dL (p <0.01) and a significant reduction of erythropoietin doses (p<0.05). In the control group the 25(OH)D and PTH levels did not change, while cinacalcet doses increased from 21 ±14 to 43 ± 17 mg/d (p<0.01).

Conclusions: Vitamin deficiency is very common in HD patients. Cholecalciferol treatment significantly increased serum 25(OH)D levels, significantly decreased PTH levels and paricalcitol doses, concurrently entailing a better control of anemia. 

Keywords: vitamin D, cholecalciferol, hemodialysis, secondary hyperparathyroidism, paricalcitol

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Introduzione

L’iperparatiroidismo secondario (IPS) inizia come un processo adattativo ma in ultimo, a seguito del ridursi della funzione renale, della ridotta escrezione di fosfati, della ridotta produzione di vitamina D e dell’ipocalcemia, si trasforma in un processo patologico [1]. È opinione comune che bassi livelli sierici di vitamina D siano la causa del bilancio negativo del calcio, dell’IPS e della patologia ossea. Le concentrazioni sieriche di 25-idrossivitamina D (25(OH)D) sono il principale indice del patrimonio di vitamina D del nostro organismo e sono utilizzate per definire uno stato carenziale di vitamina D [2]. Nelle linee guida National Kidney Foundation–Kidney Disease Outcomes Quality Initiative (NKF–KDOQI), livelli sierici di 25(OH)D <5 ng/mL sono utilizzati per indicare una grave deficienza di vitamina D, livelli tra 5 e 15 ng/mL indicano una lieve insufficienza, livelli tra 16 e 30 ng/mL indicano un’insufficienza, mentre livelli maggiori di 30 ng/mL vengono considerati ottimali, anche se non vi è unanime consenso su quali siano i livelli sierici di vitamina D da considerare ottimali [3, 4].

 

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Management of hemodialysis patient subject to medical-nuclear investigation

Abstract

In recent years imaging techniques that use radionuclides have become more and more clinically relevant as they can provide functional information for specific anatomical districts. This has also involved nephrology, where radionuclides are used to study patients with different degrees of renal function failure up to terminal uremia. Although chronic kidney disease, and dialysis in particular, may affect the distribution and the elimination of radiopharmaceuticals, to date there are no consistent data on the risks associated with their use in this clinical context. In addition to the lack of data on the safety of radio-exposure in dialysis patients, there is also a shortage of information concerning the risk for healthcare staff involved in conducting the dialysis sessions performed after a nuclear test.

This study, performed on 29 uremic patients who underwent hemodialysis immediately after a scintigraphic examination, assessed the extent of radio-contamination of the staff and of hemodialysis devices such as monitor, kits and dialysate. The data collected has been used to quantify the radiological risk in dialysis after the exposure to the most common radionuclides.

 

Keywords: chronic kidney disease, imaging, radionuclides, hemodialysis, scintigraphy, radiological risk

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Introduzione

Negli ultimi decenni l’evoluzione delle metodiche di imaging ha contribuito significativamente al miglioramento dell’accuratezza diagnostica in medicina. Tra le varie metodiche, quelle utilizzanti radionuclidi, per le caratteristiche in esse presenti, hanno permesso di studiare aspetti particolari della patologia umana. La medicina nucleare usa il principio del tracciante. Le radiazioni, principalmente fotoni gamma, emesse dal radionuclide vengono convertite in immagini planari o tomografiche attraverso la Gamma Camera. Grazie alla versatilità dei radionuclidi, la medicina nucleare trova applicazione in diversi ambiti della clinica [1].

Secondo i dati UNSCEAR 2000 ogni anno vengono effettuati nel mondo circa 32 milioni di esami di medicina nucleare [2]. La crescente diffusione dell’esame scintigrafico e della Tomografia ad Emissione di Positroni (PET), nel corso dell’ultimo decennio, deriva principalmente dalla loro notevole capacità di integrazione e/o sostituzione delle classiche metodiche di imaging pesante (TC, RM, etc.). La scintigrafia è una tecnica di diagnostica funzionale che, previa somministrazione di un tracciante radioattivo (che si distribuisce nel corpo in base alle sue proprietà chimiche e biologiche), ne valuta e/o quantifica la distribuzione negli organi e nei tessuti che si vogliono studiare. La PET è un esame diagnostico che prevede l’acquisizione di immagini fisiologiche basate sul rilevamento di due fotoni gamma che viaggiano in direzioni opposte. Questi fotoni sono generati dall’annientamento di un positrone con un elettrone nativo. La scansione PET, eseguita con fluorodesossiglucosio (FDG), fornisce informazioni metaboliche qualitative e quantitative. L’FDG è un analogo radiomarcato del glucosio che viene assorbito dalle cellule metabolicamente attive come le cellule tumorali. Le scansioni PET sono in grado di dimostrare un’attività metabolica anormale prima che si siano verificati cambiamenti morfologici. L’attività metabolica dell’area di interesse viene valutata sia mediante ispezione visiva delle immagini sia misurando un valore semi-quantitativo dell’assorbimento di FDG chiamato valore di assorbimento standardizzato (SUV). L’applicazione clinica più comune della PET è in oncologia, dove viene impiegata per differenziare le lesioni benigne dalle lesioni maligne, monitorare l’effetto della terapia su neoplasie conosciute, riposizionare e rilevare la recidiva del tumore; viene anche utilizzata in cardiologia, per la valutazione di aree di ischemia, e in neurologia, nella diagnosi differenziale di demenza e sindrome di Parkinson [3,4].

 

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Covid-19 in patients on dialysis: infection prevention and control strategies

Abstract

Covid-19 is a disease caused by a new coronavirus presenting a variability of flu-like symptoms including fever, cough, myalgia and fatigue; in severe cases, patients develop pneumonia, acute respiratory distress syndrome, sepsis and septic shock, that can result in their death. This infection, which was declared a global epidemic by the World Health Organization, is particularly dangerous for dialysis patients, as they are frail and more vulnerable to infections due to the overlap of multiple pathologies. In patients with full-blown symptoms, there is a renal impairment of various degrees in 100% of the subjects observed. However, as Covid-19 is an emerging disease, more work is needed to improve prevention, diagnosis and treatment strategies. It is essential to avoid nosocomial spread; in order to control and reduce the rate of infections it is necessary to strengthen the management of medical and nursing personnel through the early diagnosis, isolation and treatment of patients undergoing dialysis treatment. We cover here a series of recommendations for the treatment of dialysis patients who are negative to the virus, and of those who are suspected or confirmed positive.

Keywords: Covid-19, hemodialysis, transmission, prevention

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Introduzione

La malattia da Coronavirus 2019 (Covid-19), appartiene alla grande famiglia di virus a RNA che possono essere isolati in diverse specie di animali [1] e che, per ragioni ancora sconosciute, possono attraversare le barriere della specie e possono causare nell’uomo malattie che vanno dal comune raffreddore a patologie più gravi come la SARSr-CoV1e la MERS. Il 30 gennaio 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato ufficialmente l’epidemia Covid-19 un’emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale [2].

I sintomi clinici dei pazienti comprendono febbre (44%-98%), tosse secca (68%-76%), mialgia (18%) ed affaticamento (18%); i pazienti in gravi condizioni possono presentare respiro affannoso, rantoli umidi nei polmoni e suoni del respiro indeboliti fino alla polmonite bilaterale, sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), sepsi, shock settico e morte [3]. Sulla base dell’indagine epidemiologica attualmente in corso, il periodo di incubazione della malattia è generalmente compreso tra 3 e 7 giorni, con un massimo di 14 giorni [2] e la trasmissione da uomo a uomo avviene attraverso goccioline di saliva o con contatto diretto; a differenza della SARS, il Covid-2019 è responsabile dell’infezione anche se il paziente è asintomatico [2].

Ad oggi non esiste un trattamento antivirale specifico raccomandato per Covid-2019 così come non è disponibile alcun vaccino. Il trattamento è sintomatico e l’ossigenoterapia rappresenta il trattamento principale per i pazienti con infezione grave. La ventilazione meccanica può essere necessaria in caso di insufficienza respiratoria refrattaria all’ossigenoterapia, mentre il supporto emodinamico è essenziale per la gestione dello shock settico [4]. Nel 100% dei pazienti con sintomi conclamati è stata osservata una compromissione renale di vario grado [5]. Tuttavia, poiché Covid-2019 è una malattia emersa di recente, è necessario un lavoro più accurato per migliorare le strategie di prevenzione, diagnosi e trattamento. In conformità con il principio di “prevenzione in primo luogo, prevenzione e controllo combinati, orientamento scientifico e trattamento tempestivo”, le attività di prevenzione e controllo devono essere svolte in modo coordinato e standardizzato al fine di garantire il contenimento dell’infezione all’interno della comunità [6].

I pazienti anziani affetti da comorbilità quali ipertensione, diabete, neutrofilia, malattie della coagulazione e patologie che coinvolgono più organi presentano un maggior rischio di esiti gravi, che possono evolvere nella sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) alla morte, nei casi più estremi [7]. Si tratta di una pandemia particolarmente pericolosa per i pazienti dializzati, già più vulnerabili alle infezioni con tassi significativamente più alti di polmonite, batteriemia e setticemia; pertanto, questi pazienti dovrebbero essere classificati “ad alto rischio” di contrarre la malattia [8]. I pazienti sottoposti a trattamento dialitico sostitutivo presentano una fragilità correlata alla sovrapposizione di più patologie; la condivisione dello stesso microclima durante le sedute dialitiche, inoltre, aumenta significativamente il rischio di trasmissione e di diffusione dell’infezione tra pazienti e tra operatori sanitari [9]. La frequenza di esposizione a malattie infettive aumenta il rischio di cattiva alimentazione, in un circolo vizioso di malnutrizione – infezione – malnutrizione. Il paziente dializzato presenta, infine, un tasso metabolico alterato che può aumentare sia la suscettibilità che la gravità dell’infezione e che può influenzare anche la risposta ai farmaci [10]. RNA virale è stato identificato nel tessuto renale e nelle urine e, di recente, il laboratorio di Zhong a Guangzhou ha isolato con successo SARS-CoV-2 dal campione di urina di un paziente infetto, suggerendo il rene come bersaglio di questo nuovo virus [11]. Nei pazienti in trattamento dialitico, i sintomi sono spesso più lievi perché la risposta immunologica è meno efficiente e questo, in parte, espone a minori complicanze polmonari; il virus può tuttavia esasperare una situazione clinica in equilibrio precario [12].

Il personale sanitario dei reparti di dialisi è tenuto ad aggiornarsi sull’andamento dell’epidemia; in particolare, deve essere istruito sugli strumenti utili alla prevenzione primaria, finalizzati all’esclusione dei fattori causali delle malattie, sull’utilizzo adeguato dei sistemi di protezione individuale (DPI) e sulle modalità di ottimizzazione dei parametri che costituiscono il microclima. L’inquinamento microbiologico all’interno degli ambienti chiusi, infatti, può essere considerato fonte di trasmissione di numerose malattie infettive a carattere epidemico. La gestione dei pazienti in dialisi affetti da Covid-19 deve perciò seguire rigorosi protocolli, al fine di ridurre al minimo il rischio per gli altri pazienti e per il personale che se ne prende cura. L’obiettivo di questo lavoro è fornire delle indicazioni per la prevenzione e il contenimento della pandemia Covid-19 nei pazienti dializzati.

 

Raccomandazioni per tutti i pazienti dializzati

I pazienti dializzati devono rimanere al proprio domicilio nei giorni in cui non viene effettuata la dialisi. Essi dovrebbero anche astenersi dai contatti con i parenti e specialmente con i bambini, in quanto rappresentano un vettore, spesso asintomatico, di trasmissione della malattia. Vanno evitate strette di mano, baci e abbracci e va mantenuta la distanza sociale di 1 metro.

I pazienti devono essere istruiti sulla corretta igiene delle mani e respiratoria: quando si tossisce o si starnutisce è necessario indossare una mascherina medica, oppure coprire naso e bocca con un tovagliolo di carta e un gomito piegato; è necessario poi pulire le mani immediatamente dopo aver tossito e/o starnutito. Si raccomanda di utilizzare fazzoletti di carta monouso, smaltiti in un contenitore di plastica. L’igiene delle mani apparentemente pulite può essere effettuata con soluzione idroalcolica o, qualora non sia disponibile, con una soluzione di acqua e ipoclorito (la soluzione allo 0,5% corrisponde ad un litro di candeggina e nove litri di acqua). Se le mani sono visibilmente sporche, lavarle con acqua e sapone, e asciugarle con salvietta monouso [13]. Il paziente deve procedere con il lavaggio delle mani e l’utilizzo di maschere adeguate durante tutto il trattamento.

Il personale sanitario si occupa di eseguire il controllo della temperatura a tutti i pazienti afferenti al centro dialisi, insieme alla registrazione di eventuali sintomi riconducibili all’infezione e la segnalazione di contatti del paziente con persone positive a Covid-19. Per raggiungere il centro dialisi i pazienti devono evitare di prendere i mezzi pubblici, prediligendo un’ambulanza o un veicolo privato dove sia possibile aprire un finestrino per garantire la ventilazione lungo il percorso che porta all’ospedale.

 

Raccomandazioni per i pazienti dializzati con sospetta infezione da Covid-19

Qualora i pazienti avvertissero febbre o sintomi respiratori al proprio domicilio devono avvisare preventivamente il centro dialisi così che si possa predisporre l’ambiente adeguato (isolamento con monitoraggio dei sintomi), adottare le precauzioni appropriate ed attivare il percorso diagnostico di triage.

Ove possibile, i pazienti vanno disposti in stanze singole con la porta chiusa. Qualora non fossero disponibili stanze separate o aree contumaciali preesistenti, i pazienti dovranno dializzare su coorti di un turno designato. Qualora i pazienti con Covid-19 dovessero effettuare la dialisi contemporaneamente ai pazienti asintomatici, devono essere situati agli angoli della stanza, indossare una mascherina adeguata ed essere ad almeno un metro di distanza dagli altri pazienti. Qualora la sala dialisi fosse di dimensioni insufficienti a garantire la distanza di un metro, è altamente raccomandata la segregazione temporale, ossia dializzare i pazienti positivi nell’ultimo turno della giornata o predisponendo un turno ad hoc.

 

Raccomandazioni per i pazienti dializzati con confermata infezione da Covid-19

I centri dialisi dovranno prepararsi a dializzare i pazienti infetti da COVID-19 predisponendo un “locale filtro”, deputato al transito o stazionamento dei pazienti prima che accedano alle sale di trattamento. I pazienti risultati positivi dovrebbero indossare guanti e maschere di filtraggio superiore al 95% con valvola a strati FFP3, come da procedura standard nella cura di pazienti altamente contagiosi. Tuttavia, l’utilizzo di mascherina chirurgica è accettabile ove le maschere FFP3 non fossero disponibili. Qualora fossero necessarie procedure che possono provocare aerosol respiratori, è indispensabile l’utilizzo di maschere di protezione FFP3.

I pazienti Covid-19 in condizioni cliniche stabili che non richiedano un’assistenza ospedaliera devono essere in grado di aderire alle raccomandazioni sull’isolamento e sul potenziale rischio di una trasmissione secondaria ai membri della famiglia. Pertanto, al paziente positivo asintomatico o con sintomi lievi, è richiesto di soggiornare in una stanza a lui dedicata, evitando ogni tipo di condivisione con gli altri membri della famiglia. Sia il paziente che i famigliari dovranno utilizzare tutti i dispositivi di protezione individuali: guanti e maschera facciale [14]. Si raccomanda poi di lavare separatamente le lenzuola, gli asciugamani da bagno e gli indumenti del paziente, con normale sapone da bucato e a 40-60° o 90° C. Si sconsiglia vivamente di scuotere gli indumenti contaminati, così come ogni tipo di contatto diretto. I rifiuti generati dal paziente infetto devono essere considerati come raccolta indifferenziata ed inseriti in un doppio sacco (o in idonei imballaggi a perdere) in quanto considerati equivalenti ai rifiuti ospedalieri. È estremamente importante, infine, rispettare il riposo a letto, garantire energia sufficiente, prestare attenzione al bilancio idrico-elettrolitico e rispettare l’aderenza terapeutica.

In ospedale, invece, si raccomanda di monitorare regolarmente durante la giornata i parametri vitali, specialmente saturazione di ossigeno e temperatura. Durante la seduta dialitica e mentre si attende il turno di dialisi va assicurata la distanza di almeno 1 metro dalle altre persone. Al fine di assicurare che la mascherina venga indossata durante tutta la seduta dialitica, non si dovrà distribuire alcun pasto o merenda. I rifiuti devono essere smaltiti quotidianamente, facendo attenzione a chiudere adeguatamente i sacchi, utilizzare guanti monouso ed evitando di schiacciarli e comprimerli con le mani (D.P.R 254/2003).

 

Personale o pazienti con contatti stretti e/o esposizione sospetta a Covid-19

Le persone che hanno avuto contatti stretti e/o esposizione sospetta dovrebbero mantenere un periodo di osservazione sanitaria di 14 giorni, che inizia dall’ultimo giorno del contatto con pazienti infetti o dal giorno dell’esposizione ambientale sospetta. Se si manifestassero i sintomi dell’infezione, quali febbre, o sintomi respiratori come tosse e respiro corto, o diarrea, si dovrà contattare immediatamente il medico [7]. La sorveglianza a distanza, tramite chiamate telefoniche, è indirizzata a coloro che sono in osservazione sanitaria e dovrebbe essere effettuata o dalla struttura di dialisi o da una specifica unità di crisi. L’indagine epidemiologica a distanza si deve focalizzare sulla raccolta dei sintomi auto-rilevati durante lo svolgimento di attività quotidiane [7]. La ripresa dell’attività lavorativa, dopo un periodo di osservazione sanitaria o un evento positivo, deve essere preceduta dalla conferma diagnostica di negatività.

 

Conclusioni

Questa epidemia, causata da un nuovo coronavirus, rappresenta una delle principali minacce globali all’umanità. Al momento non sono ancora disponibili studi sull’impatto del virus nella malattia renale cronica.

Il paziente dializzato presenta una risposta immunitaria indebolita, comorbilità e malnutrizione che causano una condizione di estrema vulnerabilità biologica e clinica e lo espongono ad un elevato rischio di infezioni, ricovero in ospedale e decesso. Il trattamento dell’infezione nei pazienti dializzati presuppone misure di protezione finalizzate all’isolamento, alla disinfezione e alla protezione personale, ma anche di controllo dell’aderenza terapeutica e dell’assunzione di un adeguato apporto nutrizionale. Infine, se vogliamo eliminare la minaccia di questa nuova epidemia e salvaguardare i pazienti più fragili, dobbiamo imparare di più sulla patogenesi del virus e soprattutto sull’effetto che può avere sui pazienti affetti da insufficienza renale cronica terminale.

Non esiste ad oggi nessuna indicazione in merito ad una prevenzione primaria specifica; esistono, tuttavia, regole generiche che posso essere utilizzate per prevenire la contaminazione e per migliorare la nostra risposta immunitaria contro le aggressioni batteriche e/o virali. Come diceva Claude Bernard (Francia, 1813-1878), fisiologo e collega di Pasteur: “il germe (nel nostro caso il virus) è nulla, il terreno è tutto”. Il terreno siamo noi, l’ospite in cui l’agente patogeno può trovare l’ambiente adatto a proliferare. Uno stile di vita sano, che comprenda attività fisica giornaliera, riposo adeguato e una dieta sana, può migliorare il nostro sistema psico-fisico-immunologico.

 

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