Which is the role of the oral iron therapies for iron deficiency anemia in non-dialysis-dependent chronic kidney disease patients? Results from clinical experience

Abstract

Iron deficiency afflicts about 60% of dialysis patients and about 30% of non-dialysis-dependent CKD patients (ND-CKD). The role of iron deficiency in determining anemia in CKD patients is so relevant that guidelines from the Kidney Disease Improving Global Outcomes (KDIGO) initiative recommend treating it before starting with erythropoiesis-stimulating agents. KDIGO guidelines suggest oral iron therapy because it is commonly available and inexpensive, although it is often characterized by low bioavailability and low compliance due to adverse effects.

A new-generation oral iron therapy is now available and seems to be promising. We therefore conducted a study to determine whether an association of iron sucrose, folic acid and vitamins C, B6, B12, can improve anemia in ND-CKD patients, stage 3-5. Our study shows that iron sucrose is a safe and effective oral iron therapy and that it is capable of correcting anemia in ND-CKD patients, although it does not seem to replete low iron stores.

Keywords: iron deficiency, chronic kidney disease, CKD, anemia, oral iron

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Introduzione

La carenza marziale, associata o meno all’anemia, rappresenta una delle condizioni più frequenti dei pazienti affetti da malattia renale cronica (MRC), siano essi in terapia conservativa o in terapia dialitica sostitutiva [1,2].

La carenza marziale è definita dalla Organizzazione Mondiale della Sanità come una condizione caratterizzata da una quantità di ferro insufficiente a mantenere la fisiologica funzione di sangue, cervello e muscoli. Essa non sempre si associa ad anemia, soprattutto se il deficit non è sufficientemente severo o è di recente insorgenza [3].

 

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Covid-19 vaccination and renal patients: overcoming unwarranted fears and re-establishing priorities

Abstract

The SARS-CoV-2 (Covid-19) has infected about 124 million people worldwide and the total amount of casualties now sits at a staggering 2.7 million. One enigmatic aspect of this disease is the protean nature of the clinical manifestations, ranging from total absence of symptoms to extremely severe cases with multiorgan failure and death.

Chronic Kidney Disease (CKD) has emerged as the primary risk factor in the most severe patients, apart from age. Kidney disease and acute kidney injury have been correlated with a higher risk of death. Notably the Italian Society of Nephrology have reported a 10-fold increase in mortality in patients undergoing dialysis compared to the rest of the population, especially during the second phase of the pandemic (26% vs 2.4). These dramatic numbers require an immediate response.

At the moment of writing, three Covid-19 vaccines are being administered already , two of which, Pfizer-BioNTech and Moderna,  share the same mrna mechanism and Vaxzevria (AstraZeneca) based on a more traditional approach.  All of them are completely safe and reliable. The AIFA scientific commission has suggested that the mRNA vaccines should be administered to older and more fragile patients, while the Vaxzevria (AstraZeneca) vaccine should be reserved for younger subjects above the age of 18. The near future looks bright: there are tens of other vaccines undergoing clinical and preclinical validation, whose preliminary results look promising.

The high mortality of CKD and dialysis patients contracting Covid-19 should mandate top priority for their vaccination.

 

Keywords: SARS-CoV-2 (Covid-19), chronic kidney disease, vaccine

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Introduzione

L’infezione da SARS-CoV-2 (Covid-19) ha colpito circa 124 milioni di persone nel mondo e si contano a tutt’oggi circa 2.7 milioni di decessi. Una caratteristica ancora enigmatica di tale infezione è l’ampia gamma di manifestazioni cliniche che variano dalla pressoché totale assenza di sintomi a forme estremamente gravi con compromissione multiorgano dall’esito inesorabilmente fatale [1]. L’elevata frequenza di infezioni asintomatiche inoltre ha indubbiamente contribuito alla rapida diffusione mondiale di SARS-CoV-2. Il principale quesito clinico a cui dare una risposta resta quindi ancora strettamente legato alla individuazione precoce dei soggetti ad alto rischio di sviluppare malattia grave. Questi individui possono trarre particolare vantaggio dall’isolamento precauzionale e soprattutto essere un gruppo prioritario per la vaccinazione [1].

 

Sebbene l’età sia il principale fattore di rischio, è stato osservato che anche gli anziani possono essere asintomatici, paucisintomatici o presentare una malattia lieve dando origine a ulteriore diffusione del virus [2].

Il livello di esposizione al virus e la carica virale, nonché fattori genetici e immunologici ancora non del tutto delineati, molto probabilmente giocano un ruolo importante, ma è stato sicuramente osservato che alcune patologie concomitanti predispongano con una elevata probabilità a sviluppare una forma di malattia più grave e spesso mortale. Diabete, ipertensione e malattie cardiovascolari sono stati elencati come fattori di rischio per forma grave di malattia sin dalla prima segnalazione nel gennaio 2020 [2].

Analizzando infatti i dati di oltre 65.000 pazienti provenienti da 25 studi in tutto il mondo, è stato evidenziato che il rischio di morte per Covid-19 viene raddoppiato dalla presenza di altre condizioni preesistenti, in particolar modo le patologie cardiovascolari. Questo risultato è stato ottenuto grazie a una ricerca nei database MEDLINE, SCOPUS, OVID, Cochrane Library e medrxiv.org dal 1° dicembre 2019 al 9 luglio 2020.

Soltanto più recentemente, la malattia renale cronica (CKD) è stata individuata come il fattore di rischio più comune, dopo l’età avanzata, per forma severa di malattia. È emerso infatti che i soggetti affetti da CKD presentano un rischio di mortalità tre volte maggiore rispetto alla popolazione generale [3,4].

 

Malattia renale e suscettibilità alle infezioni

I pazienti affetti da malattia renale, acuta e cronica, generalmente presentano di per sé un’aumentata mortalità rispetto alla popolazione generale [5], a causa di problemi correlati all’aumentato rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e tumorali, ma anche sicuramente alla maggiore incidenza di complicanze infettive.

È stato osservato che i pazienti affetti da CKD non in dialisi hanno un rischio 3-4 volte maggiore dei pazienti con normale funzione renale di essere ricoverati per cause infettive, rischio che diventa 8 volte maggiore nei pazienti dializzati [6]. Inoltre, i pazienti affetti da CKD presentano una mortalità maggiore per polmonite rispetto alla popolazione generale [7]. Peraltro, lo stress fisiologico causato dalla risposta infiammatoria a un processo infettivo potrebbe ulteriormente indebolire organi già deficitari a causa della malattia renale o peggiorare la funzione renale stessa [5].

Le cause di questa maggiore predisposizione possono essere molteplici e, in particolare, non vanno dimenticate le patologie alla base della CKD, come per esempio il diabete mellito o le glomerulonefriti a genesi autoimmune, per citarne alcune; tali comorbilità possono giustificare un deficit immunitario di per sé o in ragione delle terapie messe in atto. Inoltre, la stasi di fluidi a livello polmonare, caratteristica dello scompenso cardiaco (spesso associato alla CKD) o dell’uremia terminale, sono una ragione ulteriore di abbassamento delle difese locali.

Il deficit immunitario dei pazienti insufficienti renali sembra essere correlato a un deficit delle cellule presentanti l’antigene (APC), che impediscono un’adeguata attivazione T-cellulare, più che a un deficit specifico di questa popolazione linfocitaria. Tale deficit può spiegare infatti anche una ridotta risposta ai vaccini antivirali da parte dei pazienti CKD [8]. Inoltre, tali pazienti presentano anche un elevato grado di infiammazione sistemica multi-fattoriale che sopprime a sua volta la risposta immunitaria, oltre ad avere grosse implicazioni cardiovascolari, come detto sopra [9].

Ciononostante, la vaccinazione antinfluenzale sembra essere efficace nel ridurre significativamente la mortalità nei pazienti dializzati [10] e insufficienti renali in stadio avanzato, per cui ormai da anni le linee guida KDIGO la raccomandano per tutti i pazienti affetti da CKD, salvo controindicazioni specifiche [11].

 

Malattia renale e infezione da SARS-CoV-2 (Covid-19)

Nel caso di SARS-CoV-2 l’ipotesi di una particolare suscettibilità all’infezione e allo sviluppo di complicanze più gravi da parte dei pazienti affetti da malattia renale risulta ulteriormente coerente con il fatto che rene e cuore presentano la più alta espressione di recettori ACE2, a cui è stato appunto dimostrato che il virus si lega [12]. Questo si traduce clinicamente in forme più importanti di infezione e maggior tasso di ospedalizzazione e mortalità nei pazienti che presentano una preesistente nefropatia.

L’infezione da SARS-CoV-2 può essere essa stessa causa di danno renale acuto (AKI), ma è sicuramente un fattore di rischio indipendente di elevata mortalità nei pazienti con nefropatia preesistente. I recettori ACE2, il danno virale diretto e il danno immuno-mediato svolgono ruoli importanti nella correlazione tra malattia renale e infezione severa [3]. L’AKI nel corso dell’infezione potrebbe derivare dall’effetto sinergico citotropico del virus e dalla risposta sistemica infiammatoria secondaria all’attivazione citochinica. Sono stati riportati casi di Collapsing Glomerulopathy in alcune biopsie renali di pazienti, come variante della glomerulosclerosi segmentale focale indotta dal danno virale [13,14].

L’incidenza di AKI in base agli studi epidemiologici disponibili è infatti significativamente più alta nel contesto di infezione più severa [1517]. Altri possibili meccanismi responsabili di AKI potrebbero essere ricondotti a necrosi tubulare acuta (ATN), a insufficienza multiorgano e a stato di shock. Anche la tossicità delle terapie e l’eventuale esposizione al mezzo di contrasto per esami di imaging possono certamente svolgere un ruolo [18].

L’impatto dell’infezione da SARS-CoV-2 sulla CKD è parimenti molto importante. Numerosi studi hanno documentato una mortalità significativamente maggiore in questa coorte di pazienti. È stata riportato che l’incidenza di AKI è sicuramente più elevata nei pazienti già affetti da CKD. Per contro, l’incidenza di CKD residuata in seguito a danno renale acuto in corso di Covid-19 è risultata variabile dallo 0,7-47,6%, in base agli studi effettuati [19,20].

È stato inoltre osservato che la malattia renale e il danno renale acuto sono sicuramente associati a un più alto rischio di morte nei pazienti Covid-19. Un recente studio condotto nel Regno Unito in ambiente intensivo ha infatti esaminato l’associazione tra malattia renale ed esiti clinici sfavorevoli nei pazienti con Covid-19. Il lavoro, condotto all’Imperial College di Londra, ha contato 372 pazienti affetti da Covid-19 (per il 72% uomini, media di circa 60 anni) ricoverati in terapia intensiva in quattro ospedali in UK dal 10 marzo al 23 luglio 2020 [21]. Nel 58% (216) dei pazienti è stata riscontrata insufficienza renale in diverso stadio. Nel 45% si è assistito all’insorgenza di danno renale acuto (AKI), mentre il 13% era già noto per una nefropatia preesistente. Nei pazienti che hanno presentato AKI, non era nota alcuna malattia renale antecedente al loro ricovero in terapia intensiva, suggerendo che il danno sia stato direttamente indotto dall’infezione. La mortalità osservata è stata invece assolutamente maggiore nel gruppo con malattia renale preesistente, confermando questa come uno dei fattori di rischio principali per lo sviluppo di infezione grave a prognosi sfavorevole [21].

La medesima evidenza è stata confermata da Fominskiy et al [22] in uno studio condotto su 195 pazienti affetti da Covid-19 e ricoverati presso reparti di terapia intensiva dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano nel corso della prima ondata. È stato infatti riportato che 3 su 4 pazienti sottoposti a ventilazione invasiva hanno sviluppato danno renale acuto, di cui 1 su 6 è stato trattato con terapia renale sostitutiva in continuo (CRRT). I pazienti con AKI hanno presentato una mortalità approssimativamente del 40% e i pazienti trattati con CRRT di circa il 50% [22].

Gli studi hanno confermato l’età avanzata come importante fattore di rischio per AKI e necessità di CRRT, ma tale fattore di rischio è risultato nettamente aumentato se in presenza di preesistente nefropatia, confermando l’insufficienza renale come fattore prognostico assolutamente sfavorevole di per sé [15,23,24].

Certamente va ricordato che molti pazienti con malattia renale cronica presentano comorbilità multiple come diabete e ipertensione, che possono ulteriormente predisporli a Covid-19. Una recente meta-analisi ha mostrato infatti che circa il 20% dei pazienti con CKD che hanno contratto Covid-19 soffriva contestualmente di altre patologie gravi con un rischio 3 volte superiore rispetto però a quelli senza CKD [25].

Va segnalato inoltre l’impatto del Covid-19 sulla popolazione di nefropatici nel nostro paese. Gli effetti dell’epidemia sui pazienti dializzati, secondo quanto evidenziato e riportato da un’indagine dalla Società Italiana di Nefrologia, sono stati decisamente importanti. Fra i dializzati si è infatti registrata una mortalità dieci volte superiore a quella a oggi stimata nella popolazione generale, soprattutto durante la seconda fase della pandemia (26% vs 2.4%) [26]. L’analisi è stata condotta su pazienti con malattia renale in stadio avanzato, pazienti in emodialisi, emodialisi domiciliare, dialisi peritoneale e trapiantati. I dati hanno documentato che nel corso della seconda ondata il numero totale dei pazienti affetti da insufficienza renale con tampone positivo è quadruplicato: il numero dei pazienti in emodialisi positivi è passato dal 3,4% della prima ondata all’11,6% della seconda ondata; il numero dei pazienti in dialisi peritoneale e domiciliare è andato dall’1,3% al 6,8%. È stato documentato inoltre un picco pure per i pazienti trapiantati, la cui positività è passata dallo 0.8% al 5%. I dati rilevati hanno inoltre documentato un rischio di mortalità estremamente elevato per i malati affetti da CKD (soprattutto dializzati e trapiantati).

Con particolare riferimento ai pazienti trapiantati di rene, è noto da precedenti epidemie di coronavirus diverse da Covid-19 come questi pazienti siano particolarmente suscettibili, anche in relazione alle concomitanti terapie immunosoppressive [27,28]. I pazienti trapiantati sono a maggior rischio di infezione, in particolare per la depressione della risposta immunitaria T-cellulare secondaria all’immunosoppressione. Il rischio è più elevato durante i primi 3 mesi dopo il trapianto, in particolare se i pazienti ricevono una terapia di induzione con agenti che riducono i linfociti [29,30]. Pertanto, durante la pandemia Covid-19, il trapianto di rene elettivo deve essere eseguito con cautela e spesso ritardato.

Nei casi di Covid-19 relativi a pazienti trapiantati sono stati descritti sintomi iniziali lievi, come febbre di basso grado, tosse lieve e normale conteggio dei globuli bianchi, verosimilmente a causa dell’effetto inibitorio della terapia immunosoppressiva sulla tempesta citochinica [29]. Quindi, anche i sintomi lievi o atipici non dovrebbero essere sottovalutati e non possono escludere un successivo decorso insidioso e dall’esito fatale.

Pertanto, i pazienti affetti da insufficienza renale rappresentano realmente una coorte di soggetti estremamente a rischio a cui è necessario prestare massima attenzione, adottando ogni sforzo per prevenire la progressione della malattia o del danno al fine di ridurne la mortalità. L’elevata prevalenza di CKD in combinazione con l’elevato rischio di mortalità da SARS-CoV-2 richiede quindi un’azione urgente di tipo preventivo, prima ancora che terapeutico.

Figura 1: Insufficienza renale come fattore di rischio di mortalità in corso di Covid-19
Figura 1: Insufficienza renale come fattore di rischio di mortalità in corso di Covid-19

Vaccini anti SARS-CoV-2 attualmente disponibili

I vaccini si configurano da sempre come un bene fondamentale oltre che come la strategia principale con cui l’umanità è riuscita a sconfiggere molte malattie infettive. In soli undici mesi è stato ottenuto un vaccino e questo ha rappresentato una conquista senza precedenti [31].

Il vaccino Covid-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty), noto come Pfizer-BioNTech, è stato il primo vaccino disponibile in Italia ai soggetti a partire dai 16 anni di età per prevenire Covid-19 [32,33]. Il vaccino è stato autorizzato da EMA (European Medicines Agency – Agenzia Europea per i Medicinali) [34] e AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) [35,36]. Per la sua realizzazione sono state regolarmente rispettate tutte le abituali fasi di verifica finalizzate alla valutazione di sicurezza e di efficacia [37]. In Italia la sua somministrazione è stata avviata il 27 dicembre, secondo il piano nazionale di vaccinazione che prevede più tappe.

Il vaccino Covid-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) è stato il primo ad arrivare in Italia, seguito da Covid-19 Vaccine mRNA-1273, noto più comunemente come vaccino Moderna e con il medesimo meccanismo d’azione [37], approvato da EMA il 6 gennaio 2021 [38] e da AIFA il giorno successivo [39].

Ma come si comporta SARS-CoV-2 all’interno dell’organismo? E come funzionano i vaccini a disposizione? La singola particella di SARS-CoV-2 ha forma rotondeggiante e sulla sua superficie presenta delle “punte” rendono il virus simile a una corona (da cui il nome Coronavirus) [37]. La proteina Spike presente sulle punte si lega all’enzima di conversione dell’angiotensina 2 (ACE2) presente sulle cellule dell’epitelio polmonare, ed entra nella cellula impedendo all’enzima di esplicare la propria funzione protettiva verso infezioni ed agenti esterni. La proteina Spike può essere quindi paragonata a una chiave che consente l’inclusione del virus nelle cellule dell’organismo. Dentro la cellula il virus rilascia la propria identità genetica (RNA) e induce la cellula alla produzione di proteine virali che generano nuovi coronavirus: questi a loro volta infettano altre cellule, sostenendo quindi il processo alla base della malattia [3,20].

I vaccini Covid-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) e Covid-19 mRNA-1273 sono stati pensati per stimolare una risposta immunitaria atta a neutralizzare la proteina Spike, al fine di inibire l’infezione delle cellule. Essi contengono le molecole di RNA messaggero (mRNA), ossia le “istruzioni” necessarie per costruire le proteine Spike del virus SARS-CoV-2. Le molecole di mRNA sono inserite in una vescicola lipidica che protegge l’mRNA stesso per evitarne la degradazione da parte delle difese immunitarie, in quanto riconosciuto come estraneo all’organismo [32,33,40]. All’interno dell’organismo, il mRNA è internalizzato nel citoplasma delle cellule e induce la creazione della sola proteina Spike, che, riconosciuta estranea, stimola la produzione di anticorpi specifici. Con il vaccino quindi si inocula nelle cellule solamente l’informazione genetica fondamentale per costruire copie della proteina Spike [32,33,40]. La vaccinazione inoltre determina anche una attivazione delle cellule T che preparano le cosiddette “cellule di memoria” del sistema immunitario. Dopo aver svolto l’azione di induzione anticorpale, il mRNA del vaccino si degrada naturalmente nell’arco di pochi giorni. Non esiste pertanto alcun rischio che venga integrato nel DNA delle cellule dell’organismo in via definitiva. Il vaccino Covid-19 m RNA BNT162b2 (Comirnaty) prevede due somministrazioni a distanza di almeno 21 giorni l’una dall’altra.

Il vaccino Pfizer BioNTech e il Moderna sono sicuri, come conferma anche il New England Journal of Medicine [33]. Il dubbio mediaticamente espresso su una troppo rapida produzione e distribuzione di questo vaccino può essere facilmente fugato. Gli studi sui vaccini anti Covid-19 hanno avuto inizio nel corso della prima ondata e certamente sono durati un periodo relativamente breve rispetto ai tempi abituali. Questo perché gli studi hanno coinvolto un numero di soggetti dieci volte maggiore rispetto a quanto osservato in studi analoghi standardizzati per la messa a punto di altri vaccini. È stato pertanto condotto un lavoro di enormi proporzioni, sufficienti documentare l’efficacia e la sicurezza del vaccino, senza saltare nessuna fase sperimentale normalmente prevista [40]. A questo ha indubbiamente contribuito anche la ricerca precedentemente effettuata su altri vaccini a RNA, frequentemente usati in malattie tumorali, e anche le enormi risorse umane ed economiche messe a disposizione rapidamente, non ultima la tempestiva supervisione delle agenzie regolatorie. Tutti questi fattori insieme hanno reso possibile risparmiare anni sui tempi di approvazione, in un momento storico che rendeva necessario l’avvio della campagna vaccinale quanto prima.

Gli studi si sono svolti in sei Paesi: Stati Uniti, Germania, Brasile, Argentina, Sudafrica e Turchia, con l’adesione di più di 44mila persone. La metà dei soggetti ha ricevuto il vaccino, l’altra metà ha ricevuto un placebo. La stima dell’efficacia è stata valutata su oltre 36mila persone a partire dai 16 anni di età (compresi soggetti di età superiore ai 75 anni) in assenza di segni di precedente infezione [33]. È stato quindi dimostrato che il numero di casi sintomatici di Covid-19 si è ridotto del 95% nei soggetti che hanno ricevuto il vaccino rispetto a quelli che hanno ricevuto il placebo [41].

Il vaccino è stato somministrato inizialmente in modalità prioritaria alle categorie più a rischio, in primis agli operatori sanitari. Attualmente, è disponibile su larga scala. Va segnalato inoltre un recente studio del Centri per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie [42] che rileva come i vaccini mRNA Covid-19 siano molto efficaci nel prevenire la malattia tra sanitari e operatori essenziali. Lo studio ha dimostrato che la vaccinazione parziale con un vaccino mRNA ha ridotto il rischio di infezione del 80% (due settimane dopo la singola dose), mentre la vaccinazione completa ha abbattuto il rischio di infezione del 90% (due settimane dopo la seconda dose).

Per quanto riguarda le prospettive future, un terzo vaccino con tecnologia RNA è il CVnCoV, sviluppato dalla farmaceutica tedesca CureVac e dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovation (CEPI), ed è in attesa di autorizzazione da parte di EMA dal febbraio 2021 [43].

Un’altra tipologia di vaccino anti SARS-Cov-2 attualmente a disposizione è il vaccino Covid-19 AstraZeneca, approvato in prima battuta da EMA [44] e da AIFA [36] rispettivamente in data 29 e 30 gennaio 2021, destinato ai soggetti di età pari o superiore ai 18 anni [45]. Questo vaccino ha un meccanismo sostanzialmente differente dai precedenti. È composto infatti da un adenovirus di scimpanzé incapace di replicarsi (ChAdOx1 – Chimpanzee Adenovirus Oxford 1) e modificato per veicolare l’informazione genetica destinata a produrre la proteina Spike del virus SARS-CoV-2. In sintesi, l’adenovirus è stato geneticamente modificato per sostituire una delle proteine dell’adenovirus con la proteina Spike del SARS-CoV-2, verso cui si genererà la risposta immunitaria nell’organismo ospite [45].

Quale è il potenziale vantaggio di questo approccio rispetto a quello usato per gli altri vaccini? Uno è indubbiamente la maggiore stabilità dell’“involucro” del vaccino, in quanto rappresentato da un altro agente virale: mentre gli altri vaccini richiedono per la loro conservazione temperature molto basse, questo tipo di vaccino può essere invece tranquillamente conservato sei mesi in un comune frigorifero [45].

Quattro studi clinici randomizzati, in doppio cieco, di cui due condotti nel Regno Unito, uno in Brasile e uno Sudafrica, hanno documentato che tale vaccino è sicuro ed efficace nella prevenzione della malattia sintomatica nelle persone a partire dai 18 anni di età [46]. Questi studi hanno coinvolto più di 20.000 persone. I partecipanti, di età ≥18 anni sono stati randomizzati e assegnati a uno dei due gruppi: gruppo di soggetti che hanno ricevuto il vaccino e il gruppo di controllo, che in questo caso ha ricevuto vaccino antimeningococcico coniugato ACWY o soluzione salina, con un rapporto di allocazione 1:1. I dati di sicurezza sono basati sull’analisi ad interim di dati aggregati provenienti dai quattro studi clinici di riferimento [46]. Le reazioni avverse registrate più frequentemente erano generalmente lievi-moderate e si sono risolte dopo pochi giorni dalla vaccinazione. Le più comuni sono state: dolore nel sito di iniezione, cefalea, astenia, mialgie, malessere generalizzato, brividi, febbre, artralgie e nausea [46].

I risultati ottenuti sono sicuramente confortanti; la domanda da porsi è quindi se questo vaccino sia sicuro ed efficace al pari di quelli precedentemente descritti. A questo quesito rispondono gli studi clinici. I dati di sicurezza emersi dagli studi preliminari sono risultati molto buoni. Per quanto riguarda il profilo di efficacia i dati sinora disponibili la hanno attestata a circa il 60% [46]. Seppure in termini puramente numerici, l’efficacia sembri quindi significativamente minore rispetto al vaccino Covid-19 mRNA BNT162b2; in realtà, il vaccino AstraZeneca presenta una buona efficacia, sicuramente superiore per esempio a quella del comune vaccino antiinfluenzale impiegato annualmente e che ogni anno fornisce comunque una ottima copertura contro l’influenza stagionale, in special modo nei soggetti fragili. Il vero limite che riguarda invece il vaccino AstraZeneca sembrerebbe verosimilmente correlato alla sua incapacità nel prevenire le infezioni asintomatiche. In sintesi, le persone sono protette dalla malattia, ma possono infettarsi in maniera asintomatica e forse trasmettere il virus ad altri [45].

L’AIFA aveva in prima battuta autorizzato l’utilizzo di questo vaccino sino ai 55 anni di età [36], limite attualmente in estensione a soggetti più anziani. Tuttavia, un’adeguata protezione è comunque auspicabile, sia in base all’esperienza ottenuta con altri vaccini, sia per la buona risposta immunitaria riscontrata in questa fascia di età. Poiché esistono peraltro dati attendibili sulla sicurezza in questa coorte, gli esperti dell’EMA ritengono che il vaccino possa essere perciò utilizzato a breve anche negli adulti più anziani.

Quindi, al momento attuale il vaccino AstraZeneca non può essere considerato lo strumento ideale per raggiungere l’obiettivo fondamentale dell’immunità di gregge. Tuttavia, presenta un rapporto beneficio/rischio favorevole ed è sicuramente un’arma per il contenimento dell’infezione. È bene sottolineare che la sicurezza del vaccino è stata comunque dimostrata in tutti e quattro gli studi presi in esame [46].

Il vaccino AstraZeneca non è l’unico prodotto che sfrutta la tecnologia dei vettori virali non replicanti. Su questo tipo di meccanismo d’azione si riconoscono altri vaccini come quello russo Gam-COVID-Vac (Sputnik V) [47], quello cinese AD5-nCOV Convidecia [48] e il vaccino Ad26.COV2.S progettato dalla farmaceutica belga Janssen sotto la società americana Johnson & Johnson [48]. Convidecia e il vaccino di Janssen Johnson & Johnson [48] sono entrambi vaccini “single-dose”, che offrono una logistica meno complicata, e possono essere conservati in refrigerazione ordinaria per diversi mesi. Questi ultimi vaccini non sono ancora in utilizzo in Italia, seppure la loro immissione nel programma vaccinale dovrebbe essere prevista a breve.

Va invece riportato che in seguito all’introduzione del vaccino AstraZeneca in UE sono emerse segnalazioni di eventi trombotici potenzialmente correlabili, producendo allarme generalizzato nella popolazione. Tuttavia, l’EMA ha comunicato che alla data del 10/3/2021, il sistema di vigilanza europea degli eventi avversi EudraVigilance aveva registrato 30 casi di eventi trombotici in 5 milioni di soggetti vaccinati e che tale numero risultava paragonabile al tasso di trombosi abitualmente registrato nella popolazione generale. Negli studi registrativi (condotti peraltro sotto stretta sorveglianza degli eventi avversi) non risultava segnalato alcun aumento del rischio di eventi trombotici. In data 18/3/2021 EMA e AIFA, dopo una revisione dei casi segnalati, si sono espresse nuovamente in modo favorevole verso tale vaccino definendolo sicuro ed efficace, escludendo relazioni tra casi di trombosi e la somministrazione dei sieri e reinserendolo nella campagna vaccinale.

A tutt’oggi il vaccino AstraZeneca rappresenta pertanto un’alternativa assolutamente utile. In seguito al caos conseguente allo stop imposto dall’UE per la somministrazione del vaccino, l’azienda ha deciso però di cambiarne il nome in Vaxezevria, modificando la scheda tecnica e riportando tra gli effetti collaterali anche le trombosi (seppure non siano stati dimostrata associazione causale tra i decessi e la somministrazione del vaccino).

Attualmente la Commissione tecnico-scientifica dell’AIFA ha indicato pertanto il seguente utilizzo preferenziale dei vaccini [35,36]:

  • vaccini a mRNA nei soggetti anziani e/o a più alto rischio di sviluppare una malattia grave
  • vaccino Vaxezevria nei soggetti maggiori di 18 anni, ad eccezione però dei soggetti estremamente vulnerabili tra cui vanno certamente annoverati i pazienti dializzati e trapiantati. Sulla scorta dei dati di immunogenicità e di quelli di sicurezza, il rapporto beneficio/rischio del vaccino resta comunque vantaggioso nei soggetti più anziani in assenza di specifici fattori di rischio.

 

Conclusione

La storia insegna da sempre che i vaccini sono sinonimo di vita. Non esiste malattia che sia meglio contrarre piuttosto che vaccinarsi, perché il rischio di ammalarsi supera sempre e comunque quello vaccinale.

L’elevato rischio di infezione grave e di aumentata mortalità in presenza di insufficienza renale è ormai documentato da plurime evidenze cliniche e rende il vaccino altamente raccomandato per questa coorte di pazienti, anche indipendentemente dal fattore età. È necessario quindi che in ambiente nefrologico ci si muova in un’unica direzione al fine di delineare quanto prima una regolamentazione che definisca questi pazienti come appartenenti a una categoria ad elevato rischio e di condurre a una rapida somministrazione di vaccini in modalità prioritaria, soprattutto per i soggetti affetti dalla malattia in stadio avanzato, per i pazienti dializzati e per i pazienti trapiantati.

A questo proposito va segnalato lo sforzo dimostrato dalla Società Italiana di Nefrologia che, con l’impegno congiunto di altre associazioni di settore come ANED (Associazione Nazionale Emodializzati Dialisi e Trapianto) e FIR (Fondazione Italiana del Rene), ha ottenuto l’aggiornamento del piano strategico nazionale di vaccinazione da parte del Ministero della Salute, dell’AIFA, del Comitato Tecnico Scientifico e del Commissario Straordinario per l’emergenza Covid-19. Infatti, nella lettera di impegno del 9 Febbraio firmata dal già Commissario Arcuri, vengono inseriti nella categoria di persone vulnerabili e con priorità per la vaccinazione tutti i pazienti con patologia renale, dializzati e soggetti portatori di trapianto renale. Questo importante traguardo dimostra che la collaborazione sinergica da parte di tutti gli enti coinvolti nel settore migliora la possibilità di raggiungere importanti obiettivi in modo più tempestivo ed efficace.

I malati affetti da nefropatie croniche, in dialisi o trapiantati hanno pagato un tributo molto alto alla pandemia Covid-19. Per tale motivo è necessario che questa popolazione particolarmente fragile sia non soltanto protetta nel minor tempo possibile ma anche monitorata nel tempo, per rilevare la risposta immunologica che seguirà alla vaccinazione e la sua reale efficacia.

 

Bibliografia

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Phosphorus binders: trigger for intestinal diverticula formation in an ADPKD patient

Abstract

Hyperphosphoremia is common in patients with chronic kidney disease and is an important risk factor in this patient population. Phosphate binding drugs are a key therapeutic strategy to reduce phosphoremia levels, although they have significant side effects especially in the gastrointestinal tract, such as gastritis, diarrhoea and constipation. We report the case of a haemodialysis-dependent patient suffering from chronic kidney disease stage V KDIGO secondary to polycystic autosomal dominant disease; treated with phosphate binders, the case was complicated by the appearance of diverticulosis, evolved into acute diverticulitis.

 

Keywords: hyperphosphoremia, phosphate binding drugs, chronic kidney disease, polycystic autosomal dominant disease, diverticulosis, acute diverticulitis

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Spett.le Editore,

Un recente evento avverso nella gestione di un paziente emodializzato presso la nostra U.O.C. di Nefrologia e Dialisi ci ha impegnati particolarmente e ci ha indotto a pubblicare questa comunicazione, per stimolare la discussione sull’uso dei chelanti del fosforo nei pazienti con insufficienza renale cronica secondaria a Rene Policistico dell’Adulto (ADPKD).

L’iperfosforemia nei pazienti con malattia renale cronica è un accertato fattore di rischio cardiovascolare [13]. La dieta ipofosforica e gli agenti chelanti del fosforo sono, infatti, prescritti nei pazienti con insufficienza renale cronica in fase conservativa ed evoluta in uremia al fine di ridurre i livelli di fosforemia, di migliorare l’iperparatiroidismo secondario ed attenuare la progressione delle calcificazioni vascolari [37]. Inoltre, gli effetti benefici dei chelanti del fosforo sono correlati ad una aumentata sopravvivenza dei pazienti in trattamento emodialitico, in maniera indipendente da altri fattori [8].

 

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Renal function performance in CKD stage 5: a sealed fate?

Abstract

Introduction and aims: Stages 4 and 5 of chronic kidney disease (CKD) have always been considered hard to modify in their speed and evolution. We retrospectively evaluated our CKD stage 5 patients (from 01/1/2016 to 12/31/2018), with a view to analyzing their kidney function evolution.

Material and Methods: We included only patients with longer than 6 months follow-up and at least 4 clinical-laboratory controls that included measured Creatinine Clearance (ClCr) and estimated GFR with CKD-EPI (eGFR). We evaluated: the agreement between ClCr and eGFR through Bland-Altman analysis; progression rate, classified as fast (eGFR loss >5ml/min/year), slow (eGFR loss 1-5 ml/min/year) and non-progressive (eGFR loss <1 ml/min/year or eGFR increase). We also evaluated which clinical-laboratory parameters (diabetes, blood pressure control, use of ACEi/ARBs, ischemic myocardiopathy, peripheral obliterant arteriopathy (POA), proteinuria, hemoglobin, uric acid, PTH, phosphorus) were associated to the different eGFR progression classes by means of bivariate regression and multinomial multiple regression model. Results: Measured CrCl and eGFR where often in agreement, especially for GFR values <12ml/min. The average slope of eGFR was -3.05 ±3.68 ml/min/1.73 m2/year. The progression of kidney function was fast in 17% of the patients, slow in 57.6%, non-progressive in 25.4%. At the bivariate analysis, a fast progression was associated with poor blood pressure control (p=0.038) and ACEi/ARBs use (p=0.043). In the multivariable model, only peripheral obliterative arteriopathy proved associated to an increased risk of fast progression of eGFR (relative risk ratio=5.97).

Discussion: Less than one fifth of our patients presented a fast GFR loss (>5 ml/min/year). The vast majority showed a slow progression, stabilisation or even an improvement. Despite the limits due to the small sample size, the data has encouraged us not to consider CKD stage 5 as an inexorable and short journey towards artificial replacement therapy.

 

Keywords: chronic kidney disease, CKD, disease progression, glomerular filtrate, chronic renal failure

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Introduzione

La malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD) colpisce oltre 850 milioni di persone nel mondo (11% circa della popolazione mondiale) [1]; di questi, 37 milioni sono negli Stati Uniti (pari al 15% della popolazione) [2], 38 milioni in Europa (il 10% della popolazione) [3] e circa 4 milioni in Italia, pari a circa il 7% della popolazione [4]. Numerosi studi hanno approfondito i fattori di rischio e progressione del danno renale cronico, spesso includendo nel campione fasi di CKD estremamente polimorfe come fenotipo clinico, rischio cardiovascolare e complicanze in corso di malattia [58].

Agli inizi degli anni ’90, Maschio [10] considerava un valore di creatininemia di circa 2 mg/dl come un “punto di non-ritorno” della storia naturale della CKD,  al di là del quale si prevedeva un inevitabile e progressivo peggioramento della funzione renale, nonostante gli interventi di tipo dietetico e terapeutico messi in atto. Tutt’oggi si ritiene che la malattia renale cronica abbia un andamento prevalentemente lineare con una progressione più rapida nelle fasi più avanzate. Recenti studi osservazionali [11, 12] hanno evidenziato invece come nelle fasi avanzate della CKD la modalità di progressione possa essere variabile, mostrando spesso un andamento non lineare e fortemente eterogeneo.

 

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Treating anaemia in patients with chronic kidney disease: what evidence for using ESAs, after a 30-year journey?

Abstract

Erythropoiesis Stimulating Agents (ESAs) are well-tolerated and effective drugs for the treatment of anaemia in patients with chronic kidney disease.

In the past, scientific research and clinical practice around ESAs have mainly focused on the haemoglobin target to reach, and to moving towards the normality range; more cautious approach has been taken more recently. However, little attention has been paid to possible differences among ESA molecules. Although they present a common mechanism of action on the erythropoietin receptor, their peculiar pharmacodynamic characteristics could give different signals of activation of the receptor, with possible clinical differences.

Some studies and metanalyses did not show significant differences among ESAs. More recently, an observational study of the Japanese Registry of dialysis showed a 20% higher risk of mortality from any cause in the patients treated with long-acting ESAs in comparison to those treated with short-acting ESAs; the difference increased in those treated with higher doses. These results were not confirmed by a recent, post-registration, randomised, clinical trial, which did not show any significant difference in the risk of death from any cause or cardiovascular events between short-acting ESAs and darbepoetin alfa or methoxy polyethylene glycol-epoetin beta. Finally, data from an Italian observational study, which was carried out in non-dialysis CKD patients, showed an association between the use of high doses of ESA and an increased risk of terminal CKD, limited only to the use of short-acting ESAs.

In conclusion, one randomised clinical trial supports a similar safety profile for long- versus short-acting ESAs. Observational studies should always be considered with some caution: they are hypothesis generating, but they may suffer from bias by indication.

Keywords: anaemia, erythropoiesis stimulating agents, ESAs, mortality, chronic kidney disease, long acting, short acting

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Introduzione

Dalla pubblicazione dello storico lavoro di Eschbach più di 30 anni fa [1], il trattamento dell’anemia con i farmaci stimolanti l’eritropoiesi (Erythropoiesis Stimulating Agents, ESAs) ha rivoluzionato la qualità della vita dei pazienti con malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD). In quegli anni i pazienti erano gravemente anemici e spesso sopravvivevano con livelli di emoglobina anche inferiori a 5 g/dL, ricorrendo a periodiche trasfusioni, con alto rischio di trasmissione di un’epatite allora sconosciuta, definita “non A-non B” (oggi chiamata C) e con conseguente accumulo di grandi quantità di ferro. Nei casi più gravi i nefrologi erano costretti ad intervenire con un trattamento chelante a base di desferriossamina, a sua volta gravato da serie complicanze come la mucoviscidosi. Improvvisamente, grazie all’utilizzo dell’eritropoietina, i pazienti ricominciarono a vivere. Tale era l’entusiasmo dei nefrologi nel poter finalmente correggere efficacemente la grave anemia dei loro pazienti cronici, che si fecero trascinare fino a una correzione troppo rapida dei valori di emoglobina, portando a complicanze come un aumento dei valori pressori sino a severe crisi ipertensive e, a volte, convulsioni. 

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SGLT2 inhibitors, beyond glucose-lowering effect: impact on nephrology clinical practice

Abstract

Epidemiological data show an increasing diffusion of diabetes mellitus worldwide. In the diabetic subject, the risk of onset of chronic kidney disease (CKD) and its progression to the terminal stage remain high, despite current prevention and treatment measures. Although SGLT2 inhibitors have been approved as blood glucose lowering drugs, they have shown unexpected and surprising cardioprotective and nephroprotective efficacy. The multiple underlying mechanisms of action are independent and go beyond glycemic lowering. Hence, it has been speculated to extend the use of these drugs also to subjects with advanced stages of CKD, who were initially excluded because of the expected limited glucose-lowering effect. Non-diabetic patients could also benefit from the favorable effects of SGLT2 inhibitors: subjects with renal diseases with different etiologies, heart failure, high risk or full-blown cardiovascular disease. In addition, these drugs have a good safety profile, but several post-marketing adverse event have been reported. The ongoing clinical trials will provide clearer information on efficacy, strength and safety of these molecules. The purpose of this review is to analyze the available evidence and future prospects of SGLT2 inhibitors, which could be widely used in nephrology clinical practice.

Keywords: diabetes, oral hypoglycemic agents, SGLT2 inhibitors, chronic kidney disease

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Introduzione

Il diabete mellito (DM) è una delle patologie più diffuse nel mondo: ne soffre circa l’8,5% della popolazione adulta ed il trend nelle ultime decadi mostra un progressivo aumento dell’incidenza e della prevalenza [1].

La malattia renale cronica (MRC) è frequente complicanza del DM, sia di tipo 1 (DM1) che di tipo 2 (DM2). Si calcola che tra il 40 e il 50% dei soggetti affetti da DM2 sviluppa MRC nell’arco della vita e la sua presenza e severità influenzano significativamente la prognosi [2, 3, 4]. Pochi e dibattuti sono i dati relativi alla progressione del danno renale nel diabetico fino alla malattia renale cronica terminale (ESRD). Le cifre sono sottostimate e inficiate dall’elevata mortalità di questi soggetti, molti dei quali muoiono prima di giungere alla necessità di terapia sostitutiva della funzione renale, soprattutto per patologie cardiovascolari (CV) [5, 6, 7]. Negli Stati Uniti nel 2010 la prevalenza di ESRD tra i diabetici adulti è stata di 20/10.000 [8]. Guardando all’eziopatogenesi, il DM è ormai stabilmente la causa principale dell’ESRD. È da ascrivere al DM il 23% e il 16% dei casi incidenti e prevalenti di ESRD, rispettivamente, secondo il più recente report ERA-EDTA (European Renal Association-European Dialysis and Transplant Association) [9]. 

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Economic impact of ferric carboxymaltose in haemodialysis patients

Abstract

Intravenous iron supplementation is essential in hemodialysis (HD) patients to recover blood loss and to meet the requirements for erythropoiesis and, in patients receiving erythropoietin, to avert the development of iron deficiency. In a recent real-world study, Hofman et al. showed that a therapeutic shift from iron sucrose (IS) to ferric carboxymaltose (FCM) in HD patients improves iron parameters while reducing use of iron and erythropoietin. The objective of this economic analysis is to compare the weekly cost of treatment of FCM vs IS in hemodialysis patients in Italy. The consumption of drugs (iron and erythropoietin) was derived from Hofman’s data, while the value was calculated at Italian ex-factory prices. The analysis was carried on the total patient sample and in two subgroups: patients with iron deficiency and patients anemic at baseline. In addition, specific sensitivity analyses considered prices currently applied at the regional level, simulating the use of IS vs iron gluconate (FG) and epoetin beta vs epoetin alfa. In the base-case analysis, the switch to FCM generates savings of -€12.47 per patient/week (-21%) in all patients, and even greater savings in the subgroups with iron deficiency -€17.28 (-27%) and in anemic patients -€23.08 (-32%). Sensitivity analyses were always favorable to FCM and confirmed the robustness of the analysis. FCM may represent a cost-saving option for the NHS, and Italian real-world studies are needed to quantify the real consumption of resources in dialysis patients.

 

Keywords: ferric carboxymaltose, intravenous iron supplementation, chronic kidney disease, hemodialysis, drugs consumption, economic impact

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Introduzione

La prevalenza dei pazienti con malattia renale cronica (MRC) è pari al 10-16% della popolazione adulta mondiale [1] con tassi di incidenza in aumento nel corso degli anni [1,2]. Questo trend rappresenta una sfida per i diversi Sistemi Sanitari e i pagatori in generale, particolarmente quando si consideri il più elevato consumo di risorse nei pazienti più anziani [3,4]. Soprattutto, va evidenziato che la mortalità legata alla MRC è quasi duplicata, tra il 1990 e il 2010, con un aumento, in termini di anni persi per morte prematura, inferiore solo a HIV-AIDS e diabete mellito [5].
 

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Management of hemodialysis patient subject to medical-nuclear investigation

Abstract

In recent years imaging techniques that use radionuclides have become more and more clinically relevant as they can provide functional information for specific anatomical districts. This has also involved nephrology, where radionuclides are used to study patients with different degrees of renal function failure up to terminal uremia. Although chronic kidney disease, and dialysis in particular, may affect the distribution and the elimination of radiopharmaceuticals, to date there are no consistent data on the risks associated with their use in this clinical context. In addition to the lack of data on the safety of radio-exposure in dialysis patients, there is also a shortage of information concerning the risk for healthcare staff involved in conducting the dialysis sessions performed after a nuclear test.

This study, performed on 29 uremic patients who underwent hemodialysis immediately after a scintigraphic examination, assessed the extent of radio-contamination of the staff and of hemodialysis devices such as monitor, kits and dialysate. The data collected has been used to quantify the radiological risk in dialysis after the exposure to the most common radionuclides.

 

Keywords: chronic kidney disease, imaging, radionuclides, hemodialysis, scintigraphy, radiological risk

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Introduzione

Negli ultimi decenni l’evoluzione delle metodiche di imaging ha contribuito significativamente al miglioramento dell’accuratezza diagnostica in medicina. Tra le varie metodiche, quelle utilizzanti radionuclidi, per le caratteristiche in esse presenti, hanno permesso di studiare aspetti particolari della patologia umana. La medicina nucleare usa il principio del tracciante. Le radiazioni, principalmente fotoni gamma, emesse dal radionuclide vengono convertite in immagini planari o tomografiche attraverso la Gamma Camera. Grazie alla versatilità dei radionuclidi, la medicina nucleare trova applicazione in diversi ambiti della clinica [1].

Secondo i dati UNSCEAR 2000 ogni anno vengono effettuati nel mondo circa 32 milioni di esami di medicina nucleare [2]. La crescente diffusione dell’esame scintigrafico e della Tomografia ad Emissione di Positroni (PET), nel corso dell’ultimo decennio, deriva principalmente dalla loro notevole capacità di integrazione e/o sostituzione delle classiche metodiche di imaging pesante (TC, RM, etc.). La scintigrafia è una tecnica di diagnostica funzionale che, previa somministrazione di un tracciante radioattivo (che si distribuisce nel corpo in base alle sue proprietà chimiche e biologiche), ne valuta e/o quantifica la distribuzione negli organi e nei tessuti che si vogliono studiare. La PET è un esame diagnostico che prevede l’acquisizione di immagini fisiologiche basate sul rilevamento di due fotoni gamma che viaggiano in direzioni opposte. Questi fotoni sono generati dall’annientamento di un positrone con un elettrone nativo. La scansione PET, eseguita con fluorodesossiglucosio (FDG), fornisce informazioni metaboliche qualitative e quantitative. L’FDG è un analogo radiomarcato del glucosio che viene assorbito dalle cellule metabolicamente attive come le cellule tumorali. Le scansioni PET sono in grado di dimostrare un’attività metabolica anormale prima che si siano verificati cambiamenti morfologici. L’attività metabolica dell’area di interesse viene valutata sia mediante ispezione visiva delle immagini sia misurando un valore semi-quantitativo dell’assorbimento di FDG chiamato valore di assorbimento standardizzato (SUV). L’applicazione clinica più comune della PET è in oncologia, dove viene impiegata per differenziare le lesioni benigne dalle lesioni maligne, monitorare l’effetto della terapia su neoplasie conosciute, riposizionare e rilevare la recidiva del tumore; viene anche utilizzata in cardiologia, per la valutazione di aree di ischemia, e in neurologia, nella diagnosi differenziale di demenza e sindrome di Parkinson [3,4].

 

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Temporal variation of Chronic Kidney Disease’s epidemiology

Abstract

Chronic Kidney Disease (CKD) is a major risk factor for mortality and morbidity, as well as a growing public health problem. Several studies describe the epidemiology of CKD (i.e. prevalence, incidence) by examining short time intervals. Conversely, the trend of epidemiology over time has not been well investigated, although it may provide useful information on how to improve prevention measures and the allocation of economic resources. Our aim here is to describe the main aspects of the epidemiology of CKD by focusing on its temporal variation. The global incidence of CKD has increased by 89% in the last 27 years, primarily due to the improved socio-demographic index and life-expectancy. Prevalence has similarly increased by 87% over the same period. Mortality rate has however decreased over the last decades, both in the general and CKD populations, due to a reduction in cardiovascular and infectious disease mortality. It is important to emphasize that the upward trend of incidence and prevalence of CKD can be explained by the ageing of the population, as well as by the increase in the prevalence of comorbidities such as hypertension, diabetes and obesity. It seems hard to compare trends between Italy and other countries because of the different methods used to assess epidemiologic measures. The creation of specific CKD Registries in Italy appears therefore necessary to monitor the trend of CKD and its comorbidities over time.

Keywords: chronic kidney disease, CKD, epidemiology, registers, socio-demographic index

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Introduzione

La malattia renale cronica (CKD) è una condizione patologica associata ad un alto rischio di mortalità e di morbidità. È stato infatti dimostrato, in studi di popolazione generale e di pazienti seguiti dalle unità nefrologiche, che la presenza di un valore di filtrato glomerulare stimato (eGFR) <60 ml/min/1,73m2 o di proteinuria si associa ad un alto rischio di sviluppare, nel tempo, eventi cardiovascolari (CV) maggiori (malattia coronarica, scompenso cardiaco, vasculopatia periferica), progressione del danno renale (riduzione del eGFR ed ingresso in dialisi) e mortalità da tutte le cause [15].  

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Protein carbamylation: what it is and why it concerns nephrologists

Abstract

Abstract: Spontaneous urea dissociation in water solution is a prominent source of protein carbamylation in our body. Protein carbamylation is a well-known phenomenon since early seventies. Some years ago, much interest in the diagnostic power of carbamylated protein arouse. Recently the target of the researches focused on its potential cardiovascular pathogenicity. Some authors claimed that this could be a reason for higher cardiovascular mortality in uremic patients. Nutritional therapy, amino acids supplementation and intensive dialysis regimen are some of the therapeutic tools tested to lower the carbamylation burst in this population.

 

Keywords: protein carbamylation, urea, chronic kidney disease

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Biochimica del cianato e della carbamilazione

Il cianato (acido cianico) è una molecola che deriva dalla dissociazione spontanea in soluzione acquosa dell’urea; la reazione completa porta alla produzione di cianato e ammoniaca e in vitro tale reazione è spostata dalla parte della formazione dell’urea per oltre il 99% (1). Il cianato, dunque, è un composto azotato che si produce fisiologicamente nel nostro organismo, ma solo in piccole quantità e si pone spontaneamente in equilibrio col suo isomero più reattivo isocianato.

La concentrazione plasmatica in individui sani di isocianato è di circa 50 nmol/L (1), un valore che, tuttavia, è circa mille volte inferiore rispetto a quanto previsto dai parametri cinetici di decomposizione dell’urea. La stessa osservazione è stata fatta nei pazienti uremici, dove la concentrazione di isocianato rilevata era sì aumentata (140 nmol/l), ma comunque di gran lunga inferiore a quanto atteso (2). La spiegazione di questo fenomeno è che, poiché come detto l’acido isocianico è molto reattivo, parte di questo composto viene consumato come substrato di altre reazioni chimiche. In particolare il cianato è in grado di cedere il gruppo “carbamoile” (-CONH2) ad una molecola organica e questa reazione è generalmente indicata con il nome di carbamilazione. In realtà il termine chimico più appropriato, e raccomandato dalla “International Union of Pure and Applied Chemistry”, sarebbe carbamoilazione (3), ma nella gran parte della letteratura scientifica è utilizzato il primo termine. 

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