Novembre Dicembre 2022 - Nefrologo in corsia

Anti-angiogenic drugs and hypertension: from multidisciplinary collaboration to greater care

Abstract

Anti-angiogenic drugs are widely used in cancer therapy. Their main targets of action are the vascular endothelial growth factor (VEGF) and its receptors (VEGF-R). Anti-angiogenic drugs are used to reduce the growth of the tumor and its metastases by acting on the phenomenon of tumor neo-angiogenesis. However, they are known for their side effects such as hypertension, acute kidney injury (AKI), and congestive heart failure.
Methods: retrospective study conducted on 57 consecutive patients known for ovarian cancer. Patients treated with Bevacizumab, as first-line, relapse, or maintenance treatment (2015-2022).
Results: according to FIGO staging, 98.2% (56 out of 57) of the patients in the study had third degree disease (G3). 49% of patients developed hypertension after starting Bevacizumab therapy (82% grade 2 according to CTCAE v.5). 89% of hypertensive patients started treatment and its management was multidisciplinary with nephrological consultation in 68% of cases. Only 3 out of 57 women discontinued treatment due to hypertension, and in only one of them it was not possible to restart it.
Conclusions: the evaluation of the patient by a multidisciplinary team (gynecologist and nephrologist) is essential to minimize the morbidity and mortality of patients, and to avoid the interruption of antineoplastic treatment.

Keywords: anti-angiogenic drugs, kidney injury, proteinuria, hypertension, ovarian cancer, multidisciplinary team

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Introduzione

I farmaci anti-angiogenici hanno lo scopo di prevenire e/o rallentare la crescita tumorale. Questi possono causare diversi effetti collaterali, tra i quali emerge l’ipertensione, definita nella Common Terminology Criteria for Adverse Events (CTCAE) come pressione arteriosa (PA) >140/90 mmHg o un aumento della pressione arteriosa diastolica (PAD) >20 mmHg rispetto al basale.

In questo lavoro, che vuole essere un percorso in questo complesso ambito onconefrologico, presentiamo dapprima il caso di una donna di 74 anni affetta da tumore dell’ovaio trattata con Bevacizumab che, a causa dello sviluppo di ipertensione, ha dovuto interrompere il trattamento, ripreso poi grazie alla valutazione della paziente da parte di un’equipe multidisciplinare (ginecologo e nefrologo). Vengono quindi riportati i risultati di uno studio retrospettivo su 57 pazienti consecutive trattate con Bevacizumab con lo scopo di verificare se e come la collaborazione interdisciplinare tra nefrologo e ginecologo fosse efficacie e funzionale: è stata valutata l’incidenza di ipertensione e proteinuria, se fosse stato richiesto consulto specialistico nefrologico e se fosse stato completato il trattamento.

 

Caso clinico 

Donna di 74 anni con anamnesi patologica remota muta: nota per appendicetomia, negativa per neoplasia mammaria e della sfera ginecologica, per patologie cardiovascolari e ipertensione. Normofunzione renale (0.70 mg/dL). A novembre 2018 aumento progressivo del volume addominale per cui eseguiva TC torace-addome con mezzo di contrasto, con riscontro di sospetta lesione eteroformativa ovarica. CA125 406 U/mL (valore normale < 35 U/mL). In data 13/12/2018 veniva sottoposta a intervento chirurgico di citoriduzione primaria: isteroannessiectomia bilaterale, resezione sigma-retto, omentectomia radicale, linfadenectomia lomboaortica e pelvica, resezione diaframmatica destra e noduli della glissoniana epatica. Esame istologico: adenocarcinoma di tipo ovarico sieroso, papillare/micropapillare e cordonale solido, poco differenziato. Stadio IIIC G3 secondo FIGO.

Dal 15/01/2019 all’ 8/5/2019 veniva sottoposta a chemioterapia con sei cicli di Carboplatino AUC 5 e paclitaxel 175 mg/mq con aggiunta a partire dal secondo ciclo di Bevacizumab 15 mg/Kg ogni 21 giorni per un totale di 22 cicli.

Gli esami ematochimici prima dell’inizio del Bevacizumab mostravano emocromo nella norma, confermavano quadro di normofunzione renale (creatinina 0.66 mg/dL), elettroliti nella norma, dislipidemia (LDH 249 mg/mL) e presenza di proteine all’esame delle urine (20 mg/dL). Dal quarto ciclo sviluppo di ipertensione di grado 3, secondo i Common Terminology Criteria for Adverse Events versione 5 (CTCAE-5), PA 165/95 mmHg, proteinuria +1 al dipstick urinario, con conseguente rinvio del trattamento con Bevacizumab. Per persistenza di ipertensione arteriosa di grado 3 (≥160/90) si richiedeva consulenza nefrologica con impostazione di terapia con Ramipril 1.25 mg due volte al giorno e successivo miglioramento pressorio.

Veniva indicato alla paziente controllo domiciliare della pressione arteriosa al domicilio con indicazione a contattare gli specialisti se PA>135/85; si consigliava, inoltre, di eseguire esami ematochimici e delle urine di controllo. Al settimo ciclo con anti-angiogenetico, si osservava nuovo peggioramento dell’ipertensione arteriosa (PA 160/90 mmHg), dipstick 2+, proteinuria delle 24h pari a 1 g/24h, con ulteriore rinvio della somministrazione di Bevacizumab. Richiesta nuova consulenza nefrologica con incremento della terapia a Ramipril 5 mg per 2 volte al die con miglioramento del profilo pressorio (PA 150-120/86-72 mmHg).

Terapia di mantenimento con Bevacizumab terminata in data 10/07/2021 con completa risposta al trattamento. La paziente attualmente è in follow-up con assenza di malattia residua, permane ipertensione in terapia con Ramipril 2.5 mg.

 

Terapia angiogenica

La terapia anti-angiogenetica come trattamento delle neoplasie maligne è stata proposta per la prima volta nel 1971 dal dott. Judah Folkman, il quale ha ipotizzato che la crescita tumorale e il processo di metastatizzazione possa dipendere dallo sviluppo e formazione di nuovi vasi (angiogenesi) e che l’inibizione di questo meccanismo possa contribuire al rallentamento e/o arresto della crescita tumorale [1]. Da allora, gli inibitori della neoangiogenesi sono diventati di uso comune nel management terapeutico di numerosi tumori [26]. Il bersaglio dei farmaci anti-angiogenici sono il fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF) e i suoi recettori (VEGF-R). Il VEGF è una glicoproteina che svolge un ruolo chiave nel mantenimento dell’omeostasi e della sopravvivenza cellulare [79]. Essa è espressa dalle cellule endoteliali (EC), da podociti, fibroblasti, macrofagi e da alcune cellule tumorali [710]. Dal 2004 la Food and Drug Administration (FDA) ha approvato come terapie anti-tumorali quelle rivolte contro il VEGF come il Bevacizumab (inibitore del VEGF, VEGF-I) e gli anti-recettore del VEGF, ovvero gli inibitori delle tirosin chinasi (TKI) come il sunitinib, il sorafenib e il pazopanib. I VEGF-I sono anticorpi monoclonali umanizzati che legano in modo selettivo il VEGF neutralizzandolo. I TKI, invece, svolgono blocco competitivo del legame dell’ATP al dominio tirosin chinasico delle isoforme di VEGF inibendo così il signaling cellulare e, quindi, l’angiogenesi [11]. Nello specifico, in Tabella I sono illustrate le principali indicazioni al trattamento con Bevacizumab in ambito ginecologico.

Diagnosi Indicazione
Carcinoma dell’ovaio epiteliale o del carcinoma delle tube di Falloppio in stadio avanzato Bevacizumab in prima linea in combinazione con carboplatino e paclitaxel [3, 12, 13]
Prima recidiva di carcinoma ovarico epiteliale o di carcinoma alle tube di Falloppio platino-sensibili che non hanno ricevuto una precedente terapia con anti-angiogenici Bevacizumab, in associazione con carboplatino e gemcitabina o con carboplatino e paclitaxel [3, 14, 15]
Recidiva di carcinoma ovarico epiteliale o carcinoma alle tube di Falloppio primario platino-resistenti che hanno ricevuto non più di due precedenti regimi chemioterapici e che non hanno ricevuto una precedente terapia con farmaci anti-VEGF/VEGF-R Bevacizumab, in associazione con paclitaxel, topotecan o doxorubicina liposomiale pegilata [3, 16, 17]
Mantenimento Bevacizumab
Tabella I: principali indicazioni all’uso di Bevacizumab in ambito ginecologico.

I farmaci anti-angiogenici non sono esenti da rischi (Figura I). I principali effetti collaterali coinvolgono il sistema cardiovascolare [18]; l’ipertensione arteriosa è riportata nel 19%-24% dei pazienti trattati con VEGF-I/TKI [20, 21]. Nei pazienti in terapia con VEGF-I è noto un aumentato rischio di sviluppare ipertensione (odds ratio di 5,3 volte), ischemia cardiaca (2,8 volte), tromboembolismo arterioso (1,5 volte) e scompenso cardiaco acuto (1,4 volte) rispetto alla chemioterapia standard [19] .

La fisiopatologia dell’ipertensione Bevacizumab-dipendente non è del tutto nota, tuttavia è stato ampliamente dimostrato che la disfunzione endoteliale e podocitaria, il rimodellamento vascolare, la vasocostrizione periferica e la riduzione della densità vasale abbiano un ruolo cruciale nello sviluppo della stessa [22, 23]. È noto, infatti, che l’inibizione del pathway di VEGF riduce la produzione di ossido nitrico (NO) provocando vasocostrizione e quindi aumento delle resistenze periferiche. La ridotta produzione di NO influisce anche sull’omeostasi renale del sodio, aumentandone il riassorbimento nel dotto collettore e provocando ulteriore incremento della PA [2426]. Inoltre, i farmaci anti-angiogenici, inducono incremento di molecole vasocostrittrici quali endotelina-1 (ET1) e Soluble vascular endothelial growth factor receptor-1 (sFlt-1) tale da provocare un fenotipo clinico simile alla pre-eclampsia con ipertensione e proteinuria [2730]. Un altro meccanismo attraverso il quale l’inibizione del pathway di VEGF provoca ipertensione è la rarefazione funzionale (vasocostrizione) o strutturale dei vasi sanguigni periferici [3133]. Lo stress ossidativo può, in aggiunta, contribuire allo sviluppo di ipertensione arteriosa durante terapia anti-angiogenica attraverso l’ossidazione di NO, diminuendo così l’attività vasodilatante NO-mediata [34].

I recettori per VEGF si trovano sia sui podociti che sulle cellule del tubulo renale sulle cellule endoteliali di glomerulo e capillari peritubulati, pertanto l’utilizzo di farmaci anti-angiogenici può provocare direttamente un danno strutturale e funzionale del glomerulo renale che si esprime con riduzione della velocità di filtrazione glomerulare (GFR) e/o sviluppo di proteinuria in circa il 41%-63% dei pazienti [3537]. La presenza di proteinuria in range nefrosico, > 3.5 g/die, si presenta in circa il 6.5% dei casi [23]. I reperti patologici renali più comuni sono il danno endoteliale e la microangiopatia trombotica.

Meccanismi patogenetici dell’ipertensione arteriosa e del danno renale in corso di terapia
Figura I: Meccanismi patogenetici dell’ipertensione arteriosa e del danno renale in corso di terapia con VEGF-I e TKI. A) principali effetti sul sistema cardiovascolare; B) principali effetti sulla funzione renale.

 

Trattamento dell’ipertensione arteriosa indotta da farmaci anti-angiogenici

Ad oggi ci sono pochissimi dati sulla gestione dell’ipertensione indotta da farmaci anti-angiogenici nei pazienti oncologici. La maggior parte degli studi utilizza i Common Terminology Criteria for Adverse Events (CTCAE) per definire gli eventi ipertensivi, tale classificazione, però, differisce per molteplici aspetti dalle linee guida relative all’ipertensione utilizzate in ambito internazionale [22, 3841]. Inoltre, la difficoltà nella gestione delle complicanze ipertensive è spesso causa di sospensione temporanea o definitiva della terapia anti-angiogenica, che espone i pazienti al rischio di aggravamento e recidive.

Evento cardiaco GRADO 1 GRADO 2 GRADO 3 GRADO 4 GRADO 5
Ipertensione (nell’adulto) PAS 120-139 mmHg o PAD 80-89 PAS 140-159 mmHg o PAD 90-99 se precedentemente PA controllata; cambio della terapia medica in atto; ricorrente o persistente incremento della PAD>20mmHg o fino a PA >140/90; inizio monoterapia PAS ≥ 160 mmHg o PAD ≥ 100 mmHg; indicato trattamento medico; più di un farmaco o cure più intensive Conseguenze pericolose per la vita (es. ipertensione maligna, deficit neurologico permanente o transiente); intervento urgente Morte
Tabella II: CTCAE v5. PA: pressione arteriosa, PAS: pressione arteriosa sistolica, PAD: pressione arteriosa diastolica.

Utilizzando la metrica della CTCAE, l’ipertensione è definita come PA > 140/90 mmHg o un aumento della PAD >20 mmHg. In questa popolazione di pazienti, la letteratura raccomanda di iniziare la terapia antipertensiva una volta soddisfatti i criteri CTCAE di grado 2 con possibile riduzione della dose e/o interruzione della terapia antitumorale [22, 38]. Le Linee Guida ESH/ESC e ISH invece, che si applicano alla popolazione generale, per valori pressori corrispondenti suggeriscono un periodo di osservazione (la cui durata dipende dal livello di rischio cardiovascolare) in cui deve avvenire modifica dello stile di vita e adesione a una dieta a basso contenuto di sodio e colesterolo, nonché l’aumento dell’attività fisica tollerata [42, 43]. L’approccio ai pazienti che ricevono la terapia con VEGF-I invece, deve necessariamente essere più aggressivo e il timing di monitoraggio e intervento più preciso e tempestivo (Figura II).

La PA deve essere valutata innanzi tutto prima di iniziare la terapia anti-angiogenica. Nei pazienti con ipertensione misconosciuta prima dell’inizio della terapia, deve essere prescritta una terapia anti-ipertensiva appropriata in modo da ottenere un ottimale controllo pressorio prima dell’inizio della terapia con VEGF-I. Una volta iniziata la terapia con VEGF-I, il National Cancer Institute raccomanda il monitoraggio settimanale della PA durante il primo ciclo e poi ogni 2-3 settimane nei cicli successivi attraverso rilevazioni in ambito clinico o a domicilio [44, 45].

Nei pazienti che si presentano con ipertensione di nuova insorgenza durante la terapia con VEGF-I, deve essere stabilito un obiettivo pressorio in base all’età e alle comorbilità, quali diabete, proteinuria o malattia renale cronica (IRC) [46]. Le classi di farmaci più indicate in questi pazienti sono gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACEI), i sartani (Angiotensin II Receptor Blockers, ARB) e i calcio-antagonisti in quanto sono in grado di contrastare, almeno in parte, i meccanismi che portano all’aumento dei valori di PA in corso di terapia con VEGF-I. Gli ACEI contrastano l’attivazione del RAAS e proteggono dalla proteinuria indotta da VEGF-I, mentre i calcio-antagonisti riducono la contrazione delle cellule muscolari lisce nei vasi, resi ipercontrattili dalla riduzione di NO e dall’aumento di ET-1 indotti dall’inibizione di VEGF [4750]. Tuttavia, ciò vale solo per i calcio-antagonisti diidropiridinici come amlodipina o nifedipina, poiché i calcio-antagonisti non diidropiridinici, come il diltiazem o verapamil, inibiscono il citocromo P4503A4, che metabolizza i VEGF-I, innalzandone così il livello plasmatico [22, 51]. Pertanto, i calcio-antagonisti diidropiridinici associati o meno agli ACEI o agli ARB sono la prima linea terapeutica nei pazienti con ipertensione di nuova insorgenza o con peggioramento dell’ipertensione preesistente dopo terapia con farmaci anti-angiogenici. I beta-bloccanti possono essere considerati nei pazienti con cardiopatia ischemica. Nei pazienti con ipertensione refrattaria, possono essere associati diuretici [22]. Alcuni pazienti con ipertensione indotta da VEGF-I raggiungono un controllo non ottimale o sono resistenti ai farmaci antipertensivi convenzionali. Questi pazienti potrebbero trarre beneficio da agenti che interferiscono direttamente con i bersagli del VEGF, come NO ed ET-1 [52]. Ad esempio, può essere presa in considerazione l’aggiunta di donatori di NO di lunga durata, come l’isosorbide mononitrato e l’isosorbide dinitrato. L’inibitore della fosfodiesterasi, sildenafil, e il beta-bloccante nebivololo, possono potenziare le proprietà vasodilatatrici del NO intrinseco e possono offrire benefici in questa popolazione di pazienti [53, 54]. Infine, anche gli antagonisti del recettore dell’endotelina possono avere un ruolo nell’ipertensione VEGF-I [55].

Schema di intervento in caso di pazienti ipertesi e in caso di ipertensione indotta da VEGF-I/TKI.
Figura II: Schema di intervento in caso di pazienti ipertesi e in caso di ipertensione indotta da VEGF-I/TKI.

 

Materiali e metodi

Lo studio retrospettivo è stato condotto presso l’Unità Operativa (U.O.) di Ginecologia e Ostetricia dell’IRCCS San Raffaele di Milano con la collaborazione della U.O. di Nefrologia e Dialisi dello stesso centro. Nel periodo compreso tra gennaio 2015 e gennaio 2022 sono state trattate con Bevacizumab, come trattamento di prima linea, come trattamento della recidiva o mantenimento, 57 pazienti consecutive affette da carcinoma dell’ovaio. Nessuna delle pazienti allo stato attuale è in trattamento con Bevacizumab. I dati clinici sono stati reperiti dalle cartelle cliniche delle pazienti, sia quelle cartacee che quelle digitali raccolte nell’applicazione informatica GALILEO. I dati raccolti comprendono: diagnosi, grado e stadio del tumore, cicli di Bevacizumab eseguiti, sviluppo di ipertensione, consulto nefrologico, terapia anti-ipertensiva, effettivo completamento del trattamento con Bevacizumab, eventuale motivo per il quale il trattamento con Bevacizumab non è stato portato a compimento (progressione della malattia primitiva, ipertensione o altro). Tutte le pazienti hanno firmato il consenso informato per la partecipazione allo studio.

 

Risultati

L’analisi retrospettiva è stata effettuata su 57 pazienti affette da tumore dell’ovaio trattate con Bevacizumab. L’età media delle pazienti all’inizio del trattamento era di 59.2 anni, 11 pazienti erano note per ipertensione arteriosa (19%), una solo di loro era nota, e in trattamento, per diabete mellito, mentre 6 donne erano affette da insufficienza renale cronica (IRC, 10%).

Secondo la stadiazione FIGO gli stadi della patologia erano così suddivisi: l’1.8% (1 su 57) delle pazienti presentava stadio IC, l’1.8% (1 su 57) stadio IIA, il 21% (12 su 57) stadio IIIB, il 61.4% (35 su 57) il IIIC, il 14% (8 su 57) stadio IVB. Il 98.2% (56 su 57) delle pazienti in studio presentava grado terzo (G3) e 1.8% (1 su 57) grado 2 (G2). Delle 57 pazienti totali, 28 (49.1%) hanno sviluppato ipertensione.

23 donne su 28 (82.1%) manifestavano grado di ipertensione pari a 2 secondo CTCAE v.5 e le restanti 5 (17.9%) grado 3. In questa popolazione l’età media era superiore (62.6 anni), vi era una paziente affetta da diabete mellito (1 caso su 28), 4 affette da IRC (14%); 8 donne erano note per ipertensione in trattamento (28.6%), ma con Bevacizumab la PA non era più adeguatamente controllata. La popolazione di donne che non ha sviluppato ipertensione invece presentava età media inferiore (55.7 anni) e minore incidenza di IRC e ipertensione, 2 di loro erano note per IRC (7%), mentre 3 di loro erano note per ipertensione in trattamento.

Delle 28 pazienti divenute ipertese durante la terapia, 25 (89.3%) hanno necessitato di terapia anti-ipertensiva, o modifica di essa; il trattamento ha previsto ACEI nel 32% delle pazienti (8 su 25), ARB nel 12% (3 su 25), beta-bloccante nel 4% (1 su 25) o associazione tra questi 12% (13 su 25). Tra le donne ipertese, 19 (67.8%) sono state trattate grazie a gestione multidisciplinare con consulenza nefrologica. Tutte le donne con storia di ipertensione sono state gestite in equipe multidisciplinare (8 su 8). 3 donne su 57 totali (5.3%) hanno interrotto il trattamento con Bevacizumab a causa di ipertensione; in due casi il trattamento è stato ripreso dopo controllo dei valori pressori. In un solo caso, di questi, non è stato possibile riprendere il trattamento (1 su 57, 1.18%), la donna era nota, in anamnesi, per ipertensione arteriosa e diabete mellito.

Nella casisistica considerata solo 18 donne su 57 hanno completato il mantenimento con Bevacizumab (31.6%), 39 donne hanno interrotto il trattamento (68.4%), ma la causa più frequente di interruzione (77 %) si è rivelata la progressione di malattia (30 pazienti su 39 che hanno interrotto la terapia), mentre solo in 1 paziente il mantenimento è stato interrotto per ipertensione incontrollata.

 

Discussione

I farmaci anti-angiogenici sono ampiamente utilizzati in ambito oncologico. Questi sono approvati per il trattamento di prima linea, di mantenimento e della recidiva del tumore dell’ovaio e molteplici altri tumori solidi. Tra gli effetti collaterali noti alla terapia, uno dei più frequenti è rappresentato dall’ipertensione, definita dalla metrica della CTCAE come PA > 140/90 mmHg o un aumento della PAD > 20 mmHg rispetto al basale.

Nella popolazione considerata, il 49.1% delle donne ha sviluppato ipertensione, dato in linea con la letteratura, infatti Bradley et al. hanno dimostrato che l’ipertensione indotta da Bevacizumab di grado 2 o superiore era presente nel 49.3% dei pazienti, di cui il 37.7% con grado 2 e l’11.6% di grado 3/4 [38, 56]. In contrasto, da una recente analisi di Tsibulak e colleghi emerge che il 60% delle donne in trattamento con VEGF-I sviluppa ipertensione, tuttavia il 24% delle donne era già nota per ipertensione arteriosa e presentava età media di 60 anni [57].

Dalla nostra analisi emerge in effetti che le pazienti più predisposte ad avere ipertensione sono le donne con età superiore a 60 anni e un’anamnesi positiva per ipertensione arteriosa, questi sono noti fattori di rischio per lo sviluppo della stessa anche in assenza di terapia con anti-VEGF [58]. Altro fattore di rischio è rappresentato da body mass index (BMI) superiore o uguale a 25 kg/m2 [58]. Fin dall’inizio della terapia con Bevacizumab si può verificare incremento dei valori pressori, tuttavia non è ancora possibile prevedere quando e se avverrà tale incremento pressorio [59].

Rimane incerto se il dosaggio del Bevacizumab è correlato con lo sviluppo di ipertensione [56, 60].

L’obiettivo principale del trattamento dell’ipertensione da Bevacizumab e da altri inibitori del pathway VEGF/VEGF-R è prevenire gli effetti tossici correlati all’ipertensione in pazienti oncologici già di per sé compromessi (Figura II) e completare il trattamento previsto.

Nella nostra coorte tra le 28 donne che hanno sviluppato ipertensione de novo, nel 43% dei casi l’ipertensione è stato gestita con un solo farmaco anti-ipertensivo (ACEI, ARB o beta-bloccante), mentre nelle restanti è stata utilizzata un’associazione. Grazie all’utilizzo di uno o più farmaci anti-ipertensivi, pertanto, gli specialisti ginecologo-oncologo e nefrologo hanno ottenuto il controllo della PA nel 96.4% (27 su 28) delle pazienti che hanno sviluppato ipertensione. Solo nell’1.18% (sul totale delle pazienti in trattamento) il farmaco anti-angiogenetico è stato sospeso a causa del refrattario controllo della PA. Tale statistica è in linea con i dati riportati nello Bevacizumab Regimens Investigation of Treatment Effects and Safety (bRiTE) [61].

Per ridurre al minimo le interruzioni del Bevacizumab, quindi, è importante che si verifichi una sinergica collaborazione tra gli specialisti: nefrologo che si occupa in maniera primaria del trattamento dell’ipertensione e il ginecologo oncologo che, nel contesto della valutazione della paziente in corso di trattamento con anti-angiogenici, monitori quotidianamente l’andamento della PA.

 

Conclusioni

Il buon risultato ottenuto grazie all’approccio multidisciplinare alla gestione delle pazienti in terapia con VEGF-I attuato nel nostro centro conferma come sia fondamentale il lavoro di équipe tra nefrologo e oncologo nella gestione delle complicanze di tali farmaci, in modo da ridurre al minimo l’interruzione di farmaci anti-neoplastici e aumentare la sopravvivenza libera da malattia del paziente oncologico. Nel nostro centro il numero di interruzioni di terapia per ipertensione da anti-VEGF/VEGF-R è stato ridotto al minimo, proprio grazie alla multidisciplinarietà dell’approccio al paziente.

 

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