La ricerca delle fonti di aggiornamento professionale per il medico, un tempo non molto remoto, passava attraverso la consultazione di noiosi volumi di Index Medicus o più simpatici opuscoletti di Current Contents. Entrambe le cose richiedevano molto tempo, la necessità di trasportare materiale cartaceo o, più spesso, doversi recare nelle biblioteche per consultare queste pubblicazioni periodiche. Fare una revisione sistematica della letteratura su un argomento specifico era un’impresa titanica che richiedeva tempi lunghissimi e notevoli energie.
Una svolta significativa si ebbe alla fine degli anni ’80 quando, tramite collegamento via modem alla banca dati della National Library of Medicine di Bethesda (Maryland, USA), si potette cominciare a interrogare per via telematica e in maniera non cartacea la più grande biblioteca medica del mondo con milioni di volumi e periodici scientifici. Tuttavia, il servizio era erogato a pagamento, i tempi di risposta della NLM per quanto veloci, richiedevano che fosse generato un output cartaceo e quindi, sebbene questo nuovo approccio facilitasse la ricerca delle fonti di aggiornamento, era praticamente a disposizione di una sparuta minoranza dei medici, specialmente nei paesi al di fuori degli USA.
Un altro step importante, questa volta rivoluzionario, fu rappresentato dalla creazione di una piattaforma basata sul web che permetteva l’accesso alla NML tramite un motore di ricerca specifico molto efficiente (PubMed). Questa nuova modalità di consultazione delle fonti di informazione medica vide la luce 20 anni fa e determinò sicuramente un paradigm shift del modo di aggiornarsi del medico, soprattutto da quando è possibile accedere alla rete anche con telefoni cellulari smartphone che hanno una ottimale risoluzione grafica e permettono la lettura agevole delle pagine degli output della ricerca su PubMed.
Ma in questa rapida evoluzione della modalità di aggiornamento professionale del medico, bisogna anche considerare l’avvento dei Social Networks dal 2004 con Facebook e successivamente con Twitter. Progressivamente, quando si è capito che la maggior parte delle persone interagiscono quotidianamente con questi strumenti (all’incirca 20 milioni di italiani ogni giorno accedono a Facebook) si è pensato che i Social possano rappresentare un valida via per canalizzare l’informazione specializzata a particolari categorie professionali come quella dei Medici. Pertanto, progressivamente le società scientifiche principali (ad esempio American Society of Nephrology) e le testate scientifiche più prestigiose (New England Journal of Medicine, Lancet, JAMA, Nature, Science, PNAS, tanto per citarne alcune) hanno allestito una propria pagina, consultabile da tutti, in cui vengono pubblicati dei post che descrivono, con un linguaggio più giornalistico, il contenuto di lavori scientifici pubblicati su tali riviste; pertanto attraverso la lettura di tali post, in un formato di rapida e facile consultazione, il Medico oggi può avere una panoramica soddisfacente dello stato dell’arte in varie discipline. Sono inoltre generalmente riportati i necessari link che rimandano alla fonte originale per chi sia interessato all’approfondimento.
Nel nostro giudizio, questa modalità è diventata un’utilissima fonte di informazione scientifica e aggiornamento professionale medico, per la sua facilità di accesso (è possibile consultare FB o Twitter con lo smartphone rapidamente, anche nelle pause lavorative o nella vita quotidiana), per la sintesi dei contenuti e quindi per la possibilità di consultare rapidamente un’ampia gamma di informazione scientifica nella propria disciplina e altre. Naturalmente come tutte le cose nuove, questo canale di informazione scientifica può essere migliorato ed è sicuramente perfettibile, per esempio cercando di mantenere un livello alto della qualità dell’informazione evitando la banalizzazione della “notizia”, come è invece tipico nei blog con discussioni su argomenti medici rivolti per lo più al pubblico non professionale. Inoltre, sicuramente molti Medici non ritengono utile l’interazione con i Social per una serie di motivazioni più o meno valide, tuttavia così facendo si precludono la possibilità di questo canale informativo.
Abbiamo quindi pensato che partendo dal format dei post Fb pubblicati nelle pagine delle principali società mediche di interesse o delle testate scientifiche, può essere utile estrarre le notizie rilevanti per l’aggiornamento del nefrologo, operando una selezione dell’informazione che si può estrarre dai Social, proponendola in una rubrica del Giornale Italiano di Nefrologia. In ogni numero del GIN si proporrà una rassegna dei post più rilevanti comparsi su Fb o Twitter, di argomenti nefrologici o di grandi temi della Medicina. Il post conterrà un riassunto in italiano di rapida consultazione e rimanderà alla fonte originale della ricerca/pubblicazione per chi volesse approfondire.
Relazioni (tra farmaci) pericolose
[Figura 1] Un interessante studio su possibili interazioni fra farmaci che, sebbene singolarmente innocui, circa azioni aritmogene cardiache, possono provocare il prolungamento del QTc, responsabile della temibile torsione di punta, quando associati. L’approccio dei ricercatori bioinformatici della Columbia University (Tal Lorberbaum e colleghi, con Nicholas P. Tatonetti, senior) è stato di matchare i dati estratti da un registro nazionale USA su reazioni avverse a farmaci (1,8 milioni di segnalazioni) con record elettronici di ECG dell’Ospedale annesso alla Columbia University (380.000 record) finalizzato alla ricerca di casi con QTc allungato, mettendoli in relazione con le terapie intercorrenti. Gli Autori hanno scoperto 8 casi di interazioni farmacologiche associate a prolungamento di QTc. Fra queste hanno posto particolare attenzione all’associazione lansoprazolo (inibitore di pompa protonica) e ceftriaxone (cefalosporina), andando a studiare anche gli effetti in vitro sulle cellule cardiache. I due farmaci in associazione hanno una probabilità di 1,4 volte superiore rispetto ai farmaci singoli di prolungare il QTc oltre i 500 msec. I dati sono stati corroborati con studi elettrofisiologici in vitro che hanno dimostrato che i due farmaci bloccano il canale espresso dal gene umano ether-à-go-go-related (hEGR), implicato in queste condizioni. La ricerca è rilevante per il grande uso di questi due farmaci e quindi la frequente associazione degli stessi.VM
Crediti
pagina web: Dangerous Drug Interactions Uncovered with Data Science
Approfondimento
Articolo su Chicago Tribune:
Lavoro originale su Journal of the American College of Cardiology
Comete polmonari e valutazione del volume in ESRD
[Figura 2] Definire il “peso secco” di un paziente in emodialisi ed esprimere un giudizio sull’incremento ponderale interdialitico: task non facile per il nefrologo. Molti pazienti in emodialisi sono anche severi cardiopatici e vasculopatici; pertanto lo stato del volume extracellulare ottimale per il paziente dializzato non è di facile valutazione.I mezzi tradizionali per svelare uno stato di iperidratazione sono: auscultazione toracica (crepitiii), radiografia del torace, presenza di edemi, bioimpedenziometria, monitoraggio della pressione arteriosa. Ciononostante, una sottostima del sovraccarico del volume extracellulare può comportare la comparsa di edema polmonare!
Un recente studio multicentrico (studio LUST) coordinato da Carmine Zoccali e pubblicato in CJASN ha valutato il ruolo delle comete polmonari nello stabilire lo stato di volume extracellulare in un totale di 79 pazienti sottoposti a ripetute ecografie polmonari (1106 per la precisione). I pazienti sono stati esaminati pre- e post-dialisi e i dati ecografici sono stati correlati con l’esame obiettivo (presenza di crepitii e/o edema periferico). Lo studio ha evidenziato che la congestione polmonare rilevata con l’esame obiettivo toracico o con la presenza di edema era inferiore a quella riscontrata dall’esame ecografico con l’analisi delle comete polmonari.
Un approccio costante all’esame ecografico in dialisi, potrebbe diminuire le ospedalizzazioni? Potrebbe ridurre l’esposizione ai raggi X e/o evitare gli accessi al PS per dispnea ed insufficienza respiratoria?
Noi pensiamo proprio di si!
CV
Crediti
Pagina web: In the NEWS: Lung Ultrasound and volume assessment in ESRD
Approfondimento
Articolo originale su Clinical Journal of the American Society of Nephrology
L’estratto di mirtillo può agire sulla presenza di batteriuria e piuria nelle donne anziane?
Le infezioni del tratto urinario (IVU) sono frequenti tra i residenti nelle casa di cura; in particolare, la batteriuria è riscontrata dal 25% al 50%, mentre la piuria nel 90% dei soggetti con batteriuria. Più frequentemente si tratta dell’E. coli e in questi soggetti, terapie antibiotiche non sembrano modificare l’evoluzione e complicanze della batteriuria.In questo contesto i prodotti contenenti estratti di mirtillo rappresentano un’accattivante strategia di prevenzione delle IVU, poiché contengono proantocianidine, in grado di inibire l’adesione delle fimbrie dell’Escherichia coli alle cellule uroepiteliali. Sono stati condotti molti studi, nell’arco di diversi decenni, sui prodotti al mirtillo con prove contraddittorie sulla reale utilità nella prevenzione delle IVU. Manisha Juthani Mehta e collaboratori, del Dipartimento di Medicina Interna dell’Università di Yale, hanno condotto uno studio clinico randomizzato su 185 donne residenti in case di riposo (di cui 147 hanno completato lo studio), trattando il gruppo di studio con due capsule di mirtillo, ciascuna contenente 36 mg di proantiocianidina, somministrate per via orale una volta al giorno e il gruppo controllo con due capsule di placebo somministrate sempre una volta al giorno.
Purtroppo, con questo studio, gli autori hanno dimostrato che non vi è alcuna differenza statisticamente significativa nella presenza di batteriuria e piuria tra il gruppo trattato (29,1%) e il gruppo controllo (29,0%) a distanza di 1 anno.
VDL
Approfondimento
Articolo originale su Journal of the American Medical Association
Farmaci antidiabetici che proteggono anche il rene
Micro o macroalbuminuria sono complicanze frequenti del diabete mellito tipo II e rappresentano indicatori sensibili di morbilità e mortalità in questi pazienti. Nuovi farmaci antidiabetici come Saxagliptin, appartenente alla classe degli inibitori di Dipeptidil-peptidasi IV, oltre che esercitare un efficace controllo glicometabolico, possono avere un effetto benefico sulla nefropatia diabetica, riducendo l’escrezione urinaria di albumina. In uno studio di Ofri Mosenzon e collaboratori della Hadassah Hebrew University Hospital di Gerusalemme, condotto su 16.492 pazienti diabetici, la Saxagliptin era capace di ridurre da un minimo di 19,3 mg/g a un massimo di 245,2 mg/g, il rapporto albumina/creatinina urinarie (ACR), con un effetto massimale nei pazienti con ridotta funzione renale, rispetto a un gruppo di controllo trattato con placebo. Questo effetto sembrava indipendente dalla capacità del farmaco di esercitare un buon controllo glicometabolico e la riduzione dell’escrezione urinaria di albumina si osservava anche nel range di normalità della ACR. In questo studio non c’era evidenza che il trattamento con Saxagliptin influenzasse le variazioni di eGFR nei pazienti trattati.
VM
Crediti
pagina web: Saxagliptin Linked to Albuminuria Improvement
Approfondimento
Lavoro pubblicato online su Diabete Care
Il ruolo della scintigrafia ossea nella diagnosi della calcifilassi
La calcifilassi, anche definita arteriolopatia calcifica uremica (CUA), è una rara complicanza della malattia renale cronica avanzata. La diagnosi è essenzialmente clinica, basata sul riscontro, negli stadi iniziali, di noduli o placche rilevate del sottocute e, nelle fasi più avanzate, da ulcere.
L’esame istologico delle lesioni è un valido ausilio diagnostico, ma spesso per fare diagnosi sono necessarie biopsie multiple, con ritardo nella definizione clinica e nella terapia.
Paul Suchismita e il gruppo del Massachusetts General Hospital hanno condotto uno studio retrospettivo su 49 pazienti affetti da ESRD, 18 con diagnosi clinica di calcifilassi e 31 senza segni di patologia. Tutti i pazienti sono stati sottoposti a scintigrafia ossea con 99Tc MDP (99Tc MetilDiFosfonato). Il radiotracciante si accumulava nel sottocute di 16 pazienti dei 18 con calcifilassi (a livello di eritema e noduli, non di ulcere) e di 1 senza diagnosi di patologia. Inoltre 2 pazienti trattati con sodio tiosolfato presentavano riduzione della quantità di radiotracciante accumulato a livello tissutale. Lo studio conferma l’elevata specificità e sensibilità della scintigrafia ossea con 99Tc MDP per la diagnosi precoce della calcifilassi (prima della formazione delle ulcere) e l’utilità per il monitoraggio terapeutico della patologia.
MG
Approfondimento
Research letter su JAMA Dermatology
Il mezzo di contrasto radiologico provoca meno danno renale di quello che si pensi
L’AKI da mezzo di contrasto preoccupa radiologici e nefrologi, ma non è chiaro quale sia la reale incidenza potendo variare da meno dell’1% a più del 30%. Un recente studio sembrerebbe mitigare questa preoccupazione e il dato che emerge sembra più rassicurante. Emilee Wilhelm-Leen, Maria Montez-Rath e Glenn Chertow della Standord University hanno condotto uno studio su circa 6 milioni di pazienti, estratti da un database americano (Nationwide Inpatient Sample). Erano pazienti maggiorenni che persistevano in ospedale per meno di 10 giorni. Estraendo tutti i casi basandosi sulle 12 più comuni diagnosi associate ad AKI, si riscontrava una incidenza del 5,5% e del 5,6 % rispettivamente nei pazienti che facevano un esame contrastografico e in quelli che non lo facevano. Aggiustando per le comorbidità, la somministrazione del mezzo di contrasto, in realtà, si associava a una probabilità di sviluppare AKI inferiore del 7%. Questo è un dato rilevante, in considerazione dell’elevata attenzione posta spesso da specialisti non nefrologi che eseguono esami contrastografici.
VM
Crediti
Pagina web: Kidney Damage Associated With Imaging Agent May Be Over-Estimated
Approfondimento
Lavoro in pubblicazione su Journal of the American Society of Nephrology
Bloccare l’interleuchina 6 può essere di efficacia terapeutica nella nefrite lupica?
I pazienti con nefrite lupica presentano una più bassa sopravvivenza. La non completa efficacia delle attuali terapie spinge la ricerca ad identificare farmaci innovativi.
L’osservazione che in modelli animali l’inibizione dell’IL-6 fosse correlata con il miglioramento degli outcomes renali nella nefrite lupica, ha spinto Brad H. Rovin, MD, dell’Ohio State University Wexner Medical Center e colleghi, a valutare l’utilità terapeutica del sirukumab, anticorpo monoclonale umano ad alta affinità anti-IL-6. Si tratta di un piccolo studio (in tutto 25 pazienti) randomizzato controllato che ha incluso soggetti con nefrite lupica classe III o IV e proteinuria >0,5 g/die. Il 76% dei pazienti giungeva al termine delle 24 settimane di sperimentazione. Quelli trattati con Sirukumab avevano mantenuto una proteinuria stabile rispetto al basale, ma avevano presentato eventi avversi, per lo più di tipo infettivo. Il gruppo di controllo mostrava un peggioramento della proteinuria, ma nessun evento avverso.
Tuttavia, in 5 dei pazienti trattati con Sirukumab si assisteva ad una riduzione tardiva (alla 28° settimana) della proteinuria maggiore o uguale del 50%. Si trattava prevalentemente di pazienti maschi, con classe IV, proteinuria basale non nefrosica e anti-ds DNA negativi.
Anche se i risultati di questo primo approccio sono stati deludenti, la scarsità del campione esaminato, il lungo tempo intercorso tra il momento della diagnosi di nefrite lupica e l’arruolamento nello studio (circa 14 mesi) e, soprattutto, la buona risposta retrospettiva nei 5 pazienti in esame, fanno pensare che uno studio più ampio e meglio disegnato possa chiarire il ruolo di questo anticorpo monoclonale nella nefrite lupica.
CV
Crediti
Pagina web: Sirukumab Ineffective in Lupus Nephritis
Approfondimento
Articolo su Arthritis and Rheumatology
Prevenzione dell’Insufficienza Renale Acuta associata a mezzo di contrasto: cosa fare?
La letteratura scientifica è ricca di trial clinici sugli eventuali interventi da attuare per prevenire l’insufficienza renale acuta associata alla somministrazione di mezzo di contrasto (CIN). Due recenti meta-analisi hanno confrontato i differenti m.d.c. e le differenti misure di prevenzione (N-acetilcisteina in soluzione salina [NAC], sodio bicarbonato e.v., statine, acido ascorbico). Questi studi hanno dimostrato che non ci sono differenze statisticamente significative nello sviluppo di CIN quando viene utilizzato un m.d.c. a bassa osmolalità. Lo iodixanolo (m.d.c. iso-osmolale) è invece associato ad una significativa riduzione del rischio, anche se non clinicamente significativa, rispetto ai m.d.c. a bassa osmolalità. La somministrazione di NAC, anche a basse dosi, è associata a una riduzione del rischio di CIN quando sono utilizzati m.d.c. a bassa osmolalità, ma non quando si utilizza lo iodixanolo. Tali evidenze non sono confermate quando si utilizzano alte dosi di NAC, o sodio bicarbonato o acido ascorbico. La somministrazione di statine, se associata alla somministrazione di NAC, è efficace nel ridurre il rischio di CIN.
I risultati di queste meta-analisi sono inficiati dalla qualità e dai limiti metodologici dei trial clinici considerati; ciononostante l’esecuzione di procedure che richiedano la somministrazione di m.d.c. non deve essere esclusa per l’eventualità di una CIN (es. la coronarografia in pazienti con malattia renale cronica, nei quali risulta elevata la mortalità per eventi cardiovascolari). È doveroso, quindi, qualora sia necessario utilizzare il m.d.c., effettuare tutte le misure di prevenzione della CIN come l’uso di un’adeguata idratazione periprocedurale, l’uso di m.d.c. a bassa osmolalità ed evitare farmaci nefrotossici.
VDL
Approfondimento
Commento su American Journal of Kidney Disease
Uno strano anticorpo che può curare l’infezione da HIV
[Figura 3] Non si riesce a capire con quale meccanismo funzioni, però si è dimostrato efficace nel mantenere l’infezione da HIV in fase di remissione senza l’uso di farmaci antivirali. Le premesse sono entusiasmanti, tuttavia i dati sono molto preliminari. Stiamo parlando di un anticorpo monoclonale pensato per curare la rettocolite ulcerosa e il morbo di Crohn, specificamente rivolto verso una molecola espressa sui linfociti CD4: α4β7. L’impiego sperimentale di questo anticorpo è stato effettuato da Aftab Ansari della Emory University di Atlanta in scimmie infettate con l’analogo dell’HIV umano (SIV) che è patogeno per questi animali. Ben 9 mesi dopo che gli animali erano stati trattati con la terapia antiretrovirale e l’anticorpo anti-α4β7, i livelli di viremia SIV erano praticamente non detectabili in circolo. Gli animali restano malati, non sono guariti dall’infezione, tuttavia sono in uno stato di remissione completa, senza la necessità di utilizzo di farmaci antiretrovirali. Antony Fauci del National Institute of Allergy and Infectious Disease (NIAID) di Bethesda, coautore di questa pubblicazione, non sa dare una spiegazione. Probabilmente, il blocco della proteina α4β7 può avere un effetto sull’ingresso del virus nei linfociti CD4 a livello intestinale. I dati sono molto interessanti, ma necessita la giusta cautela circa la possibilità di passare queste osservazioni nell’uomo.VM
Crediti
Pagina web: Antibody treatment surprisingly ‘cures’ monkeys of HIV-like infection
Approfondimento
Lavoro originale su Science