The Treatment of Metastatic Renal Cell Carcinoma: An Update

Abstract

The therapeutic landscape for renal cell carcinoma (RCC) has undergone significant changes in recent years. In this Literature review, we offer a synopsis of the latest scientific evidence in this field. The introduction of a standard of care in the adjuvant setting, based on immune checkpoint inhibitors (ICI), was a breakthrough. The efficacy of this treatment, calculated as the relapse risk reduction, can vary depending on multiple factors, whose knowledge is important for the clinician in the therapeutic choice. Another innovation concerns the first-line therapy for metastatic RCC. In this setting, the new standard is represented by an immune combination, a therapy based either on a doublet of ICIs or on a combination between an ICI and one VEGFR-TKI. Making the best choice between the available options requires careful evaluation, in order to tailor the most appropriate treatment for each patient. The critical analysis of the most recent clinical trials is a fundamental tool to tailor the correct clinical management of localized and advanced RCC. Finally, this review focuses on the role of the nephrologist in the management of RCC patients, across different disease settings.

Keywords: Renal cancer, immunotherapy, tyrosin kinase-inhibitors

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Introduzione

Il Carcinoma a Cellule Renali (RCC) è il più comune tipo di tumore del rene dell’adulto e la sua incidenza, dopo essere incrementata nel corso degli scorsi decenni, appare attualmente ancora in aumento [1]. L’istotipo a cellule chiare (ccRCC) è il più frequente, rappresentando all’incirca i due terzi delle diagnosi, mentre la rimanente parte dei casi è classificata, nel complesso, come istotipo non a cellule chiare (nccRCC), un’ampia categoria che comprende diverse istologie, spesso caratterizzati da prognosi completamente diverse. Nel 2022 la World Health Organization (WHO) [2] ha pubblicato la classificazione aggiornata dei tumori urogenitali, che identifica 21 diverse forme di RCC, includendo anche una nuova classe di entità molecolarmente definite.

In circa i due terzi dei casi, il RCC si manifesta come una malattia localizzata o localmente avanzata, ed è quindi ancora suscettibile di una resezione chirurgica curativa, mentre in un terzo dei casi la malattia, già all’esordio si presenta come metastatica; inoltre, un terzo circa dei pazienti resecati radicalmente, andranno incontro, nel tempo, ad una recidiva, locale e/o a distanza [3]. Lo sviluppo di un modello predittivo che consenta di valutare correttamente il rischio di recidiva metastatica è stato oggetto di numerosi studi, che hanno portato allo sviluppo di numerosi score predittivi, per lo più basati su variabili clinico-patologiche, come lo UISS score [4], il Kattan Score [5], il SSIGN score [6] e, probabilmente il più utilizzato, il Leibovich score, nella sua forma più recentemente rivista [7].

La gestione clinica del RCC metastatico (mRCC) è cambiata notevolmente nel corso delle ultime tre decadi. A partire da un paradigma di immunoterapia basato sulle citochine, che portava risultati relativamente scarsi a fronte di una serie di tossicità di rilievo, il trattamento sistemico del mRCC si è evoluto attraverso l’introduzione degli inibitori dei vascular endothelial growth factor receptors (VEGFR-TKI), degli inibitori del mechanistic target of Rapamycin (mTORi), di una nuova forma di immunoterapia, rappresentata dagli immune checkpoint inhibitors (ICI) e, più recentemente, dalle combinazioni tra un VEGFR-TKI ed un ICI o tra due ICI. Tutto ciò ha portato ad un significativo vantaggio in termini di sopravvivenza globale mediana (mOS), passata da meno di un anno negli anni ’90, ad oltre 4 anni in anni più recenti [8].

Lo scopo di questa breve revisione della Letteratura è quello di fornire un punto di vista aggiornato sulle terapie attualmente disponibili per il RCC, sia localizzato che metastatico, discutendone efficacia e tossicità, ponendo l’attenzione anche sulla gestione Nefrologica dei pazienti che a queste terapie vengono avviati.

 

Terapia adiuvante

L’introduzione di uno standard di terapia adiuvante nel RCC è qualcosa di molto recente. Dopo circa due decadi di studi clinici globalmente negativi, Choueri et al. nel 2021 hanno presentato i risultati dello studio Keynote-564, uno studio randomizzato di fase III in cui i pazienti con RCC localizzato sottoposti a resezione radicale, ad intermedio-alto ed alto rischio di recidiva oppure M1NED (cioè con malattia oligometastatica completamente resecata), sono stati randomizzati a ricevere, per un anno, Pembrolizumab (un anticorpo ICI diretto contro il checkpoint immunitario PD-1), oppure placebo [9]. Tale studio ha mostrato una differenza statisticamente significativa per quanto riguarda la sopravvivenza libera da metastasi a distanza a 24 mesi dall’intervento nei pazienti sottoposti a Pembrolizumab rispetto ai pazienti del braccio controllo (80,1% vs 69,9%, HR 0,63, 95% CI 0,49-0,82) [10]. Bisogna però fare dei distinguo: la riduzione del rischio di metastasi è di entità diversa per i pazienti nelle diverse classi di rischio: i pazienti a rischio intermedio-alto (pT2, G4 o pT3 con qualunque grado) hanno una riduzione del rischio di metastasi a distanza pari al 32% a 2 anni, mentre per i pazienti a rischio alto (pT4 con qualunque grado, o pN+ con qualunque pT e qualunque grado) la riduzione del rischio è risultata pari al 40% a 2 anni; nei pazienti M1NED, infine, la riduzione del rischio raggiunge ben il 72%. Purtroppo, nel nostro Paese, l’immunoterapia adiuvante con Pembrolizumab è stata approvata e resa rimborsabile solo in quest’ultimo caso, ovvero per i pazienti M1NED.

Nonostante il netto miglioramento nelle cure rappresentato dall’avere un’opzione di terapia adiuvante per i pazienti con RCC, rimangono, tuttavia, alcune questioni aperte. La prima riguarda i pazienti che recidivano nonostante il trattamento adiuvante. In questa popolazione l’efficacia di un riutilizzo dell’immunoterapia, da sola o in combinazione, rimane per lo meno dubbia, in assenza di studi clinici dedicati. Probabilmente sarà da tenere in conto il momento in cui il paziente progredisce (durante il trattamento, entro breve tempo dalla fine del trattamento, oppure dopo molto tempo dalla fine del trattamento), ma al momento mancano studi specifici, anche solo retrospettivi, che possano guidare tale scelta. Un’altra questione riguarda la possibilità di ottenere risultati ancora migliori nel setting adiuvante, combinando Pembrolizumab con farmaci anti-angiogenici, la cui efficacia rappresenta la spina dorsale del trattamento del mRCC da oltre 15 anni. È al momento in corso uno studio clinico di fase III randomizzato in doppio cieco (MK-6482-022, NCT05239728) che, su una popolazione selezionata con gli stessi criteri del Keynote-564, confronta la terapia adiuvante con Pembrolizumab per un anno con una terapia di combinazione, sempre della durata di un anno, comprendente lo stesso Pembrolizumab ed il Belzutifan (una innovativa molecola antiangiogenica, in grado di inibire selettivamente l’hypoxia inducible factor-a (HIF-2a), molecola essenziale nei complessi meccanismi di angiogenesi). Il completamento di questo studio è atteso per il 2027.

Bisogna tuttavia tenere in conto che Keynote-564 non è l’unico studio di immunoterapia adiuvante condotto nel RCC. Altri due trial di fase III sono stati recentemente conclusi e sono risultati negativi. Si tratta del Checkmate 914 [11], che ha randomizzato i pazienti con RCC resecato a ricevere Ipilimumab (un anticorpo anti CTLA4) + Nivolumab (un anticorpo anti PD-1) oppure placebo, e dell’IMmotion 010 [12], che ha randomizzato i pazienti con RCC resecato a ricevere Atezolizumab (un anticorpo anti PDL-1) oppure placebo. Nel discutere sulla differenza di risultati osservata nel setting adiuvante tra terapie tra loro simili, bisogna tenere conto di diversi fattori. Il primo è senza dubbio la selezione dei pazienti: mentre il Keynote-564 e l’IMmotion 010 avevano criteri di inclusione sostanzialmente sovrapponibili, il Chekmate 914 ha arruolato anche pazienti pT2 a prescindere dal grado, mentre non ha consentito l’arruolamento di pazienti M1NED. Tenuto conto del fatto che i pazienti M1NED sono la categoria che ha ricevuto il maggior vantaggio dalla terapia con Pembrolizumab, la peggiore performance osservata nel Checkmate 914 potrebbe essere almeno in parte ascrivibile a questo aspetto. Le differenze tra le popolazioni arruolate nei tre studi sono riassunte in Figura 1.

Figura 1. Differenze nella popolazione dei pazienti arruolati nei 3 studi clinici randomizzati di fase III di immunoterapia come trattamento adiuvante per il RCC: KEYNOTE-564, IMmotion 010 e Checkmate 914.
Figura 1. Differenze nella popolazione dei pazienti arruolati nei 3 studi clinici randomizzati di fase III di immunoterapia come trattamento adiuvante per il RCC: KEYNOTE-564, IMmotion 010 e Checkmate 914.

Non sembra invece particolarmente rilevante la differenza di durata dei 3 trattamenti testati nei sopracitati studi: 1 anno per il Keynote-564 e l’IMmotion 010, 6 mesi per il Checkmate 914.

Un importantissimo fattore da tenere in conto è rappresentato dalle differenze farmacocinetiche e farmacodinamiche tra i vari ICI utilizzati in questi studi: per quanto riguarda affinità al bersaglio ed engagement, Pembrolizumab appare infatti decisamente superiore sia a Nivolumab, che ad Atezolizumab.

Infine, va considerato un ultimo fattore, che riguarda la malattia neoplastica in sé: l’eterogeneità tumorale. Come dimostrato da Gerlinger et al. [13], il RCC è un tumore estremamente eterogeneo, dotato non solo di una eterogeneità “orizzontale” (cioè, di differenze genomiche tra diverse aree del tumore primitivo, e soprattutto tra il tumore primitivo e le sue sedi di metastasi), ma anche di una eterogeneità “verticale”, laddove alterazioni genomiche si succedono nel tempo. Dal momento che gli studi di terapia adiuvante sopra citati non hanno tenuto conto delle caratteristiche genomiche delle neoplasie, ne consegue che le popolazioni di pazienti arruolati nei diversi studi potrebbero essere tra loro fondamentalmente diverse proprio da un punto di vista genomico e quindi rispondere diversamente all’immunoterapia. Anche questo aspetto potrebbe concorrere a spiegare l’eterogeneità dei risultati osservati.

 

Terapia di prima linea

La strategia decisionale riguardo alla terapia nel setting metastatico non può prescindere dall’inquadramento del paziente all’interno della corretta classe di rischio secondo i criteri IMDC (o criteri di Heng) [14]. Si tratta di 6 criteri che permettono, nell’insieme, di inquadrare il paziente all’interno di un nomogramma prognostico: Performance Status sec. Karnofsky inferiore al 70%, intervallo di tempo tra diagnosi ed inizio della terapia sistemica inferiore ad un anno, emoglobina al di sotto dei valori di normalità, calcemia corretta superiore a 10 mg/dl, numero assoluto di neutrofili al di sopra dei valori di normalità, numero assoluto di piastrine al di sopra dei valori di normalità. In assenza di qualsiasi di questi fattori, la malattia sarà considerata a prognosi favorevole (mOS pari a 43 mesi nella casistica originale); se presenti 1 o 2 fattori, la prognosi sarà intermedia (mOS pari a 23 mesi nella casistica originale), mentre con 3 o più fattori, la prognosi sarà sfavorevole (mOS pari a 8 mesi nella casistica originale).

Allo stato attuale, le linee guida ESMO più aggiornate suggeriscono che il trattamento di prima linea della malattia metastatica debba sempre essere costituito da una immuno-combinazione (cioè, una combinazione comprendente un ICI ed un VEGFR-TKI oppure due ICI diversi tra loro) [15]. Per i pazienti a prognosi favorevole, le opzioni consigliate sono le seguenti combinazioni: Pembrolizumab + Lenvatinib, Pembrolizumab + Axitinib, Nivolumab + Cabozantinib. Per la malattia a prognosi intermedia o sfavorevole, alle sopracitate opzioni si aggiunge la combinazione di Ipilimumab + Nivolumab. Tali raccomandazioni derivano dall’analisi dei principali quattro trial di fase III recentemente conclusi, rispettivamente il Checkmate 214 [16], il Keynote-426 [17], il Checkmate 9ER [18], ed il CLEAR [19]. Sebbene tutte e quattro le opzioni (tre per la malattia a rischio favorevole) siano ugualmente raccomandate, cercare di identificare un criterio di scelta è piuttosto complesso, innanzitutto perché tali terapie di combinazione non sono mai state direttamente confrontate tra loro. Bisognerebbe, pertanto, comparare tra loro i risultati dei diversi trial, considerando che tutte e quattro le terapie sono state confrontate con lo stesso braccio controllo, ovvero la monoterapia con il VEGFR-TKI Sunitinib, il precedente standard di cura per la malattia avanzata.

Considerando l’endpoint primario, ovvero l’OS, al momento della principale pubblicazione di ciascuno studio, l’hazard ratio (HR) è risultata pari a 0,65 per la combinazione di Ipilimumab + Nivolumab (95% CI, 0,54-0,88), 0,68 per quella Pembrolizumab + Axitinib (95% CI 0,55-0,85), e 0,66 sia per quella Nivolumab + Cabozantinib (95% CI 0,50-0,87), che per quella Pembrolizumab + Lenvatinib (95% CI 0,49-0,88), sostanzialmente a dimostrare l’equiefficacia di questi trattamenti. Il tutto al netto dei bias relativo alla differente durata del follow-up: 55 mesi per Checkmate 214, 30,6 mesi per il Keynote-426, 23,5 mesi per il Checkmate 9ER, e 27 mesi per il CLEAR.

Un’altra importantissima variabile è la composizione della popolazione studiata: nello studio della combinazione Ipilimumab + Nivolumab, la popolazione era composta da un 23% di pazienti a rischio favorevole e un 17% di pazienti a rischio sfavorevole, mentre la restante parte era costituita da pazienti a rischio intermedio (il tutto tenendo conto, che pure essendo ammesso l’arruolamento indipendentemente dalla classe prognostica) il target dello studio erano esclusivamente i pazienti a rischio intermedio e sfavorevole. Negli altri 3 trial, invece, il target era costituito da tutti i gruppi di rischio. Nello studio di Pembrolizumab + Axtinib la popolazione conteneva molti più pazienti a rischio favorevole (32% a rischio favorevole, 55% a rischio intermedio, 13% a rischio sfavorevole), mentre nello studio di Nivolumab + Cabozantinib la composizione era più bilanciata (23% a rischio favorevole, 58% a rischio intermedio, 19% a rischio sfavorevole). Infine, lo studio di Pembrolizumab + Lenvatinib aveva più pazienti a rischio favorevole e meno pazienti a rischio sfavorevole (31% a rischio favorevole, 60% a rischio intermedio, 9% a rischio sfavorevole).

In termini di attività antitumorale, se analizziamo il tasso di risposte obiettive (ORR) si può notare che le combinazioni più performanti in questo senso sono state Pembrolizumab + Axitinib (60% vs 40% nel gruppo controllo) e Pembrolizumab + Lenvatinib (71% vs 36% nel gruppo controllo), che incidentalmente sono anche i due studi con il maggior tasso di pazienti a prognosi favorevole. Nivolumab + Cabozantinib (55% vs 28% nel gruppo controllo) e Ipilimumab + Nivolumab (42% vs 27% nel gruppo controllo) hanno comunque riportato risultati più che buoni in tal senso, tenendo conto della popolazione più bilanciata.

Un ultimo punto da analizzare quando si confrontano questi 4 trial è la sopravvivenza libera da progressione mediana (mPFS). Secondo questo endpoint, Ipilimumab + Nivolumab è la combinazione meno performante (11,2 vs 8,3 mesi nel braccio controllo, HR 0,74, 95% CI 0,62-0,88); seguono Pembrolizumab + Axitnib (15,4 vs 11,1 mesi nel braccio controllo, HR 0,71, 95% CI 0,60-0,84), Nivolumab + Cabozantinib (17,0 vs 8,3 mesi nel braccio controllo, HR 0,52, 95% CI 0,43-0,64) e Pembrolizumab + Lenvatinib (23,9 vs 9,2 mesi nel braccio controllo, HR 0,39, 95% CI 0,32-0,49). Quest’ultima combinazione ha ottenuto la mPFS più duratura mai osservata per mRCC, ma bisogna sempre ricordarne la popolazione costituita da un’alta percentuale di pazienti a rischio favorevole. Inoltre, la scelta della mPFS come parametro di validità del trattamento è difficilmente applicabile alla combinazione di Ipilimumab e Nivolumab, la cui efficacia, essendo entrambi immunoterapici, non è fedelmente rispecchiata dalla mPFS. L’immunoterapia, infatti, richiede più tempo per agire, necessitando di reclutare, attivare ed espandere le popolazioni effettrici della risposta immune.

Un confronto tra i quattro studi clinici di fase III che hanno affrontato il trattamento di prima linea del mRCC è riportato nella Tabella I.

In ultima analisi il confronto tra i 4 trial è complesso ed è soprattutto difficile trarne una lettura univoca. Anche perché è opportuno notare che la riduzione del rischio di morte è pressoché identica nei 4 studi. La scelta del trattamento dovrà perciò tenere in considerazione anche altre variabili, oltre alla sola efficacia, come ad esempio il profilo di tollerabilità delle 4 combinazioni.

Un dato interessante che emerge dai 4 trial sopracitati è la miglior performance, in termini di riduzione del rischio di morte, di tutte e 4 le combinazioni nei pazienti a rischio sfavorevole. Tale beneficio si riduce nei pazienti a rischio intermedio e diventa quasi comparabile con il gruppo controllo nei pazienti a rischio favorevole. Un possibile inquadramento di questo fenomeno risiede nelle cause che portano i pazienti ad avere un IMDC score di 3 o più punti. Molte delle variabili menzionate prima tra i criteri di Heng sono infatti indici, diretti o indiretti, di uno stato infiammatorio sistemico: un basso Performance Status, l’anemia, la neutrofilia, l’ipercalcemia e la piastrinosi sono tutti indici di infiammazione, laddove la maggiore attività dell’immunoterapia è ben nota.

Un’ultima nota in merito alla terapia di prima linea riguarda gli studi attualmente in corso, che stanno comparando l’efficacia di combinazioni a 3 farmaci con le immuno-combinazioni sopra descritte, che attualmente rappresentano lo standard terapeutico. Attualmente, l’unico studio i cui risultati sono stati presentati è il COSMIC-313, che ha confrontato Ipilimumab + Nivolumab + Cabozantinib vs Ipilimumab + Nivolumab [20]. Tale studio ha mostrato un vantaggio a favore della tripletta in termini di PFS a 12 mesi (57% vs 49% nel gruppo controllo, HR 0,73, 95% CI 0,57-0,94) e di ORR (43% vs 36% nel gruppo controllo), mentre i dati di OS non sono ancora maturi. Dobbiamo tuttavia chiederci come contestualizzare il risultato relativo alla PFS, dato che, come detto sopra, non è un affidabile indice di efficacia per la combinazione di Ipilimumab e Nivolumab (il braccio di controllo nello studio COSMIC-313 in oggetto). Inoltre, dobbiamo interrogarci anche sull’effettiva opportunità di aggiungere Cabozantinib alla doppietta di immunoterapici, a fronte di una maggiore (e non di poco) tossicità a controbilanciare un risicato beneficio in PFS. Le risposte a questi interrogativi potranno essere formulate quando dati più maturi saranno disponibili per questo ed altri studi riguardanti le triplette. 

Trial Checkmate 214 [16] Keynote-426 [17] Checkmate 9ER [18] CLEAR [19]
Braccio sperimentale Ipilimumab + Nivolumab Pembrolizumab + Axitinib Nivolumab + Cabozantinib Pembrolizumab + Lenvatinib
Braccio controllo Sunitinb Sunitinib Sunitinib Sunitinib
Gruppi prognostici IMDC

 

Popolazione target

Favorevole 23%, Intermedio 61%, Sfavorevole 17%

 

Rischio intermedio e sfavorevole

Favorevole 32%, Intermedio 55%, Sfavorevole 13%

 

Tutti i gruppi prognostici IMDC

Favorevole 23%, Intermedio 58%, Sfavorevole 19%

 

Tutti i gruppi prognostici IMDC

Favorevole 31%, Intermedio 60%, Sfavorevole 19%

 

Tutti i gruppi prognostici IMDC

Follow-up, mesi* 55 30,6 23,5 27
ORR, %

 

Risposta completa

Risposta parziale

Stabilità di malattia

 

Disease control rate

 

Progressione di malattia

42

 

10

32

31

 

73

 

19

42

 

10

32

31

 

73

 

19

60

 

9

51

23

 

83

 

11

40

 

3

37

35

 

75

 

17

55

55

9

46

33

 

88

 

6

28

 

4

24

42

 

70

 

14

71

 

16

55

19

 

90

 

5

36

 

4

32

38

 

74

 

14

OS mediana, mesi (95% CI) 48,1

(36,5-NV)

48,1

(36,5-NV)

NV 35,7

(33,3-NV)

NV 29,5

(28,4-NV)

NV

(33,6-NV)

NV
Hazard ratio per OS (95% CI) 0,65 (0,54-0,88) 0,68 (0,55-0,85) 0,66 (0,50-0,87) 0,66 (0,49-0,88)
Riduzione del rischio di morte, % 35 32 34 34
PFS mediana, mesi 11,2 11,2 15,4 11,1 17,0 8,3 23,9 9,2
Hazard ratio per PFS (95%CI) 0,74 (0,63-0,88) 0,71 (0,60-0,84) 0,52 (0,43-0,64) 0,39 (0,32-0,49)
Riduzione del rischio di progressione o morte, % 26 29 48 61
*alla prima pubblicazione dei risultati di ciascun singolo studio.
Legenda: ORR = tasso di risposte obiettive (Objective Response Rate); OS = sopravvivenza globale (Overall Survival); PFS = sopravvivenza libera da progressione (Progression-Free Survival); CI = intervallo di confidenza (Confidence Interval), NV = non valutabile.
Tabella I. Confronto tra i principali trial clinici di fase III di trattamento di prima linea per mRCC: Checkmate 214, Keynote-426, Checkmate 9ER e CLEAR.

 

Terapia di seconda linea

Quando il discorso si sposta sulle linee oltre la prima, diventa difficile identificare un vero e proprio standard terapeutico. Si tratta infatti di un territorio relativamente poco esplorato, in quanto mancano studi di confronto di alta qualità e con numerosità sufficienti. In questo setting è maggiormente l’esperienza del singolo clinico a guidare la scelta terapeutica, tenendo presente che ogni VEGFR-TKI non utilizzato in prima linea, e che sia consentito dalle autorità regolatorie locali, può essere efficace. D’altronde, l’entità dell’effetto atteso è piuttosto limitata e, verosimilmente, si riduce ad ogni linea successiva [21]. Quanto detto per i VEGFR-TKI in linee successive alla prima non vale invece per gli ICI, la cui efficacia in seconda linea, dopo averli già utilizzati in prima linea sembrerebbe essere estremamente limitata, come dimostrato dallo studio di fase III CONTACT-03 [22]. Un’altra classe di farmaci utilizzabili in questo setting è rappresentata dagli mTORi, nello specifico principalmente l’Everolimus, seppure la sua efficacia appaia abbastanza limitata [23].

Una riflessione finale in merito a quanto detto sul trattamento oncologico della malattia metastatica è a questo punto doverosa. Considerata l’efficacia delle immuno-combinazioni in prima linea, diversa in base alla classe di rischio del paziente, e tenuto conto della potenziale attività in linee successive anche di vecchi farmaci, come Sorafenib ed Everolimus, dobbiamo interrogarci su quale sia la migliore strategia: utilizzare tutte le opzioni maggiormente efficaci già in prima linea, all’interno di combinazioni di più farmaci, oppure impostare una serie di monoterapie sequenziali. I dati attualmente disponibili non consentono di dare una risposta univoca a questa domanda. Tuttavia, è da considerare la possibilità di adattare la strategia terapeutica al singolo paziente, invece di immaginare che la strategia debba essere uguale per tutti. Se la necessità primaria è quella di ottenere una risposta obiettiva, le combinazioni dovranno avere la precedenza. Invece, nell’ottica di massimizzare la sopravvivenza mantenendo un buon profilo di tossicità, le monoterapie sequenziali sembrerebbero – ad oggi – preferibili.

 

Il ruolo del Nefrologo

Il ruolo del Nefrologo nella gestione del paziente con RCC può esercitarsi a più livelli [24]. Nel paziente con RCC radicalmente resecato, il Nefrologo interviene prima dell’intervento (nel paziente con insufficienza renale) e, soprattutto, dopo l’intervento (soprattutto se si è trattato di una nefrectomia radicale), al fine di minimizzare il rischio di insufficienza renale acuta (AKI) o di peggioramento di una pre-esistente insufficienza renale cronica (CKD). Inoltre, in corso di trattamento immunoterapico adiuvante, il Nefrologo è fondamentale per gestire le tossicità immuno-relate e minimizzare le complicanze a lungo termine che possono impattare sulla funzionalità renale. Nel setting palliativo, a prescindere dalla linea di terapia, il Nefrologo è parte integrante della gestione degli eventi avversi renali legati al trattamento, purtroppo poco considerati in molti casi, e del dosaggio dei VEGFR-TKI, specie nei pazienti con coesistente CKD. Nel paziente guarito ed in follow-up il Nefrologo interviene nella preservazione della funzionalità renale a lungo termine e nella prevenzione della nefropatia da mezzo di contrasto, in pazienti che ricevono un numero variabile di TC con mezzo di contrasto che va da 1 a 4 all’anno (in particolar modo all’interno di studi clinici controllati). Esistono poi situazioni speciali, che non possono prescindere in alcun modo l’intervento del Nefrologo: la gestione dei pazienti dializzati che necessitano di trattamento antineoplastico, e la gestione dei pazienti trapiantati, e quindi immuno-soppressi, candidati a ricevere un trattamento Oncologico attivo.

  

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An Integrated Multidisciplinary Approach to the Care of Renal Cancer Patients Undergoing Nephrectomy

Abstract

Kidney cancer is one of the most common cancers globally, ranking 9th and 14th among men and women, respectively. Advances in diagnostic techniques have enabled earlier and potentially less invasive interventions, however, this progress poses a challenge in managing low-malignancy tumors that were previously undiagnosed. To navigate treatment pathways, a deep understanding of the bidirectional relationship between Chronic Kidney Disease (CKD) and Renal Cell Carcinoma (RCC) is essential, influenced by risk factors such as hypertension and obesity.
The debate between partial (PN) and radical nephrectomy (RN) continues to be fueled by a rich body of studies in the last two decades, aiming to determine the precise benefits of renal function preservation and overall survival. However, long-term monitoring remains inadequate. There is an urgent need for heightened clinical vigilance, urging meticulous periodic evaluations that include both eGFR and the urinary albumin-creatinine ratio, to identify potential deteriorations early.
Furthermore, non-neoplastic renal parenchyma requires equal attention, often overshadowed by the assessment of tumor mass. A nuanced analysis is necessary to identify a range of nephropathies that guide more effective therapeutic strategies. A collaborative strategy that brings nephrologists, urologists, nuclear radiologists, oncologists, and pathologists together on a unified platform, focusing on a personalized medicine approach grounded on a profound analysis of individual risk factors, is pivotal in shaping the future of management and prevention strategies.
This approach ensures a detailed therapeutic outlook and facilitates early interventions, marrying vigilance with interdisciplinary cooperation, thereby guarding against late diagnoses and offering patients a robust shield in their battle against kidney afflictions.

Keywords: renal cancer, acute kidney injury, acute kidney disease, chronic kidney disease, nephrectomy, partial nephrectomy, chemotherapy, targeted anticancer agents

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Introduzione

Il tumore del rene rappresenta a livello globale rispettivamente la nona e la quattordicesima causa principale di cancro tra gli uomini e le donne [1]. Le stime relative all’Italia indicano che sono stati diagnosticati 12.900 nuovi casi, con una predominanza significativa nel sesso maschile, mantenendo un rapporto di circa 2:1 rispetto al sesso femminile [2]. Analogamente, il numero di decessi registrati nel 2016 mantiene questa disparità di genere, attestandosi a 3.717. L’analisi dei tassi di sopravvivenza evidenzia che il 71% dei pazienti sopravvive oltre 5 anni dalla diagnosi, una percentuale che si riduce leggermente, al 66%, quando si considera un arco temporale di 10 anni [2, 3]. Questi dati, seppur indicativi di una situazione non facile, mostrano anche segni di speranza e di efficacia nelle strategie di trattamento adottate.

Appare incoraggiante l’aumento nel numero di sopravvissuti al cancro renale, passando da 129.200 nel 2018 a circa 144.400 [3]. Questo incremento, seppur positivo poiché indica un miglioramento nella gestione e nel trattamento della malattia, porta con sé anche la necessità di un focus aumentato sul follow-up a lungo termine e sulla gestione delle complicazioni post-trattamento e delle comorbilità.

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un marcato incremento delle diagnosi di neoplasie in vari organi, un trend che ha colpito specialmente i paesi sviluppati. Questo aumento può essere attribuito a diversi fattori, tra cui l’innovazione tecnologica nel campo diagnostico, una maggiore consapevolezza dei problemi legati alla salute e un accesso facilitato alle cure mediche. Parallelamente a questo, si è osservato il fenomeno della “stage migration” che si riferisce al cambiamento nel profilo dello stadio di diagnosi dovuto, ad esempio, all’introduzione di tecniche diagnostiche più avanzate che consentono la rilevazione di tumori in una fase più precoce e spesso meno avanzata spesso prima dell’insorgenza dei sintomi [4, 5]. Questa evoluzione verso una diagnosi precoce, benché permetta interventi terapeutici tempestivi e spesso meno invasivi, pone anche una serie di sfide, tra cui la gestione di tumori a basso potenziale maligno, che in passato sarebbero potuti rimanere non diagnosticati per tutta la vita del paziente. Il fenomeno della “stage migration” pertanto, se da una parte rappresenta un’opportunità, aprendo la porta a trattamenti potenzialmente meno aggressivi e a un più alto tasso di successo terapeutico, dall’altra pone interrogativi significativi sulla necessità di trattamento in determinate circostanze, alimentando il dibattito sull’opportunità della “vigilanza attiva” come approccio alternativo in casi selezionati [5].

In questo scenario, diventa pertanto fondamentale procedere con un’analisi attenta e ponderata, capace di distinguere tra i casi in cui un intervento precoce può effettivamente fare la differenza in termini di outcome e quelli in cui una strategia più conservativa potrebbe essere più appropriata. Appare inoltre fondamentale considerare che la possibilità di trattare, spesso in maniera risolutiva i pazienti affetti da eteroplasie renali, pone il clinico nella condizione di dover gestire le complicanze a breve e lungo termine del paziente nefrectomizzato.

 

Relazione tra malattia renale cronica e carcinoma renale

Esiste una correlazione bidirezionale tra la Malattia Renale Cronica (CKD) e il Carcinoma a Cellule Renali (RCC). Dati recenti indicano che il 26% dei pazienti affetti da cancro al rene aveva già sviluppato CKD prima dell’intervento di nefrectomia [6].

Alcuni fattori di rischio, quali ipertensione, diabete, fumo e obesità, si presentano come elementi indipendenti predisponenti sia allo sviluppo della CKD che del RCC [6, 7], delineando un quadro di reciproca incidenza e influenza tra le due condizioni patologiche.

Dopo interventi chirurgici, come la nefrectomia, si è registrato che il 39% dei pazienti presentava un tasso di filtrazione glomerulare (GFR) stimato inferiore a 60 ml/min [7], un dato che sottolinea una diretta correlazione tra la procedura chirurgica e una diminuzione della funzione renale. Inoltre, studi recenti hanno evidenziato come, in casi di CKD avanzata, il rischio di cancro sembra essere specifico per determinati siti [8]. Da una ricerca retrospettiva su una vasta coorte di individui adulti negli USA, è emerso che un eGFR ridotto (inferiore a 30 ml/min) era associato a un incremento del rischio di cancro renale e dell’urotelio, mentre non venivano riscontrate associazioni significative tra eGFR e cancro alla prostata, al seno, al polmone, al colon-retto, o altre forme di cancro in generale [9]. Questa osservazione apre la strada a ulteriori indagini, poiché emerge che il rischio di sviluppare un cancro al rene aumenta con la diminuzione della funzione renale, delineando un ciclo in cui CKD e RCC si influenzano reciprocamente in una spirale di deterioramento della salute del paziente.

Nel contesto della CKD, il diabete di tipo 2 emerge come un fattore di rischio significativo, essendo associato ad una maggiore incidenza di tumori in diversi organi, compreso il rene. Questa correlazione potrebbe essere influenzata da una serie di meccanismi, inclusa l’iperinsulinemia, che funge da fattore di crescita, la resistenza all’insulina e le citochine infiammatorie correlate all’obesità [10].

Comprendere in modo approfondito i meccanismi biologici sottostanti non solo potrebbe gettare nuova luce sulle intricate dinamiche che legano CKD e RCC, ma potrebbe aprire nuove strade per il trattamento e persino la prevenzione del carcinoma renale. La medicina personalizzata, basata sull’analisi approfondita dei fattori di rischio individuali, potrebbe rappresentare il futuro nella gestione delle malattie renali croniche e nella prevenzione del carcinoma a cellule renali.

 

La gestione pre-operatoria

Prima di procedere con interventi chirurgici o terapie ablative, è fondamentale identificare i pazienti ad alto rischio di sviluppare CKD e eventi cardiovascolari. Uno screening attento può essere effettuato stimando il tasso di GFR e misurando l’albuminuria, seguendo le indicazioni previste dagli standard globali per la classificazione della CKD.

L’attenzione del clinico in questa fase è focalizzata all’ottimizzazione preoperatoria del controllo glicemico e della pressione sanguigna, soprattutto per i pazienti già affetti da CKD, al fine di limitare il declino della funzione renale dopo la riduzione del parenchima a seguito dell’intervento. Una strategia efficace di prevenzione comprende inoltre l’evitare l’esposizione a nefrotossici e condizioni di ipoperfusione renale, fattori che potrebbero aumentare il rischio di perdita di GFR dopo l’intervento.

Un’attenta misurazione della funzione renale differenziale, comunemente effettuata attraverso scintigrafie nucleari, può aiutare a prevedere un possibile declino del GFR in seguito a una nefrectomia, sebbene tenda a sottovalutare il GFR nel rene preservato pre-nefrectomia. Dopo l’intervento, il GFR differenziale post-operatorio tende a riflettere più accuratamente i danni renali intraoperatori legati all’ischemia e alle dimensioni del tumore asportato.

Il quadro epidemiologico attuale evidenzia una prevalenza elevata di CKD tra i pazienti affetti da small renal masses (SRMs), variabile tra il 10% e il 52% [11]. Tale dato potrebbe essere spiegato dalla presenza di fattori di rischio comuni, quali età avanzata, sesso maschile, l’abitudine al fumo, diabete mellito e ipertensione. Non a caso, si è notata una presenza significativamente maggiore di diabete e ipertensione non solo in pazienti con pregressa CKD, ma anche in quelli con RCC, rispetto a controlli appaiati senza cancro.

A seguito della resezione chirurgica, la prevalenza di CKD aumenta, variando da un minimo del 10-24% a un massimo del 16-52% [12-14]. I fattori di rischio post-operatori per una nuova diagnosi o una progressione della CKD includono, oltre a quelli già citati, anche l’obesità [15], una riduzione del GFR [16], una maggiore dimensione del tumore e una corrispondente riduzione del volume renale [16], ipoalbuminemia [17] e danno renale acuto (AKI) post-operatorio [18].

Inoltre, l’albuminuria è associata alla presenza di tumori, e può rappresentare un fenomeno paraneoplastico, preludio di una prognosi sfavorevole, specialmente in presenza di tumori di grado o stadio avanzato [17].

Pertanto, i pazienti con RCC e fattori di rischio sottostanti per lo sviluppo di CKD post-operatoria dovrebbero beneficiare di un consulto nefrologico prima della nefrectomia, al fine di prevenire possibili complicanze e garantire un approccio terapeutico mirato e individualizzato.

 

La stima della perdita della funzione renale

Allo stato attuale, è fondamentale affrontare la crescente necessità di modelli predittivi efficaci che possano informare le decisioni riguardanti il trattamento dei pazienti con masse renali localizzate, in particolare nel contesto della scelta tra nefrectomia radicale (RN) e nefrectomia parziale (PN).

Studi recenti hanno sottolineato l’importanza di identificare i pazienti ad alto rischio di sviluppare CKD e AKI post-operatorie. In uno studio condotto dal nostro gruppo su 144 pazienti sottoposti a RN è stata riscontrata una significativa incidenza di AKI, pari al 64%. Le analisi hanno evidenziato che un più alto valore di eGFR basale e una minore presenza di restringimenti arteriosi pre-operatori erano associati a un maggiore rischio di AKI e a un declino dell’eGFR al follow-up di un anno [19].

Un altro studio ha cercato di sviluppare un modello predittivo per quantificare il rischio di declino dell’eGFR a ≤45 mL/min/1,73 m² dopo RN. Tra i 668 pazienti soddisfacenti i criteri di inclusione, 183 hanno sperimentato un tale declino. Il modello predittivo risultante, basato su variabili come età, sesso e livello di creatinina preoperatorio, ha dimostrato un significativo beneficio clinico nella facilitazione della decisione tra RN e PN, suggerendo che i pazienti con un rischio maggiore di riduzione dell’eGFR post-operatorio potrebbero beneficiare maggiormente della preservazione del nefrone [20].

Entrambi gli studi condividono una focalizzazione su misure pre-operatorie dettagliate, inclusa l’analisi istologica del tessuto renale sano e l’estimazione dell’eGFR, per informare le decisioni di trattamento. L’integrazione di questi dati in uno strumento quantitativo per identificare i pazienti a rischio di declino dell’eGFR post-operatorio potrebbe facilitare decisioni più informate nel contesto clinico.

Quindi, la combinazione di un’analisi istologica dettagliata e l’uso di un nomogramma predittivo che integra diversi fattori di rischio potrebbero rappresentare passi significativi verso un approccio più personalizzato e mirato nel trattamento dei tumori renali.

Al fine di mitigare i rischi e preservare la funzione renale, è essenziale considerare non solo gli obiettivi oncologici, ma anche le implicazioni a lungo termine di tali interventi sulla funzione renale dei pazienti.

 

La scelta della tecnica operatoria: nefrectomia parziale o nefrectomia radicale

La letteratura scientifica che indaga la funzione renale dopo l’intervento di nefrectomia è molto estesa e vanta oltre 300 studi pubblicati negli ultimi 2 decenni, principalmente focalizzati sulle conseguenze della nefrectomia sulla funzione renale a breve e lungo termine [21]. Nonostante ciò, una percentuale minima di questi ha condotto un monitoraggio dei pazienti per un periodo significativamente lungo; infatti, meno del 5% ha superato la media di cinque anni, e meno del 2% quella di 7,5 anni [21]. Un tema dominante in questi lavori è il confronto tra i benefici derivati dalla PN rispetto alla RN, sia per quanto riguarda la funzione renale post-operatoria che la sopravvivenza complessiva [22].

Se da una parte è riconosciuto che la PN permette una migliore conservazione della massa nefronica, risultando in una più alta funzione renale post-operatoria in media, dall’altra permangono dubbi riguardanti i benefici effettivi in termini di sopravvivenza. Nonostante diversi studi osservazionali ben strutturati abbiano evidenziato vantaggi in termini di sopravvivenza derivanti dalla PN rispetto a RN [21], altri, compreso lo studio clinico randomizzato condotto dall’European Organisation for Research and Treatment of Cancer Genito-Urinary Group (EORTC-GU), non hanno confermato questa affermazione [23]. Questa discrepanza ha alimentato un dibattito continuo sulla reale rilevanza clinica della riduzione della funzione renale indotta dalla nefrectomia derivante da cause mediche. L’analisi recente sullo sviluppo del CKD in seguito a nefrectomia evidenzia quindi un panorama clinico complesso e sfaccettato. A fronte della riduzione chirurgica della massa nefronica, anche individui in buona salute manifestano un rischio accresciuto di CKD progressiva, ESKD e una mortalità generale e cardiovascolare più alta. Le linee guida attuali, che identificano gli stadi del CKD sulla base di un eGFR <60 mL/min per 1,73 m², potrebbero non riflettere pienamente la gamma di rischi clinici presenti in questa popolazione. Nonostante non tutti gli individui con un eGFR inferiore a 60 sviluppino un CKD progressivo post-nefrectomia, emerge chiaramente una correlazione con un rischio maggiore di mortalità, paragonabile a quello dei pazienti con CKD di qualsiasi altra eziologia [24]. La fluttuazione degli indici di eGFR, a volte in modo altalenante o con remissioni, rende la diagnosi e il monitoraggio una sfida ancora maggiore.

È essenziale, dunque, che in ambiente clinico si mantenga un elevato grado di vigilanza: il paziente con un eGFR che oscilla intorno al valore soglia dovrebbe essere sottoposto a controlli periodici, che comprendano non solo la misurazione dell’eGFR, ma anche del rapporto albumina-creatinina urinario. In questo modo, eventuali deterioramenti possono essere prontamente identificati e affrontati, evitando ritardi nel riferimento a un nefrologo. Un approccio simile potrebbe non solo garantire un monitoraggio più attento, ma anche fornire una base più solida per affrontare il dibattito in corso sulla rilevanza clinica del CKD post-nefrectomia rispetto ad altre cause di CKD.

 

L’analisi del parenchima non neoplastico

L’attenzione nella valutazione patologica delle nefrectomie tumorali è stata storicamente centrata sulla massa renale. Tuttavia, ricerche recenti hanno messo in luce l’elevata incidenza di malattie renali non neoplastiche presenti nei reni affetti. Tra queste, la nefropatia diabetica è la più frequente, seguita da altre condizioni come la glomerulosclerosi focale segmentaria (FSGS) e la nefroangiosclerosi ipertensiva, oltre a una vasta gamma di altre nefropatie [25]. Nonostante l’importanza di queste scoperte, nel 60% dei casi queste importanti informazioni sono state trascurate nella prima lettura della biopsia [26], un aspetto che sottolinea l’urgenza di un approccio più oculato e dettagliato nella valutazione dei campioni bioptici.

Attualmente, negli Stati Uniti, vi sono più di 300.000 sopravvissuti al cancro del rene, e si stima che il 15% di questi, pari a circa 45.000 pazienti, abbia delle malattie renali mediche sottostanti, diagnosticabili solo tramite un’accurata analisi patologica [27].

In risposta a questo, dal 2010, il College of American Pathologists ha richiesto l’esame del parenchima renale non neoplastico nella relazione sinottica del cancro del rene [25]. Tuttavia, il cammino verso la piena adesione a questa normativa è ancora lungo, con una percentuale significativa di patologi che non seguono ancora tale indicazione, come evidenziato da recenti studi e sondaggi condotti in Europa.

La necessità di un intervento correttivo è ancora più accentuata considerando che una diagnosi accurata del parenchima non neoplastico non solo potrebbe portare all’identificazione di pazienti affetti da malattie glomerulari, tubulo-interstiziali o vascolari che richiedono una gestione medica addizionale, ma potrebbe anche evitare complicanze future, facilitando l’adozione di strategie terapeutiche più efficaci.

In questo quadro, è di fondamentale importanza che urologi e nefrologi collaborino attivamente con i patologi, insistendo per una revisione specifica e approfondita del parenchima non neoplastico, specialmente in presenza di pazienti con RCC che presentano diabete, ipertensione o proteinuria.

Lo sviluppo di una sinergia tra i diversi specialisti rappresenta non soltanto un argine nel limitare le diagnosi incomplete, ma anche un sostegno concreto per i pazienti, fornendo loro un quadro clinico più dettagliato e una prospettiva terapeutica più affidabile, riducendo inoltre il rischio di diagnosi tardive di patologie renali post-operatorie, data la frequenza non trascurabile di malattie renali sottostanti non diagnosticate.

 

Possibile sequenza di interventi nella gestione del paziente nefrectomizzato

Da quanto descritto nei paragrafi precedenti emerge la presenza di un gran numero di specialisti, coinvolti nel processo di cura del paziente nefrectomizzato. Tale processo, sintetizzato nella Figura 1, consta di una parte pre-operatoria che inizia al momento della diagnosi di una massa renale potenzialmente trattabile chirurgicamente. Il ruolo del nefrologo in questo contesto è finalizzato ad effettuare una prima valutazione della funzione renale al fine di ottimizzare l’impatto dei fattori di rischio clinici e terapeutici che possono contribuire alla progressione del danno e ipotizzare il decadimento della funzione renale a seguito dell’intervento. Per ottenere questo secondo obiettivo è importante l’interfaccia con i colleghi urologi che eseguiranno l’intervento e i medici nucleari grazie ai quali è possibile avere delle informazioni più precise in merito al contributo del singolo rene al raggiungimento della funzione renale complessiva. A seguito di questa collegialità sarà possibile pianificare la migliore strategia di intervento in un paziente adeguatamente preparato affinché possa risentire il meno possibile la perdita del parenchima.

Nell’immediato post-operatorio, la presenza di uno specialista nefrologo con competenza nella gestione dell’AKI o della malattia renale acuta (AKD) offre sicuramente un valore aggiunto per effettuare una diagnosi precoce di eventuali riduzioni del filtrato non dipendenti dalla riduzione del parenchima e per mettere in atto una adeguata terapia di supporto in questo contesto clinico. L’anatomopatologo è un altro specialista coinvolto in questo contesto clinico: la valutazione del parenchima renale non neoplastico appare fondamentale per pianificare il proseguo del percorso di cura, indipendentemente dalla severità della patologia oncologica di base. Con l’allontanamento progressivo dal momento dell’intervento chirurgico, assumerà un ruolo sempre maggiore il nefrologo, anche per valutare le conseguenze post intervento a lungo termine e integrare queste conoscenze in un eventuale percorso di cura oncologico.

Figura 1. Rappresentazione grafica dell’intervento multidisciplinare nella gestione pre-, intra- e post-operatoria del paziente nefrectomizzato per neoplasia.
Figura 1. Rappresentazione grafica dell’intervento multidisciplinare nella gestione pre-, intra- e post-operatoria del paziente nefrectomizzato per neoplasia.

 

Conclusioni

Il cancro al rene rimane una patologia non adeguatamente riconosciuta e studiata all’interno della comunità nefrologica. Nonostante sia una malattia frequentemente riscontrata nella pratica nefrologica generale e che la sua incidenza sia in aumento, è fondamentale che i nefrologi in attività possiedano una conoscenza approfondita della sua biologia e dei relativi trattamenti.

Nel corso di questa rassegna, abbiamo cercato di focalizzarci sulla gestione multidisciplinare di questa condizione sempre più frequente. L’evidente correlazione tra RCC e altre malattie renali, specialmente considerando le nefropatie frequentemente associate, sottolinea la necessità di un’attenzione focalizzata sul parenchima non neoplastico durante le valutazioni patologiche.

Guardando al futuro, auspichiamo pertanto una collaborazione più stretta e coordinata tra nefrologi, urologi, medici nucleari, patologi e oncologi, assicurando così una gestione più olistica e centrata sul paziente, dove il focus non sia soltanto sul tumore, ma anche sulle potenziali malattie renali coesistenti, aprendo la strada ad un approccio clinico più completo e arricchente per il benessere del paziente.

 

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