“Green” Hemodialysis: The Centralized Acidic Concentrate from the Dialysis Center of Policlinico of Modena

Abstract

Introduction and aim of the study. The centralized preparation and distribution system of acidic concentrate represents a true innovation in hemodialysis, when compared to acid bags, in terms of convenience and eco-sustainability. The aim of this study is to compare the use of traditional acid bags with the centralized distribution system of acidic concentrate, with particular attention to differences in terms of eco-sustainability and convenience.
Methods. At the Nephrology Dialysis and Renal Transplantation Unit of the University Hospital of Modena was installed the Granumix system® (Fresenius Medical Care, Bad Homburg, Germany). Data collected before the introduction of the Granumix® system (including the used acid bags, boxes and pallets used for their packaging, liters of acid solution used and kilograms of waste generated from wood, plastic, cardboard and residual acid solution) were compared with those collected after the implementation of the Granumix® system. Factors such as material consumption, volume of waste generated, unused and wasted products, time required for dialysis session preparation and nurses’ satisfaction were analyzed to document which system was more environmentally sustainable.
Results. Data collected in 2019 at our Dialysis Center showed a consumption of 30,000 acid bags, which generated over 20,000 kg of waste from wood, plastic and cardboard, and approximately 12,000 liters of residual acid solution to be disposed of, with a handling weight by operators reaching nearly 160,000 kg. The use of the centralized distribution system of acidic concentrate resulted in a significant reduction in waste generated (2,642 kg vs 13,617 kg), residual acid solution to be disposed of (2,351 liters vs 12,100 liters) and weights handled by operators (71,522 kg vs 158,117 kg).
Conclusions. The acidic concentrate appears to be better suited to the sustainability challenge that dialysis must faces today, particularly due to the significant increase in the number of patients, which leads to a higher number of treatments and, therefore, a growing demand for eco-sustainable products.

Keywords: Hemodialysis, Innovation, Sustainability, Acidic Concentrate, Central Dialysis Fluid Delivery System

 

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Introduzione

Dopo circa 80 anni dal primo trattamento emodialitico, sono tante le sfide che la dialisi deve ancora affrontare. Tra le più importanti va menzionato il significativo trend dell’aumento del numero di pazienti in dialisi che di conseguenza porterà a un aumento nell’utilizzo di risorse naturali e nella produzione di rifiuti [1].  La consapevolezza che la maggior parte dei rifiuti della dialisi viene smaltita senza entrare nel processo del riciclaggio (materiale contaminato da sangue o fluidi biologici, prodotti assimilabili a farmaci) è uno stimolo a una crescente necessità di sviluppare e adottare soluzioni ecosostenibili che riducano l’impatto ambientale e l’inquinamento. Inoltre, l’adozione di soluzioni eco-friendly rappresenta un investimento per le aziende del settore sanitario poiché può generare vantaggi economici nel lungo periodo. Una recente innovazione tecnologica in ambito emodialitico è l’implementazione di un sistema automatizzato per la produzione e distribuzione del concentrato acido.  

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Medical Treatments in Oncology 2023

Abstract

Medical Oncology since the beginning of the new millennium has recognized a great positive evolution in the care of cancer.
In fact, for more than 60 years the two classical pillars of the antineoplastic therapy were hormone therapies mainly applied in breast, prostate and thyroid cancer, and chemotherapy seldom curative and heavily toxic.
Nowadays some new treatments are available thanks to the advances in genomics, proteomics and molecular biology of tumor cells either to the advances in immunology studies.
Specific pathways in cancer cells have been recognized and hit by targeted drugs.
Monoclonal antibodies, tyrosine kinase inhibitors, checkpoint inhibitors, cellular therapies and vaccines are the new tools for oncologists.
The last discovery is the antibody-drug conjugates (ADCs), which combine monoclonal antibodies with cytotoxic drugs.
Unfortunately, these impressive advances have caused the appearance of new scientific, social, and financial problems.
All these topics are discussed in the article.

Keywords: oncology, survival, therapy, innovation

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Introduzione

L’evoluzione della terapia antitumorale ha conosciuto un’importante accelerazione negli ultimi 15-20 anni al seguito dei progressi registrati nella ricerca genetica, biomolecolare e farmaceutica.

In questo articolo cercheremo di riassumere e spiegare questi progressi e le positive ricadute sulla cura dei malati di cancro.

Storicamente la cura dei tumori solidi si avvale della chirurgia, della radioterapia e dell’oncologia medica. La chirurgia resta in molte neoplasie solide l’arma principale sia in fase di cura primaria che di trattamento della malattia metastatica.

La riduzione degli interventi invalidanti o mutilanti è stata il grande progresso della seconda metà del XX secolo: quadrantectomia anziché mastectomia, nefrectomie parziali, chirurgia function sparing nei tumori della testa e del collo e dei sarcomi degli arti sono alcuni esempi. Contemporaneamente ha preso slancio la chirurgia delle metastasi (soprattutto epatiche e polmonari) e delle recidive locali, migliorando il tempo di sopravvivenza e rallentando la progressione di malattia [1].

Altro progresso si è registrato nelle terapie ablative loco-regionali con radiofrequenze, microwave, transcatheter arterial chemoembolization (TACE), TransArterial RadioEmbolization (TARE) e vertebroplastica per controllare la malattia oligometastatica [2].

Soprattutto la discussione multidisciplinare dei casi ha permesso di articolare meglio il tempo della terapia chirurgica con il tempo delle terapie non chirurgiche.

La radioterapia ha perfezionato la sua capacità di selezionare più accuratamente i tessuti neoplastici e sani, in modo da avere una più precisa capacità di incidere sul volume bersaglio [3, 4].

Inoltre, l’applicazione di particelle corpuscolate (protoni e ioni carbonio) e accelerate ha permesso l’irradiazione di tessuti profondi e circoscritti [5].

Ma certamente i progressi più sostanziali si sono registrati nel campo dell’oncologia medica.

Fino a fine all’ultimo decennio del XX secolo le due armi di medicina oncologica erano l’ormonoterapia, ma solo per alcuni tumori ormonosensibili quali carcinoma della mammella e carcinoma della prostata, e soprattutto la chemioterapia.

Con i progressi nei campi della biologia molecolare hanno preso corpo le terapie mirate contro bersagli cellulari e le varie terapie immunitarie.

Passiamo in rassegna i trattamenti ad oggi disponibili nelle varie classi di farmaci.

 

Ormonoterapia

Lo scopo dell’ormonoterapia è di rendere il microambiente tessutale dell’organismo sfavorevole alla replicazione di cellule ormonosensibili.

La manipolazione ormonale si può ottenere con la terapia ablativa (ovariectomia, orchiectomia, adrenalectomia, ipofisectomia) ormai pressoché abbandonata, con la terapia additiva (ormoni tiroidei, estrogeni nel carcinoma della prostata, progestinici, glicocorticoidi), con agonisti e antagonisti recettoriali o di funzione (tamoxifene, LHRH, fulvestrant, analoghi della somatostatina, antiandrogeni) e infine con inibitori della biosintesi ormonale (abiraterone, enzalutamide, antiaromatasici).

L’ormonoterapia può essere praticata in fase postoperatoria (setting adiuvante) o in malattia avanzata e possono esserci linee successive di applicazione anche in malattia metastatica con rotazione tra le varie molecole [6, 7].

Soprattutto nel carcinoma della mammella l’efficacia della terapia ormonale è strettamente legata all’espressione dei recettori ormonali con attività direttamente proporzionale alla loro concentrazione. Meno stretto è il rapporto tra espressione dei recettori per gli androgeni ed efficacia della terapia nei tumori della prostata.

La resistenza alla terapia ormonale tende ad essere di tipo primario (non espressione o scarsa attività intracellulare dei recettori specifici di membrana, come ad esempio i recettori per gli estrogeni) oppure resistenza secondaria per ridotta espressione dei recettori, per scarsa affinità di legame tra farmaco e recettore, per diminuita efficienza del pathway intracellulare secondario all’attivazione dei recettori, per modificazione strutturale del recettore. In questo caso la resistenza può essere totale o solamente di alcune popolazioni cellulari neoplastiche, il che giustifica l’insorgenza di resistenza non totale e con risposta ancora parziale alla terapia.

Recentemente nel carcinoma della mammella si è apprezzata l’attività sinergica tra farmaci inibitori delle cicline (anti CDK 4/ CDK6) o inibitori di mTOR e antiestrogeni.

Gli inibitori delle chinasi ciclina-dipendenti (CDK4/6) di ultima generazione come il ribociclib, il palbociclib e l’abemaciclib hanno mostrato una notevole efficacia clinica e bassi profili di tossicità in associazione alla terapia ormonale nel trattamento del tumore mammario ER+/HER- metastatico. Le chinasi CDK4/6 sono attivate in seguito al legame con la loro proteina regolatrice, la ciclina D, e regolano le fasi da G1 a S del ciclo cellulare tramite la fosforilazione della proteina Rb [8-12].

In generale, i profili di tossicità degli inibitori CDK 4/6 sono simili, ma ogni farmaco ha tossicità specifiche. Gli effetti collaterali più comuni sono neutropenia, leucopenia, affaticamento, nausea, infezioni, artralgia, anemia, mal di testa e diarrea. A parte la neutropenia e la leucopenia, la maggior parte dei pazienti ha riportato tossicità di grado 1 o 2. La neutropenia e la leucopenia di grado 3 o 4 registrata soprattutto con palbociclib e ribociclib, sono state gestite principalmente con l’interruzione e/o la riduzione della dose. Casi di polmoniti interstiziali sono infrequenti ma di notevole entità clinica. Abemaciclib è stato associato a un’incidenza significativamente maggiore di diarrea e incremento della creatinina. Recentemente Abemaciclib è stato approvato in setting adiuvante nelle donne operate da carcinoma della mammella ER +/ HER negativo ad alto rischio di ricaduta (linfonodi positivi, tumore >pT2, Ki 67 elevato).

Nel carcinoma della prostata i nuovi farmaci inibitori della sintesi degli androgeni (Abiraterone ed Enzalutamide) sono stati dapprima approvati come seconda linea nella malattia metastatica [13, 14].

Abiraterone inibisce selettivamente l’enzima 17alfa-idrossilasi/C17,20-liasi (CYP17). Questo enzima è normalmente espresso ed è necessario alla biosintesi degli ormoni androgeni nei tessuti testicolari, surrenali e nei tessuti prostatici neoplastici.

CYP17 catalizza la conversione di pregnenolone e di progesterone in precursori del testosterone, rispettivamente Deidroepiandrosterone (DHEA) e androstenedione, mediante 17alfa-idrossilazione e clivaggio del legame C17,20. L’associazione tra Abiraterone + Prednisone + LHRH agonisti azzera la concentrazione di androgeni circolanti e interferisce con la crescita delle cellule neoplastiche di carcinoma della prostata. Ipotensione, ipokaliemia e edemi periferici sono gli effetti collaterali più comuni. L’epatotossicità è rara ma di gravità variabile [13, 15]. Recentemente Abiraterone è stato approvato in prima linea metastatica e in terapia adiuvante per quadri clinici ad alto rischio [15].

Enzalutamide è un potente antiandrogeno che agisce con tre meccanismi diversi: inibisce competitivamente il legame degli androgeni al recettore omologo, impedisce la traslocazione nucleare dei recettori attivati, inibisce l’associazione del recettore androgenico attivato con il DNA anche in situazione di sovraespressione dei recettori degli androgeni e nelle cellule del cancro della prostata resistente agli anti-androgeni [14]. Viene impiegato come terapia di seconda linea nel carcinoma prostatico metastatico resistente alla bicalutamide. Come effetti collaterali determina neuropatie, astenia, diarrea e disturbi cognitivi.

Apalutamide è il terzo farmaco di recente approvazione per il carcinoma della prostata sia in setting M0 che in malattia M+. Il farmaco, un antiandrogeno non steroideo, lega direttamente al recettore androgenico e impedisce la traslocazione nucleare del recettore androgenico, impedisce il legame con il DNA, impedisce la trascrizione del recettore mediata ed è privo di attività agonista nei confronti del recettore androgenico. Gli effetti collaterali maggiori sono: eruzione cutanea, fratture, artralgia, astenia, calo ponderale, cadute [16].

In conclusione, la terapia ormonale riveste ancora oggi un importante ruolo nella cura dei tumori. Sia la ricerca farmacologica che quella clinica sono impegnate a trovare nuovi farmaci e nuovi setting di terapia.

 

Chemioterapia 

La chemioterapia antitumorale nasce dal punto di vista teorico e di laboratorio in Germania ad inizio ’900 quando Paul Ehrlich pensando ad un approccio mirato che colpisca solo le cellule tumorali preservando le cellule sane conia il termine “magic bullet” [17].

In realtà l’idea ancora più rivoluzionaria dello studioso tedesco è di sintetizzare farmaci con processi chimici e dunque in modo pressoché continuo superando le debolezze della farmacologia estrattiva. Di qui il nome di “Chemioterapia”.

In pratica questo sogno non si concretizzerà ed anzi il primo farmaco attivo anticancro, la mecloretamina, sarà sintetizzato 40 anni dopo e applicato per la prima volta su pazienti leucemici negli Stati Uniti.

La chemioterapia è stata per circa 60 anni la terapia fondamentale per la cura dei tumori sia ematologici che solidi, sollevando molte speranze, ma con risultati incerti in concreto.

Il fondamento farmacologico della chemioterapia è di uccidere direttamente le cellule oncologiche in attiva replicazione colpendo alcuni bersagli necessari per la duplicazione cellulare: DNA, RNA, ciclo dei folati, fuso mitotico, ciclo delle purine e delle pirimidine [17, 18].

La mancanza di specificità di azione ha determinato i grossi problemi di tossicità della chemioterapia che agisce anche contro le cellule normali in replicazione. Per tale motivo si determinano le tossicità midollari, la nausea e il vomito, l’alopecia, la mucosite [17-19].

Ma, a distanza di tempo, più pericolosa ancora è l’azione di modificazione del DNA che può causare tossicità tardiva o remota quali cardiopatie, epatopatie, neuropatie e secondi tumori.

Un altro problema connesso con la chemioterapia antiblastica è il lungo tempo richiesto per il riconoscimento della sostanza attiva, la sua sintesi, lo studio di attività preclinica e clinica e l’effettiva produzione della molecola.

I chemioterapici possono essere estrattivi da prodotti naturali (alcaloidi della vinca, taxani, antracicline, camptotecine, trabectedina) o sintetici (5-Fluorouracile (5-FU), methotrexate, gemcitabina, alchilanti) [17-19].

In realtà anche i farmaci estrattivi dopo un periodo richiesto per riconoscere e riprodurre la struttura molecolare, in un secondo momento divengono semisintetici o prodotti totalmente con processi chimici di sintesi.

Ma come dicevamo è soprattutto il lunghissimo tempo (in media 10 anni) richiesto dagli studi di attività, efficacia, tossicità, suddivisi classicamente in 4 fasi, a creare grosse difficoltà nel rapido utilizzo del farmaco in clinica [17].

Nonostante questi problemi la chemioterapia ad oggi è ancora il trattamento più impiegato nella terapia oncologica sia come mono-chemioterapia che associata con altri chemioterapici (polichemioterapia) o con farmaci biologici o immunoterapici (terapia di combinazione o COMBO) [17-19].

Le classi di farmaci chemioterapici in impiego quotidiano sono numerose e le molecole sono classificate secondo il bersaglio d’azione o la struttura chimica [17-19]:

  • Antimetaboliti pirimidinici (5-FU, capecitabina, citosina arabinoside)
  • Antimetaboliti purinici e antifolati (cladribina, fludarabina, 6-mercaptopurina, methotrexate, pemetrexed)
  • Agenti alchilanti (ciclofosfamide, ifosfamide, melfalan, nitrosouree, busulfan, clorambucil, tiotepa, temozolomide)
  • Epipodofillotossine (etoposide, teniposide)
  • Antibiotici antitumorali (adriamicina, epirubicina, daunorubicina, doxorubicina liposomiale, bleomicina, mitomicina)
  • Alcaloidi della vinca (vincristina, vinblastina, vinorelbina, vindesina)
  • Taxani (paclitaxel, docetaxel, nab paclitaxel)
  • Inibitori topoisomerasi I (irinotecan, topotecan)
  • Derivati del platino (cisplatino, carboplatino, oxaliplatino)
  • Farmaci anti DNA di origine marina (trabectedina, eribulina)

La maggior parte dei chemioterapici non può essere somministrato o praticato per lunghi periodi per il rischio di danno irreversibile agli organi sani, soprattutto midollo, reni e fegato. Pertanto sia in mono terapia che in polichemioterapia il trattamento va somministrato a cicli di trattamento con un periodo di intervallo per permettere la ripresa dalle tossicità indotte.

Un uso particolare dei chemioterapici è l’impiego a dosi sovra-massimali o a cicli ravvicinati (accelerazione) in modo da ottenere un’azione più intensa per un’elevata concentrazione di farmaco nel sangue o nei tessuti [17, 18].

Tale applicazione necessita però di un supporto emopoietico in forma di fattori di crescita leucocitari o di trapianto di cellule staminali.

Va detto che il periodo storico delle alte dosi di farmaco soprattutto nei tumori solidi si è concluso senza particolari benefici in termini di guarigioni o di prolungamento di sopravvivenza.

La chemioterapia attualmente è ancora impiegata in circa il 60% dei casi di tumore, ma lo sforzo dell’accademia e dell’industria si sta rivolgendo ad altri farmaci [17-19].

 

Farmaci a bersaglio molecolare

Hanahan e Weiberg hanno identificato sette processi tipici ma non esclusivi della cellula tumorale [20-22]:

  • proliferazione
  • adesione
  • invasione e migrazione
  • metastatizzazione
  • neoangiogenesi
  • inibizione dell’apoptosi
  • differenziazione del metabolismo rispetto alle cellule normali
  • riproduzione non controllata della crescita tumorale
  • perpetuazione dei processi.

Tutti i succitati processi sono controllati a livello genetico e si realizzano con processi a livello di superficie e di membrana cellulare e di pathway intracellulari sostenuti da processi biochimici endogeni che richiedono disponibilità di energia.

La fonte di energia primaria della cellula normale o neoplastica è l’adenosina trifosfato (ATP).

La produzione dei segnali intracellulari avviene tramite la scissione di una molecola di ATP in adenosina difosfato (ADP) e fosforo (P) e la conseguente fosforilazione di residui aminoacidici (di tirosina, alanina, treonina) è il momento fondamentale per la trasduzione del segnale. L’attivazione dei pathway intracellulari è altresì il fulcro dei processi di cancerizzazione descritti da Hanahan e Weinberg e può diventare il bersaglio (target) dei farmaci di nuova generazione [20-22].

I pathway intracellulari possono essere bloccati o interferiti sul primo recettore posto in posizione iuxtamembrana, cioè sulla membrana cellulare che pone in relazione il microambiente esterno e la fase intracitoplasmatica [20-22].

I farmaci che interagiscono con i recettori sono o anticorpi monoclonali che agiscono sulla parte extramembrana impedendo ai segnali biochimici di stimolo cellulare di legarsi allo stesso recettore o piccole molecole di basso peso molecolare che sono in grado di entrare nella cellula e di collocarsi nella tasca dell’ATP bloccando i processi di fosforilazione [20-22].

Le caratteristiche fondamentali dei farmaci a bersaglio molecolare a confronto dei chemioterapici sono riassunte nella Tabella I.

Farmaci a bersaglio molecolare Farmaci chemioterapici antitumorali
Ricerca & Sviluppo

Ricerca bersaglio. Progettazione del farmaco

Possibili molteplici analoghi del farmaco

Ricerca del farmaco

Studio azione

Applicazione clinica

Rari gli analoghi

Azione Citostatica Citocida
Fase attività ciclo cellulare Prevalentemente S Differente fase specifica
Bersaglio Plurimi ma uno prioritario DNA in replicazione
Dose Non personalizzata Personalizzata
Durata terapia

Indeterminata

Fino a progressione o tossicità

Generalmente mesi

Tossicità dose correlata

Risposta Non volumetrica, tissutale Volumetrica (RECIST)
Dose/Risposta Non dose correlata Dose correlata
Fasi di studio I, III, IV I, II, III, IV
Tossicità Non dose correlata Dose correlata
Resistenza

Mutazione bersaglio

Primaria e secondaria

Pleiotropica

Più importante la secondaria

Tabella I. Caratteristiche fondamentali dei farmaci a bersaglio molecolare. (A. Comandone 2023)

Riassumiamo brevemente le caratteristiche e l’azione di alcune classi di farmaci a bersaglio molecolare.

Farmaci diretti contro i recettori di crescita cellulare posti sulla membrana

Sono generalmente anticorpi monoclonali rivolti contro la parte extramembrana dei recettori transmembrana [23].

I recettori bersaglio sono al momento membri dell’Epidermal Growth Factor (EGFR, HER 2, HER 3, HER4) e sono recettori transmembrana [23, 24].

Il ligando fisiologico del recettore si lega al dominio extracellulare e lo stabilizza in una configurazione che permette la dimerizzazione, condizione essenziale per portare alla fosforilazione e alla produzione dei segnali successivi intracellulari (downstream signaling). Questo processo è condiviso dalla cellula normale e dalla cellula neoplastica. La differenza fondamentale è che nella cellula normale il processo si autolimita e si esaurisce dopo la replicazione cellulare, mentre nella cellula neoplastica si autosostiene e si perpetua.

I pathway intracellulari attivati dai recettori EGFR/HER sono Ras-Raf-MEK-ERK- e PI3K-Akt-mTOR [23, 24].

La ricerca farmacologica ha per ora prodotto numerose molecole attive.

EGFR o HER 1 sono bersaglio specifico di due monoclonali Cetuximab e Panitumumab e di numerose piccole molecole che agiscono nella parte intracellulare e sulla tasca dell’ATP: Gefitinib, Erlotinib, Osimertinib. In generale in clinica i due monoclonali sono associati a chemioterapia, mentre le piccole molecole agiscono come agenti singoli. Carcinoma del colon per i primi due farmaci e Carcinoma polmonare non microcitoma (NSCLC) sono i due tumori che si giovano maggiormente di queste terapie [25].

Su HER 2, recettore iuxtamembrana presente soprattutto sulle cellule di carcinoma della mammella (18% dei casi) e più raramente del carcinoma dello stomaco (9%), agiscono a livello extramembrana gli anticorpi monoclonali (Trastuzumab anti HER 2, Pertuzumab che inibisce HER 2 e HER 3) e piccole molecole che agiscono nella fase intracitoplasmatica (Lapatinib). I farmaci monoclonali sono impiegati sia in fase neoadiuvante che adiuvante che in malattia metastatica. Lapatinib solo in fase metastatica [26].

A questi farmaci si sono recentemente aggiunte tre nuove molecole che appartengono ad una nuova classe di farmaci antitumorali, gli ADC (Antibody-Drug Conjugates) che tratteremo a parte.

Farmaci antiangiogenetici

La regolazione dell’angiogenesi è un processo biologico molto complesso e dipende dall’interazione tra fattori attivanti (VEGF, FGF, IL-4, IL-8) e fattori inibitori (trombospondina, angiostatina, endostatina). La totalità dei tumori solidi ha una prima fase di sviluppo avascolare (tumore in situ). Quando la massa supera i 2 mm di volume, l’ipossia comincia ad agire come elemento di stimolo della neoangiogenesi, diretta in gran parte da VEGF.

I vasi della neoangiogenesi tumorale sono strutturalmente irregolari, con cellule endoteliali multistratificate, con ampie gap junction, e non ancorate alla membrana basale [27, 28].

Questa instabilità strutturale che si associa ad una forte instabilità biologica favorisce la rapida vascolarizzazione dei tessuti neoplastici e l’esposizione di cellule tumorali al circolo sanguigno con dispersione delle cellule nell’organismo e la formazione di metastasi [27, 28].

La finalità primaria di una terapia antiangiogenetica è di impedire la produzione e l’attività di VEGF, fattore solubile circolante che si lega ai suoi recettori sulla membrana endoteliale e stimola la produzione di nuovi vasi.

 

Teoricamente la terapia con antiangiogenetici dovrebbe essere più efficace in fase adiuvante quando la quantità di VEGF prodotta è minima. In fase metastatica invece VEGF è in alta concentrazione ed è difficile inibirne l’azione [27, 28].

Purtroppo questa intuizione non si è concretizzata negli studi clinici e ad oggi, soprattutto nei tumori solidi, gli anti VEGF hanno ruolo solo nella malattia metastatica.

I farmaci antiangiogenetici di impiego clinico sono: Bevacizumab (monoclonale attivo nei tumori del colon e dell’ovaio), Sorafenib (piccola molecola oggi meno impiegata ma che ha rappresentato un sicuro avanzamento nei carcinomi del rene e del fegato), Sunitinib (piccola molecola attiva nei carcinomi del rene e nei GIST), Pazopanib (piccola molecola attiva nel carcinoma del rene e nei sarcomi dei tessuti molli), Axitinib (piccola molecola attiva nel carcinoma del rene) e Aflibercept (prodotto del gene di fusione attivo contro VEGFR 1, 2, 3 nel carcinoma del colon metastatico) [27-29].

Farmaci regolatori dei pathway intracellulari di PI3K-mTOR-AKT

Come già specificato i recettori di membrana sono i primi effettori di una catena di reazioni intracellulari che conducono alla proliferazione, metastatizzazione e diffusione delle cellule neoplastiche secondo il modello convalidato di Hanahan e Weinberg [20-22].

Alcuni di questi pathway intracellulari sono ben studiati e hanno già portato alla realizzazione di farmaci molto specifici e attivi, altri percorsi sono in via di comprensione e di studio farmacologico.

PI3K-AKT-mTOR sono pathways in cui PI3K è regolatore di molti processi della cellula neoplastica: proliferazione, sopravvivenza, crescita e motilità [30].

I recettori transmembrana che attivano PI3K sono soprattutto EGFR e HER. La alterata regolazione di PI3K è stata evidenziata in molti tumori soprattutto nel glioblastoma, nel carcinoma ovarico e nei tumori mammari. Gli enzimi PI3K sono formati da più subunità e regolano soprattutto crescita e sopravvivenza delle cellule [30].

I farmaci PI3K inibitori sono numerosi e possono differire nella loro funzione a seconda che inibiscano una o tutte le subunità dell’enzima. Sono studiati non solo come farmaci antitumorali nel carcinoma della mammella metastatico ma anche in linfomi e leucemie. Alpelisib è il prototipo di farmaco utilizzato nel carcinoma della mammella ER + / HER -/PIK3CA mutato. È impiegato in associazione con Fulvestrant in seconda linea ormonale. Nello studio SOLAR1 la terapia di seconda linea con Alpelisib + Fulvestrant ha ottenuto rispetto al solo Fulvestrant una PFS di 11 mesi con 35% di risposte rispetto a 16% [31].

mTOR ha un ruolo centrale di regolazione dei processi di proliferazione neoplastica. Infatti controlla la crescita, la divisione, la sopravvivenza e l’angiogenesi. I farmaci inibitori di mTOR derivano dal macrolide dello Streptomyces hygroscopicus: la Rapamicina impiegata nelle terapie antirigetto in trapiantologia [32].

mTOR è composto da due subunità chiamate mTORC1 e mTORC2, composte a loro volta da subunità molto articolate. mTOR quando attivato fosforila AKT ed altre chinasi.

Gli inibitori di mTOR utilizzati in terapia oncologica differiscono in struttura e azione dalla Rapamicina.

Temsirolimus è un inibitore selettivo di mTOR, si lega ad una proteina intracellulare (FKBP-12) di mTORC1 e trova utilizzo nel trattamento di prima linea nei tumori renali metastatici.

Everolimus inibisce sempre la proteina FKBP-1 di mTORC1 e viene utilizzato nel carcinoma della mammella metastatico in associazione alla ormonoterapia con antiaromatasici, nel carcinoma renale a cellule chiare in seconda e successive linee metastatiche e nei tumori neuroendocrini sia di origine pancreatica che gastrointestinale o polmonare [32].

Segnaliamo l’importante e specifica tossicità polmonare con interstiziopatia che non sempre regredisce alla sospensione del farmaco [32].

Inibitori di BCR-ABL, KIT, PDGFR

Bcr-Abl esula per alcuni aspetti dalla nostra trattazione, poiché riguarda un prodotto di gene di fusione 9/22 presente nel 95% delle leucemie mieloidi croniche, che determina un cromosoma 22 tronco conosciuto sin dal 1961 e chiamato Cromosoma Philadelphia.

Bcr è una serina-treonina-chinasi e Abl un protooncogene che codifica per una proteina citoplasmatica coinvolta nella proliferazione, sopravvivenza e motilità delle cellule leucemiche.

Il prodotto di gene di fusione determina un “gain of function” nelle cellule neoplastiche.

KIT e PDGFRA sono recettori transmembrana presenti nelle mast cells e nelle cellule di tumori rari quali GIST e Dermatofibrosarcoma protuberans.

Le mutazioni di KIT e PDGFR sono mutuamente esclusive, cioè non possono manifestarsi nella stessa cellula e nello stesso tessuto e determinano una maggiore aggressività delle cellule tumorali con incremento di proliferazione, migrazione e metastatizzazione.

Sia Abl-Bcr che KIT e PDGFR nei rispettivi contesti oncologici sono inibiti da Imatinib un inibitore intracellulare del recettore omologo che impedisce con azione antagonista la defosforilazione di ATP.

Nei GIST, malattia precedentemente incurabile, Imatinib ha determinato una svolta epocale portando la sopravvivenza in malattia metastatica da 6 mesi a oltre 60 mesi [33-35].

L’attività massima di Imatinib è legata alla presenza di una mutazione sull’esone 11 di KIT nelle cellule di GIST, mentre meno o poco attivo si manifesta nelle mutazioni degli esoni 13, 14, 17 [35].

La mutazione in PDGFRA esone 18 D842V rende resistente ab-initio il tumore. Queste evidenze in clinica fanno comprendere meglio la forza ma anche la debolezza dei farmaci a bersaglio molecolare: è sufficiente che una mutazione modifichi il target e il farmaco perde ogni attività [33-35].

Imatinib nel GIST è attivo anche in fase adiuvante.

Un altro aspetto molto interessante dei GIST è la scoperta e applicazione di farmaci a bersaglio molecolare che succedono a Imatinib dopo l’insorgenza di resistenze secondarie.

Sunitinib, Regorafenib, Ripretinib si dimostrano efficaci nella malattia in progressione, ma con PFS inferiore a quella determinata da Imatinib [35]. Avapritinib invece si dimostra efficace nel GIST PDGF A 18 D842V, riuscendo a superare la resistenza primaria. È molto interessante che la ricerca su un tumore raro sia riuscita a produrre ben 5 farmaci attivi una volta riconosciuta la mutazione in atto. Un esempio farmacologico estremamente interessante ma non riprodotto in altri tumori [33-35].

Farmaci anti-PARP

I PARP (Poly-ADP-ribose-polimerasi) sono una famiglia di 17 proteine coinvolte nella risposta allo stress cellulare, nel rimodellamento della cromatina, nella riparazione del DNA e nell’apoptosi [36].

I Poly-ADP-riboso-polimerasi inibitori (PARPi) sono farmaci a struttura piperazinica che interferiscono con l’azione dell’enzima PARP. L’azione specifica si manifesta sul singolo filamento di DNA. I PARP inibitori competono con NAD+ per il sito catalitico attivo, impediscono l’intervento di enzimi riparatori e portano la cellula ad apoptosi o a morte [36, 37].

Nella cellula normale i due geni BRCA1 e BRCA2 intervengono nella riparazione del DNA danneggiato. In caso di mutazione genetica il danno al DNA rende meno attivo il meccanismo di riparazione, bloccando PARP. Le cellule non sono in grado di riparare il danno al DNA e vanno incontro a morte sintetica [36].

Al presente i PARP inibitori sono utilizzati in tre tipi di tumore: carcinoma dell’ovaio, del peritoneo e della mammella BRCA mutati. I ricercatori hanno dimostrato che mutazioni simili a BRCA1 e BRCA2 sono presenti in altre neoplasie: NSCLC, carcinoma del pancreas, tumori della testa e del collo, glioblastoma multiforme, nel carcinoma della prostata. Pertanto è possibile che gli anti PARP possano essere approvati anche per queste neoplasie.

I farmaci ad oggi disponibili sono Olaparib, Niraparib, Rucaparib, utilizzati nel carcinoma dell’ovaio e Tinzaparib nel carcinoma della mammella metastatico [36, 37].

Le tossicità più comuni sono neutropenia, astenia, diarrea, incremento transaminasi, tossicità renale. [37]

La resistenza a questi farmaci, che sono tutti orali, può scaturire da una nuova mutazione di BRCA, dall’aumentato efflusso del farmaco, con la riparazione della ricombinazione omologa e con la stabilizzazione della forca di replicazione del DNA [36].

 

Farmaci immunoterapici 

Il complesso rapporto tra ospite e tumore ha fatto ipotizzare sin dagli anni 50 del secolo scorso un’azione importante dell’immunità nell’impedire o nel favorire lo sviluppo di neoplasie.

Sin dagli albori della terapia anticancro si è cercato di sviluppare la reazione immunitaria in modo aspecifico (vaccini e lisati batterici) o specifico (lisato o estratti di cellule tumorali).

Questi tentativi salvo rare eccezioni si sono rilevati inutili o addirittura dannosi.

Negli anni ’80 si è dato il via alle terapie con citochine, Interferoni e Interleuchine, con qualche risultato sul carcinoma del rene e sul melanoma, ma con pesanti effetti collaterali [38-40].

Solo con le scoperte sulla tolleranza immunitaria si è compreso come il rapporto tra difese immunitarie e cancro sia molto più complesso [40].

Riconosciamo oggi tre differenti tipi di immunoterapia: blocco dei check-point, terapie adottive con cellule T e vaccini anticancro.

Le molecole check-point inhibitor sono sostanze regolatrici dell’attività delle cellule T per ridurne l’iperattivazione. Le molecole meglio conosciute come regolatrici sono CTLA4 e PD1. Esse esercitano la loro azione in momenti diversi della immunoregolazione e della vita cellulare. I due meccanismi si equilibrano e assicurano una risposta immunitaria efficace contro patogeni e cellule tumorali, senza provocare fenomeni autoimmunitari [41].

La comprensione della loro azione e la regolazione della risposta immunitaria hanno portato Allison e Honjio al Premio Nobel del 2018 [42].

CTLA4 è una proteina transmembrana espressa dai linfociti T CD4+ e CD8+ attivati. In condizioni fisiologiche CTLA4 attivato inibisce la risposta del linfocita T per tempi prolungati e impedisce fenomeni di autoimmunità [40-42].

Bloccando CTLA4 con Ipilimumab si riduce l’effetto inibitorio delle cellule Tregs riattivando la risposta immunitaria dei linfociti T.

PD1 inibisce a sua volta la funzione dei linfociti T quando saturato dal ligando PDL1 favorisce il tumor escape. Inibire PD1 o PDL1 significa riattivare la risposta immunitaria.

PD1 è anche espresso sulle cellule NK, sui B linfociti, sui macrofagi e sulle cellule dendritiche (DC) suggerendo che la sua azione sia più articolata e completa di CTLA4.

Il primo farmaco con attività anti-CTLA4 utilizzato in clinica è stato Ipilimumab nel melanoma.

Il prototipo di anti-PD1 è invece Nivolumab, utilizzato nel melanoma, nel carcinoma renale e nel carcinoma polmonare.

Altri anti-PD1 sono Pembrolizumab con attività ad ampio spettro (melanoma, NSCLC, tumori testa e collo, carcinoma del colon, carcinoma dell’endometrio e della mammella), Cemiplimab nel carcinoma squamoso della cute, Dostarlimab nel carcinoma dell’endometrio.

I farmaci anti-PDL1 sono invece Atezolizumab in tumori uroteliali e NSCLC, Avelumab nel carcinoma di Merkel, nel carcinoma uroteliale e a cellule renali, Durvalumab nel NSCLC, nel carcinoma delle vie biliari e nel carcinoma epatocellulare [43].

Come possiamo notare tutti i farmaci check-point inhibitor sono monoclonali che si legano al recettore (CTLA4 e PDL1) o al ligando circolante (PD1) determinando la riattivazione dell’immunità antitumorale.

Questi farmaci sono da praticare per via endovena da soli o in associazione con altro check-point inhibitor (ad esempio, Ipilimumab + Nivolumab nel melanoma e nel carcinoma del colon) con chemioterapia (ad esempio, la tripletta Carboplatino + Pemetrexed + Pembrolizumab nel NSCLC) oppure con piccole molecole TKI (ad esempio Pembrolizumab + Axitinib nel carcinoma renale a cellule chiare metastatico).

Gli effetti collaterali sono di tipo autoimmune e sono causati da reazioni autoimmuni [44]:

  • tossicità dermatologica con depigmentazioni e rash cutanei
  • dolori addominali, diarrea fino a gravi coliti autoimmunitari
  • diabete e pancreatiti
  • epatiti
  • ipofisiti
  • tiroiditi
  • miocarditi
  • polmoniti interstiziali
  • disturbi neurologici con confusione mentale e parestesie
  • crampi muscolari

 

Terapia adottiva con cellule T

La terapia adottiva con cellule T (ATC) può essere autologa o allogenica.

Nell’autologa le cellule T sono tratte dallo stesso soggetto e dopo amplificazione della risposta creata artificialmente in vitro sono reinfuse nel paziente con malattia neoplastica. Il primo esempio coronato da successo risale addirittura al 1966, ma solo con la migliore comprensione dei meccanismi immunitari e delle tecnologie di espansione delle colonie di cellule T si è giunti ad una stabilizzazione del trattamento [40].

I trapianti allogenici di cellule staminali sono stati adottati nelle forme leucemiche.

Riconosciamo tre tipi di adoptive T cell therapy (terapia con cellule T amplificate) [40, 41]:

  1. Linfociti infiltranti il tumore (TIL). I linfociti T sono prelevati dal tessuto peritumorale ed espansi in vitro. Prima di reinfondere i T linfociti il paziente è sottoposto a terapia immunodepletiva in modo da ottenere la massima azione da parte delle cellule reinfuse. Questa tecnica è adottata soprattutto nei tumori solidi ma non ha ancora raggiunto una ampia diffusione.
  2. Linfociti ingegnerizzati con recettori (TCR). I linfociti T sono isolati dal circolo del paziente. Le cellule sono poi transfettate da vettori virali e viene introdotto un nuovo recettore T. Le cellule in questo modo sono indotte a riconoscere gli antigeni tumorali specifici del tumore del paziente. I linfociti T ingegnerizzati sono poi reinfusi dopo un trattamento di linfodeplezione.
  3. Recettore antigenico chimerico delle cellule T (CAR-T cell). Hanno dei recettori ibridi rappresentati sulla parte esterna da un anticorpo monoclonale diretto contro l’antigene tumorale relativo e all’interno della cellula un recettore costituito da due sottofrazioni CD3ζ e 4-1BB per trasmettere il segnale di stimolo. Le cellule T vengono poi amplificate e reinfuse sempre previa linfodeplezione del paziente.

TCR e CAR-T sono al momento autorizzate solo per la cura delle neoplasie ematologiche, ma esistono iniziali studi anche nei tumori solidi.

Le tossicità da terapia adottiva con linfociti T si distinguono tra tossicità da deplezione linfocitaria (febbre, neutropenia,) e da infusione dei linfociti T ingegnerizzati (capillary leak syndrome, edemi, oliguria, shock) oltre infine a sindromi autoimmuni (tiroiditi, uveiti, coliti, pancreatiti, polmoniti) [44].

 

Anticorpi monoclonali

Nella nostra trattazione abbiamo in più occasioni citato l’impiego di una terapia con anticorpi monoclonali (AcMo).

Gli anticorpi monoclonali (mAb) sono molecole prodotte in laboratorio, a partire dai linfociti B estratti dalla milza del topo, e fuse con cellule di mieloma che hanno la caratteristica di essere immortali. Queste cellule derivate dalla fusione e chiamate ibridoma, sono clonate. La singola cellula divenuta immortale successivamente si divide formando un clone di cellule identiche capaci di produrre quantità illimitate dello stesso anticorpo monoclonale che può essere purificato. Gli anticorpi monoclonali sono progettati per riconoscere specificamente un unico, determinato antigene e si legano ad esso neutralizzandolo [45, 46].

La specifica e invariabile attività di queste molecole create dalla ricerca degli anni ’70 di Kohler e Milstein contro una sola sequenza proteica rende riproducibile e costante l’attività terapeutica contro un solo specifico antigene tumorale [46].

Nei nuovi trattamenti moltissimi farmaci sono dei AcMo: anti EGFR, anti HER, anti VEGF, check-point inibitori anti PD1, PDL1 e CTLA4 [28, 40, 41, 43].

La loro azione si esplica con inibizione diretta del recettore della cellula tumorale impedendo il legame dello stesso con il ligando che ne stimola l’attività oppure con la neutralizzazione dei ligandi circolanti.

Sino a tempi recenti dunque l’attività dei AcMo è di tipo biologico diretto.

Recentemente la ricerca ha prodotto farmaci misti costituiti da AcMo coniugati con farmaci chimici, in generale chemioterapici.

Queste nuove armi a disposizione del clinico si chiamano Antibody-Drug Conjugates (ADC) e aprono una nuova prospettiva terapeutica.

Con questo sistema la teoria di Ehrlich della magic bullet si avvicina alla realizzazione.

Un ADC è composto da 3 componenti: AcMo che si lega ad un antigene specifico della superficie tumorale, il Payload o farmaco antitumorale che esercita l’azione citotossica e il Linker che attacca il Payload all’AcMo con legame solido per evitare la rottura precoce e non voluta dell’ADC. Il legame del linker può essere clivabile quando le due molecole non si scindono ed entrano in questa forma all’interno della cellula. Al contrario, il linker è clivabile quando l’AcMo si lega all’antigene tumorale di superficie e lascia entrare nella cellula il farmaco citotossico [47-50].

Al momento di questa pubblicazione gli ADC approvati in oncologia sono [47-50]:

  • Trastuzumab emtasine nel carcinoma della mammella HER +++
  • Gemtuzumab ozogamicin nella Leucemia mieloide. Ozogamicin è una tossina batterica
  • Inotuzumab ozogamicin nella leucemia linfoblastica acuta
  • Trastuzumab deruxtecan nel carcinoma mammario HER +++
  • Sacituzumab Govitecan nel carcinoma mammario triplo negativo
  • Enfortumab vedotin nei carcinomi uroteliali.

Numerose altre molecole sono in preparazione per diverse patologie.

Le tossicità più comuni sono legate soprattutto all’azione del farmaco citotossico: neutropenia, nausea, neuropatia periferica, trombocitopenia, disturbi visivi.

Le tossicità sono in genere reversibili. Non si hanno ancora i dati sulle tossicità tardive e croniche.

 

Conclusioni

In questa breve trattazione si sono cercate di riassumere le importanti evoluzioni e progressi delle terapie farmacologiche antitumorali.

Dal 2009 al 2020 la Food & Drug administration (FDA) ha approvato per gli Stati Uniti 332 nuovi farmaci anticancro. Si è passati da un numero medio di approvazioni di 8 farmaci per anno prima del 2000 a 57 per anno nel 2022.

L’European Medicines Agency (EMA) per l’Europa negli ultimi 12 anni ha approvato e reso disponibili 158 nuovi farmaci antitumorali.

Tutto questo grazie all’evoluzione straordinaria nella ricerca e sviluppo di nuovi farmaci. L’ampliamento dell’armamentario ha certamente favorito la guarigione di alcuni tipi di tumore, ma soprattutto la cronicizzazione di molti istotipi con migliore controllo dei sintomi e migliore qualità di vita da parte dei malati.

Questa rapidissima e positiva evoluzione si basa sulle scoperte di genetica e di biologia molecolare e sull’applicazione della chimica combinatoriale che hanno permesso una reale “rivoluzione copernicana” nella concezione e nel disegno dei farmaci: prima si identifica il potenziale bersaglio della cellula tumorale e poi si progetta il farmaco che modifica o rallenta i processi biologici.

Purtroppo vi sono intrinseche debolezze in questa nuova concezione della farmacologia oncologica:

  1. La necessità di cambiare la metodologia di studio non essendo più idonee le 4 fasi classiche studiate per la chemioterapia.
  2. La difficoltà, vista la rapida approvazione di avere studi di confronto con farmaci precedenti.
  3. Le tossicità non ben conosciute quando un farmaco viene messo a disposizione della clinica.
  4. L’azione prevalentemente citostatica dei nuovi farmaci (fatta eccezione per gli ADC) che obbligano il malato a curarsi continuativamente.
  5. La PFS anziché l’OS come endpoint primario in quanto le nuove terapie rallentano l’evoluzione della malattia più che incidere sulla sopravvivenza.
  6. La difficoltà a distinguere i farmaci veramente innovativi da semplici analoghi.
  7. Il costo sociale dei farmaci, la conseguente tossicità finanziaria e l’incremento delle disparità sociali tra chi può curarsi e chi no soprattutto nelle Nazioni prive di SSN.

In conclusione, non profilandosi ancora una soluzione definitiva e risolutiva del problema cancro, pur a fronte dei notevolissimi progressi delle terapie, le problematiche connesse con la ricerca lo sviluppo e l’impiego dei nuovi farmaci pongono problemi scientifici, sociali ed economici di portata mondiale che necessitano di uno sforzo internazionale.

 

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