Urinary tract infections in nephrology: antibiotic therapy in the era of antibiotic resistance

Abstract

Urinary tract infections (UTIs) are an emerging health problem. Kidney patients with UTI are at increased risk of antimicrobials resistance (AMR) and bad prognosis. In the nephrological setting, optimizing the management of UTIs is certainly a challenge, but it is indispensable for a favorable clinical outcome and in fighting AMR.

When UTIs caused by multidrug-resistant germs are suspected, it is necessary to initiate empirical antibiotic therapy timely, pending microbiological study and bacterial sensitivity. The empirical choice of antibiotic must be based on: guidelines, resistance rates recorded in the region, and knowledge of pharmacokinetic and pharmacodynamic characteristics of the drug, in order to maximize efficacy, reduce adverse effects and minimize AMR development.

Recently, the clinical use of old drugs such as colistin has increased, due to the limited circulation of resistant bacterial strains. On the other hand, ceftolozane/tazobactam, ceftazidime/avibactam, cefiderocol, imipenem/cilastatin/relebactam and meropenem-vaborbactam are very promising new antibiotics. Ongoing clinical studies will be able to determine the place for these interesting molecules in the treatment of infections and in fighting AMR.

Keywords: urinary tract infections, antibiotics, antibiotic resistance

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Introduzione

Le infezioni delle vie urinarie (IVU) rappresentano un problema sanitario emergente con notevoli implicazioni sociali ed economiche, in quanto al secondo posto per frequenza, subito dopo le infezioni dell’apparato respiratorio, tra tutte le malattie infettive [1]. Si stima che in Europa e negli USA circa il 15% della terapia antibiotica di impiego in comunità sia prescritta per il trattamento di IVU [2]. Nondimeno non è raro che le IVU richiedano ospedalizzazione o che complichino il decorso di una degenza [3,4].

 

Ad oggi i dati sull’incidenza e l’impatto delle IVU nei soggetti nefropatici sono alquanto limitati [5]. Tuttavia è esperienza clinica condivisa che le IVU rappresentano un problema con cui il nefrologo deve confrontarsi quotidianamente. I soggetti che afferiscono alle strutture di Nefrologia presentano spesso condizioni che si associano ad aumentato rischio di IVU: la malattia renale cronica (MRC) si caratterizza per disfunzione del sistema immunitario sin dalle fasi più precoci [6, 7]; gli accertamenti e le cure richiedono un ripetuto contatto con i servizi sanitari con aumentata esposizione a germi patogeni; spesso la nefropatia di base è caratterizzata da alterazioni morfo-funzionali dell’apparato urinario, come l’uropatia ostruttiva o le malattie cistiche renali, che costituiscono condizioni predisponenti locali alle IVU; frequenti comorbidità come il diabete mellito, nonché lo stato di immunodepressione iatrogena, come nel caso del trapianto e delle nefropatie autoimmuni sono fattori di rischio ampiamente riconosciuti [8, 9, 10]. D’altra parte, in questi soggetti le IVU risultano di più difficile risoluzione, a maggior rischio di complicanze e dunque a prognosi peggiore [6, 9, 10].

Le infezioni diagnosticate e trattate in ambiente nefrologico più frequentemente che nella popolazione generale sono sostenute da batteri che manifestano resistenza agli antibiotici [10, 11, 12]. La multi-resistenza agli antimicrobici (AMR), con particolare riferimento agli antibiotici, è un problema di salute pubblica mondiale emergente ed è riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come una priorità in ambito sanitario [13]. Infatti, la continua e rapida diffusione di nuovi meccanismi che conferiscono ai microrganismi la capacità di resistere all’azione degli antibiotici rischia di compromettere la possibilità di trattare efficacemente le infezioni con importanti effetti sfavorevoli sull’outcome.

Negli ultimi anni la ricerca di nuovi antibiotici in grado di superare le resistenze ha mostrato un trend in calo rispetto ai decenni precedenti [14]. L’uso massivo e talora inappropriato degli antibiotici è esso stesso tra le cause principali della diffusione dell’AMR, poiché la pressione selettiva accelera il processo di sviluppo e diffusione di ceppi resistenti. A causa di ciò è ormai indifferibile l’adozione di strategie prescrittive volte ad un uso razionale e ponderato degli antibiotici [13, 15].

In questa review vogliamo focalizzare lo stato dell’arte dell’approccio clinico alle IVU nel setting nefrologico, alla luce dell’emergente AMR. Altresì, discutiamo gli antibiotici di più recente introduzione e l’importanza dello studio microbiologico e della sensibilità batterica al fine di ottimizzare la terapia e migliorare la prognosi.

 

Infezioni delle vie urinarie in Nefrologia

La pur limitata letteratura scientifica e la pratica clinica depongono per un’elevata incidenza di IVU nei soggetti con patologia renale.

McDonald et al. hanno condotto una revisione sistematica di 14 studi allo scopo di esplorare l’associazione tra MRC e infezioni, tra cui le IVU. Gli autori hanno concluso che la MRC costituisce fattore di rischio per le infezioni e il rischio aumenta al ridursi del filtrato glomerulare renale (GFR). Diversi meccanismi sono stati proposti per spiegare l’aumentata suscettibilità alle infezioni dei soggetti con MRC. Le attuali conoscenze suggeriscono che la compromissione della funzione renale determina una disfunzione del sistema immunitario secondaria alle alterazioni metaboliche con accumulo di prodotti del catabolismo azotato, aumentata produzione di radicali liberi dell’ossigeno, alterazioni funzionali a carico dei linfociti T, monociti e cellule natural killer. Inoltre, come già riportato, la nefropatia di base e le comorbidità possono rappresentare fattori di rischio indipendenti per IVU. Infine, la gestione della MRC e delle sue complicanze richiede continuo contatto con le strutture e il personale sanitario e alti tassi di ospedalizzazione. Ciò comporta aumentata esposizione a microorganismi patogeni, peraltro a maggiore virulenza rispetto ai germi che circolano in comunità [7].

Anche negli individui con MRC allo stadio terminale (ESRD) le IVU sono frequenti e associate a morbidità, tasso di ospedalizzazione e mortalità elevati [16]. In questi soggetti, lo scenario già descritto per la MRC si arricchisce ulteriormente con la compromissione di uno dei meccanismi di difesa innati contro le IVU, ovvero l’adeguato flusso e volume urinario. La diuresi ridotta deve anche essere considerata possibile fattore confondente ai fini diagnostici nel paziente con ESRD. In particolare, in assenza di normale output urinario, la piuria e l’esame delle urine hanno uno scarso valore predittivo e l’esame colturale è fortemente raccomandato [17, 18].

Le IVU sono il tipo di infezione più frequente nel trapiantato di rene. Ai fattori di rischio per IVU della popolazione generale si aggiungono lo stato di immunodepressione, le procedure invasive urologiche (cistoscopia, stenting ureterale, ecc.) ed eventuali fattori associati alla nefropatia di base (malattia policistica, litiasi, ecc.) [10]. Il primo trimestre post-trapianto è il periodo a maggior rischio. Più tardi l’incidenza delle IVU si riduce, ma occorre mantenere un alto livello di attenzione. Infatti, il ricevente trapianto di rene presenta un rischio significativamente aumentato di forme complicate e, anche a distanza di molti anni dal trapianto, le IVU sono un importante fattore prognostico sfavorevole per la sopravvivenza dell’organo [19, 20].

Molteplici ed eterogenee patologie renali quali alcune glomerulonefriti, la glomerulopatia a lesioni minime e le vasculiti, sia per la natura immunologica della patologia, sia per il trattamento immunosoppressivo richiesto, costituiscono condizioni ad aumentato rischio per IVU [9, 21].

In sintesi, i soggetti nefropatici sono spesso ad elevato rischio di IVU che, in un circolo vizioso, possono essere causa di insorgenza e progressione del danno renale. In aggiunta, la presenza di patologia renale è predittiva di forme complicate, richiedenti ospedalizzazione e sostenute da germi AMR. In altre parole, se un’IVU è osservata in un soggetto con danno renale, in rapporto al noto aumentato rischio di persistenza dell’infezione e insorgenza di complicanze, è particolarmente importante che l’atteggiamento del clinico sia attento e il percorso diagnostico-terapeutico appropriato.

In tal modo, le IVU osservate nel setting nefrologico rafforzano il principio che il corretto approccio clinico non può prescindere dalla conoscenza degli aspetti epidemiologici. A tal riguardo, poiché le IVU si caratterizzano per notevole eterogeneità eziopatogenetica, clinica e prognostica, ragionare per classificazioni rende più agevole l’inquadramento clinico ed il processo diagnostico-terapeutico. Fra le classificazioni di maggiore utilità a fini clinici, quelle delle società IDSA/ESCMID (Infectious Disease Society of America/ European Society of Clinical Microbiology and Infectious Diseases) distinguono tra IVU non complicate e complicate. Le IVU si definiscono complicate in presenza di particolari condizioni quali cateterismo urinario a permanenza, ostruzione urinaria da cause varie, alterazioni anatomiche congenite o acquisite a carico delle vie urinarie, età pediatrica, gravidanza, stato di immunodeficienza anche secondario a patologie quali la MRC, il diabete mellito o le neoplasie [22, 23].  Le più recenti evidenze sulla gestione delle IVU complicate suggeriscono di includere tra queste le infezioni causate da patogeni AMR, poiché l’eradicazione risulta più difficoltosa rispetto alle forme non complicate [24].

 

Antibioticoresistenza

L’AMR è definita come la resistenza di un batterio a due o più antibiotici appartenenti a classi diverse. È un rilevante problema di salute pubblica globale poiché a causa della comparsa e della veloce diffusione di nuovi meccanismi di resistenza può diventare molto difficile trovare una terapia efficace contro le infezioni. Il rischio è quello di regredire all’era pre-antibiotica, caratterizzata da elevata morbilità e mortalità per malattie infettive.

Sebbene l’AMR si sviluppi naturalmente nel tempo, l’uso diffuso di antibiotici, sia in campo medico che veterinario, in zootecnia e in agricoltura, accelera questo processo. Gli antibiotici esercitano una pressione selettiva sui batteri, che acquisiscono AMR attraverso mutazioni del proprio patrimonio genetico o il suo arricchimento per acquisizione di geni di resistenza trasportati da plasmidi, elementi genetici mobili che possono diffondere orizzontalmente tra i batteri [25]. È ormai ben noto che l’uso degli antibiotici può essere inappropriato su vari fronti: impiego eccessivo rispetto alle reali indicazioni, posologia non corretta, tempi di trattamento troppo lunghi.

Altro fondamentale fattore alla base della diffusione dell’AMR è la trasmissione di microrganismi tra gli esseri umani, tra gli animali, e tra umani – animali e ambiente. Più il microrganismo circola e compie salti di specie, maggiore è il potenziale di mutazione ed acquisizione di AMR. In ambito medico, le buone pratiche assistenziali medico-infermieristiche sono fondamentali per limitare la trasmissione e la circolazione di germi AMR, muovendo dall’applicazione delle principali norme igieniche, quali il lavaggio delle mani, al rispetto di idonei protocolli di isolamento dei casi [26].

Attualmente il contenimento dell’AMR è considerato uno dei principali obiettivi mondiali. Sin dal 2015 l’OMS e, a seguire, gli organismi internazionali europei (Unione Europea e Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie) e l’Italia hanno adottato dei piani d’azione per contrastare questo grave fenomeno [13, 27, 28]. Infatti, l’AMR si associa ad incremento delle complicanze e del tasso di ospedalizzazione, tempi di degenza prolungati, aumento della mortalità e dei costi [26, 29]. In Europa si stima che più di 670000 infezioni/anno siano sostenute da batteri resistenti agli antibiotici e che circa 33000 persone/anno muoiono come conseguenza diretta di queste infezioni. L’Italia detiene il triste primato tra i paesi europei con più di 200000 infezioni/anno da germi AMR e 10762 decessi/anno correlati. I costi sono sia diretti, in rapporto all’ospedalizzazione, alla necessità di utilizzo di antibiotici anche molto costosi e per periodi prolungati, che indiretti per il trattamento delle complicanze. Si stima una spesa pari a circa 1,1 miliardi di euro l’anno per i sistemi sanitari dei paesi dell’Unione Europea, di cui oltre la metà (600 milioni di euro l’anno) per l’Italia [30].

La Tabella I mostra i principali meccanismi di resistenza antimicrobica acquisita e le relative classi di antibiotici che risultano inefficaci. Poiché i batteri possono sviluppare più meccanismi di resistenza cumulativamente, possono emergere ceppi resistenti a numerosi agenti antimicrobici, responsabili di infezioni con opzioni terapeutiche alquanto limitate.

MECCANISMO DI RESISTENZA ANTIBIOTICO
Ridotta permeabilità di membrana all’antibiotico Beta-lattamici, Carbapenemi, Chinoloni, Aminoglicosidi, Sulfamidici
Iperespressione dei sistemi di efflusso con rapida eliminazione dell’antibiotico Tutte le classi eccetto Polimixine
Produzione di enzimi inattivanti l’antibiotico:
beta lattamasi Penicilline
beta lattamasi a largo spettro (ESBL) Penicilline, Cefalosporine e Aztreonam
cefalosporinasi Cefalosporine
carbapenemasi Carbapenemici
enzimi inattivanti gli aminoglicosidi Aminoglicosidi
enzimi inattivanti i macrolidi Macrolidi
Modificazione del bersaglio
proteine leganti la penicillina (PBP) Penicilline, Cefalosporine, Carbapenemici
DNA girasi e topoisomerasi IV Chinoloni
lipopolisaccaride (LPS) Colistina
sito legante il ribosoma Aminoglicosidi, Macrolidi
idrofolato riduttasi Sulfamidici
precursore del peptidoglicano Vancomicina ± altri glicopeptidi
Modulazione dell’espressione genica per produrre un maggior numero di siti bersaglio (competizione con il substrato) Mupirocina, Trimetoprim
Tabella I: Principali meccanismi di resistenza acquisita e classi di antibiotici

Tra gli uropatogeni sono contemplati diversi microrganismi AMR, sia Gram-negativi (Pseudomonas Aeruginosa, Acinetobacter Baumannii resistente a tutti gli antibiotici, Klebsiella Pneumoniae resistente ai carbapenemici (KPC), Enterobatteri produttori di beta lattamasi a spettro allargato (ESBL), Proteus Mirabilis, Enterobacter Cloacae, Escherichia Coli, Stenotrophomonas maltophilia, ecc), che Gram-positivi (Staphylococcus aureus resistente alla meticillina (MRSA), Enterococchi resistenti alla vancomicina (VRE)). P. Aeruginosa risulta abbastanza frequente nelle IVU correlate alla presenza di un catetere vescicale [2].

In Europa, secondo i recenti dati diffusi dalla rete di sorveglianza EARS-Net (European Antimicrobial Resistance Surveillance Network) e basati sui risultati di AMR provenienti da 30 paesi dell’Unione Europea con riferimento all’anno 2018, i livelli di AMR rimangono temibilmente elevati, pressoché stabili negli ultimi anni e con significative variazioni nelle diverse zone geografiche. Otto sono i patogeni sotto sorveglianza: E. Coli, K. Pneumoniae, P. Aeruginosa, Acinetobacter spp, E. Faecalis, E. Faecium, S. Aureus e S. Pneumoniae. Più della metà degli isolati di E. Coli e oltre un terzo degli isolati di K. Pneumoniae erano resistenti ad almeno una classe antimicrobica ed era frequente la resistenza combinata a più classi. Raramente E. Coli manifestava resistenza ai carbapenemi, mentre per K. Pneumoniae diversi paesi hanno riportato percentuali superiori al 10%. La resistenza a questa classe antibiotica è risultata ancor più frequente nelle specie P. Aeruginosa e Acinetobacter [31]. La particolare attenzione nei confronti di questa classe di antibiotici è motivata dal fatto che i carbapenemi si caratterizzano per un ampio spettro antimicrobico ed elevata batteriocidia, così rappresentando una potente arma da preservare. Non sorprende, dunque, l’ampio consenso della comunità scientifica sull’opportunità di adottare strategie per il risparmio di questa classe antibiotica al fine di limitare quanto più possibile lo sviluppo di resistenze, riservandone l’utilizzo ai casi che effettivamente lo richiedono [32].

In Italia, nel 2018 le percentuali di resistenza alle principali classi di antimicrobici per gli otto patogeni sotto sorveglianza si sono mantenute sistematicamente più alte rispetto alla media europea, pur con un trend in calo rispetto agli anni precedenti. In particolare hanno manifestato AMR circa il 76% degli isolati di Acinetobacter spp, il 33% di K. Pneumoniae, il 15% di P. Aeruginosa e il 11% di E. Coli; per S. Aureus, la percentuale di MRSA era stabile intorno al 34%, mentre per E. Faecium resistente alla vancomicina, in linea con i dati europei, è stato registrato un significativo, preoccupante, incremento (18.9% nel 2018 vs 14.5% nel 2017) [33].

In questo scenario, in cui è evidente la necessità di contrastare la diffusione dell’AMR, il ruolo del clinico è indubbiamente centrale, in ogni fase del percorso di diagnosi e cura. Sin dal raccordo anamnestico, conoscere ed individuare i fattori di rischio per AMR è molto importante per predire un’infezione complicata ed avviare un appropriato iter diagnostico-terapeutico [34]. Nel caso delle IVU, la revisione sistematica degli studi ha mostrato risultati diversi, talvolta contrastanti [35]. Nella Tabella II sono elencati i fattori di rischio più fortemente associati ad IVU sostenute da germi AMR. Tuttavia, molti aspetti rimangono da chiarire e non è risolto se e come queste associazioni variano tra le diverse resistenze agli antibiotici.

Catetere urinario a permanenza
Ospedalizzazione nei 12 mesi antecedenti
Terapia antibiotica pregressa
Residenza in casa di cura
Età avanzata
Storia di IVU
Pregressa infezione da germe AMR
Sesso maschile
Recenti indagini diagnostico-terapeutiche invasive sulle vie urinarie
Malattie croniche (ipertensione, declino cognitivo, diabete mellito, MRC)
Viaggio recente
Minoranza etnica
Stato di immunodepressione
Tabella II: Fattori di rischio per IVU da germi multiresistenti

Come accennato in precedenza, l’AMR rappresenta una delle principali sfide terapeutiche anche in ambito nefrologico. Più frequentemente che nella popolazione generale le infezioni che colpiscono soggetti con patologia renale sono sostenute da germi AMR e l’evoluzione clinica si rivela complessa [10, 11, 12].

I dati più solidi riguardano gli individui con ESRD in trattamento dialitico. Diversi autori hanno riscontrato un’incidenza di infezioni da MRSA e da VRE significativamente più elevata in questi soggetti rispetto alla popolazione generale. L’aumento del rischio di forme sostenute da patogeni che manifestano AMR è stato attribuito a diversi fattori. In sostanza, la ben nota aumentata suscettibilità alle infezioni dei soggetti con MRC è causa di un consistente impiego di antibiotici con risvolti sfavorevoli sullo sviluppo di resistenze antimicrobiche. A ciò si aggiunge che l’erogazione della dovuta assistenza sanitaria a questi individui spesso implica un frequente contatto con le strutture ospedaliere e dunque l’esposizione a patogeni “nosocomiali”, più spesso AMR [36, 37, 38].

Recentemente Su et al. hanno riportato che anche la MRC in terapia conservativa è fattore di rischio indipendente per AMR, pur in presenza di modesta riduzione del GFR. Lo studio ha incluso soggetti ospedalizzati con diagnosi di sepsi, infezione dell’apparato respiratorio e del tratto genito-urinario. Di interesse, è emersa una correlazione tra stadio della MRC e rischio di AMR con maggior incremento del rischio (41%) in presenza di MRC in fase avanzata (GFR <30 mL/min/1.73m2) [12]. Altri autori hanno focalizzato l’attenzione su IVU e AMR in individui con deficit della funzione renale, giungendo ad analoghe conclusioni [39, 40].

Di rilievo anche per le implicazioni terapeutiche, un recente lavoro polacco ha valutato l’esame colturale delle urine di 332 soggetti afferiti in ambiente nefrologico per diagnosi e/o trattamento di IVU ricorrenti, per un totale di 796 esami microbiologici. È emerso un elevato tasso di resistenza dei batteri isolati agli antibiotici di prima linea, ovvero chinolonici e cotrimoxazolo. Viceversa, tra le molecole disponibili per via orale, è stata segnalata una buona sensibilità a fosfomicina, nitrofurantoina e cefuroxima [41].

Il management del soggetto sottoposto a trapianto di rene, soprattutto nelle fasi più precoci, richiede massima attenzione alle IVU, frequenti e spesso sostenute da germi AMR [42]. I dati della letteratura mostrano un’incidenza assai variabile tra il 25 e il 75%, probabilmente relata alla non uniformità dei criteri diagnostici di IVU tra i vari studi [10]. Un recente studio prospettico condotto in Pakistan ha reclutato 97 pazienti in follow up nei primi mesi post-trapianto renale: circa il 74% andava incontro ad IVU ed il processo infettivo era sostenuto da germi AMR nel 39% dei casi [11]. Altresì, diversi autori hanno evidenziato una correlazione significativa tra IVU con AMR, rigetto del rene trapiantato e aumentata mortalità [10, 11].

I risvolti clinici sono di grande rilievo. Poiché il paziente con patologia renale è da considerarsi ad alto rischio per IVU da germi AMR, è necessario educarlo alla prevenzione e sottoporlo ad opportuno monitoraggio clinico per l’identificazione precoce di sintomi e/o segni di infezione. Altresì, essendo il rischio di AMR consistente e direttamente correlato con il grado di compromissione della funzione renale, è opportuno mettere in conto la seria possibilità che la terapia di prima linea possa risultare inefficace e per tempo avviare un valido studio microbiologico.

 

Approccio clinico e scelta empirica degli antimicrobici

Notoriamente, la diagnosi di IVU è una diagnosi clinica. Tuttavia, non di rado, la presentazione clinica è atipica, specie nell’anziano, e occorre fare diagnosi differenziale con patologie ginecologiche o urologiche di natura non infettiva. Talora, invece, la diagnosi può rivelarsi ingannevole per fattori strettamente legati al paziente. Esemplare è il caso del soggetto con ESRD in cui la diuresi ridotta e la stasi vescicale possono risultare confondenti ai fini della diagnosi di IVU e la letteratura è piuttosto concorde sullo scarso valore predittivo della piuria e dell’esame delle urine [17, 18]. Le IVU possono anche manifestarsi con segni e/o sintomi aspecifici di processo infettivo in corso, evenienza che di regola deve indurre alla ricerca della fonte di infezione primaria, perché di gran rilievo a scopo terapeutico e prognostico. Una volta indentificato il focolaio infettivo, l’approccio clinico risente profondamente del fatto che si tratti di una forma isolata, piuttosto che recidivante o ricorrente. Infatti, qualora l’episodio non sia isolato, bisogna valutare l’eventuale presenza di condizioni predisponenti locali e/o sistemiche, modificabili e non. Ne risulterà così modificato l’approccio terapeutico, come anche l’eventuale predisposizione di misure di prevenzione delle recidive, alla risoluzione del quadro acuto. Nel caso delle IVU il riscontro di contestuale uropatia ostruttiva, per esempio, impone di intervenire sulla stasi urinaria. La presente review non si sofferma nella trattazione degli interventi (farmacologici e non) diversi dalla terapia antibiotica.

Altra condizione di comune riscontro nella pratica clinica da differenziare dalle IVU è la batteriuria asintomatica: le evidenze scientifiche suggeriscono di astenersi dal trattarla, se non in casi selezionati quali la gravidanza o in previsione di procedure urologiche che possano danneggiare la mucosa. Invece, in presenza di IVU, nonostante diversi studi abbiano documentato remissioni spontanee ed evoluzione clinica favorevole in particolare delle IVU delle basse vie urinarie, il trattamento antimicrobico è raccomandato poiché migliora la prognosi e la qualità di vita [2].

Per le IVU sono stati proposti molti sistemi di classificazione. La Tabella III riporta i criteri diagnostici e la classificazione adottata dalle Linee Guida Europee (EAU 2021) [2].

IVU non complicate IVU acute o ricorrenti in paziente non gravida, in assenza di alterazioni delle vie urinarie o malattia renale o comorbidità.
IVU complicate IVU non rientranti nella definizione di “non complicate”: paziente a rischio di decorso complicato per gravidanza o alterazioni delle vie urinarie o malattia renale o comorbidità.
IVU ricorrenti IVU complicate e non, con una frequenza di almeno tre episodi/anno o due episodi negli ultimi sei mesi.
CA-IVU IVU che si verificano in paziente portatore di catetere o cui è stato posizionato nelle ultime 48 ore.
Urosepsi Disfunzione d’organo potenzialmente letale causata da una risposta disregolata dell’ospite all’infezione che origina dalle vie urinarie
Tabella III: Classificazione delle IVU sec. Linee Guida Europee (EAU 2021)

L’inquadramento clinico è fondamentale per avviare un opportuno iter diagnostico-terapeutico: discriminare tra IVU complicate e non complicate è importante sia per indirizzare un eventuale approfondimento diagnostico bioumorale e/o strumentale, sia per l’impostazione della terapia antibiotica, che potrà essere empirica o mirata, ma in ogni caso deve essere “ragionata”.

In presenza di segni e/o sintomi suggestivi di IVU e in assenza di fattori di rischio locali o sistemici che configurino una forma complicata, l’esame delle urine a fresco è considerato sufficiente per confermare la diagnosi clinica. Inoltre, ancora oggi in presenza di IVU non complicate è consigliato avviare un trattamento empirico: le Linee Guida della Società Europea di Urologia (EAU) 2021 suggeriscono la prescrizione di antibioticoterapia ad ampio spettro, che tenga conto dell’efficacia negli studi clinici, della tollerabilità e dei dati epidemiologici locali. Specificamente nella cistite non complicata fosfomicina, nitrofurantoina, pivmecillinam e cotrimoxazolo sono indicati quali farmaci di prima linea. I fluorochinoloni, a causa della frequente AMR e del rischio di eventi avversi, dovrebbero essere usati solo quando l’impiego degli anzidetti antibiotici è considerato inappropriato. Inoltre, le linee guida raccomandano di evitare la prescrizione di antibiotici per i quali nella zona sia stata documentata una resistenza >20%, il che evidentemente implica la conoscenza dei tassi di resistenza del luogo in cui si opera, laddove la variabilità geografica è spesso notevole [2]. Sul piano pratico, ad esempio, in Sicilia negli anni 2015-2017 è stata riportata una prevalenza di resistenza ai fluorochinoloni rispettivamente tra 52,1% e 56,2% per E. Coli, e tra 68,5% e 84,9% per K. Pneumoniae, frequenti uropatogeni. Ne consegue che l’impiego empirico di tali antibiotici nel trattamento delle IVU si associa ad un’elevata probabilità di fallimento terapeutico, oltreché il rischio di aumento degli effetti collaterali per utilizzo prolungato nel tempo [43].

Nella prescrizione di antibiotici è importante non solo il tipo di antimicrobico scelto, ma anche le dosi di impiego e la durata. Al fine di ottimizzare la posologia è fondamentale tener in ampia considerazione le caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche delle diverse molecole. In base alla batteriocidia gli antibiotici vengono classificati in tre gruppi: concentrazione-dipendenti, tempo-dipendenti, concentrazione e tempo-dipendenti. Nel primo gruppo rientrano fluorochinoloni, aminoglicosidi e colistina, antimicrobici la cui efficacia antibatterica è legata prevalentemente al raggiungimento di elevate concentrazioni, pur per tempi brevi. Ne deriva che, qualora la scelta ricada in una di queste classi, occorre prestare particolare attenzione a non sottodosare il farmaco. Tale evenienza è tutt’altro che rara nel timore di incorrere in eventi avversi, specie nel soggetto con pluripatologia, che tuttavia è anche ad aumentato rischio di forme complicate e AMR. Per contro, il trattamento può essere di breve durata. Invece, sono tempo-dipendenti beta-lattamici, glicopeptidi, oxazolidinoni e glicilcicline. In questo caso, l’effetto è principalmente correlato al tempo di esposizione al farmaco e dunque è conveniente prevedere tempi di trattamento relativamente lunghi, piuttosto che mirare ad ottenere concentrazioni elevate e connessi rischi di tossicità. Infine, gli antibiotici concentrazione e tempo-dipendenti hanno un comportamento intermedio. È evidente che il clinico dovrà prestare grande attenzione tanto al tipo di antibiotico da indicare quanto ad evitare terapie sottodosate o per tempi irragionevolmente lunghi, così da ottenere efficacia terapeutica, limitando gli eventi avversi e l’ulteriore diffusione dell’AMR.

A differenza che nelle IVU non complicate, nelle forme complicate è raccomandata l’esecuzione di indagini bioumorali e strumentali allo scopo di ottimizzare la gestione dell’infezione, intervenendo su eventuali condizioni predisponenti. Inoltre, il presupposto per impostare una terapia antibiotica efficace è fare ogni sforzo per ottenere una diagnosi eziologica. Nel contempo, è dimostrato che avviare precocemente la terapia antibiotica migliora l’outcome e si associa a ridotta mortalità. La sede dell’infezione, la storia infettivologica pregressa, l’anamnesi farmacologica, i dati bioumorali e strumentali guideranno nella prescrizione della terapia empiricamente. L’avvio dell’antibioticoterapia deve essere preceduto dal prelievo di campioni idonei all’esecuzione di test volti ad identificare il patogeno, quantificarne la carica laddove indicato e testare la sensibilità agli antibiotici.

Relativamente alla terapia empirica delle IVU complicate, in attesa dei risultati microbiologici, le più recenti linee guida evidenziano che la scelta di amoxicillina senza o con acido clavulanico, fluorochinoloni e cotrimoxazolo non è raccomandabile a causa dell’elevato rischio di resistenze. I farmaci di prima scelta sono gli aminoglicosidi associati o meno ad amoxicillina o cefalosporine di seconda o terza generazione. Tuttavia gli aminoglicosidi, pur rappresentando una valida arma per il trattamento delle IVU complicate, sono poco maneggevoli e sovente controindicati per patologia concomitante. Di recente, è emerso un possibile ruolo della fosfomicina, già indicata nelle IVU non complicate, anche per il trattamento delle IVU con AMR. Infatti, la fosfomicina si caratterizza per uno spettro d’azione abbastanza ampio e in diverse esperienze è stato osservato che specie uropatogene AMR conservavano sensibilità a questa molecola, compresi ESBL e KPC [44]. La mantenuta attività potrebbe essere spiegata dal rapido effetto battericida concentrazione-dipendente, anche in rapporto al raggiungimento di elevate concentrazioni urinarie. Inoltre, aspetto alquanto rilevante nella pratica clinica, la fosfomicina è disponibile per via orale ed è molto ben tollerata. La fiducia nel farmaco è confermata dallo studio REWIND (REal World INternational Database) che ha esaminato l’approccio farmacologico a 49548 IVU in individui di sesso femminile di quattro nazioni (Italia, Belgio, Brasile e Russia): la fosfomicina è risultato l’antibiotico più utilizzato per il trattamento delle IVU. Dato interessante emerso dallo studio è che i fluorochinoloni sono ancora di largo impiego, malgrado non raccomandati dalle linee guida europee ed internazionali [45].  Piuttosto, la comunità scientifica via via ha aggiornato i regimi terapeutici suggeriti in seconda linea con gli antibiotici di più recente immissione in commercio, più ampiamente discussi di seguito.

Caso particolare di IVU complicata è la forma catetere-associata (CA-IVU). P. Aeruginosa è prevalentemente isolata nelle CA-IVU, spesso sostenute da germi AMR. Aspetti da tenere bene in considerazione nella pratica clinica sono i seguenti: la durata della cateterizzazione è il principale fattore di rischio per l’insorgenza di CA-IVU; la piuria nel paziente cateterizzato non è diagnostica e non legittima il trattamento antimicrobico; alcuni antibiotici come ertapenem, tigeciclina e nitrofurantoina sono inattivi contro P. Aeruginosa; le linee guida, sulla scorta di recenti trial clinici, raccomandano di non ricorrere routinariamente alla profilassi antibiotica per la prevenzione delle IVU dopo la rimozione del catetere vescicale [2].

Nelle IVU complicate è generalmente raccomandato un trattamento di 7-14 giorni. Qualora sia stato avviato un trattamento empirico, dovrà essere rivalutato nel più breve tempo possibile sulla scorta dello studio microbiologico.

 

Il laboratorio: identificazione patogeno e studio sensibilità

I soggetti a rischio di infezioni da germi AMR, e tra questi i nefropatici, rientrano a pieno titolo tra le indicazioni ad un attento studio microbiologico, allo scopo di impostare un trattamento antibiotico mirato che risulti efficace.

Il laboratorio, procedendo all’identificazione del patogeno, fornisce indicazioni sugli antibiotici adeguati in base dello spettro di attività antimicrobica e permette di determinare la carica batterica. Tuttavia, a causa della crescente diffusione dell’AMR, tali informazioni possono rivelarsi di utilità limitata.

Fondamentale è l’esecuzione dell’antibiogramma, test impiegato per determinare la suscettibilità in vitro del microrganismo isolato a diversi antibiotici. Il metodo più comune per determinare quantitativamente la sensibilità batterica, ovvero la potenza dell’agente antimicrobico nei confronti del patogeno isolato, è la misurazione delle concentrazioni minime inibenti (MIC). MIC è la concentrazione più bassa dell’antibiotico richiesta per prevenirne la crescita in condizioni sperimentali definite. Attualmente, i laboratori si affidano ampiamente a sistemi automatizzati. L’approccio Etest è il più usato per misurare la MIC e consiste nella valutazione della crescita batterica mediante densitometria ottica, utilizzando diverse concentrazioni di antibiotico. È un test accurato per la maggior parte degli antibiotici, ma metodiche diverse sono consigliate per antibiotici con scarsa diffusione in agar, come le polimixine.

Tuttavia la terapia mirata non può basarsi esclusivamente sulla base dei valori di MIC poiché l’efficacia antimicrobica dipende non solo dalla sensibilità del patogeno ma anche dalla concentrazione che il farmaco raggiunge nella sede d’infezione e dal tempo di esposizione. I parametri farmacocinetici sono determinanti per valutare la biodisponibilità dell’antibiotico. Nella curva concentrazione-tempo (concentrazione plasmatica del farmaco in funzione del tempo dopo somministrazione per via orale di una singola dose di farmaco), i parametri più importanti sono: il picco di concentrazione (Cmax) e l’area sotto la curva (AUC). Diversi studi hanno investigato la correlazione tra MIC, parametri farmacocinetici e farmacodinamici, ed efficacia terapeutica, individuando alcuni indici predittori di efficacia antimicrobica. Si è visto che i parametri che meglio predicono il raggiungimento dell’obiettivo terapeutico sono diversi per antibiotici con differente comportamento in quanto a batteriocidia, pur con differenze tra molecole della stessa classe. In estrema sintesi, il rapporto tra concentrazione al picco e MIC (Cmax/MIC) risulta il più forte predittore di efficacia per gli antibiotici concentrazione-dipendenti, mentre il tempo con concentrazione ematica superiore alla MIC e il rapporto tra area sottesa dalla curva di concentrazione ematica e MIC (AUC/MIC) lo sono per gli antibiotici tempo-dipendenti e concentrazione e tempo-dipendenti, rispettivamente.

È evidente che nella pratica clinica occorre trasferire il risultato relativo alla sensibilità batterica ottenuto in vitro (MIC) in efficacia clinica real world. A tal fine la corretta lettura dell’antibiogramma è cruciale. Tra gli errori più comunemente commessi c’è il confronto in senso verticale delle MIC per i diversi antibiotici saggiati. Piuttosto, l’interpretazione corretta richiede che la MIC sia rapportata per ciascun antibiotico ai rispettivi breakpoint, ovvero dei valori soglia ottenuti dalla combinazione di dati di laboratorio (MIC), caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche del farmaco antimicrobico (dosi cui può essere somministrato con tossicità limitata, concentrazioni ematiche e/o tissutali raggiungibili, ecc.), aspetti clinici (risultati degli studi di efficacia clinica). Ad oggi, gli unici breakpoint ad essere ufficialmente riconosciuti dall’EMA (European Medicines Agency) sono quelli definiti da EUCAST (Comitato Europeo per i Test di Suscettibilità Antimicrobica). Sulla scorta dei breakpoint, il batterio viene classificato come “S” (sensibile, utilizzando un regime di dosaggio standard dell’antibiotico), “I” (sensibile, aumentando l’esposizione all’antibiotico) o “R” (resistente). Generalmente i breakpoint di un antibiotico nei confronti di un particolare patogeno sono due, così da separare le tre categorie S, I e R: il breakpoint della sensibilità e quello della resistenza. Tanto più la MIC è lontana dal breakpoint della resistenza, tanto più è probabile che la terapia risulti efficace. Ne deriva che, sulla base dell’antibiogramma, la scelta dell’antibiotico debba ricadere sulla molecola con MIC più distante dalla soglia di resistenza, anche nel caso in cui il suo valore sia maggiore di altri.

Fenomeno particolarmente temibile è la pan-resistenza, ovvero la resistenza a tutte le molecole antibiotiche disponibili. Dinanzi ad un antibiogramma che mostri una lista di antibiotici a cui il batterio è resistente, occorre chiedere al laboratorio l’esecuzione di studi di sinergia in vitro. Lo scopo è l’individuazione di associazioni di antibiotici che per effetto sinergico in vitro risultano efficaci nell’inibire la crescita batterica. Conditio sine qua non è la capacità di clinico e microbiologo di lavorare fianco a fianco, in un’ottica di sempre più stretto dialogo e collaborazione per l’ottimizzazione della terapia antibiotica.

Infine, i test finalizzati all’individuazione dei meccanismi di resistenza ad oggi risultano utili prevalentemente a scopo epidemiologico e di ricerca, ma poco praticabili nell’attività clinica.

 

Criticità della terapia antibiotica nel deficit di funzione renale

Nel soggetto con compromissione della funzionalità renale la scelta della terapia antibiotica è ancor più complessa per le molteplici e significative alterazioni farmacocinetiche che si osservano in presenza di danno renale acuto (AKI) o MRC. Considerare le variazioni della biodisponibilità dei farmaci è fondamentale per prescrivere un trattamento antibiotico che risulti efficace, minimizzando il rischio di tossicità e lo sviluppo di AMR. È questione spinosa sia la scelta del tipo di antibiotico che la posologia, da valutare attentamente tanto per la modalità di somministrazione che per le singole dosi, gli intervalli di somministrazione e la durata.

Pur con indubbie differenze per classi di GFR e nefropatia di base, nonché tra le diverse molecole anche della stessa classe farmacologica, le principali alterazioni farmacocinetiche nei soggetti con MRC e l’effetto sulla biodisponibilità sono elencate nella Tabella IV.

Il trattamento delle IVU nel soggetto con declino della funzione renale merita un’ulteriore riflessione: in presenza di GFR ridotto, alcuni farmaci raggiungono concentrazioni urinarie troppo basse per risultare efficaci e pertanto dovrebbero essere evitati. È il caso della nitrofurantoina, sulfametoxazolo e alcuni fluorochinoloni come gemifloxacina e moxifloxacina.

Fasi della farmacocinetica Alterazioni Biodisponibilità
Assorbimento A livello dell’enterocita:
  • ↑ o ↓ trasporto passivo
↑ o ↓
  • ↓ metabolismo enzimatico

(es. CYP3A4)

  • ↓ attività pompe di efflusso

(es. P-glicoproteina 1)

Distribuzione ↓ concentrazione o legame con proteine plasmatiche ↑ frazione libera del farmaco (quota attiva), ma anche ↑ velocità metabolismo ed eliminazione (↓ emivita)
↑  volume di distribuzione
Metabolismo ed Eliminazione

↓ clearance renale per

  • ↓ filtrazione glomerulare
  • ↓ secrezione tubulare
  • ↓ metabolismo renale
 

↓  o ↑ clearance non renale ↑ o ↓
↑ clearance per terapia sostitutiva della funzione renale (in relazione a caratteristiche del farmaco, modalità dialitica – peritoneale o extracorporea -, durata – intermittente o continua -, tipologia filtri).
Tabella IV: Principali alterazioni farmacocinetiche nei soggetti con MRC

 

Nuovi antibiotici e vecchi “riabilitati”

Lo scenario finora descritto palesa la necessità di investire nella ricerca di nuove molecole in grado di superare i meccanismi di resistenza, tuttavia negli ultimi anni lo sviluppo di nuovi antibiotici è diminuito progressivamente [14]. Da ciò l’opportunità di reintrodurre nella pratica clinica antibiotici come la colistina, da tempo non più utilizzata per la disponibilità di altre molecole efficaci e con ridotto rischio di effetti collaterali.

Colistina

La colistina (o polimixina E) è stata sviluppata oltre mezzo secolo addietro, ma quasi abbondonata negli anni ’80 per la scarsa maneggevolezza e tossicità. È un antibiotico polipeptidico, appartenente alla classe delle polimixine, disponibile in due forme farmacologiche: colistina solfato (CS) e colistimetato di sodio (CMS), il pro-farmaco inattivo. La CS è disponibile solo per via orale o topica ed è impiegata per il trattamento di infezioni intestinali e cutanee, rispettivamente. Il CMS è meno tossico della colistina e la via di somministrazione può essere endovenosa, intramuscolare, inalatoria, oftalmica o intratecale/intraventricolare. Il pro-farmaco, somministrato per via parenterale, nel soggetto con normofunzione renale per circa il 60% viene eliminato immodificato dal rene, sia mediante filtrazione glomerulare che per secrezione tubulare attiva. Solo una quota inferiore al 30% nel sangue va incontro spontaneamente ad idrolisi e trasformata in CS. La CS ha un’emivita di 14,4 ore, ovvero circa sei volte superiore al pro-farmaco. Nel soggetto con MRC la quota di CMS eliminato immodificato dal rene è ridotta, pertanto una maggiore quantità va incontro a trasformazione in CS, dalla più lunga emivita e potenziale tossico. Di rilievo, le informazioni disponibili sulla farmacocinetica della CS sono limitate perché essendo una molecola datata non è stata sviluppata secondo le procedure di controllo della sicurezza cui oggi sono sottoposti i nuovi farmaci. Ancor più limitata è l’esperienza clinica nei soggetti con MRC.

La CS agisce legando il lipopolisaccaride, componente principale della parete batterica dei Gram-negativi, determinando un’aumentata permeabilità della membrana. L’attività battericida è rapida, concentrazione-dipendente, ma con una finestra terapeutica stretta. Il miglior predittore di attività battericida secondo studi in vitro e nel modello animale è risultato il rapporto AUC/MIC [46,47]. La CS è attiva nei confronti della maggior parte dei bacilli Gram-negativi aerobi e aerobi facoltativi, tra cui P. Aeruginosa e A. Baumanni. Non è attiva contro i batteri Gram-positivi, i cocchi Gram-negativi e gli anaerobi.

In una recente review sul trattamento delle IVU da germi AMR, Bader et al. indicano la colistina quale valida opzione terapeutica nelle forme sostenute da Enterobatteri resistenti ai carbapenemi e Pseudomonas spp [48]. Sei società e organizzazioni internazionali che operano in tutto il mondo (American College of Clinical Pharmacy (ACCP), European Society of Clinical Microbiology and Infectious Diseases (ESCMID), Infectious Diseases Society of America (IDSA), International Society for Anti-infective Pharmacology (ISAP), Society of Critical Care Medicine (SCCM) e Society of Infectious Diseases Pharmacists (SIDP) hanno recentemente elaborato delle line guida sull’uso delle polimixine. Tra le molecole della classe, con riferimento alle IVU, viene raccomandato di preferire la colistina, in ragione della succitata clearance renale del pro-farmaco CMS, idrolizzato nella forma attiva CS nel tratto urinario, così ottenendo elevate ed efficaci  concentrazioni del farmaco nelle urine [49].

Le linee guida raccomandano di adeguare la posologia al grado di funzione renale e di monitorare le concentrazioni ematiche, fissando come valore target 2 mg/L [49]. Tuttavia, nel recente passato i breakpoint per sensibilità e resistenza per P. Aeruginosa forniti da EUCAST erano ≤ 4 mg/L e >4 mg/L rispettivamente [50]. Pertanto, veniva suggerito di tener conto del patogeno isolato nella scelta posologica. Invece, successivamente, il gruppo di lavoro congiunto CLSI (Clinical and Laboratory Standards Institute)/EUCAST, pur indicando  breakpoint differenti per ciascuna delle due commissioni, conveniva sulla concentrazione ematica target di 2 mg/L, indipendentemente dal germe patogeno, sottolineando che nonostante tale target possa essere subottimale per alcune infezioni, concentrazioni più alte si associano a significativamente più alta incidenza e severità di AKI [49].

La dose giornaliera abituale per gli adulti è pari a 2,5-5 mg/kg/die di attività base di CS, suddivisa in due o tre dosi. Nonostante molti esperti abbiano rilevato che tale regime di dosaggio sia spesso insufficiente per raggiungere la concentrazione ematica target, è emerso che il tasso di guarigione clinica è comunque alto, specie nel caso delle IVU, e la tossicità è contenuta [51, 52].

Infatti la nefrotossicità, uno dei principali effetti avversi, è almeno in parte dose-dipendente [53]. L’incidenza non è ben definita poiché i dati disponibili mostrano notevole eterogeneità nei criteri diagnostici di danno renale, nelle popolazioni in studio e nelle dosi di impiego del farmaco. In letteratura è stata descritta tossicità renale in un percentuale variabile di casi tra il 20 e il 60% ed è associata a mortalità. Emergono quali fattori di rischio: l’utilizzo di dosi elevate, il concomitante uso di altri farmaci nefrotossici, la MRC, l’obesità, le condizioni di ipovolemia. I meccanismi patogenetici alla base della nefrotossicità sono complessi e comprendono il danno diretto della membrana cellulare con conseguente lisi, l’aumentata produzione di radicali liberi dell’ossigeno e la ridotta disponibilità di ossido nitrico [54]. Studi sperimentali suggeriscono che il danno renale sia prevalentemente tubulo-interstiziale e favorito dal raggiungimento di elevate concentrazioni di CS nel parenchima renale per l’attività di riassorbimento del farmaco ad opera di trasportatori tubulari [55]. Le manifestazioni cliniche della nefropatia da CS spaziano dal danno renale acuto alle anomalie urinarie isolate, quali ematuria, proteinuria e cilindruria.

Con riferimento alla oggettiva difficoltà nello stabilire la posologia adeguata, diversi autori sostengono che nella pratica clinica i soggetti con MRC ricevano la CS a dosi significativamente ridotte rispetto alle raccomandazioni. Sorli et al. hanno studiato 59 soggetti con MRC trattati con CS. È emerso che le dosi d’impiego erano pressoché dimezzate rispetto a quelle consigliate. A ciò è stato correlato, pur con notevole variabilità interindividuale già evidenziata in altri lavori, il riscontro di una concentrazione sierica di CS inferiore al target raccomandato in oltre la metà dei pazienti, oltreché un valore medio più che dimezzato. Nonostante il sottodosaggio, la guarigione clinica era ottenuta in circa il 73% dei casi. Tuttavia, il tasso di guarigione clinica differiva in base al processo infettivo trattato, limitandosi al 50% nel caso della polmonite. Gli autori suggerivano che concentrazioni ematiche inferiori al target di 2 mg/L potrebbero essere sufficienti per il trattamento delle IVU, di infezioni non particolarmente severe e quando la MIC è ≤ 1, ma ulteriori studi farmacocinetici mirati sono necessari. Un peggioramento della funzione renale secondo i criteri RIFLE (Risk, Injury, Failure, Loss and End-stage kidney disease) era osservato in circa il 34% dei soggetti e nella metà dei casi era reversibile. Ciò vale a dire che la nefrotossicità era osservata con un’incidenza paragonabile alla popolazione generale, quindi la MRC non rappresentava fattore di rischio, almeno alle dosi impiegate [52].

Alquanto limitati sono i dati relativi alla farmacocinetica della CS nella popolazione dialitica. Alcuni studi hanno investigato il rapporto tra posologia CS e concentrazioni ematiche in soggetti sottoposti a dialisi extracorporea con metodiche continue: i risultati suggeriscono di somministrare dosi analoghe a quelle indicate per i soggetti con normofunzione renale, a causa della clearance del farmaco relata al trattamento dialitico, in parte da attribuire all’assorbimento della CS sulla membrana del filtro [56,57]. Invece, nei pazienti sottoposti a dialisi intermittente sono raccomandate dosi ridotte e supplementazioni dopo seduta dialitica.

La resistenza batterica alla CS era rara fino a pochi anni fa, in ragione dell’uso sporadico, ma è in atto un problema in crescita. Sono descritti almeno tre meccanismi di resistenza: modificazioni del lipopolisaccaride con perdita di affinità per la CS, attivazione di pompe di efflusso ed etero-resistenza. L’etero-resistenza e la rapida diffusione delle resistenze suggeriscono l’impiego della CS in combinazione ad altri antibiotici piuttosto che in monoterapia. In particolare, è consigliata l’associazione con rifampicina, ceftazidime o carbapenemi.

Concludendo, ad oggi la CS può rappresentare un’arma molto utile a causa dell’emergente AMR e la limitata disponibilità di nuove molecole. È indispensabile farne un uso razionale allo scopo di ottimizzare il trattamento e limitare la tossicità. Soprattutto in popolazioni speciali, come nella MRC, occorre prestare particolare attenzione alla posologia e monitorare la concentrazione ematica. Ulteriori studi potranno chiarire se il target sia da considerarsi “parzialmente individualizzabile” sulla scorta della sede e della gravità di infezione, oltreché del patogeno.

Ceftolozano/tazobactam (Zerbaxa®)

Zerbaxa è uno degli antibiotici di più recente introduzione, disponibile anche in Italia dal 2016. Si tratta di una associazione precostituita tra una cefalosporina di quarta generazione (ceftolozano) ed un classico inibitore delle beta-lattamasi (tazobactam). Il ceftolozano, come le altre cefalosporine, lega le proteine leganti la penicillina (PBP) interferendo con la sintesi della parete cellulare batterica e così portando rapidamente a morte il microrganismo. Si caratterizza per un’elevata affinità per le PBP che gli conferirebbe la capacità di superare alcuni meccanismi di resistenza quali l’iperespressione dei sistemi di efflusso e la ridotta permeabilità di membrana per alterazione della porina. Il tazobactam agisce in sinergia con il ceftolozano, evitandone la degradazione per idrolisi ad opera delle beta-lattamasi.

L’associazione ha dimostrato una marcata attività anti- P. Aeruginosa e ESBL ed è stata approvata per il trattamento di IVU complicate, ma anche polmoniti nosocomiali ed infezioni intraddominali complicate. È in commercio in fiale da 1 g/0,5 g per somministrazione endovenosa, ogni 8 ore, dose da adeguare alla funzione renale, essendo il farmaco a prevalente escrezione renale [58]. Nello studio di registrazione ASPECT-cUTI (Assessment of the Safety Profile and Efficacy of Ceftolozane/Tazobactam in Complicated Urinary Tract Infections), 1083 soggetti ospedalizzati per IVU complicata, compresa la pielonefrite acuta, sono stati randomizzati a ceftolozano/tazobactam 1 g/0.5 g tre volte al dì vs levofloxacina 750 mg ev die per 7 giorni. In un disegno di non inferiorità, ceftolozano/tazobactam è risultato superiore alla levofloxacina per l’endpoint composito di guarigione clinica ed eradicazione microbiologica. Relativamente alla sicurezza, ceftolozano/tazobactam ha mostrato un’incidenza di eventi avversi analoga alla levofloxacina: effetti collaterali comuni sono stati nausea, stipsi, diarrea, cefalea e febbre, in genere di entità lieve-moderata, mentre in due casi nel ramo ceftolozano/tazobactam è stata registrata una grave infezione da Clostridium Difficile. Alcune caratteristiche dello studio ASPECT-cUTI sono da evidenziare, ovvero l’utilizzo di un dosaggio di levofloxacina più alto rispetto a quanto usualmente consigliato per le IVU, la giovane età della popolazione in studio (età media 48 anni), il sesso femminile e la funzione renale conservata [59]. Huntington et al. hanno recentemente condotto un’analisi post hoc dei dati raccolti per il trial ASPECT-cUTI, rilevando che il 26,5% della popolazione in studio manifestava resistenza alla levofloxacina già in basale. Lo studio da un lato ha confermato le attuali raccomandazioni ad evitare l’impiego di fluorochinoloni nel trattamento empirico delle IVU complicate, dall’altro ha mostrato buoni tassi di efficacia di ceftalozano/tazobactam anche nel trattamento di IVU sostenute da germi resistenti alla levofloxacina [60].

Dalle evidenze finora disponibili, si può concludere che ceftolozano/tazobactam è un antibiotico efficace e ben tollerato che mostra risultati promettenti nel trattamento delle IVU da germi AMR, anche nell’ottica del risparmio dei carbapenemi. Relativamente alla possibile insorgenza di infezioni da C. Difficile quale severo evento avverso relato al trattamento, ad oggi è consigliabile che il clinico mantenga alto il livello di attenzione, così da poter assicurare un intervento tempestivo. Nonostante il costo unitario di ceftalozano/tazobactam sia più elevato rispetto agli antibiotici di più comune impiego per il trattamento delle IVU, analisi condotte al fine di valutarne l’impatto economico associato all’introduzione nella terapia delle IVU complicate hanno concluso per la sua sostenibilità anche sotto il profilo economico [61].

Tutto quanto considerato, ad oggi si ritiene necessario un utilizzo parsimonioso di questo farmaco nelle IVU complicate, in caso di fallimento del trattamento di prima linea o in presenza di elevato rischio per germi AMR. Ulteriori studi sono necessari per definire l’ottimale collocazione del farmaco nel vasto mondo degli antibiotici sulla scorta dell’impatto, nella popolazione real world, sulla morbidità, i tassi di ospedalizzazione e la mortalità.

Ceftazidima/avibactam (Zavicefta®)

In commercio in Italia in regime di rimborsabilità dal 2018, Zavicefta combina una cefalosporina di terza generazione (ceftazidima), con un nuovo inibitore delle beta-lattamasi non beta-lattamico, l’avibactam, appartenente alla classe dei diazabiciclo ottani. Questi inibitori, a differenza dei beta-lattamici non sono inibitori suicidi, cioè non si legano alle beta-lattamasi in modo irreversibile, ma piuttosto in modo reversibile con la possibilità di attaccare altri enzimi. Ne deriva una capacità inibente molto potente in relazione al mantenimento dell’attività nel tempo, unitamente al fatto che bastano poche molecole di avibactam per inibire una molecola di beta-lattamasi.

È stato approvato, oltre che con le indicazioni di ceftolozano/tazobactam, anche specificatamente per le infezioni causate da Gram-negativi aerobi in adulti con opzioni terapeutiche limitate. La dose consigliata è di 2 g/ 0.5 g ogni 8 ore, con necessità di adeguamento posologico in caso di ridotta funzionalità renale [62]. Negli studi in vitro l’associazione ceftazidima/avibactam ha dimostrato ottima attività nei confronti dei batteri Gram-negativi con altissime percentuali di ceppi sensibili ad eccezione di A. Baumannii (60% di ceppi sensibili). È efficace anche contro gli enterobatteri che producono KPC, ESBL, OXA ed enzimi AmpC. Invece, avibactam non reca vantaggi su P. Aeruginosa rispetto a ceftazidima da sola [63]. Negli studi clinici registrativi ceftazidima/avibactam si è rivelato non inferiore a imipenem/cilastatina per il trattamento delle IVU complicate. Lo studio di fase III REPRISE ha supportato l’utilizzo dell’associazione ceftazidima/avibactam quale valida alternativa ai carbapenemi anche nel trattamento di infezioni sostenute da enterobatteri resistenti alla ceftazidima [64]. In una revisione sistematica di otto trial clinici controllati randomizzati, che riportava un basale del 25% per enterobatteri produttori di ESBL, ceftazidima/avibactam è risultato efficace quanto i carbapenemi per il trattamento delle IVU complicate, ma venivano segnalati eventi avversi severi, non meglio definiti, più frequentemente nel gruppo ceftazidima/avibactam (RR 1,24, IC 95%, 1,00-1,54, P = 0,05) [65].  Malgrado la necessità di ulteriori studi mirati alla valutazione della sicurezza, ad oggi le reazioni avverse più comunemente osservate nei soggetti trattati con Zavicefta sono state la positività al test diretto di Coombs e sintomi gastro-intestinali solitamente di entità lieve o moderata.

Sebbene l’argomento sia ampiamente dibattuto, diversi autori consigliano di non utilizzare ceftazidima/avibactam in monoterapia, ma piuttosto in associazione ad altri antibiotici quali fosfomicina, gentamicina, colistina, meropenem, tigeciclina, trimetoprim/sulfametossazolo o aztreonam. Ulteriori studi potranno migliorare l’appropriatezza di utilizzo di Zavicefta, facendo chiarezza sull’impiego di specifiche combinazioni di antibiotici, anche in rapporto al patogeno isolato, allo studio di sensibilità e al sito di infezione. Ciò al fine di sfruttare l’effetto sinergico degli antimicrobici, ma anche per limitare la diffusione di resistenze nei confronti della nuova, promettente, opzione terapeutica.

Cefiderocol (Fetcroja®)

Disponibile negli Stati Uniti dal 2019, cefiderocol è un nuovo antibiotico della classe delle cefalosporine, che ha recentemente ottenuto l’autorizzazione per l’immissione in commercio anche in Europa. È indicato per il trattamento di infezioni sostenute da Gram-negativi aerobi in adulti con opzioni terapeutiche limitate ed è il primo antibiotico attivo contro tutti e tre i patogeni considerati di priorità critica dall’OMS, ovvero A. Baumannii, P. Aeruginosa e gli enterobatteri resistenti ai carbapenemi [66].

Il meccanismo d’azione è comune ai beta-lattamici, ovvero l’inibizione della sintesi della parete cellulare batterica attraverso il legame e il blocco dell’attività delle PBP. Tuttavia, cefiderocol ha una particolare struttura cui è da ricondurre la capacità di superare i principali meccanismi di resistenza dei Gram-negativi e dunque l’efficacia terapeutica. Innanzitutto, cefiderocol è una molecola siderofora, ovvero dotata di elevata affinità per il ferro ed in grado di chelarlo efficacemente. Il ferro è indispensabile per importanti processi di ossidoriduzione della respirazione cellulare e tra le molteplici strategie messe in atto dai batteri per approvvigionarsene c’è la produzione di siderofori e la loro internalizzazione per trasporto attivo mediante trasportatori dedicati. In virtù della natura siderofora, cefiderocol utilizza un meccanismo alquanto innovativo per penetrare nella membrana cellulare esterna dei Gram-negativi: lega il ferro ferrico e il complesso viene trasportato attivamente all’interno della cellula per mezzo dei trasportatori di ferro batterico. Questo meccanismo si aggiunge all’ingresso per diffusione passiva, attraverso i canali porinici. Come risultato, il farmaco penetra nella cellula in grandi quantità. A ciò si aggiunge che cefiderocol ha dimostrato particolare stabilità e resistenza nei confronti di beta-lattamasi e carbapemasi [67]. Nell’insieme quanto detto spiega come questa nuova molecola sia in grado di superare tre principali meccanismi di resistenza (alterazioni dei canali porinici, inattivazione ad opera delle beta-lattamasi e delle carbapemasi, iperproduzione di pompe di efflusso) e raggiungere alte concentrazioni nello spazio periplasmatico.

Come per le altre cefalosporine il parametro farmacocinetico che meglio correla con l’efficacia terapeutica è il rapporto AUC/MIC. Il farmaco è disponibile per somministrazione endovenosa, alla dose di 2 g ogni otto ore. Essendo a prevalente escrezione renale, immodificato, è richiesto adeguamento posologico per GFR.

In vitro cefiderocol ha dimostrato scarsa attività sui Gram-positivi e sugli anaerobi, mentre è attivo sui batteri produttori di ESBL, AmpC e carbapenemasi [67]. L’approvazione di cefiderocol è stata supportata dall’insieme dei dati preclinici e degli studi clinici di registrazione, mentre c’è grande attesa per i risultati degli studi post-marketing. Con riferimento alle IVU complicate, lo studio di fase II APEKS (Acinetobacter, Pseudomonas, Escherichia coli, Klebsiella, Stenotrophomonas) –cUTI, in doppio cieco, randomizzato, è stato disegnato per valutare l’efficacia e la sicurezza di cefiderocol in confronto con imipenem/cilastatina. Nonostante il disegno di non inferiorità dello studio, un’analisi secondaria ha evidenziato che cefiderocol si è rivelato superiore a imipenem/cilastatina sia nel raggiungimento dell’endpoint primario composito di risposta clinica e microbiologica che nell’eradicazione microbiologica. Inoltre, cefiderocol ha mostrato un ottimo profilo di sicurezza: gli eventi avversi più frequenti sono stati nausea e diarrea di entità lieve-moderata; rispetto al ramo imipenem/cilastatina è stata registrata una più bassa incidenza di eventi avversi severi (5% vs 8%), così come di infezioni da C. Difficile, vantaggio quest’ultimo da attribuire verosimilmente allo spettro ristretto di cefiderocol [68].

EUCAST ha determinato i breakpoint clinici per gli enterobatteri e P. Aeruginosa: Sensibile ≤ 2 mcg/mL, Resistente >2 mcg/mL.  Per gli altri patogeni non sono ancora disponibili dati sufficienti per determinare i breakpoint ed EUCAST ha fornito indicazioni sui diametri delle zone di inibizione per escludere gli isolati sicuramente resistenti. Un valido studio di sensibilità per cefiderocol richiede l’impiego di terreni privi di ferro, a causa della proprietà siderofora della molecola che ha un ruolo chiave nell’attività antibatterica [69].

La paucità dei dati di efficacia e sicurezza al momento disponibili ne supportano l’impiego in uno step successivo rispetto ad altri beta-lattamici di recente introduzione [70].

Imipenem/cilastatina/relebactam (Recarbrio®)

Recarbrio ha ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio in Italia nell’aprile 2020. Tra le indicazioni approvate dall’EMA c’è il trattamento di gravi infezioni sostenute da Gram-negativi aerobi, laddove altri trattamenti potrebbero risultare fallimentari. All’associazione già disponibile imipenem/cilastatina è stato aggiunto il relebactam, un nuovo inibitore della beta-lattamasi appartenente, come l’avibactam, alla classe dei diazabiciclo ottani [71].

La dose consigliata è imipenem 500 mg/cilastatina 500 mg/relebactam 250 mg ogni 6 ore, con aggiustamenti del dosaggio in base alla funzione renale. L’approvazione di Recarbrio è stata supportata da numerosi studi in vitro che hanno evidenziato una netta riduzione della MIC aggiungendo relebactam ad imipenem, per isolati di P. Aeruginosa, enterobatteri e K. Pneumoniae. In sostanza, relebactam era in grado di migliorare significativamente l’attività dell’agente carbapenemico contro i citati germi resistenti ad imipenem da solo. Viceversa è emerso che relebactam non adduce vantaggi su A. Baumanni e anaerobi rispetto ad imipenem da solo [72]. I dati degli studi di registrazione mostrano la non inferiorità della combinazione dei tre farmaci rispetto a imipenem/cilastatina soltanto, per il trattamento delle IVU complicate [73]. Altri trial clinici sono stati condotti per valutarne l’efficacia nel trattamento delle infezioni addominali complicate e delle polmoniti nosocomiali con analoghi incoraggianti risultati. Inoltre, alla luce dei dati sinora disponibili il farmaco appare ben tollerato, anche nei soggetti ospedalizzati.

Meropenem-vaborbactam (Vabomere®)

Associazione precostituita di un noto carbapenemico (meropenem) e di un nuovo inibitore delle beta-lattamasi (vaborbactam), Vabomere ricalca le indicazioni e lo spettro d’attività di imipenem/cilastatina/relebactam, eccetto che per la scarsa efficacia contro P. Aeruginosa emersa dalle pur limitate evidenze ad oggi disponibili [74]. Nello studio di registrazione TANGO I meropenem-vaborbactam è risultato non inferiore a piperacillina/tazobactam per via endovenosa nel trattamento delle IVU complicate, sia per il raggiungimento dell’endpoint composito di guarigione clinica ed eradicazione microbiologica che per questi stessi obiettivi singolarmente, tanto a fine ciclo terapeutico che a distanza di 14 giorni [75]. Nel trial di fase 3 TANGO II, meropenem-vaborbactam ha fatto registrare tassi di guarigione clinica più elevati rispetto alla migliore terapia disponibile per il trattamento di infezioni sostenute da enterobatteri resistenti ai carbapenemi. Il dato assai importante che se ne ricava è che vaborbactam è stato in grado di ripristinare la batteriocidia di meropenem in isolati resistenti [76]. Ad oggi il farmaco ha anche dimostrato un buon livello di sicurezza e tollerabilità, a corroborare il possibile ruolo fondamentale di questa nuova opzione terapeutica nell’armamentario farmacologico per il contrasto dell’AMR.

 

Strategie per migliorare l’outcome nelle IVU da germi AMR

In presenza di IVU sostenuta da germi AMR, la buona pratica clinica è determinante in ciascuna delle diverse fasi dell’iter diagnostico-terapeutico per un outcome clinico favorevole. Innanzitutto è fondamentale la diagnosi precoce e l’identificazione dei fattori di rischio per AMR sulla base dei dati clinici. L’individuazione di una forma ad alto rischio per AMR deve tradursi in un approccio clinico e terapeutico più deciso.

Le IVU sospette per AMR richiedono tempestività d’intervento ed avvio di antibioticoterapia empirica in attesa dello studio microbiologico e della sensibilità. La scelta empirica degli antibiotici deve essere “ragionata”, basata sulle indicazioni delle linee guida, sui tassi di resistenza registrati a livello locale, la conoscenza delle caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche del farmaco, elementi indispensabili al clinico per ottimizzare l’uso degli antibiotici massimizzando l’efficacia e riducendo al minimo gli effetti avversi. Negli ultimi anni la sfida è sempre più ardua per la necessità di conciliare l’utilizzo di antimicrobici ad ampio spettro ed a rischio contenuto di resistenze, con il problema dell’emergente AMR.

L’antibiogramma costituisce un formidabile strumento a disposizione del clinico per ottenere il successo terapeutico. Tuttavia, è indispensabile una corretta lettura ed interpretazione dell’antibiogramma, confrontando le MIC con i breakpoint. In caso di panresistenza è opportuno chiedere al laboratorio la valutazione in vitro della sinergia tra antibiotici.

Per stabilire la durata del trattamento è richiesta un’attenta valutazione della gravità del processo infettivo, nonché del suo decorso clinico e microbiologico e delle caratteristiche farmacodinamiche dell’antimicrobico scelto. Infatti, la durata è noto fattore chiave nell’influenzare sia l’esito della terapia che lo sviluppo dell’AMR.

È auspicabile la creazione di gruppi di lavoro che comprendano l’infettivologo ed il microbiologo. Recenti evidenze suggeriscono che nonostante il problema dell’AMR, gli antibiotici di più recente introduzione sono poco utilizzati nella pratica clinica. La ragione va ricercata soprattutto nel fatto che i nuovi antimicrobici sono spesso appannaggio quasi esclusivo dello specialista infettivologo, che ha le competenze professionali per l’ottimale gestione della terapia. Nondimeno, se da un lato è bene promuovere il lavoro d’equipe multidisciplinare, dall’altro è certamente tra le più importanti strategie di contrasto all’AMR la formazione continua dei medici di tutte le specialità, insieme all’aggiornamento tempestivo e puntuale delle linee guida con le nuove molecole, di immediata consultazione da parte del prescrittore.

Nuove tecniche molecolari si stanno dimostrando di grande utilità per il clinico nella prescrizione degli antibiotici. MALDI-TOF (Matrix assisted laser desorption/ionization time of flight) è un’analisi con spettrometro di massa di un campione biologico (es. urine) che consente la rapida identificazione del patogeno e la valutazione della sensibilità (mezz’ora vs 2-3 giorni delle metodiche tradizionali). Gli studi clinici ad oggi disponibili suggeriscono che l’implementazione di questa metodica si associa a riduzione della mortalità [77].

Infine, nell’ambito delle strategie volte a contrastare l’AMR, appare opportuno fare un breve cenno ad alcuni approcci innovativi che potrebbero rivestire un importante ruolo adiuvante e complementare rispetto all’ottimizzazione della terapia antibiotica e delle buone pratiche di prevenzione delle infezioni. È già in corso lo sviluppo di vaccini contro patogeni AMR, tra cui S. Aureus; appaiono incoraggianti le attuali evidenze sull’impiego delle lisine fagiche, enzimi prodotti da batteriofagi, in grado danneggiare la parete di streptococchi, stafilococchi (compreso MRSA) e A. Baumanni, con effetto battericida; crescente è l’interesse sul trapianto di microbiota fecale, laddove ad oggi le maggiori esperienze maturate riguardano il trattamento dell’infezione da C. Difficile, ma i dati disponibili sono suggestivi di efficacia nel ridurre la colonizzazione intestinale da germi AMR [78].

 

Conclusioni

Il trattamento delle IVU può rappresentare una sfida davvero audace per il nefrologo a causa della continua diffusione di uropatogeni AMR. Nonostante il riconoscimento dell’AMR quale priorità sanitaria mondiale è chiaro che quanto fatto finora rimane insufficiente. Occorre uno sforzo maggiore nell’adozione delle misure volte a rallentarne la diffusione, attraverso un uso attento e ragionato degli antibiotici e l’attuazione di procedure assistenziali atte a ridurre la circolazione dei germi AMR.

Il paziente con patologia renale è ad alto rischio di IVU da germi AMR in rapporto alla particolare suscettibilità alle infezioni ed al significativo rischio di forme complicate. La scelta della terapia antibiotica deve essere personalizzata, guidata dallo studio microbiologico, e può avvalersi di nuove molecole ad oggi molto promettenti. Il dialogo e la cooperazione con il microbiologo e l’infettivologo, oltreché l’innovazione laboratoristica, sono auspicabili per l’ottimizzazione della gestione antimicrobica.

 

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Environmental toxic and direct drug-related renal toxicity. Antibiotics

Abstract

Antibiotics are a relatively common cause of acute kidney injury that occurs mainly in patients with underlying risk factors. Adverse reactions from antibiotics can be classified as type A when they are foreseeable, we know the cause and are often dose dependent and type B when they occur in an unpredictable way, are independent of the dose and due to hypersensitivity and / or immunoallergic phenomena. All compartments of the kidney are prone to antibiotic damage which, clinically, results in tubular dysfunction, acute renal failure, nephritic syndrome and chronic renal failure. The drugs most responsible are vancomycin, aminoglycosides and beta lactamines. The occurrence of acute renal failure correlates with the length of hospitalization and the risk of death. It therefore becomes of fundamental clinical importance to know the antibiotics with potential nephrotoxic effect in order to establish the dosage on the basis of renal function and correct all the factors that can enhance their toxicity.

Keywords: nephrotoxicity, direct antibiotics-related renal toxicity , antibiotics, adverse drug reactions

 

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Introduzione

Dal rapporto nazionale sull’uso dei farmaci in Italia nel 2018 [1], la spesa per antimicrobici per uso sistemico si aggira intorno ai 3 miliardi di Euro che rappresenta una percentuale sul totale di spesa del 13%. Gli antimicrobici generali per uso sistemico rappresentano la terza categoria terapeutica a maggior spesa pubblica per il 2018 (48,23 euro pro capite). Il posizionamento complessivo di questa categoria è prevalentemente giustificato dalla spesa derivante dall’acquisto di questi medicinali da parte delle strutture sanitarie pubbliche (35,16 euro pro capite); al contrario il contributo dato dall’assistenza farmaceutica convenzionata risulta di minore entità (13,07 euro pro capite). La dose definita giornaliera (DDD) è stata calcolata di 23 che significa che sono state prescritte 23 DDD di antibiotici ogni mille abitanti al giorno e si può considerare che 23 persone su 1000, cioè il 2.3%, hanno ricevuto in media ogni giorno una DDD di antimicrobici. Prevalenza d’uso e spesa sono più elevati in età pediatrica per poi diminuire nell’età adulta e innalzarsi sopra i 55 anni di età.  Le categorie a maggior consumo sono le associazioni di penicilline, i chinoloni, le cefalosporine di III e IV generazione. Vi sono importanti differenze d’uso tra le regioni italiane, le dosi prescritte variano da 11,2 della P.A. di Bolzano a 24,7 della Campania che, insieme a Umbria, Calabria, Puglia, Lazio, Marche e Basilicata, sono le regioni con dosi e costo medio per giornate di terapia superiori alla media nazionale. Questi dati dimostrano che in Italia vi è un enorme consumo di antibiotici e che probabilmente le differenze d’uso rappresentano anche livelli diversi di appropriatezza.

Gli antibiotici, come noto,  sono una causa relativamente comune di danno renale acuto che si verifica principalmente nei pazienti con fattori di rischio sottostanti. Le reazioni avverse da antibiotici possono essere classificate di tipo A quando sono prevedibili, ne conosciamo la causa e spesso sono dose dipendenti e di tipo B quando si manifestano in modo imprevedibile, sono indipendenti dalla dose e dovuti a fenomeni di ipersensibilità e/o immunoallergici [2]. La malattia renale indotta da farmaci è una causa frequente di disfunzione renale, tuttavia è necessario uno standard per identificare e caratterizzare lo spettro di questi disturbi. Un gruppo di esperti internazionali ha definito quattro fenotipi per la malattia renale indotta da farmaci basati sulla presentazione clinica: insufficienza renale acuta (IRA) sia di tipo A che B; nefropatia glomerulare (rara e non segnalata senza IRA); danno tubulare con lesioni isolate o generalizzate; infine nefropatia da calcoli o da cristalluria [3].

 

Epidemiologia

Durante l’ospedalizzazione è frequente la comparsa di IRA, in corso di terapia antibiotica,; un recente lavoro, che analizza esclusivamente pazienti in terapia antimicrobica, riporta un’incidenza di poco meno del 20% durante un anno di osservazione. I pazienti che hanno sviluppato IRA erano più frequentemente ipertesi e diabetici ed assumevano farmaci nefrotossici concomitanti. I farmaci maggiormente responsabili erano vancomicina, aminoglicosidi e beta lattamine. La comparsa di IRA correlava in modo significativo con il rischio di morte [4].

Nel registro di farmacovigilanza francese il 3% delle reazioni avverse sono classificate come IRA; di queste il 15% ha necessitato dialisi. Nel 30% dei casi il farmaco responsabile è un antibiotico. Gli antibiotici più facilmente implicati sono gli aminoglicosidi, le beta lattamine e i chinolonici [5].

L’epidemiologia dell’IRA nelle terapie intensive usando i criteri KDIGO supera il 50%; aminoglicosidi e glicopeptidi sono in terapia del 10% dei pazienti con IRA. La presenza di ipertensione, diabete, patologia cardiovascolare e severità della malattia all’ingresso sono fattori di rischio di sviluppare IRA. La severità dell’IRA si associa ad aumento della mortalità e la funzione renale alla dimissione è peggiore nei pazienti che avevano sviluppato IRA [6]. Nel paziente critico avvengono modificazioni della farmacocinetica che coinvolgono soprattutto la clearance del farmaco con possibilità di raggiungere elevati livelli di antibiotico nel sangue e conseguente tossicità. Gli antibiotici più usati nelle terapie intensive sono la vancomicina, il merrem, le cefalosporine e la piperacillina, tutti con una clearance renale [7].

 

Farmaci più frequentemente in causa

Vancomicina

L’incidenza di nefropatia da vancomicina varia dal 5 al 40% in relazione anche ai fattori di rischio presenti ed ai livelli ematici di vancomicina. Il meccanismo con cui si verifica la nefrotossicità, per quanto non completamente chiarito, è riconducibile ad un danno cellulare secondario a ossidazione e disfunzione mitocondriale con susseguente apoptosi cellulare. La nefrotossicità si manifesta generalmente fra il 4° e 8° giorno di terapia [8].

Dal punto di vista morfologico, la vancomicina può produrre lesioni riconducibili a Necrosi Tubulare Acuta (ATN) con ostruzione tubulare dovuta a cilindri composti da aggregati di vancomicina e uromodulina [9] ma anche nefriti tubulo-interstiziali acute con possibili granulomi [10].

L’incidenza di nefrotossicità da vancomicina aumenta con l’aumentare dei livelli ematici e vi è una associazione con livelli ematici superiori a 15 mg/dl, con l’essere ricoverati in terapia intensiva e con il concomitante impiego di altri farmaci nefrotossici [11]. L’incidenza di nefrotossicità sembra maggiore con la somministrazione intermittente rispetto alla continua ed i livelli che devono essere mantenuti, per evitare tossicità,  nella somministrazione continua sono tra 20 e 30 mg/l [12].

Per ottimizzare l’uso della vancomicina nel trattamento di infezioni gravi causate da MRSA (massimizzare l’efficacia clinica e ridurre al minimo il rischio di IRA), le ultime linee guida raccomandano di mirare a un rapporto AUC / MICBMD da 400 a 600 (ipotizzando una MICBMD di 1 mg / L) in pazienti sia adulti che pediatrici. L’AUC deve essere monitorata utilizzando 2 concentrazioni postdose (ovvero, una concentrazione massima misurata dopo la fase iniziale di distribuzione tissutale della vancomicina e un livello minimo misurato prima della dose successiva), utilizzando preferibilmente programmi software con metodo Bayesiano. Il monitoraggio del trough-level  potrebbe essere insufficiente a guidare il dosaggio di vancomicina in tutti i pazienti [13].

Molti sono i fattori di rischio segnalati; i più frequenti sono la dose di farmaco sopra i 4 gr/die, i livelli ematici sopra 15 mg/l, la durata della terapia, l’età, il peso corporeo, la funzione renale, la concomitante somministrazione di altri farmaci nefrotossici e il ricovero in terapia intensiva. La comparsa di nefrotossicità da vancomicina è associata con una più lunga ospedalizzazione, aumento dei costi e rischio di morte [14].

Negli ultimi anni numerosi studi hanno segnalato un aumento nell’incidenza di nefrotossicità con il concomitante impiego di piperacillina tazobactam. In una recente metanalisi condotta su 15 studi pubblicati e 17 abstracts presentati a congressi che comprendevano 24,799 pazienti, l’incidenza complessiva di danno renale acuto era del 16.7%, 22.2% per l’associazione vancomicina/ piperacillina-tazobactam e 12.9% per le terapie di confronto (sola vacomicina, solo piperacillina-tazobactam o combinazione di vancomicina e beta-lattamine) [15].

Riassumendo i fattori di rischio legati alla terapia con vancomicina sono la dose totale, i livelli ematici, la durata della terapia; dose di carico e infusione intermittente rimangono fattori di rischio incerti. I fattori di rischio legati al paziente sono l’obesità, la severità della malattia, il ricovero in terapia intensiva, la presenza di IRC e concomitante somministrazione di nefrotossine soprattutto aminoglicosidi e piperacillina- tazobactam [8].

Antibiotici Beta-Lattamici

L’impiego di beta-lattamine può causare necrosi tubulare che è rara con le penicilline, poco comune con le cefalosporine ma a maggior rischio con i carbapenemi. Il meccanismo è riconducibile a tossicità respiratoria, inattivazione mitocondriale dopo trasporto all’interno della cellula e perossidazione lipidica. L’imipenem viene commercializzato con un inibitore nefroprotettivo del trasporto all’interno della cellula renale [16].

Oltre alla tossicità da necrosi tubulare le beta lattamine sono in grado di indurre nefrite tubulo interstiziale (TIN) acuta. In una revisione bioptica, le beta lattamine sono associate con il 55% di TIN indotte da antibiotici. L’Amoxicillina è il farmaco più frequentemente coinvolto [17]. L’amoxicillina è inoltre causa di IRA da cristalluria e conseguente nefropatia ostruttiva [18].

L’incidenza di nefrotossicità da beta lattamine si aggira intorno all’8% e  vi è un’associazione fra livelli ematici di farmaco ed episodio di nefrotossicità. La concentrazione soglia per la quale c’è un rischi del 50% di sviluppare nefrotossicità varia a seconda degli antibiotici (piperacillina, Cmin >452.65 mg/L; meropenem, Cmin >44.45 mg/L) (Cmin: campione prelevato 2 ore prima della prossima dose)[19].

In un’analisi retrospettiva si è valutata la comparsa di tossicità renale in pazienti sottoposti a terapia  con cefalosporine sia orali che parenterali (622.456 pazienti esposti a 901.908 cicli di cefalosporine orali e 326.867 esposti a 487.630 cicli di cefalosporine parenterali durante il periodo di studio di 3 anni). La nefrotossicità era più frequente nei maschi e nei soggetti sottoposti a terapia parenterale. In più del 50% dei pazienti tale tossicità era completamente reversibile nei mesi successivi ma il 17% dei soggetti con nefrotossicità necessitava di terapia sostitutiva [20].

L’incidenza di nefrotossicità sembra sovrapponibile nei pazienti trattati con terapia intermittente o continua. I fattori predittivi di IRA sono ipotensione, scompenso cardiaco, terapia con piperacillina tazobactam e concomitante impiego di farmaci nefrotossici [21].

Aminoglicosidi

Gli aminoglicosidi inducono tossicità renale con caratteristiche diverse: dall’IRA non oligurica a disfunzioni della cellula tubulare che possono essere diffuse o coinvolgere solo alcuni segmenti del nefrone e meccanismi di trasporto determinando sindromi Fanconi-like, Bartter-like e acidosi tubulare distale. Gli aminoglicosidi più cationici sono più nefrotossici. La velocità di filtrazione glomerulare diminuisce come evento relativamente tardivo, di solito almeno 5-7 giorni dopo l’inizio della terapia e si risolve completamento nella quasi totalità dei pazienti.

I fattori di rischio che sono costantemente segnalati per la nefrotossicità includono la scelta dell’aminoglicoside, la durata della terapia, la dose totale, la presenza di ipotensione e deplezione di volume, le concentrazioni sieriche elevate, la presenza di malattia epatica concomitante e uso di altri farmaci nefrotossici. La presenza di insufficienza renale preesistente e l’età avanzata sono ulteriori fattori di rischio [22].

Le cellule tubulari sono in grado di trasportare gli aminoglicosidi mediante endocitosi attraverso la membrana apicale. Gli aminoglicosidi si legano ai fosfolipidi di membrana e, alterandone turnover e metabolismo, determinano fosfolipidosi e conseguente morte cellulare. Accumulandosi nei lisosomi e nel reticolo endoplasmatico, quando raggiungono una certa concentrazione, portano a rottura della membrana con conseguente liberazione nel citosol del farmaco stesso e di catepsine e conseguente apoptosi e morte cellulare. Gli aminoglicosidi sono inoltre in grado di inibire molti trasportatori di membrana con conseguente deficit di riassorbimento di calcio, magnesio, sodio e potassio. Infine, attivano il Calcium Sensing Receptor (CaSR) con aumento del calcio intracellulare e conseguente morte cellulare. Lo spargimento di tessuti e residui cellulari nel lume tubulare porta a ostruzione e riduce la funzione escretoria dei nefroni colpiti. L’aumentata pressione idrostatica all’interno del tubulo e nella capsula di Bowman riduce il gradiente di pressione di filtrazione e, quindi, la velocità di filtrazione glomerulare (GFR).Tuttavia, la sola ostruzione tubulare non giustifica la riduzione del filtrato nei casi più lievi o nelle prime fasi del danno. Gli aminoglicosidi hanno infatti effetti diretti anche a livello glomerulare: producono contrazione e proliferazione mesangiale e, legandosi alle cariche negative della barriera di filtrazione, determinano proteinuria. A livello vascolare inducono  vasocostrizione dell’arteriola afferente con conseguente diminuzione del flusso e del filtrato glomerulare. Il peggioramento successivo della funzione renale viene allora spiegato dai meccanismi di ostruzione tubulare e contrazione mesangiale e vascolare. Contemporaneamente si innesca un processo infiammatorio scatenato da detriti cellulari e sostanze intracellulari che amplifica il danno [23].

La prevalenza di tossicità varia in letteratura dal 10 al 25% ma raggiunge valori superiori al 50% se l’indagine è condotta nelle terapie intensive e su soggetti con importanti fattori di rischio come il diabete, l’IR, l’ipotensione, il concomitante impiego di altre nefrotossine. In terapia intensiva, la mortalità è più elevata nei pazienti che sviluppano IRA rispetto ai pazienti che non la sviluppano (44.5%  e 29.1% rispettivamente) [24, 25].

Anche una singola dose di gentamicina è in grado di indurre IRA nel 10% dei soggetti. La maggioranza dei pazienti presenta però un modesto rialzo della creatinina che si risolve in pochi giorni o settimane [26].

Negli ultimi 40 anni il monitoraggio terapeutico (TDM) è stato parte integrante della gestione dei pazienti durante il trattamento con un aminoglicoside. Il TDM ha contribuito a ridurre l’incidenza di eventi avversi osservati con questa classe di antibatterici [27]. Elevati livelli di Cmin e AUC nel corso dei giorni sono associati a comparsa di tossicità. Per questo motivo si raccomanda un monitoraggio routinario dei livelli ematici durante la terapia con aminoglicosidi [28].

L ’incidenza di nefrotossicità da amikacina è meno frequente rispetto alla tossicità generata da altri aminoglicosidi. Inoltre, la somministrazione in dose unica riduce la nefrotossicità pur mantenendo efficacia terapeutica e semplifica i processi di monitoraggio [27].

Polimixine

La colistina era, ed è tuttora, l’unico agente polimixinico disponibile per via parenterale in Europa.

Dopo la filtrazione glomerulare, la colistina viene assorbita dalle cellule dei tubuli prossimali. L’accumulo intracellulare è una precondizione per il danno renale mediato dalla colistina e i mitocondri delle cellule tubulari prossimali potrebbero essere un sito primario di danno. Anche in questo caso il meccanismo con cui si instaura tossicità passa attraverso l’accumulo intracellulare, il danno mitocondriale e l’apoptosi cellulare [29, 30].

L’incidenza di nefrotossicità da polimixine varia dal 24 al 74% per la colistina e dal 21 al 46% per la polimixina B [31]. Un recentissimo lavoro definisce che non vi sono significative differenze in merito alla nefrotossicità fra le polimixine. La prevalenza della nefrotossicità è aumentata significativamente nel corso degli anni. Negli anni ’70 le percentuali riportate per questo evento erano intorno al 2%, con un graduale aumento, raggiungendo il 26% nel 2015 e il 27% nel 2016. L’aumentata incidenza è verosimilmente da imputare ai criteri utilizzati per definirla. Gli studi che usano l’aumento della creatinina danno una prevalenza del 14%, gli studi che usano i criteri RIFLE del 39% [32].

I fattori di rischio per nefrotossicità legati al paziente  sono l’età, l’obesità, concomitante impiego di farmaci nefrotossici, presenza di diabete, ipoalbuminemia e ricovero in terapia intensiva . I fattori legati al farmaco sono la dose somministrata (dosi di colistina ≥5 mg / kg / die; dose totale > 270 mg per colistina e ≥200 mg per PMB), concentrazione sierica (concentrazioni di 3,33 mg / L e 2,42 mg / L sono i breakpoint predittivi della concentrazione sierica per la nefrotossicità al giorno 7 e alla fine della terapia, rispettivamente) [33].

In uno studio multicentrico retrospettivo, la comparsa di nefrotossicità da polimixina B risultava più frequente con la monosomministrazione rispetto alla somministrazione 2 volte al giorno con un’incidenza del 47% e del 17%  rispettivamente. L’episodio di nefrotossicità avveniva dopo 7 giorni di terapia e si risolveva nel 78% dei casi. Nessun paziente richiedeva terapia sostitutiva [34]. Ovviamente le strategie per minimizzare la tossicità riguardano la possibilità di limitare i fattori di rischio. Recentemente si è ipotizzato l’impiego di antiossidanti o di cilastatina che in vitro hanno dimostrato di ridurre la nefrotossicità indotta da gentamicina, colistina e vancomicina. Per quanto riguarda la modalità di somministrazione, al momento  il suggerimento è dividere in due la dose e infondere il farmaco in circa 1 ora [30].

Fluorochinoloni, Macrolidi e Oxazolidinoni

I fluorochinoloni determinano sia nefriti intersiziali acute con, a volte, associati aspetti granulomatosi, vasculiti, necrosi tubulare e cristalluria [35,36]. La cristalluria si può associare ad aspetti di nefrite interstiziale con granulomi ed i fattori di rischio sembrano essere l’età, la bassa massa corporea, l’impiego di ACE-inibitori e la preesistente insufficienza renale [37].

Nefriti interstiziali acute sono state segnalate sia con l’impiego di macrolidi che oxazolidinoni [38, 39, 40].

La Clindamicina è causa di insufficienza renale acuta secondaria a nefrite interstiziale nel 75% dei casi e nel restante determina necrosi tubulare acuta. Nonostante la maggioranza dei pazienti richieda trattamento sostitutivo, vi è recupero della funzione renale nella pressoché totalità dei pazienti dopo circa 2 mesi [41, 42].

Farmaci antitubercolari

L’incidenza di IRA in pazienti in trattamento per tubercolosi è di circa il 7%; si manifesta prevalentemente nei primi 2 mesi ma può avverarsi anche fino a sei mesi dall’inizio della terapia. Il tempo medio di recupero della funzione renale è di circa 40 giorni (range, 1–180 giorni). I fattori che predicono il recupero renale sono la presenza di febbre, eruzione cutanea e disturbi gastrointestinali all’inizio dell’IRA. Poiché la presenza di febbre e rash si associano alla nefrite interstiziale è verosimile che la patogenesi sia legata a questa patologia indotta da rifampicina (43). In un recente lavoro, infatti, la presenza di nefrite tubulo interstiziale è stata confermata alla biopsia renale [44].

Nuovi farmaci

Oritavancina e dalbavancina presentano un profilo di nefrotossicità migliore rispetto a quello della vancomicina mentre la televancina presenta effetti collaterali più frequenti. Sia  Ceftaroline che Ceftobiprole hanno le stesse caratteristiche di tossicità delle altre cefalosporine. Il Tedizolid ha un profilo di sicurezza migliore rispetto al linezolid mentre il Radezolid deve ancora essere valutato in trial di fase III [45].

Il Relebactam, inibitore delle β-lactamasi, può ripristinare l’attività dell’imipenem contro i patogeni gram-negativi non sensibili a Imipenem. In un recente trial, l’impiego di imipenem/relebactam è stato confrontato con colistina+imipenem in pazienti con infezioni non suscettibili all’Imipenem. I tassi di risposta clinica favorevoli erano superiori del 31% con IMI / REL rispetto a colistina + IMI al giorno 28. La mortalità per tutte le cause al giorno 28 era inferiore del 20% con IMI / REL. La nefrotossicità era significativamente inferiore con IMI / REL rispetto a colistina + IMI  (10%) vs 56% rispettivamente) [46].

Anche l’associazione imipenem/vaborbactam (nuovo inibitore delle β-lattamasidi con uno spettro microbico tale da coprire gli enterobatteri produttori di carbapenemasi) risulta più favorevole in termini di tossicità rispetto alla miglior terapia a disposizione (polymyxina, carbapenemico, aminoglicoside, tigeciclina o ceftazidime-avibactam ). L’impiego di imipenem/vaborbactam  è associato a miglioramento clinico, diminuita mortalità e ridotta nefrotossicità [47].

 

Conclusioni

I medici devono conoscere la potenziale nefrotossicità di numerosi antibiotici ed i meccanismi per cui e con cui si manifesta. A questa consapevolezza si deve aggiungere il riconoscimento di tutti i fattori di rischio che possono contribuire all’insorgenza di tossicità renale in quanto spesso la causa di IRA è multifattoriale. Il monitoraggio dei livelli ematici, quando è possibile, contribuisce a adeguare la dose in modo da evitare livelli tossici. Poiché la clearance renale rimane uno dei fattori più importanti nel determinare i livelli ematici di molti antibiotici, è necessario conoscere la funzione renale prima di iniziare la terapia e continuare a monitorarla. Il riconoscimento precoce di tossicità renale e la successiva sospensione dell’antibiotico responsabile, permette di recuperare il danno renale che risulta reversibile nella maggioranza dei casi. Particolare attenzione deve essere posta in modo da evitare la contemporanea somministrazione di altri farmaci nefrotossici ed ulteriori insulti renali quali l’ipotensione e la disidratazione.

 

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The management of antibiotic therapy in critically ill patients with AKI: between underdosing and toxicity

Abstract

Changes in microbiology and dialysis techniques in intensive care have made the use of antibiotics on nephropathic patients more complex. Several recent studies have modified our knowledge about the use of antibiotics in the care of critically ill patients, highlighting the frequency of their inappropriate use: both underdosing, risking low efficacy, and overdosing, with an increase in toxicity. Kidneys, organs devoted to excretion and metabolism, are a potential target of pharmacological toxicity. Extracorporeal replacement therapy is also a possible drug elimination route. What we call nefropharmacology represents a complex, tangled and rapidly evolving subject of multi-specialist interest. We have reviewed here most of the recent literature dealing with the appropriateness of antibiotic use, focusing on the most interesting contributions from a nephrological perspective.

Keywords: AKI, antibiotics, CRRT, pharmacokinetic

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Introduzione

Il nefrologo ha quotidiana esperienza della difficoltà di prescrizione dei farmaci ai nefropatici. I reni rappresentano un a via privilegiata di eliminazione dei farmaci e nello stesso tempo sono un frequente bersaglio di tossicità. I problemi legati ai farmaci sono differenti nei diversi contesti clinici e le precauzioni, ormai codificate, che utilizziamo nella prescrizione dei farmaci nel danno renale cronico (CKD) stabilizzato non sono valide nei pazienti con una nefropatia acuta (AKD) [1], caratterizzata invece dall’evolutività, con una prima fase di danno renale in progressione (AKI) seguita o meno da un recupero funzionale e dal coinvolgimento frequente di altri organi ed apparati. 

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