May June 2023 - In depth review

Renal Damage and Obesity: a Silent Pairing

Abstract

Obesity is recognized as a true chronic disease and an independent risk factor for kidney disease. In particular, a correlation was observed between obesity and the development of focal segmental glomerulosclerosis. The clinical consequences of obesity on the kidney can include albuminuria, nephrotic syndrome, nephrolithiasis, and increased risk of development and progression of renal failure. Conventional therapy, which includes low-calorie diet, exercise, lifestyle changes, and drug therapy, including GLP1-RA, phentermine, phentermine/topiramate, bupropion/naltrexone, orlistat, is not always able to achieve the desired results and above all does not guarantee stabilization of body weight over time. On the other hand, bariatric surgery is giving excellent results in terms of efficacy and duration. Bariatric surgery techniques that are generally divided into restrictive, malabsorptive, and mixed are not free from possible metabolic complications such as anemia, vitamin deficiency, and stones. However, they are able to ensure a good maintenance of weight loss obtained with disappearance or reduction of the incidence and severity of comorbidities related to obesity.

Keywords: obesity, renal failure, bariatric surgery, sleeve gastrectomy

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Introduzione

L’obesità è ormai riconosciuta una vera malattia e un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di malattia renale cronica [1]. Si stima che al mondo ci siano circa 600 milioni di persone affette da obesità [2]. Secondo il Rapporto Osservasalute del 2016 che fa riferimento ai risultati dell’Indagine Multiscopo dell’Istat “Aspetti della vita quotidiana” emerge che nel 2015, in Italia, più di un terzo della popolazione era in sovrappeso (35,3%) e una persona su dieci era obesa (9,8%). Complessivamente il 45,1% dei soggetti di età superiore ai 18 anni era in eccesso ponderale [3].

In epoca più recente, il 9° Rapporto sull’obesità in Italia [4], curato dall’Istituto Auxologico Italiano, ha evidenziato come, secondo una stima provvisoria per il 2020, su 10 uomini adulti 6 sono in sovrappeso, su 10 donne invece 4 sono in sovrappeso. In entrambi i sessi la prevalenza è maggiore nella fascia d’età compresa tra i 65 e i 74 anni. Anche per quanto riguarda l’obesità, come per il sovrappeso, la popolazione maggiormente colpita è quella maschile: l’11,7% tra gli uomini e il 10,3% tra le donne. Se invece si considera la grave obesità (caratterizzata da un BMI superiore a 35) dal rapporto si evince che ne risultano colpite in Italia oltre un milione di persone, pari al 2,3% degli adulti e in questi casi le donne sono maggiormente interessate [4].

Il gradiente geografico è chiaramente a sfavore delle regioni meridionali. Complessivamente, nel Nord-ovest e nel Centro Italia la prevalenza dell’obesità si attesta al 10% mentre nel Nord-est e nelle isole il valore raggiunge l’11,4%; al Sud sale al 12,4%. Le percentuali non sono migliori quando spostiamo l’attenzione dagli adulti ai bambini e agli adolescenti. In Italia tra i giovani la prevalenza di obesità è del 18% nei bambini e del 19% negli adolescenti. Anche in questo caso c’è una grossa differenza tra nord e sud. Al Sud il 34,1% della popolazione 3-17 anni è obesa, al Nord-ovest il 20,0%; il 22,4% al Nord-est, il 23,9% al Centro e il 28,4% nelle isole. Le percentuali maggiori riguardano la Campania (37,8%), il Molise (33,5%), la Basilicata (32,4%), Abruzzo e Puglia (31,2%) [4].

L’obesità è ormai riconosciuta come un fattore di rischio indipendente di malattia renale cronica e di progressione verso l’End-Stage Renal Disease (ESRD). In particolare, è stata osservata una correlazione tra obesità e sviluppo di glomerulosclerosi focale segmentale (GSFS). Le conseguenze cliniche dell’obesità sul rene possono includere albuminuria, sindrome nefrosica, nefrolitiasi, aumentato rischio di sviluppo e di progressione dell’insufficienza renale.

La terapia convenzionale dell’obesità, che include dieta ipocalorica, esercizio fisico, modifiche dello stile di vita e terapia farmacologica, non è sempre in grado di ottenere i risultati sperati e soprattutto non garantisce una stabilizzazione del peso corporeo a distanza di tempo. La chirurgia bariatrica sta dando, invece, risultati ottimi in termini di efficacia e durata.

 

Misurazione dell’obesità: il concetto di “obesity paradox”

In medicina la definizione di obesità è sempre stata in evoluzione: molto spesso è stato necessario ricorrere a strumenti di misurazione indiretta per definire un paziente obeso o misurare il suo grado di obesità.

Dal punto di vista metabolico e soprattutto in correlazione con il rischio cardiovascolare, è molto importante classificare l’obesità in funzione della distribuzione del grasso (Tabella 1).

Tipo Obesità Localizzazione
Obesità viscerale Omento – Mesenteri -Retroperitoneo
Obesità centrale – addominale (androide) Omento – Mesenteri – Retroperitoneo e sottocutaneo addominale
Obesità periferica sottocutanea (ginoide) Fianchi – Cosce
Obesità generalizzata
Tabella 1: Classificazione dell’obesità in funzione della distribuzione del grasso.

Esistono diversi strumenti che possono essere impiegati per la misurazione indiretta dell’obesità o meglio della massa grassa di un soggetto:

  • il Body Mass Index (o BMI)
  • la plicometria
  • la bio-impedenziometria (o BIA)
  • la circonferenza addominale
  • il rapporto vita-fianchi

Body Mass Index

In base al Body Mass Index (BMI), indice rappresentato dal rapporto tra il peso del soggetto (kg) e il quadrato dell’altezza (m), l’OMS classifica l’obesità in tre gradi: obesità di I° grado (BMI tra 30 e 34,9 kg/m2), obesità di II° grado (BMI tra 35 e 39,9 kg/m2) e obesità di III° grado (BMI maggiore di 40 kg/m2). Il BMI è un dato biometrico ottenuto dalla deduzione del matematico e statistico belga Adolphe Quetelet. Egli condusse studi antropometrici sulla crescita umana ottenendo come conclusione dei suoi dati che il peso cresce con il quadrato dell’altezza, denominando il rapporto tra questi come indice di Quetelet [5], sostituito poi nel 1972 dal Body Mass Index introdotto dal fisiologo Ancel Keys.

Plicometria

La plicometria permette di stimare attraverso validate equazioni la densità corporea, la massa grassa e la massa magra grazie all’uso di un plicometro che consente di rilevare lo spessore delle pliche sottocutanee: le pliche interessate nella metodica sono quella tricipitale, sottoscapolare, sovrailiaca, pettorale, ascellare, addominale, quadricipitale [6].

Bioimpedenziometria

La bioimpedenziometria è una metodica utilizzata per studiare la composizione corporea, misurando l’impedenza del corpo al passaggio della corrente elettrica a bassa potenza e ad alta frequenza: essa viene impiegata anche per lo studio del paziente in emodialisi per valutare la TBW (Total body water) e la quota di ECW (extracellular-water) in eccesso.

Circonferenza addominale

La circonferenza della vita o circonferenza addominale invece è un parametro che correla indirettamente con l’obesità: i valori normali devono essere inferiori a 94 cm negli uomini e 80 cm nelle donne e viene misurata appena sopra l’ombelico (precisamente appena al di sopra della porzione superiore del bordo laterale della cresta iliaca). Una circonferenza superiore ad 88 cm nelle donne e 102 cm negli uomini viene definita obesità viscerale.  La circonferenza addominale riflette l’accumulo del grasso totale e addominale e rispecchia prevalentemente la presenza del grasso sottocutaneo addominale e non proprio il grasso viscerale.

Rapporto vita-fianchi

Il rapporto tra la circonferenza della vita e la circonferenza dei fianchi (o delle anche) definito anche WHR (waist/hip ratio) è il metodo maggiormente utilizzato per la valutazione della distribuzione del grasso corporeo negli studi epidemiologici. Quando il rapporto è maggiore di 0,92 nell’uomo e 0,82 nella donna si parla di obesità centrale: tali valori corrispondono all’85° percentile della distribuzione di tale indice nella popolazione generale.

Negli studi sull’obesità il parametro più impiegato è quello del BMI. Tuttavia, in alcuni trial sull’obesità i risultati talvolta possono essere inattesi o addirittura non previsti: in tali casi si parla di “paradigma del paradosso dell’obesità (Obesity Paradox)”, un fenomeno del tutto inaspettato osservato in alcune patologie. L’obesity paradox si osserva in tutti quei trial che si sono conclusi indentificando il BMI o l’obesità come fattori protettivi per la popolazione. È ovvio che tali risultati contrastino parecchio con i dati oggettivi e con i dati di rischio di mortalità dell’obesità nella popolazione generale in tutta la letteratura scientifica (concetto di “reverse epidemiology”): tale fenomeno tuttora non ha trovato una valutazione conclusiva che ne possa spiegare l’insorgenza.  Questo paradosso, secondo il quale sovrappeso e obesità migliorano la prognosi di alcune patologie di cui favoriscono l’insorgenza, è stato ampiamente documentato in corso di malattie cardiovascolari, insufficienza renale cronica, neoplasie, diabete e in altre patologie. Mentre secondo alcuni il fenomeno, sebbene non ancora chiaramente spiegato, esprime una realtà biologica, secondo altri esso è il risultato statistico di bias di selezione, di diversi fattori interferenti e principalmente dell’impiego del BMI come misura del grado di adiposità (BMI paradox).

Le ipotesi biologiche in merito al fenomeno dell’Obesity Paradox, vengono delineate in questa Review di Donini et al. [7] e sono influenzate da:

  • Struttura corporea e composizione corporea: l’aumento del peso corporeo e della massa grassa può alterare le conseguenze metaboliche delle malattie nei pazienti obesi e delle cure, a causa dell’aumento della massa muscolare e adiposa;
  • Metabolismo lipidico: alti livelli di colesterolo e lipoproteine possono migliorare l’effetto scavenging delle endotossine a differenza di quelli con livelli molto più bassi di colesterolo (più inclini all’endotossinemia) e alle sue conseguenze infiammatorie;
  • Rilascio di NT-proBNP dai cardiomiociti (per aumentata tensione di parete) dopo infarto del miocardio, è significativamente più basso nei pazienti obesi rispetto alla popolazione generale.
  • Produzione di fattori protrombotici (Trombossano B. et al.) che sono correlati negativamente con BMI e leptina: il rilascio di questi mediatori è mediato dall’endotelio e paradossalmente questi valori risultano nella norma nei soggetti con obesità rispetto ai non obesi proprio per un miglioramento paradossale della funzione endoteliale;
  • Aumentata sintesi di ghrelina (o grelina): ha un meccanismo compensatorio nell’ostacolare l’evoluzione dello scompenso cardiaco. La sintesi di ghrelina è aumentata nei pazienti obesi in quanto riduce il senso di sazietà e aumenta la fame e l’assunzione di cibo, favorendo l’insorgenza di obesità.
  • Produzione di citochine: il rischio cardiovascolare è incrementato dall’aumentata produzione di citochine infiammatorie come il TNF-alfa che si lega a recettori solubili del TNF-alfa tipo I e II che sono prodotti proprio dal grasso corporeo. Nei pazienti con scompenso cardiaco si osserva un’abnorme produzione di queste molecole infiammatorie che risulta altresì inferiore ai pazienti con obesità: l’elevata concentrazione di queste citochine dovrebbe determinare effetti negativi sul miocardio, che non si hanno nei pazienti con obesità [8]. Inoltre diverse adipochine (es: adiponectina, leptina, omentina, etc.) prodotte dal tessuto adiposo hanno dimostrato effetti protettivi sul rischio cardiovascolare, nonostante questo sia un paradosso [9].
  • Aspetti endoteliali e vascolari: una maggiore mobilizzazione delle cellule progenitrici endoteliali può proteggere i pazienti con obesità dall’aterogenesi attraverso la promozione di processi di rigenerazione del miocardio danneggiato e la neoangiogenesi. Questi processi favoriscono la riduzione delle resistenze del post-carico (dilatazione flusso-mediata e riduzione spessore medio-intima dei vasi) e al potenziamento della funzione contrattile del miocardio e dei processi metabolici dei cardiomiociti, alla riduzione dell’apoptosi e della fibrosi del miocardio. Pertanto si assiste ad un paradossale mantenimento della fisiologica struttura vascolare, cosa che in realtà non avviene [10].

Ad esempio, mentre nello studio di Clark et al. [11] l’elevato BMI sia un fattore riconosciuto per HF (Heart Failure), in parecchi altri trial l’analisi di coorte ha evidenziato come il BMI elevato risulterebbe un fattore protettivo contro lo scompenso cardiaco. Anche per ciò che concerne la coorte di pazienti con malattia renale o in emodialisi nello studio di Johansen et al. si è osservato come sia un effetto protettivo l’eccesso ponderale sulla sopravvivenza [12] mentre nello studio di Postorino et al. condotto su 537 pazienti in cui è stata utilizzata la misura della circonferenza della vita invece del BMI si è osservato che l’obesità rappresenta un fattore di rischio importante [13]. Il fenomeno dell’obesity paradox nei pazienti in emodialisi può essere spiegato sia per il fatto che l’obesità riduce in questi l’incidenza dello stato catabolico sia sulla maggiore incidenza di ipotensioni intradialitiche.

 

Meccanismi fisiopatologici di danno renale correlati all’obesità

Nel 1974 Weisinger descrisse per la prima volta l’associazione tra obesità e sindrome nefrosica, con remissione di quest’ultima in seguito a perdita di peso e recidiva dopo nuovo incremento ponderale [14]. Istologicamente si trattava di una glomerulosclerosi focale segmentale, dando origine al termine glomerulonefrite obesità-relata per indicare le forme di GSFS secondarie ad obesità. Oltre alla GSFS, istologicamente possono riscontrarsi ingrandimento glomerulare dovuto alla ialinosi e alla fibrosi, depositi di lipidi nelle cellule tubulari e mesangiali e adesione alla capsula di Bowman [15, 16]. L’accumulo di lipidi nel rene induce alterazioni strutturali e funzionali delle cellule mesangiali, dei podociti e delle cellule tubulari prossimali [17]. L’obesità aumenta, inoltre, la massa renale e il diametro glomerulare.

I meccanismi fisiopatologici alla base del danno renale secondario ad obesità sono diversi e complessi. Schematicamente distinguiamo alterazioni emodinamiche, attivazione del sistema renina-angiotensina, iperinsulinemia e resistenza all’insulina, infiammazione (effetti di adipochine).

Alterazioni emodinamiche

In caso di obesità aumentano il filtrato glomerulare, il flusso plasmatico renale, la frazione di filtrazione e il riassorbimento tubulare del sodio [18]. Diversi studi hanno evidenziato una chiara correlazione tra i diversi marker di obesità (BMI, circonferenza addominale e rapporto vita-fianchi) e il filtrato glomerulare [19, 20]. La vasodilatazione dell’arteriola afferente è la principale causa di aumentato flusso plasmatico renale.

L’iperfiltrazione glomerulare probabilmente provoca un danno podocitario con conseguente sviluppo della glomerulosclerosi spesso osservata in questi pazienti [21, 22]; inoltre, aumenta il riassorbimento tubulare del sodio come effetto dell’attivazione di trasportatori del sodio. La conseguente ridotta concentrazione di sodio nel tubulo distale attiva il feedback tubulo glomerulare e stimola la secrezione di renina da parte dell’apparato iuxtaglomerulare, con un meccanismo simile a quello dell’iperfiltrazione presente nella nefropatia diabetica [23, 24]. In seguito all’ipertensione intraglomerulare si verifica un aumentato stress meccanico sulla parete capillare sia circonferenziale che assiale che si trasmette ai podociti danneggiandoli [25]. Sono stati ritrovati nelle urine di adulti obesi con normoalbuminuria elevati livelli di mRNA associato ai podociti, tra cui nefrina, alfa-actina-4, alfa3beta1 integrina, TGF-beta suggerendo in questi soggetti un precoce danno podocitario [26].

Attivazione del sistema Renina-Angiotensina (RAA)

L’angiotensinogeno, normalmente prodotto dal fegato ma anche da altri tessuti tra cui il grasso viscerale, è aumentato nei soggetti obesi [27]. Il tessuto adiposo è anche in grado di convertire l’angiotensinogeno in angiotensina II (ATII) potenziando l’attivazione del sistema RAA [28]. Gli elevati livelli di ATII e l’aumentata espressione del suo recettore AT1 causano vasocostrizione arteriolare e aumento della filtrazione glomerulare contribuendo alla ritenzione di sodio e allo sviluppo di ipertensione [29].

Iperinsulinemia ed insulino-resistenza

Diverse evidenze suggeriscono che la resistenza insulinica, caratteristica dell’obesità, contribuisce al danno renale in quanto induce iperfiltrazione glomerulare, disfunzione endoteliale, aumentata permeabilità vascolare, angiogenesi [30]. L’insulina agisce direttamente sui podociti: studi in vitro hanno dimostrato che in seguito allo stimolo insulinico i podociti raddoppiano il trasporto di glucosio attraverso la trasposizione dei trasportatori GLUT1 e GLUT2 dai vacuoli intracellulari alla superficie di membrana podocitaria. I substrati 1 e 2 del recettore dell’insulina (IRS1/2) sono espressi sulle cellule epiteliali renali [31, 32]. Il legame a IRS 1/2 stimola la produzione di ossido nitrico [33]. Inoltre, l’insulina agisce sulle cellule tubulari prossimali promuovendo la formazione di TGF-b e collagene di tipo IV che contribuiscono alla fibrosi tubulointerstiziale.

Infiammazione

Alterati livelli di adipochine, citochine prodotte e rilasciate dal tessuto adiposo tra cui si annoverano leptina, adiponectina, resistina, visfatin, sono associati con lo sviluppo di GN correlate all’obesità. In particolare, la leptina aumenta l’espressione della metalloproteinasi-2 (MMP-2) nelle cellule renali mesangiali [34], stimola la produzione di TGF-b1 da parte dell’endotelio e causa ipertrofia mesangiale. A livello mesangiale agirebbe anche per via paracrina stimolando la produzione di collagene di tipo IV e la proliferazione delle cellule endoteliali glomerulari innescando la glomerulosclerosi [35, 36]. In aggiunta, la leptina aumenta lo stress ossidativo e la secrezione di citochine pro-infiammatorie come l’MPC-1 [37].

L’adiponectina, invece, è presente a livelli ridotti nei soggetti obesi. Bassi livelli di adiponectina sono correlati ad insulino-resistenza e allo sviluppo di malattia renale [38]. Nei ratti adiponectina-knockout è stata riscontrata albuminuria che regredisce con la somministrazione di adiponectina esogena [39].

Aumentati livelli di leptina e bassi livelli di adiponectina sono responsabili, nei soggetti obesi, anche dell’attivazione del sistema nervoso simpatico [40], contribuendo ulteriormente alla ritenzione di sodio [41].

 

Obesità e calcolosi

Nel 2005 Taylor et al. [42] hanno studiato l’associazione tra obesità e aumento di peso con il rischio di nefrolitiasi e la formazione di calcoli renali e del tratto urinario, osservando tre grandi coorti per un tempo di quarantasei anni e dimostrando che è la stessa condizione di obesità e di aumento del peso a predisporre a un aumentato rischio di nefrolitiasi. Il rischio risulta più alto nelle donne rispetto agli uomini. Un altro importante studio condotto da Powell et al. [43] ha usato dati di 5942 pazienti da un laboratorio di calcolosi renale valutando le differenze nell’escrezione urinaria delle 24 ore di metaboliti nei soggetti obesi. Hanno osservato che l’escrezione di calcio, ossalato e acido urico era essenzialmente aumentata nelle 24 ore. Inoltre, all’esame chimico fisico delle urine il pH era sempre su valori acidi, favorendo la precipitazione urinaria dei metaboliti urinari. Questa condizione ovviamente era più frequente nei soggetti obesi in cui non si osservavano elevati livelli di citrato urinario e alto flusso urinario, che contrastano la precipitazione urinaria. Inoltre si osservavano nei pazienti obesi elevati valori di solfato e sodio urinario, direttamente correlati all’elevato intake di sodio alimentare ma soprattutto di proteine di origine animale. Un ruolo significativo nei soggetti obesi è inoltre determinato dall’assunzione di cibi e bibite ricche di fruttosio: il fruttosio oltre a favorire l’aumento del peso corporeo, determina resistenza alla leptina, un ormone che da sempre influenza in maniera preponderante il rischio di obesità. Lo stesso fruttosio ad elevate concentrazioni nei pazienti obesi favorisce non solo l’aumentata escrezione urinaria di calcio, ma anche l’aumentata produzione di acido urico sierico favorendo quindi la cristallizzazione urinaria con calcolosi uratica e calcolosi ossalatica [44]. L’aumentato rischio di nefrolitiasi, associato all’ormai già noto rischio cardiovascolare, può accelerare o peggiorare il rischio di peggioramento della funzionalità renale.

 

Obesità e albuminuria

L’obesità quindi è un fattore riconosciuto che determina un danno renale: l’aumento della massa corporea induce iperfiltrazione glomerulare con modifiche della struttura glomerulare e tubulare, a causa dell’alterato riassorbimento di sodio; inoltre il rimodellamento del nefrone a causa del rilascio di citochine e adiponectine con rilascio di TGF beta ed attivazione di MMP con formazione di collageno, può sensibilmente peggiorare la prognosi dei pazienti obesi [45]. La concomitante diagnosi di diabete e ipertensione nei pazienti obesi aumenta largamente il rischio di albuminuria e proteinuria, ma i pazienti obesi presentano una prevalenza maggiore di proteinuria/albuminuria rispetto alla popolazione generale, anche in assenza di diabete mellito ed ipertensione, come valutato dal report di Chang [46]. In questo trial di reclutamento di pazienti obesi (n=218) da sottoporre a chirurgia bariatrica è stato osservato come la prevalenza dell’albuminuria e della proteinuria fosse sensibilmente maggiore rispetto alla popolazione generale nei pazienti con diabete mellito ed ipertensione (proteinuria 33,3% negli obesi e 22,6% negli ipertesi; albuminuria 41,5% nei diabetici, 17,7% negli ipertesi) mentre nei pazienti obesi in assenza di ipertensione e diabete mellito, sussisteva una prevalenza di proteinuria del 13,3% e di albuminuria dell’11% [47]. Nei pazienti obesi si è osservato che oltre alla perdita di peso e alla restrizione dell’introito di sale, la terapia anti-proteinurica con ACE-i /ARBs, riduce la pressione intraglomerulare, rallentando la progressione del danno renale [48]. La proteinuria nei pazienti obesi tendenzialmente si presenta in assenza di anomalie del sedimento urinario e soprattutto quasi sempre inferiore a 300 mg/die: in alcune eccezioni è possibile un riscontro di proteinuria in range nefrosico (talvolta associato anche a cilindri ialini-granulosi e lipidici) [19]. Nei soggetti obesi con sindrome nefrosica, talvolta potrebbe non presentarsi una condizione di ipoalbuminemia con edema tale da far pensare ad una sindrome nefrosica, pertanto l’esame delle urine risulta dirimente: una proteinuria in range nefrosico deve sempre far sospettare una sottostante nefropatia glomerulare [49].

 

Terapia non chirurgica dell’obesità

Nel 2013 una revisione sistematica di letteratura ad opera di Bolignano e Zoccali [50] ha incluso sei RCT che prevedevano modifiche dello stile di vita, un RCT sull’impiego di strategie farmacologiche e 24 studi osservazionali per esaminare gli effetti di queste strategie terapeutiche sui parametri renali nei pazienti obesi con alterata funzione renale. Negli RCT selezionati, le modifiche dello stile di vita prevedevano almeno una delle seguenti modifiche dietetiche combinate con l’esercizio fisico: dieta vegana ipocalorica, dieta ipocalorica (1000-1400 Kcal/die), dieta a basso contenuto di carne, dieta a restrizione di carboidrati; in questi gruppi si è dimostrato rispetto al gruppo controllo una riduzione del 31% della proteinuria ed un declino del filtrato glomerulare nel follow-up più lento. Nel Trial Look ARG [51] che è stato condotto successivamente al Trial Look AHEAD per valutare l’effetto delle modifiche dello stile di vita nella popolazione con obesità e diabete, si osservava come nel braccio dello studio comprendente le modifiche intensive dello stile di vita (i cui obiettivi erano: perdita di peso maggiore del 7%, dieta di 1200-1800 Kcal/die; riduzione della quota di grassi del 30%/die e aumento del 15%/die di proteine; oltre 175 minuti a settimana di esercizio fisico moderato) l’incidenza cumulativa a dieci anni per il rischio di peggioramento della funzionalità renale risultava sensibilmente minore del 31%. A sostegno di questo studio, l’analisi di Ibrahim e Weber [52] approfondiva proprio come nei pazienti obesi, la perdita di peso associata a strategie farmacologiche (tra cui ARBs e ACEi) favoriva non solo la stabilizzazione della perdita del filtrato glomerulare ma riduceva l’albuminuria (intesa come parametro ACR<300 mg/g/die).

Per quanto concerne la prima strategia farmacologica, ossia l’approccio dietetico, l’analisi di Tirosh et al. [53] ci è sembrata suggestiva: un RCT randomizzato di 322 pazienti obesi (99 con CKD stadio III, 23 con ACR > 30 mg/g) seguiti per un periodo di due anni inclusi in uno dei tre regimi dietetici associati (dieta low-fat, dieta mediterranea, dieta low-carb) in cui si è osservato che la dieta mediterranea e quella low-carb favorivano una perdita di peso maggiore (oltre i 4 kg in media) rispetto a quella low-fat (<3 kg in media). In un’analisi post hoc è stato appunto osservato che in tutti e tre i regimi dietetici associati si osservava un’incremento dell’eGFR rispetto al basale del 7,1% e una riduzione dell’ACR di circa 25 mg/g rispetto al basale. Ovviamente nell’analisi post-hoc non sono stati inclusi i pazienti in trattamento emodialitico cronico [54].

In aggiunta al cambiamento dello stile di vita alimentare e all’aumento dell’esercizio fisico settimanale, l’impiego di alcuni farmaci potrebbe sensibilmente favorire la perdita di peso: tra questi ricordiamo i GLP1-RA, fentermina, fentermina/topiramato, bupropione-naltrexone, orlistat. Nella Tabella 2 è possibile osservarne le caratteristiche e la prescrivibilità in base al filtrato glomerulare.

Farmaco Meccanismo di azione Effetti collaterali Effetti Renali Dosaggio
LIRAGLUTIDE

 

0,6 mg; 1,2 mg; 1,8 mg; 2,4mg; 3 mg.

Agonista recettoriale GLP-1: stimola secrezione insulina e inibisce glucagone. Regola appetito ed intake calorico. Ipoglicemia, aumento lipasi, nausea, vomito, diarrea. Escrezione 60% renale (metaboliti). Nessun aggiustamento di dosaggio. Dati limitati per l’uso in dialisi.
NALTREXONE/

BUPROPRIONE

 

8mg/90mg fino a 32mg/360mg die

Anoressizzante (esatto meccanismo non conosciuto).

Bupropione: inbitore reuptake dopamina e norepinefrina;

Naltrexone: antagonista oppioide.

Vertigini, nausea, mal di testa, secchezza delle fauci. Ipertensione e palpitazione. Incremento creatinina (inibizione OCT2). Escrezione urinaria: 87% buproprione, 79% naltrexone.

8mg/90mg fino a 32mg/360mg.

In caso di peggioramento della funzione ridurre dosaggio.

ORLISTAT

 

60 mg; 120 mg

Inibitore delle lipasi pancreatiche (azione nello stomaco e nel tenue). Perdita di feci dal retto, incontinenza fecale, flatulenza. Ridotto assorbimento delle vitamine liposolubili. Calcolosi ossalatica. Escrezione fecale (<2% nelle urine).

Somministrare Ciclosporina 3 ore dopo Orlistat.

Nessun aggiustamento di dose.

60 mg/die dose iniziale, fino a 120 mg/die

FENTERMINA

 

15 mg; 30 mg; 37,5 mg

Anoressizzante simpaticomimentico (esatto meccanismo non conosciuto). Palpitazioni, vertigini, turbe della libido, insonnia, secchezza delle fauci, nausea, vomito. Ipertensione, aumenta la pressione glomerulare.

 

Escrezione urinaria: controllare pH urinario.

Nessun aggiustamento di dose con eGFR > 30 ml/min (15-30 mg/die);

eGFR 15-29 ml/min: 15 mg/die.

Non consentito in dialisi.

FENTERMINA/

TOPIRAMATO

 

3,75/23 mg

7,5/46 mg

11,25/69 mg

15/92 mg

Anoressizzante,

modulatore GABA-r con effetto sipaticomimetico.

Parestesie, disgeusia, secchezza delle fauci, insonnia, costipazione. Tachicardia e palpitazioni. Acidosi metabolica. Nefrolitiasi. Incremento creatininemia, ipokalemia. Teratogenicità.

Nessun aggiustamento di dose fino ad

eGFR < 50 ml/min: dosaggio max 7,5/46mg/die.

Non raccomandato in dialisi.

Tabella 2: Farmaci prescrivibili per il trattamento dell’obesità ed effetti renali correlati [55].

Tra questi l’impiego del GLP-1 RA ha dimostrato effetti cardioprotettivi e nefroprotettivi come descritto in parecchi trial: nel RCT LEADER del 2018 l’impiego della liraglutide nei pazienti con DM II ha dimostrato una riduzione del rischio per eventi compositi renali e cardiovascolari (riduzione albuminuria e raddoppiamento della creatinemia) rispetto al placebo [56]. Anche il trial di Le Roux pubblicato nel 2017 su Lancet [57] ha preso in considerazione l’impiego del liraglutide per favorire la riduzione del peso corporeo nei pazienti in pre-diabete con BMI > 30 kg/m2 oppure < 27 kg/m2 ma con comorbidità: il trial ha avuto una durata di 3 anni (160 settimane) con un numero di 2254 partecipanti, ma solo 1128 hanno terminato lo studio e hanno preso in considerazione la somministrazione giornaliera di 3 mg rispetto al placebo dimostrando che si otteneva una perdita di peso di circa il 6% rispetto al placebo (1,9%), riducendo sensibilmente il rischio cardiovascolare e migliorando la tolleranza glucidica periferica, rallentando l’incidenza di diabete e in maniera correlata il rischio di obesità.

Per quanto concerne l’impiego del bupropione-naltrexone, un trial che indagava sugli effetti cardio-vascolari a lungo termine nei pazienti obesi che assumevano quest’associazione di farmaci e che ha selezionato in maniera randomizzata una coorte di pazienti in sovrappeso o obesi per valutare la probabilità di comparsa di MACE (Major Adverse Cardiovascular Events) a lungo termine, è stato interrotto prima del termine e prima di ottenere dati significativi [58]. Viene riportato sui dati forniti dalla FDA che la terapia a base di bupropione-naltrexone in un RCT non citato, riportava un incremento della creatinina sierica rispetto al follow-up e un rischio dello 0,6% di raddoppiamento della creatinina rispetto al gruppo placebo (0,1%) dopo un anno. L’incremento della creatinina sierica sembrerebbe dovuto al rilascio di metaboliti che interferiscono con la proteina OCT 2 (organic cationic transporter type 2): pertanto nessuno studio ne supporta l’impiego in CKD [59].

L’impiego dell’orlistat come farmaco anti-obesità è inusuale: inibitore delle lipasi gastriche e pancreatiche, che determina un malassorbimento nel tratto intestinale, causando una perdita di peso e riducendo il senso della fame. Non richiede aggiustamento di dose per malattia renale cronica, ma sono stati riportati alcuni casi di calcolosi ossalatica secondaria [60]. Altri dettagli in Tabella 2.

 

Tecniche di chirurgia bariatrica

Nel 2004 Christou [61] ha pubblicato i risultati al lungo termine della chirurgia bariatrica, mettendo a confronto pazienti operati e non. I pazienti operati presentavano una minore incidenza di cancro (2,0 vs 8,49%), una minore incidenza di accidenti cardiovascolari (4,73 vs 26,69%) ed una minore incidenza di disturbi endocrinologici (9.47 vs 27.25%), muscoloscheletrici (4,83 vs 11,90%), psichiatrici (4,35 vs 8,20%) e respiratori (2,71 vs 11,36%). La mortalità registrata nel corso dell’osservazione è stata dello 0,68% nel gruppo dei pazienti operati e del 6,17% nel gruppo dei pazienti non operati.

Numerosi altri lavori successivi [62, 63] hanno riportato analoghi risultati.

Le tecniche di chirurgia bariatrica vengono generalmente distinte in: restrittive, malassorbitive e miste.

Le procedure restrittive, che si basano sulla riduzione del volume gastrico, sono il bendaggio gastrico (o pallone gastrico), la gastroplastica verticale, la sleeve gastrectomy e la Bariclip.

L’idea di usare un pallone endogastrico (BIB: Bioenterics Intragastric Ballon) per il trattamento dell’obesità nacque dall’osservazione dei pazienti psichiatrici portatori di bezoari gastrici [64]. Si tratta di un dispositivo espansibile in silicone di forma sferica posizionato per via endoscopica. Una volta introdotto nel lume gastrico, il BIB viene riempito con soluzione fisiologica sterile (circa 500-600 ml) oppure con aria; in tal modo si riempie parzialmente lo stomaco inducendo un prematuro senso di sazietà. Il meccanismo d’azione è multifattoriale, includendo sia fattori fisiologici che neurormonali. Si tratta di un dispositivo temporaneo che può essere tenuto per sei mesi e che preserva l’anatomia dello stomaco. È indicato nei pazienti che presentano controindicazioni all’intervento o che rifiutano la chirurgia [65].

La sleeve gastrectomy è l’intervento maggiormente eseguito in Italia. Consiste in una gastrectomia verticale subtotale con conservazione del piloro e tubulizzazione dello stomaco residuo [66]. Quindi, a differenza della tecnica precedente, questo è un intervento irreverisibile che altera la normale anatomia dello stomaco. Si ottiene generalmente una perdita di circa il 60% del peso corporeo [67]. Presenta un minore tasso di mortalità rispetto al bypass gastrico e in generale un minor numero di complicanze post-operatorie [68]. La plicatura gastrica è un’evoluzione meno invasiva della sleeve gastrectomy in cui la riduzione di volume dello stomaco si ottiene ripiegandolo su se stesso e suturandone una parte.

La Bariclip, o gastroplastica con clip, consiste in una gastroplastica verticale ottenuta mediante una clip realizzata in titanio e rivestita in silicone che viene posizionata parallelamente alla piccola curvatura dello stomaco in modo da dividerlo in due parti: la parte più grande è esclusa [69].

Le procedure malassorbitive sono più invasive di quelle restrittive ma presentano maggiori probabilità di calo ponderale. Appartengono a questa categoria la diversione biliopancreatica secondo Scopinaro e Duodenal Switch, la diversione biliopancreatica con conservazione dello stomaco e il mini bypass gastrico.

La diversione biliopancreatica si ottiene eseguendo prima una gastrectomia subtotale e una resezione dell’ileo a 250 cm dalla valvola ileo-cecale; successivamente si connette il tratto distale al moncone gastrico mentre il tratto prossimale viene riconnesso a 50 cm dalla valvola ileocecale [70].

Il mini bypass gastrico consiste, invece, nella creazione di una tasca gastrica verticale di circa 60 ml che viene poi anastomizzata con un’ansa digiunale, bypassando in tal modo circa 180-250 cm di duodeno. In confronto al bypass gastrico Roux-en-Y, il mini bypass è una procedura tecnicamente più semplice e reversibile [71].

Tecnica mista è appunto il bypass gastrico, in cui si crea una piccola tasca nella parte superiore dello stomaco che viene collegata direttamente all’intestino tenue mediante un’ansa digiunale a forma di Y.

Nella Tabella 3 sono riassunte le caratteristiche delle principali tecniche chirurgiche.

Nel 2017 un trial pubblicato sul New England Journal of Medicine ha confrontato pazienti diabetici con BMI compreso tra 27 e 43 kg/m2 randomizzati a ricevere per il trattamento dell’obesità terapia medica intensiva, terapia medica intensiva combinata a bypass gastrico Roux-en-Y o sleeve gastrectomy: sono stati arruolati 150 pazienti per un follow-up di 5 anni in cui si è osservato che i pazienti arruolati nel braccio che comprendeva l’approccio terapeutico con terapia medica e chirurgia bariatrica presentavano un cambiamento nella percentuale di riduzione del BMI e un miglioramento dell’emoglobina glicata maggiore rispetto al braccio con solo terapia medica; inoltre i dati inerenti l’impiego della Roux-en-Y o della sleeve gastrectomy sul BMI erano sovrapponibili [72].

BENDAGGIO GASTRICO REGOLABILE SLEEVE    GASTRECTOMY BYPASS GASTRICO DIVERSIONE BILIOPANCREATICA
Calo ponderale 45% 55% 60% 65%
Rischio di recupero peso +++ ++ ++ +
Mortalità operatoria 0,1% 0,15% 0,54% 0,8%
Complicanze perioperatorie 1,9% 8,3% 14,2% 12,4%
Complicanze tardive 10,3% 3,7% 2,9% 6%
Complicanza metabolico-nutritive + ++ +++
% di reinterventi 7,6% 5,3% 3,3% 5,8%
% di miglioramento DM 50% 70% 84% 99%
Tabella 3: Caratteristiche delle principali tecniche chirurgiche (tratta da LG di Chirurgia Bariatrica della SICOB).

 

Effetti benefici della chirurgia bariatrica sulla funzione renale e sulla proteinuria

Diversi autori hanno riferito di effetti benefici della riduzione di peso ottenuta con la chirurgia bariatrica sulla funzione renale e sull’albuminuria.

Nel 2014 Chang et al. hanno riportato i risultati di uno studio condotto su 3134 soggetti sottoposti a chirurgia bariatrica e seguiti per una media di 2,4 anni. Ad un anno dall’intervento si osservava un aumento del GFR; in media ogni perdita di 5 kg era associata ad un aumento di 0,5 ml/min/1,73 m2 di filtrato glomerulare. In un sottogruppo di 108 pazienti si otteneva anche una significativa riduzione della proteinuria [73].

Buoni risultati sono stati riportati anche dal S.O.S. Study (Swedish Obesity Subject Study), uno studio svedese condotto da Carlsson per valutare gli effetti a lungo tempo della chirurgia bariatrica rispetto alla terapia non chirurgica sull’incidenza dell’albuminuria e che ha evidenziato una effettiva riduzione nel gruppo operato del 50% rispetto al gruppo controllo (non operato) [74].

Nel 2017 Neff et al hanno condotto uno studio prospettico su 190 pazienti sottoposti a bypass gastrico e 271 pazienti sottoposti a bendaggio gastrico regolabile laparoscopico, valutando la funzione renale, la pressione arteriosa e la glicemia in condizioni basali, a 1 anno e a 5 anni dall’intervento. Il GFR risultava aumentato a 5 anni dall’intervento sia nei pazienti sottoposti a bypass gastrico (GFR da 94 ± 2 a 102 ± 22 ml/min/1,73 m2) sia in quelli sottoposti a bendaggio (GFR da 88 ± 1 a 93 ± 22 ml/min/1,73 m2). Nei pazienti già affetti da insufficienza renale si riscontrava comunque un miglioramento del filtrato glomerulare a 5 anni (da 52 ± 2 a 68 ± 7 ml/min/1,73 m2). Migliori livelli pressori venivano raggiunti con il bypass (23 vs 11 % a 5 anni) [75].

Sheetz et al. nel 2020 hanno pubblicato i risultati di uno studio retrospettico condotto su 1597 pazienti sottoposti tra il 2006 e il 2015 a chirurgia bariatrica e confrontati con 4750 pazienti obesi trattati con terapia medica e non chirurgica. Nei soggetti operati si osservava una riduzione dei tassi di mortalità complessiva rispetto alle controparti non operate. Il follow-up dei pazienti è stato seguito per oltre sette anni dove è stato posto come outcome primario la mortalità per qualsiasi causa a cinque anni dall’intervento chirurgico, mentre come outcome secondario la mortalità per cause specifiche stratificate per: cardiovascolari, infezioni, sopravvivenza lontano dalla dialisi, altre cause. La curva di Kaplan-Meyer, per la stima dell’incidenza cumulativa degli outcome primario e secondario, ha dimostrato che durante il follow-up il rischio di morte per tutte le cause e per cause cardiovascolari risultava sensibilmente maggiore rispetto ai pazienti non trattati con chirurgia bariatrica. Nei pazienti portatori di trapianto renale, l’impiego della chirurgia bariatrica si associa a una maggiore sopravvivenza del graft a 5 anni [76].

Anche Canney ha dimostrato su 105 pazienti diabetici sottoposti a bypass gastrico una significativa riduzione della proteinuria, con completa remissione (ACR < 30 mg/g) in ben 82 pazienti [77].

Tutti questi studi sono dunque concordi, insieme a molti altri, nel riconoscere gli effetti benefici della chirurgia bariatrica sia sulla funzionalità renale che sulla proteinuria, indipendentemente dalla possibile lesione istologica sottesa. L’effetto sulla proteinuria potrebbe essere dovuto al miglioramento di vari fattori di rischio (tra cui diabete, ipertensione, sindrome metabolica), alla diversa alimentazione (drastica riduzione dell’assunzione di cibo dopo la chirurgia bariatrica), ad effetti diretti sui podociti. Futuri studi potranno sicuramente approfondire gli effetti renoprotettivi della chirurgia bariatrica in pazienti con insufficienza renale e proteinuria per meglio definire il rapporto rischi/benefici per ogni paziente.

 

Complicanze metaboliche e renali della chirurgia bariatrica

I benefici che si ottengono dalla chirurgia bariatrica sono notevoli, ma ovviamente essa non esclude alcune possibili complicanze metaboliche. In un RCT di Cohen [78] et al. si è indagato sugli effetti della chirurgia bariatrica e delle complicanze post-operatorie a trenta giorni, selezionando una coorte affetta da CKD e ESRD e si è evidenziato che i pazienti in ESRD hanno un alto rischio post-operatorio (sia di re-operazione che di ri-ospedalizzazione) a trenta giorni rispetto alla popolazione in CKD. Non è da trascurare i deficit nutrizionali determinati dalla sindrome da malassorbimento secondaria alla chirurgia: deficit di vitamine del gruppo B (tiamina, acido folico, cobalamina), vitamina D, vitamina A, calcio, rame, zinco e ferro favorendo soprattutto l’insorgenza di anemia sia ipo- che ipercromica, fratture ossee, ipoprotidemia. La nefrolitiasi associata a chirurgia bariatrica è stata approfondita nel trial di Lieske [79] et al. dove sono stati selezionati 759 pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica (RYGB, very-very long RYGB, altre procedure chirurgiche restrittive come bendaggio gastrico o sleeve gastrectomy) confrontati con gruppo controllo di 759 pazienti con caratteristiche di base similari (ipertensione, obesità, diabete, osteoartrite, apnea del sonno) e con incindenza di CKD e di nefrolitiasi similare nei due gruppi, all’inizio dello studio (10,4 % vs 8,7%). Al follow-up (in media a sei anni) si è osservato un’incidenza di nuovi casi di nefrolitiasi nei pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica rispetto al controllo (11,1% rispetto al 4,3%): precisamente l’incidenza risulta significativa nei primi due anni dopo l’intervento chirurgico. L’analisi dei calcoli espulsi ha dimostrato che erano prevalenti i calcoli di ossalato di calcio, in minima parte quelli di idrossiapatite, rari quelli di struvite e acido urico. Inoltre il rischio di nefrolitiasi era correlato anche alla tipologia di chirurgia bariatrica a cui i pazienti si erano sottoposti: il rischio risultava più alto nelle procedure malassorbitive e RYGB rispetto alle procedure restrittive (sleeve gastrectomy).

L’iperossaluria enterica associata a procedure chirurgiche malassorbitive si presenta a causa del malassorbimento degli acidi grassi. Questa condizione è frequente nei disordini gastrointestinali che colpiscono la mucosa del tratto ileale (resezione o bypass o sindrome dell’intestino corto) oppure in associazione ad insufficienza pancreatica. Il meccanismo con cui la RYGB e VLLRYGB (very-long-limb RYGB) lo scatenano non è ancora ben chiarito ma il malassorbimento degli acidi grassi e la steatorrea, conseguente alle suddette procedure di chirurgia bariatrica possono determinare la comparsa di calcoli renali da ossalato di calcio, causando o peggiorando una condizione di malattia renale cronica [80]. Non tutti i pazienti con malassorbimento degli acidi grassi, come osservato nei precedenti trial, sviluppano calcolosi renale. Uno studio osservazionale retrospettivo [81] su 51 pazienti ha osservato come la formazione di calcoli di ossalato di calcio risulta significativamente maggiore quando sussistono le seguenti condizioni rispetto al gruppo controllo: aumentata escrezione urinaria di ossalato (0,66 vs 0,38 mmol/die) con riduzione delle concentrazioni di citrato urinario (309 vs 607 mg/die) e sovrasaturazione dell’ossalato di calcio urinario per ridotto volume urinario. La meta-analisi condotta da Thongprayoon C. ha preso in considerazione quattro studi (un RCT, tre studi di coorte) [82] per un totale di 11 348 pazienti, incentrandosi sul rischio di calcolosi renale dopo RYGB, dopo procedure restrittive (bendaggio gastrico e sleeve gastrectomy) e dopo procedure malassorbitive includendo VLLRYGB e diversione bilio-pancreatica con switch duodenale. I risultati hanno dimostrato che le procedure malassorbitive favoriscono più facilmente l’incidenza di calcolosi per l’iperossaluria determinata (soprattutto con VLLRYGB e meno frequente con RYGB); mentre le procedure restrittive, che favoriscono comunque una significativa perdita di peso, spesso non si associano a comparsa di iperossalaturia (ma talvolta il ridotto introito idrico può favorire una ridotta diuresi, favorendo la cristalizzazione elettrolitica).

 

Conclusioni

La principale manifestazione clinica del danno renale nei pazienti obesi è rappresentata dalla proteinuria, nel 30% dei casi in range nefrosico [83].

La terapia dell’ORG si basa fondamentalmente sulla perdita di peso e sull’utilizzo di farmaci come GLP1-RA, fentermina, fentermina/topiramato, bupropione-naltrexone, orlistat. Quando però non si ottengono risultati con la terapia medica, ci si può avvalere della chirurgia bariatrica. Questa, senza dubbi non è priva di complicanze anche a lungo termine come l’anemia, i deficit vitaminici, la calcolosi. È però in grado di garantire un buon mantenimento del calo ponderale ottenuto con scomparsa o riduzione dell’incidenza e della gravità delle comorbilità legate all’obesità. La prevenzione del danno renale nel paziente obeso risulta importante ai fini della sua sopravvivenza: l’aumento del BMI si associa oltre al peggioramento della funzione renale e alla comparsa di nefropatie secondarie, ad un aumentato rischio cardiovascolare con aumento del tasso di mortalità rispetto alla popolazione generale.

 

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