Supplemento S80 -

T-cell-mediated acute rejection

Abstract

Despite the advances in immunosuppressive therapies and improvements in short-term allograft survival, acute rejection still represents one of the major causes of graft loss. We present a case of early acute T-cell-mediated rejection treated efficaciously with pulse steroids and we review the current literature on the pathogenesis, diagnosis, and treatment of acute T-cell-mediated rejection. Pathogenetic mechanisms involve recruitment, activation, and proliferation of donor-specific T-cells, capable of inducing graft injury through direct and indirect mechanisms. Histologically, Banff classification provides standardized and reproducible definitions and scoring for rejection categories, including T-cell mediated rejection (TCMR) and borderline for TCMR. Although allograft biopsy still represents the gold standard for acute rejection diagnosis, new non-invasive biomarkers are emerging to improve diagnostic timeliness and assist therapeutic choices.

Therapy of TCMR largely depends on histologic severity and may range from the adjustment of maintenance immunosuppressive therapy to the use of thymoglobulin and other aggressive immunosuppressive approaches. Finally, the response to the anti-rejection treatment is normally detected through serum creatinine and surveillance biopsies. However, new biomarkers are emerging to non-invasively monitor this response.

Keywords: Kidney transplantation, Graft rejection, Graft rejection diagnosis, Graft rejection treatment, Graft rejection prognosis

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Caso clinico

Uomo di 61 anni sottoposto a trapianto di rene pre-emptive da donatore vivente (la moglie di 58 anni). Nefropatia di base: diagnosi clinica di nefroangiosclerosi ipertensiva; non sottoposto a biopsia per condizione di monorene funzionale. Differenza altezza/peso tra donatore e ricevente rispettivamente 160 cm/54 kg e 170cm/77 kg. Fattori di rischio immunologici: 6 mismatch A/B/DR (DRw:1, D Q DRw: 1; DQα: 2; DQβ: 2; DPα: 0, DPβ: 2), cPRA pre-trapianto pari a 0%.

Eseguita terapia di induzione con basiliximab e di mantenimento con tacrolimus, micofenolato mofetile e metilprednisolone. Nel post-operatorio presenta immediata ripresa funzionale con progressiva riduzione della creatinina ma, in quarta giornata post-trapianto, la funzione renale peggiora improvvisamente (creatininemia da 2.1 a 3 mg/dl), per cui viene sottoposto a biopsia del graft. L’esame istologico mostra presenza di infiltrato infiammatorio linfoplasmocitario interstiziale di grado severo (>50% della corticale) nell’ambito del quale si osservavano numerose immagini di tubulite anche severa (> 10 cellule per sezione), fino alla distruzione dei profili tubulari. Non presenta significative aree di atrofia tubulare o di fibrosi interstiziale (Figura 1 A-B).

L’immunoreazione per c4d è negativa nei capillari peritubulari in immunofluorescenza e immunoistochimica; non presenta alloanticorpi anti-HLA donatore-specifici.

Viene pertanto posta diagnosi di rigetto acuto cellulo-mediato tipo IB secondo Banff (t3, i3, v0, ti3, iIFTA0, tIFTA0, si veda Tabella I), per cui il paziente viene trattato con 3 boli di metilprednisolone ev da 500 mg. Alla dimissione la creatinina è 1.5 mg/dl.

A tre mesi dal trapianto la creatinina è stabile a 1.3 mg/dl, non vi sono anticorpi donatore-specifici (DSA). Viene ripetuto la biopsia del graft che mostra minime aree di atrofia tubulare e di fibrosi interstiziale, tubulite focale e moderata (max 7-8 cellule per sezione tubulare). La diagnosi istologica è di lesioni borderline per rigetto acuto cellulo-mediato secondo Banff (t2, i0, v0, ti0, iIFTA0, tIFTA0). Si decide di non procedere al trattamento ma solo di potenziare la terapia di mantenimento (Figura 1 C-D).

La prima biopsia mostrava infiammazione interstiziale diffusa
Figura 1: La prima biopsia mostrava infiammazione interstiziale diffusa i3 (A, PAS, 10x) e tubulite focalmente severa t3 (B, PAS, 40x; le frecce mostrano le immagini di tubulite), compatibili con rigetto acuto cellulo-mediato IB. Nella seconda biopsia l’infiammazione interstiziale era completamente risolta (C, PAS, 4x) mentre si osservavano immagini di tubulite moderata t2 (D, PAS+CD3, 40x), borderline per rigetto acuto cellulo mediato.
Definizione delle lesioni istologiche elementari del rigetto cellulo-mediato Categoria e sottocategoria Diagnostica Lesioni caratterizzanti
Infiammazione interstiziale (i)

  • i1: infiammazione nel 10-25% della corticale non fibrotica
  • i2: infiammazione nel 25-50% della corticale non fibrotica
  • i3: infiammazione in >50% della corticale non fibrotica

Tubulite (t)

  • t1: 1-4 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito
  • t2: 5-10 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito
  • t3: >10 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito

Arterite Intimale (v): cellule infiammatorie sotto l’intima di arterie intrarenali (no arteriole)

  • v1: compromissione di <25% del lume
  • v2: compromissione di >25% del lume
  • v3: infiammazione transmurale o necrosi fibrinoide

Infiammazione totale (ti)

  • ti1: infiammazione nel 10-25% dell’intera corticale
  • ti2: infiammazione nel 26-50% dell’intera corticale
  • ti3: infiammazione in >50% dell’intera corticale

Infiammazione delle aree di atrofia tubulare (iIFTA)

  • iIFTA1: infiammazione nel 10-25% delle aree di IFTA
  • iIFTA2: infiammazione nel 26-50% delle aree di IFTA
  • iIFTA3: infiammazione in >50% delle aree di IFTA

Tubulite in tubuli parzialmente atrofici (tIFTA)

  • tIFTA1: 1-4 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito
  • tIFTA2: 5-10 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito
  • tIFTA3: >10 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito

Vasculopatia cronica da trapianto (cv*): presenza di cellule infiammatorie nel contesto dell’ispessimento fibroso subintimale in arterie intrarenali (no arteriole)

 

Rigetto cellulo-mediato borderline

t>0 ma i≤1

oppure

t1 e i≥2

Rigetto cellulo-mediato acuto

Grado IA

Grado IB

Grado IIA

Grado IIB

Grado III

 

t2 e i≥2

t3 e i≥2

v1 a prescindere da i e t

v2 a prescindere da i e t

v3 prescindere da i e t

Rigetto cellulo-mediato cronico-attivo

Grado IA

Grado IB

Grado II

 

 

 

ti≥2 iIFTA≥2 e t2 o tIFTA2

ti≥2 iIFTA≥2 e t3 o fIFTA3

presenza di cv*

Tabella I: Categorie diagnostiche e lesioni elementari del rigetto cellulo-mediato. IFTA: atrofia tubulare e fibrosi interstiziale [1].

 

La classificazione di Banff

Il sistema di classificazione istologica di Banff, entrato progressivamente in uso a partire dall’inizio degli anni ’90, ha lo scopo di uniformare e standardizzare la refertazione delle lesioni istologiche che caratterizzano il rigetto del rene trapiantato. Il Banff ha subito continui aggiornamenti nell’arco dei suoi 30 anni di storia. Conferenze biennali consentono di integrare nel sistema di classificazione nuove categorie e lesioni istologiche allo scopo di migliorare la comprensione dei meccanismi patogenetici del rigetto d’organo, la classificazione e la riproducibilità delle lesioni istologiche che lo caratterizzano e l’efficacia degli schemi terapeutici per i vari tipi di rigetto [2].

La classificazione di Banff riconosce tre categorie principali di rigetto sulla base del meccanismo patogenetico: rigetto anticorpo-mediato, rigetto cellulo-mediato e lesioni borderline per rigetto cellulo-mediato. Le varie forme sono distinte sulla base della presenza di lesioni istologiche elementari, e a cui il Banff attribuisce uno score semiquantitativo, con l’obiettivo di aumentarne la riproducibilità inter-osservatore. Nel rigetto anticorpo-mediato, provocato dalla presenza di alloanticorpi donatore-specifici rivolti verso antigeni endoteliali del donatore, i reperti istologici principali sono l’infiammazione microvascolare (definita come presenza di glomerulite e/o capillarite peritubulare) ed eventuale positività immunoistochimica per C4d a livello dell’endotelio dei capillari peritubulari, considerato segno “indiretto” dell’avvenuta interazione antigene-anticorpo. Invece, nel rigetto cellulo-mediato propriamente detto o nella forma borderline l’istologia si caratterizza per la presenza di infiammazione a livello interstiziale e tubulare (tubulite) e, nelle forme più severe, a livello dell’endotelio arterioso dei vasi intrarenali (arterite intimale). La forma borderline manifesta le medesime lesioni infiammatorie del rigetto cellulo-mediato conclamato (a eccezione della arterite intimale), ma la severità relativamente modesta delle lesioni non consente di attribuirne con certezza la causa a un fenomeno di rigetto d’organo [1].

Le categorie di rigetto cellulo-mediato definite dalla classificazione di Banff e le lesioni elementari che le caratterizzano sono indicate nella Tabella I.

 

L’incidenza e la patogenesi del rigetto

Il rigetto rappresenta il tentativo da parte del sistema immunitario del ricevente di distruggere un organo riconosciuto come non-self. Si distingue in base alla rapidità di decorso in rigetto iperacuto, acuto e cronico, e in base al processo immunologico. Può infatti vedere il coinvolgimento dell’immunità umorale (rigetto anticorpo-mediato) o di quella cellulare (linfociti, rigetto cellulo-mediato).

Il rigetto acuto va sospettato in tutti i pazienti che presentino un rapido peggioramento della funzione renale (incremento della creatinina), che non possa essere attribuita a cause non immunologiche (es. problemi urologici e vascolari, cause infettive come l’infezione da poliomavirus BK o batteriche). La diagnosi di certezza si ottiene sottoponendo il paziente alla biopsia del rene trapiantato [3].

Il rigetto acuto cellulo-mediato si manifesta prevalentemente nei primi tre mesi post-trapianto, ma può comunque presentarsi anche più tardivamente in occasione di riduzioni dell’immunosoppressione, per mancata aderenza terapeutica del paziente, o per raccomandazione del medico. Talora è identificabile un evento scatenante che eserciti un’immunostimolazione, come quei casi che seguono a infezioni virali. L’incidenza di rigetto acuto cellulo-mediato è di circa il 15%, a un anno dal trapianto; successivamente scende a meno di 5% all’anno [4].

L’incidenza del rigetto acuto si è ridotta negli ultimi 15 anni dopo l’introduzione del tacrolimus e del micofenolato mofetile. Nel 2018-2019, l’OPTN (Organ Procurement and Transplantation Network) riportava un’incidenza di solo 7% nel primo anno [5].

La presentazione clinica più classica è un incremento della creatinina riscontrato agli esami di routine. Meno frequentemente, nei casi più severi, si associa a febbre, distensione del graft, oliguria e ipertensione. Di rado si può manifestare con proteinuria (talora nefrosica).

Come regola clinica, un incremento della creatinina è considerato significativo se ≥ 0.3 mg/dl o oltre il 20% rispetto al valore basale. Nei casi precoci esorditi con ritardata ripresa funzionale (Delayed Graft Function, DGF), dialisi dipendente, l’aumento della creatininemia non può essere usato come criterio per porre il sospetto diagnostico. In tal caso può essere solo diagnosticato dalla biopsia, che infatti generalmente si esegue trascorso attorno al 10 giorno post-trapianto, nei pazienti in cui non sia ancora iniziata la ripresa funzionale. All’ecografia, il graft in corso di rigetto può presentare un aspetto edematoso e ipoecogeno con perdita della differenziazione cortico-midollare e all’ecocolordoppler gli indici di resistenza (IR) intraparenchimali possono essere aumentati (>0.80). Tale quadro ecografico, tuttavia, non è patognomonico, essendo presente anche in corso di altre condizioni, come la necrosi tubulare acuta (NTA) [6].

 

La patogenesi

Il rigetto acuto cellulo-mediato è caratterizzato dalla reazione delle cellule T del ricevente nei confronti degli alloantigeni HLA presenti sulle cellule del donatore. Il ruolo dei linfociti T risulta essenziale nella patogenesi del rigetto e il loro blocco ne previene l’insorgenza. Infatti, i bersagli principali di tutti i farmaci antirigetto sono le vie di attivazione dei linfociti T CD4+ naive [7, 8].

Il sistema immunitario consta di una componente innata e di un sistema adattativo che interagiscono per contrastare le infezioni e i tumori. Entrambe le componenti del sistema immune sono coinvolte nel rigetto: linfociti T, linfociti B e cellule presentati l’antigene (APC) sono gli attori principali dell’immunità adattativa, mentre fattori solubili, granulociti, cellule natural killer (NKc) e macrofagi sono i principali attori della componente innata [9].

I principali determinanti antigenici del rigetto sono le molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), che nell’uomo codificano le molecole HLA [10].

I geni che codificano per le molecole HLA si localizzano nel braccio corto del cromosoma 6, e sono ereditati come aplotipo con espressione codominante. Gli antigeni HLA possono essere distinti in due differenti classi: HLA di classe I (locus A, B e C), presenti su tutte le cellule nucleate, e HLA di classe II (locus DQ, DR e DP) espresse solo sulle cellule presentanti l’antigene (APC: cellule dendritiche (DC), macrofagi e cellule B). L’espressione di HLA di classe II può essere comunque indotta anche sulle cellule epiteliali e endoteliali vascolari sotto l’azione di fattori pro-infiammatori [10]. Le molecole HLA sono altamente polimorfe, cioè ne esistono numerose varianti alleliche.

L’alloreattività immunitaria consta di tre fasi: il riconoscimento degli antigeni da parte delle cellule T, l’attivazione-espansione delle cellule T, e l’esercizio di funzioni effettrici che portano alla distruzione dell’organo trapiantato [11].

L’alloriconoscimento è l’evento primario e normalmente si realizza attraverso tre diversi pathways: nelle fasi iniziali le cellule presentanti l’antigene provenienti dall’organo del donatore (in particolare leucociti migranti provenienti dall’interstizio dell’organo trapiantato) inducono l’espansione clonale dei linfociti T CD4+ naive del ricevente. Le APC protagoniste di questo fenomeno sono le cellule dendritiche (“professional” APC) [12]. Queste risiedono normalmente nel parenchima di ogni organo. In condizioni fisiologiche, le APC immature catturano materiale dalle cellule apoptotiche e lo portano alle cellule T nei linfonodi dove, secondo un processo fisiologico, garantiscono il mantenimento della tolleranza verso gli antigeni self. Al contrario, in presenza di un danno infiammatorio-necrotico, come quello che può verificarsi in seguito a intervento chirurgico o ischemia-riperfusione, le APC diventano “mature”, cioè acquistano la capacità di esprimere le molecole di istocompatibilità e le molecole costimolatorie necessarie per l’attivazione delle cellule T, e gli stessi stimoli attivano la APC del ricevente che infiltrano il graft come parte integrante del processo infiammatorio [12].

Sia le APC attivate del donatore che quelle del ricevente migrano fuori dal graft, raggiungendo i linfonodi dove attivano le cellule CD4+. Il fenomeno per cui una APC proveniente dal donatore attiva una cellula T del ricevente è detto via “Diretta” di alloriconoscimento. Questo processo è un fenomeno immunologico peculiare del trapianto. Col tempo le APC del donatore tendono però ad esaurirsi, cedendo il passo al fenomeno della via “Indiretta” di alloriconoscimento che è, del resto, il normale sistema di riconoscimento antigenico: sotto lo stimolo di chemochine le APC del ricevente migrano verso l’organo trapiantato, catturano peptidi, soprattutto degli HLA di classe II che circolano perché rilasciati spontaneamente dalle cellule del trapianto o che le APC staccano direttamente dalle stesse cellule, e poi migrano ai linfonodi per presentarli alle cellule T CD4+ [12].

La via diretta, che coinvolge un elevato numero di cellule T (circa 1‰-1%) e pertanto porta alle reazioni immunologiche cellulari più vigorose, è responsabile del rigetto acuto nelle prime fasi del trapianto. La via indiretta, che coinvolge invece un numero più basso di cellule T (circa 0.01‰ delle cellule T) che riconoscono peptidi estranei presentati nel contesto delle proprie molecole MHC e che pertanto porta a reazioni immunologiche più blande, è responsabile del rigetto cronico e del rigetto attivo subclinico nel lungo termine. Si ritiene che l’alloimmunità mediata dalle cellule T origini da fenomeni di cross-reattività, per cui linfociti T maturi riconoscono specifici antigeni microbici e cross-reagiscono con MHC allogenici [13].

Il danno infiammatorio-necrotico attiva, inoltre, la produzione locale del complemento da parte delle cellule prossimali tubulari. Il complemento è poi in grado di stimolare le cellule B a produrre anticorpi (oltre a svolgere complesse funzioni regolatorie sulle stesse cellule T) [14].

L’immunità innata ha un ruolo determinante nella maturazione delle APC [15]. Lo stesso atto chirurgico, l’ambiente necrotico-infiammatorio che ne consegue, il danno da ischemia/riperfusione nel trapianto da cadavere, sono fenomeni in grado di attivare l’immunità innata. Ad esempio, il danno cellulare del graft comporta la liberazione di frammenti di membrana, che sono definiti pattern molecolare associato a danno (DAMP) e pattern molecolare associato ai patogeni (PAMP) che attivano i fattori solubili dell’immunità innata [16]. Tra questi, i Toll-like receptors (TLR) rappresentano quelli meglio caratterizzati e il complemento. La funzione ancestrale di questi recettori è permettere il precoce riconoscimento di pattern molecolari comuni a molte specie microbiche patogene [17]. È infatti dimostrato che tali meccanismi si attivano nei processi infiammatori e di ischemia [18] che si sviluppano nel corso del trapianto [19].

È in tale contesto che avviene l’attivazione e maturazione delle APC, alla base dell’avvio e amplificazione della risposta immune adattativa verso il graft condotta dalle cellule T [19]. Questo si realizza attraverso la secrezione di citochine (e.g IL-1, IL-6, IL-8, TNFα) e di chemochine, che determinano l’espressione delle molecole costimolatorie necessarie per l’attivazione delle cellule T [20]. Anche l’attivazione del complemento, tradizionalmente associato all’immunità anticorpo mediata, ha in realtà un ruolo fondamentale per l’avvio e il mantenimento del processo infiammatorio così come della risposta immune adattativa associata al rigetto del graft [19].

Alla fase di alloriconoscimento segue la fase di attivazione ed espansione delle cellule T CD4+ naive, il cui pathway molecolare rappresenta il principale bersaglio dei farmaci usati nella terapia di mantenimento del trapianto. Il legame del TCR (CD3) del linfocita T con l’MHC della APC del donatore (via diretta) o con il MHC della propria APC, che accoglie però nella sua fenditura un peptide proveniente dall’MHC del donatore (via indiretta), consente di selezionare i cloni specifici: è questo il cosiddetto “Segnale 1 [11]. L’istruzione per la loro attivazione viene data però dalle molecole costimolatorie, in assenza delle quali si formerebbero cellule T anergiche che non porterebbero a termine alcuna riposta effettrice. In particolare, il CD40 sulle APC lega il CD40L (CD154) sulle cellule T. La costimolazione CD40-CD40L attiva le APC a produrre IL-12 e a aumentare l’espressione di CD80 (B7-1)/CD86 (B7-2) che legano il CD28 sulle cellule T. Il legame del CD80/CD86 col CD28 determina l’attivazione delle cellule T. Essa media, inoltre, la funzione helper delle cellule CD4+ e delle cellule B. Il belatacept è un inibitore selettivo dell’attivazione tramite il CD28 delle cellule T. Il belatacept è infatti una molecola ottenuta modificando il CTLA-4, cioè il naturale inibitore sulla superficie delle cellule T dell’attivazione CD80/CD86-indotta. Il contemporaneo legame del TCR e della molecola costimolatoria CD28 induce delle modificazioni delle molecole di membrana che attivano la Protein-Kinase C (la cui funzione è antagonizzata dal farmaco sotrastaurina) al rilascio di Calcio nel citosol, che attiva una catena di enzimi che porta alla sintesi di citochine pro-infiammatorie tra cui l’IL-2. I principali sistemi che vengono coinvolti in questa funzione sono la formazione del complesso calcio-calmoduline che attiva la calcineurina (la cui azione è inibita dalla ciclosporina e dal tacrolimus), la quale defosforila l’NFAT citoplasmatico (Nuclear Factor of Activated T cells). L’NFAT defosforilato può allora entrare nel nucleo dove attiva nel DNA linfocitario il promoter del gene per l’IL-2. Gli inibitori della calcineurina esercitano la loro azione antagonista dopo essersi legati a recettori specifici, quali la ciclofillina per la ciclosporina e l’FKBP per il tacrolimus. Altri sistemi attivati sono il MAPK (Mitogen Activated Protein Kinase che a sua volta attiva l’AP-1 (Activator Protein 1), e il l’NFkB, che sono antagonizzati dai farmaci glucocorticoidi. Le interleuchine, tra cui principalmente IL-2 e IL-15, si legano ai loro recettori espressi sui linfociti attivati e di cui il CD25 è una componente (il basiliximab è un antagonista di questa molecola). La traduzione del loro segnale avviene ad opera delle pathway delle JAK-STAT che portano alla replicazione e all’espansione dei cloni di cellule effettrici. Gli inibitori di mTOR (sirolimus ed everolimus), il micofenolato e gli antagonisti della JAK3 agiscono appunto a questo livello [11].

Le cellule T CD+4 naive o T helper svolgono un ruolo molto importante nella determinazione della risposta adattativa; infatti, a seconda dell’interazione con l’antigene attraverso il TCR possono differenziarsi in varie linee che includono le classiche cellule effettrici Th1 e Th2, le cellule Th17, le cellule helper follicolari (Tfh), le Th9 e le cellule regolatorie indotte iTreg [21]. La differenziazione dipende da vari fattori in particolare dalla forza del segnale TCR, dall’affinità del TCR per l’antigene, ma soprattutto dalla natura delle molecole costimolatorie responsabili del secondo segnale.

Le cellule effettrici Th1 contribuiscono significativamente alla risposta alloimmune e alla patogenesi del rigetto. Le cellule Th1 producono IFN-alfa e IL2 che stimolano l’espressione di MHC di classe I sulle cellule bersaglio. Il CD40 si esprime in modo significativo sulle APC quando è presente una quantità elevata di antigene, promuovendo attraverso il suo legando CD40L la produzione di citochine come IL12 e TNF e favorendo la diffenziazione nella classe Th1 [21].

Le cellule Th1 usano molecole di adesione, come LFA-1 per rotolare (rolling) aderendo all’endotelio e migrare attraverso i capillari peritubulari per entrare nel graft.

Le cellule Th1 producono IFN-alfa che stimola l’espressione di MHC di classe I sulle cellule bersaglio. I cloni alloreattivi riconoscono queste molecole sulle cellule bersaglio da distruggere. La distruzione avviene prevalentemente attraverso meccanismi di apoptosi indotti a seguito del contatto diretto con le cellule epiteliali tubulari e, in minor misura, attraverso la citolisi mediata dalle citochine. Le cellule T CD8 inseriscono nella cellula target la perforina, una proteina che crea un poro che consente l’ingresso del granzima A e B cha provoca apoptosi cellulare attraverso la via della caspasi. La stessa via può essere attivata attraverso le molecole FAS/e ligando di FAS. I linfociti T CD4 possono attaccare le cellule del graft che esprimono antigeni minori di istocompatibilità attraverso la secrezione di TNF alfa e TNF beta che si lega ai recettori del TNF espressi sulle cellule tubulari e endoteliali causando apoptosi cellulare. In corso di rigetto i linfociti T infiltrano e si proliferano nello spazio interstiziale e nei tubuli causando tubulite. Le citochine prodotte dalle cellule T dello spazio interstiziale attivano le cellule tubulari epiteliali che a loro volta attraggono più linfociti attraverso chemiochine (CCL 2, CX3CL1). I linfociti T CD8 attraversano la membrana basale del tubulo dove proliferano e determinano apoptosi delle cellule tubulari. Alla fine del processo le cellule tubulari danneggiate possono trasformarsi da fenotipi epiteliale a miofibroblasti mesenchimali causando fibrosi interstiziale. Tutti questi processi reiterati nel tempo conducono inoltre allo sviluppo di atrofia tubulare, che assieme alla fibrosi interstiziale è espressione di un danno cronico e irreversibile [22].

Il processo di alloriconoscimento si associa infine alla formazione di cellule CD4+ e CD8+ memoria. Queste cellule sono in grado di produrre citochine pro-infiammatorie. Le CD8+ memoria sono dotate di attività citotossica e le CD4+ memoria sono in grado di fornire aiuto per altre cellule T naive e per cellule B al fine di produrre anticorpi. Le cellule memoria hanno una bassissima soglia per l’attivazione e pertanto possono attivarsi fuori dai linfonodi e non richiedono APC professionali. Peraltro, il rilascio di citochine pro-infiammatorie induce l’espressione di MHC sulle APC non professionali (cellule endoteliali ed epiteliali, cellule B e macrofagi) [23].

Le cellule memoria esprimono varie molecole costimolatorie tra le quali ICOS (inducible T-cell costimulator), PD-1 (programmed death-1), CD134, CD27, e CD137, che potrebbero essere in futuro potenziali target per terapie specifiche. Non esprimono invece le classiche molecole costimolatorie come il CD28 [23].

 

La terapia del rigetto acuto cellulo-mediato

La terapia del rigetto acuto cellulo-mediato si stabilisce in base all’entità e gravità del danno individuato con la biopsia.

Il rigetto borderline è rappresentato da lesioni infiammatorie tubulointerstiziali molto modeste, spesso riscontrate incidentalmente in corso di biopsie di sorveglianza, in assenza di segni clinici di rigetto. In pazienti con lesioni borderline per rigetto cellulo-mediato molti clinici preferiscono non trattare il rigetto, a meno che tali lesioni non siano riscontrate in biopsie per indicazione clinica.

C’è un accordo unanime definito dalle linee guida internazionale di trattare il rigetto cellulare acuto IA e IB con terapia steroidea ev secondo schemi di somministrazione degli steroidi diversi a seconda del centro [24].

Generalmente si somministrano boli di metilprednisolone da 500 mg per tre giorni consecutivi (o 3-5 mg/kg/die). La dose non deve tuttavia essere inferiore a 250 mg/die e nei cinque giorni successivi si programma lento tapering. Nei casi più severi si possono usare dosi maggiori (es. 10 mg/kg, per una dose cumulativa massima di 3 g). La risposta viene definita generalmente con ritorno della creatininemia entro il 30% dei valori basali trascorsa una settimana dall’inizio del trattamento.

In caso di presenza di un quadro istologico più grave (con presenza di arterite v), o in caso di mancata risposta alla terapia steroidea, è necessario avviare trattamento con terapia depletante le cellule T, basata su anticorpi di coniglio antitimociti umani (rabbit antithymocyte globulin, rATG). In Italia viene generalmente usata la formulazione Thymoglobuline®, alla dose iniziale dai 2.5 mg/kg da somministrare in infusione lenta, nell’arco di 6-12 ore, previa premedicazione con antistaminici, steroidi (metilprendisolone 20-40 mg) e paracetamolo (1000 mg), nell’arco di 8-12 ore. La somministrazione va ripetuta alla dose di 1.5 mg/kg ogni 24 ore, raggiungendo mediamente una dose cumulativa di 8mg/kg [25]. Per i pazienti che non possono ricevere trattamento con rATG perché allergizzati alle proteine di coniglio con rischio di sviluppo di malattia da siero [26] è possibile la monosomministrazione di alemtuzumab (anticorpo anti-CD52 che depleta tutte le cellule immunitarie, incluse le cellule B). Per il trattamento del rigetto, l’alemtuzumab è però un farmaco off-label.

Per i pazienti trattati con Thymoglobuline, è indicata una profilassi per Pneumocystis jirovecii, Citomegalovirus, e candida, con trimetroprim-sulfametossazolo, valganciclovir e nistatina. La profilassi per Pneumocystis jirovecii è comunque consigliabile in ogni paziente trattato per rigetto acuto, anche se con soli steroidi, o incremento della terapia immunosoppressiva di mantenimento.

 

La risposta al trattamento e prognosi a lungo termine

Non è ancora chiaro come valutare la risposta nel breve-medio termine al trattamento per il rigetto acuto, essendo quello basato sulla sola funzione renale, un criterio spesso considerato insufficiente. Una revisione sistematica della letteratura pubblicata ha messo in evidenza quanto le definizioni della risposta al trattamento siano eterogenee. In particolare, pochi centri trapianti valutano la risposta terapeutica attraverso la ripetizione di una biopsia di controllo [24]. In una recente coorte prospettica di 256 pazienti con diagnosi bioptica di rigetto acuto cellulo-mediato sono state analizzate risposta clinica, istologica e immunologica al momento della diagnosi e a tre mesi dal trattamento [27].

In questo studio, dove la percentuale di non-responders era del 40%, sono stati identificati cinque diversi pattern di risposta al trattamento. Questi si fondano sull’eGFR, sul grado di infiammazione in aree di atrofia tubulare e fibrosi interstiziale (i-IFTA) e sulla presenza di alloanticorpi anti-HLA donatore specifici (DSA). I pazienti con risposta al trattamento avevano un eGFR > 22 ml/min/1.73m2, e uno score di iFTA Banff ≤1, e assenza di DSA. Tra questi quelli con eGFR > 44 ml/min/1.73m2 avevano una sopravvivenza del graft a 10 anni di oltre il 90% [28].

Diversi studi hanno infatti dimostrato la correlazione tra la presenza di infiammazione nelle aree cicatriziali (i-IFTA) e la ridotta sopravvivenza del trapianto [29, 30]. Per tale motivo, nella definizione nella recente revisione dello score Banff 2017, l’i-IFTA è stata considerata espressione del rigetto cellulare cronico attivo.

Tale interpretazione non ha trovato accordo in uno studio in cui Halloran et al. hanno valutato la correlazione tra diagnosi molecolare di rigetto acuto cellulo-mediato basata su microarray (MMDx) [31] e i-IFTA, studiando 519 campioni bioptici. Il sistema MMDx permette di avere report automatizzati che si fondano su algoritmi che generano probabilità numeriche di rigetto anticorpale o cellulare [28].

Da questo studio, gli autori hanno concluso che l’i-IFTA non è altro che una risposta aspecifica a danno parenchimale recente [32].

 

Le nuove strategie per la diagnosi di rigetto

La diagnosi invasiva

La biopsia renale è tradizionalmente considerata il gold standard per la diagnosi di rigetto. Negli anni ’90, l’introduzione della classificazione di Banff ha consentito di migliorare la riproducibilità delle diagnosi si rigetto. Tuttavia, col passare degli anni ne sono emersi i limiti. I limiti sono legati al fatto che il Banff si fonda sull’uso di uno score semiquantitativo che valuta una serie di lesioni elementari comuni per vari pattern istologici (ad esempio l’arterite nel rigetto acuto cellulo-mediato e anticorpo-mediato) [33]. Tale score, essendo frutto di una valutazione quantitativa, è inevitabilmente poco riproducibile tra patologi. Inoltre, molte delle lesioni elementari associate a rigetto non sono in realtà specifiche. Infine, non è sufficientemente accurato per apprezzare un’evoluzione nel tempo. Peraltro, il Banff richiede, per la sua valutazione, un campione adeguato in termini di dimensioni e qualità (idealmente sono necessari due frustoli, rappresentativi della corticale, con almeno 10 glomeruli e un’arteria di medio calibro) [34].

La trascrittomica

Per ovviare ai limiti della valutazione semiquantitativa del Banff, sono state introdotte tecniche di biologia molecolare, fondate sulla trascrittomica e prevalentemente basate su microarray. Tra queste, il Molecular Microscope Diagnostic System (MMDx) è stata la prima introdotta a uso clinico nell’ambito del trapianto renale [35]. La tecnica prevede la rilevazione dell’RNA messaggero di numerosi geni in una piccola porzione di frustolo agobioptico (3-5 mm), anche privo di corticale e conservato con inibitori delle RNAsi, quali RNAlater, per prevenire la degradazione dell’RNA [36].

L’analisi trascrittomica tramite MMDx consente di fornire una misurazione quantitativa e specifica dell’infiammazione [35, 37-39], e una classificazione in categorie diagnostiche (non rigetto, rigetto cellulo-mediato, rigetto misto, rigetto anticorpo-mediato iniziale, rigetto anticorpo-mediato franco e rigetto anticorpo-mediato avanzato) [40]. L’MMDx ha inoltre consentito l’individuazione di trascritti associati a progressione di malattia [41-43] e posto le basi per un confronto quantitativo su biopsie seriali dei parametri diagnostici classici, istologici e sierologici [39, 44]. Dal 2013 questa tecnica è stata introdotta nella classificazione di Banff [45]. È intatti grazie all’MMDx che la categoria del rigetto anticorpo-mediato C4d negativo è stata inclusa nella classificazione di Banff [37]. L’MMDx, identificando come pattern molecolari patogenetici aumentassero la sensibilità e la specificità diagnostica [46], ha finito anche per proporre nuovi target terapeutici, come nel caso dell’identificazione del ruolo delle cellule NK nell’infiammazione microvascolare.

Attualmente, l’MMDx non è rimborsato nella maggioranza dei paesi. Esso non è inoltre scevro di limitazioni: valutando l’espressione di mRNA in toto, è artificialmente influenzato da fattori quali il numero di glomeruli e dal rapporto tra tessuto infiammato e sclerotico. Per questo motivo, le alterazioni focali (ad esempio glomerulari) tendono a essere sottostimate rispetto a quelle diffuse [35, 47]. Infine, l’MMDx non è utile nel diagnosticare patologie renali diverse dal rigetto, quali le glomerulonefriti, le malattie vascolari e infettive. D’altra parte, la maggior parte degli studi pilota e di validazione di MMDx hanno utilizzato biopsie ‘per causa’: la sua performance nelle biopsie per protocollo, in particolar modo nei casi di lesioni borderline, deve essere ancora validato [48].

In conclusione, l’MMDx sembra essere un valido strumento da affiancare alla patologia tradizionale nei casi clinici dubbi per rigetto, e un utile mezzo per ampliare le conoscenze sui meccanismi patogenetici [49].

Il machine learning

Recentemente, Naensens et al. hanno proposto un modello basato sul machine learning per quantificare la flogosi in corso di rigetto acuto, partendo dallo score Banff attivo (t, i, g, ptc, c4d) e dalla presenza o assenza di microangiopatia trombotica e DSA in 7345 biopsie protocollari e ‘per causa’. Sono stati evidenziati 6 cluster, solo parzialmente sovrapponibili a quelli dello score di Banff [50]. Questo nuovo modello sembra essere in grado di quantificare la flogosi e predire la disfunzione renale meglio dello score di Banff e potrebbe essere utile nella pratica clinica per dirimere casi dubbi.

 

La diagnosi non-invasiva

Il dd-cfDNA

Il DNA circolante libero derivato dal donatore (dd-cfDNA) è il DNA non-cellulare plasmatico che deriva dall’apoptosi e necrosi delle cellule dell’organo trapiantato, e può essere espresso come quantità assoluta o percentuale sulla totalità del cfDNA (derivante perlopiù dai linfociti del ricevente) [51].

L’idea di utilizzare il dd-cfDNA come biomarcatore precoce di rigetto è nata nel 1998, quando Lo et al. dimostrarono la presenza di chimerismo plasmatico in pazienti femmine portatrici di trapianto di organo solido da donatori maschi utilizzando i cromosomi sessuali [52]. Da allora, la metodica è stata ottimizzata per misurare la frazione di dd-cfDNA plasmatico attraverso la misurazione della frequenza di migliaia di poliformismi a singolo nucleotide (SNP) ad alta variabilità [53]. In considerazione della breve emivita del cfDNA, la tecnica richiede analisi immediata o l’utilizzo di provette apposite contenenti inibitori delle nucleasi.

La percentuale di dd-cfDNA presenta un calo progressivo fino a raggiungere i livelli di baseline di 0.21%-0.46% alla seconda o terza settimana post-trapianto, e un calo più rapido è stato osservato nei trapianti da donatore vivente. Al contrario, un calo anomalo è stato associato a complicanze immunologiche, infettive e chirurgiche nell’immediato post-operatorio [54].

In considerazione della sua sensibilità nel rilevare un danno d’organo, il dd-cfDNA è stato proposto come biomarcatore non-invasivo di rigetto. Considerando tutte le categorie di rigetto, è stata riportata una sensibilità dell’80% e una specificità del 76% [54-60] e quando utilizzato in combinazione ai DSA raggiunge un potere predittivo negativo dell’85% e positivo dell’81% [61].

Il dd-cfDNA sembra essere un biomarcatore performante per il rigetto anticorpo-mediato raggiungendo una sensibilità di oltre l’80% utilizzando il cut-off di 1%, mentre per il rigetto cellulo-mediato la sensibilità è del 59% [60]. È stato ipotizzato che questo fenomeno sia dovuto alla maggiore degradazione del DNA in corso di intensa infiammazione interstiziale con creazione di frammenti più brevi, difficili da rilevare con alcune tecniche [60].

Un elevato dd-cfDNA è stato riscontrato anche nei pazienti non aderenti alla terapia (bassi livelli assoluti e variabilità >60% dei livelli ematici di tacrolimus), suggerendo un suo possibile ruolo di rilevazione dei pazienti ad alto rischio di sviluppare rigetto [57].

Il dd-cfDNA è quindi da considerare un marcatore non-invasivo, facilmente ripetibile, precoce e sensibile di danno d’organo; al contrario, si presenta poco specifico per rigetto nella popolazione generale, esso infatti può essere elevato in corso di infezioni batteriche, virali (es BKV), necrosi tubulare acuta o problematiche chirurgiche (anche nelle 12 ore seguenti l’agobiopsia renale). Inoltre, ogni paziente presenta livelli di baseline differenti e in caso di danni extrarenali la sensibilità della metodica può essere compromessa. Al contrario, nei pazienti ad alto rischio (iperimmuni, con DSA, non aderenti alla terapia) o in pazienti a basso rischio in corso di tapering dell’immunosoppressione potrebbe presentare un potere predittivo negativo più elevato. Sebbene questo biomarcatore, approvato per uso clinico e rimborsato da molti paesi, non sia in grado di fornire tutte le informazioni derivanti dalla biopsia renale (ad esempio la valutazione del danno cronico) può essere affiancato a essa per fornire un’indicazione bioptica precoce, in particolar modo nei pazienti ad alto rischio, e utilizzato nel follow-up dopo terapia anti-rigetto.

Le chemochine urinarie

Le chemochine (CXCL9 e CXCL10) sono molecole prodotte in risposta all’IFNgamma rilasciato dalle cellule renali e infiammatorie in seguito a danno e richiamano all’interno del graft i linfociti CXC3+ responsabili del rigetto cellulo-mediato. Per questo motivo sono state proposte come biomarcatori precoci di rigetto cellulo-mediato [62, 63].

La misurazione di CXCL9 su urine è stata associata a diagnosi di rigetto cellulo-mediato con potere predittivo negativo del 92% [64-66]. Inoltre, dai dati derivati dai trial di sospensione di tacrolimus (CTOT-09, NCT01517984), il monitoraggio seriato tramite ELISA di CXCL9 urinario è stato in grado di diagnosticare il rigetto cellulo-mediato con un anticipo di 30 giorni rispetto ai parametri clinici-laboratoristici convenzionali [67]. Infine, il suo monitoraggio seriato, tramite metodica rapida, è stato associato alla risposta alla terapia antirigetto [68].

In conclusione, le chemochine urinarie sembrano essere biomarcatori promettenti per il rigetto cellulo-mediato, in quanto precoci, economici, ripetibili e associati alla risposta alla terapia anti-rigetto.

 

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