The Treatment of Acute Antibody-Mediated Rejection: Current State and Future Perspectives

Abstract

Despite the advances in the immunosuppressive therapies and improvements in short term allograft survival, Antibody-mediated rejection (AMR) still represents the leading cause of late allograft failure in kidney transplant recipients.
We present an insidious case of late active AMR that evolved into a severe chronic active antibody-mediated rejection, that we treated with a multidrug approach. Then, we review the current literature on the pathogenesis, diagnosis and treatment of AMR.
Antibody-mediated rejection (AMR) typically occurs when anti-HLA donor-specific antibodies (DSA) bind to vascular endothelial cells of the kidney graft. DSAs may preexist to transplantation (preformed DSA) or develop after transplantation (de novo DSA). Pathogenetic mechanisms of AMR involve complement-dependent, and -independent inflammatory pathways that are variably activated depending on antigen and antibody characteristics, or on whether rejection develops early (0-6 months) or late (beyond 6 months) post-transplantation. The Banff classification system categorizes AMR rejection into active antibody-mediated rejection, chronic active antibody-mediated rejection, and chronic (inactive) antibody-mediated rejection.
Currently, there are no approved therapies, treatment guidelines being based on low-quality evidence. Therefore, standard of care therapy is consensus-based. In early rejection, it is usually based on plasma exchange, intravenous immune globulin, anti-CD20 antibodies, while complement-inhibitor eculizumab is used in severe and/or refractory cases, treatments with. Recent evidence suggests that late AMR may be effectively treated with anti-CD38 therapy, which targets long lived plasma cells and NK cells.

Keywords: Kidney transplantation, Graft rejection, Graft rejection diagnosis, Graft rejection standard of care therapy, emerging drugs

 

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Caso clinico

Uomo di 44 anni sottoposto a trapianto di rene da donatore vivente (donatrice, la moglie) pre-emptive. La nefropatia di base era rene policistico autosomico dominante dell’adulto (ADPKD). Non aveva fattori di rischio immunologici, con un calculated Panel Reactive Antibody (cPRA) pre-trapianto pari a 0%, salvo 6 mismatch A/B/DR/DQ. Dopo aver ricevuto terapia di induzione con basiliximab e di mantenimento con tacrolimus, micofenolato mofetile (scarsamente tollerato) e metilprednisolone è stato dimesso in nona giornata post-trapianto con una creatinina alla dimissione pari a 1.3 mg/dl.

Undici mesi dopo il trapianto, dopo varie sospensioni del micofenolato mofetil legate ad intolleranza, e tentativi infruttuosi a causa di intolleranza di sostituzione con azatioprina ed everolimus, per cui il paziente è a lungo rimasto in terapia con solo tacrolimus e metilprednisolone a basse dosi, si è osservato un peggioramento della funzione renale (creatinina 2,2 mg/dl versus 1,3 mg/dl) associato al riscontro di DSA (anti-DQ7 e anti-DQA1, con Mean Fluorescence Intensity [MFI] ≈ 12000). Una prima biopsia evidenzia rigetto anticorpale acuto secondo Banff (t1 i0 iIFTA0 tIFTA0 ti2 v0 ptc3 C4d0 g3 ct0 ci0 cv1 ah0 cg0 mm0) associato a severa infiammazione microvascolare. Abbiamo pertanto trattato il paziente con tre boli di metilprednisolone endovenosi (ev) da 500 mg, sette sessioni di plasmaferesi, immunoglobuline ev ad alte dosi (2 g/kg) e l’anti-CD20 rituximab (375 mg/m2). Al termine del trattamento la creatinina ha cessato di aumentare, stabilizzandosi attorno a 2,0 mg/dl.

Diciassette mesi dopo (28 mesi post trapianto), la creatininemia ha mostrato un nuovo rialzo (2,7 mg/dl), quando la terapia immunosoppressiva di mantenimento era basata su steroide, tacrolimus ed everolimus. È stata ripetuta la biopsia del graft, che ha mostrato un quadro di rigetto anticorpale acuto cronico attivo (chronic aAMR) (t0 i0 i-IFTA1 ti1 v0 ptc 3 C4d0 g3 ct1 ci1 ah2 cg3 mm 0 secondo Banff). Pertanto, abbiamo intrapreso trattamento con tocilizumab (8 mg/kg ev per otto settimane, seguito da otto somministrazioni ogni due settimane e a seguire mensilmente).  A questo è seguita la stabilizzazione della funzione renale, pur in assenza di riduzione dei DSA. Diciotto mesi dopo (a quasi quattro anni di distanza dal trapianto) si è osservato un ulteriore rialzo della creatinina (3.6 mg/dl). Una terza biopsia ha confermato la diagnosi di rigetto anticorpale acuto cronico attivo (t0 i0 i-IFTA1 ti1 v0 ptc 3 C4d0 g3 ct1 ci1 cv1 ah2 cg3 mm0) in presenza di rialzo dei DSA (MFI DQ7, DQA1 ≈ 20000). Abbiamo sospeso allora il tocilizumab e avviato trattamento con daratunumab (16 mg/kg ev mensile) reintroducendo basse dosi di micofenolato al posto dell’everolimus. A ciò segue una immediata riduzione della creatinina, stabilizzata attorno a 2,5-2,6 mg/dl a cinque mesi dall’inizio del trattamento, in assenza però di una sensibile riduzione del livello degli anticorpi anti DSA.

Il rigetto anticorpo-mediato (AMR) si manifesta generalmente quando anticorpi circolanti anti-HLA donatore specifici (DSA) nel sangue del ricevente si legano ad antigeni del donatore presenti sulle cellule dell’endotelio vascolare del graft [1]. Nel caso dei trapianti AB0-incompatibili i DSA sono primariamente rappresentati dagli anticorpi anti-gruppo A/B. È controverso invece il ruolo di altri antigeni target espressi sulle cellule endoteliali (alcuni dei quali non sono alloantigeni ma autoanticorpi) come quelli contro il recettore di tipi 1 dell’angiotensina II e gli anticorpi anti-MICA (MHC class I chain-related gene A) [2]. A seconda delle caratteristiche dell’antigene e dell’anticorpo si possono attivare pattern diversi di risposta infiammatoria dipendenti o indipendenti dal complemento [3, 4]. I primi, si verificano più spesso nelle forme precoci (“early AMR”, 0-6 mesi dal trapianto), i secondi nelle forme tardive (“late AMR”, oltre sei mesi dal trapianto) [5].

Gli anticorpi anti-donatore specifici DSA possono essere presenti prima del trapianto (DSA preformati) o svilupparsi dopo il trapianto (DSA de novo).

L’AMR, nelle sue varie forme, rappresenta ancora la causa principale di perdita tardiva della funzione del graft. In circa la metà dei casi, è una forma “late” conseguenza della mancata aderenza terapeutica [6,7]. Considerando infatti il tempo intercorso tra il trapianto e l’insorgenza di rigetto gli studi dimostrano che la probabilità di sviluppare un rigetto anticorpale acuto entro il primo anno dal trapianto non supera il 10% mentre raggiunge circa il 30% negli anni successivi, avendo un andamento opposto rispetto al rigetto mediato da cellule T la cui diagnosi è rara nelle fasi tardive del trapianto e raggiunge una probabilità sino al 25% tra le sei settimane e i primi sei mesi dal trapianto [7, 8]. Inoltre, mentre il rigetto mediato da cellule T è generalmente un rigetto acuto, l’AMR, da un punto di vista epidemiologico è più frequentemente una forma “late”, che istologicamente si presenta come cronico-attivo.

Nel corso delle ultime decadi, grazie all’evoluzione della terapia immunosoppressiva (prevalentemente l’introduzione del tacrolimus e del micofenolato mofetil), l’incidenza del rigetto acuto si è ridotta molto: dall’80% degli anni ’60 sino a meno del 10% dei giorni nostri. Nel periodo 2018-2019, l’OPTN (Organ Procurement and Transplantation Network) riportava un’incidenza di solo 7% nel primo anno [8].

Le più recenti strategie terapeutiche hanno altresì migliorato la prognosi dell’early AMR, ma non avevano, fino agli anni più recenti, migliorato la prognosi di late AMR [5].

 

DSA preformati e rischio di AMR

Per i pazienti in lista di attesa di trapianto la presenza di anticorpi preformati circolanti diretti contro le molecole HLA rilevati, tramite metodica in fase solida Luminex, rappresenta il maggior biomarker disponibile per esplorare la memoria immunitaria verso alloantigeni. Non tutti gli anticorpi anti-HLA rilevati al Luminex sono considerati clinicamente rilevanti. Ad esempio, quelli non sviluppatisi a seguito di precedenti eventi sensibilizzanti, con bassi livelli di MFI (< 3000) e la cui presenza non persiste nel corso del tempo. In ogni caso, in Italia si usa un cutpoint di 3000 MFI per definire gli anticorpi anti-HLA significativi, e pertanto i loro antigeni target “proibiti” (un rene di un donatore cadavere la cui tipizzazione HLA mostra tali antigeni verrebbe definito HLA-incompatibile e pertanto non offerto al ricevente). Anche il calcolo del calculated Panel Reactive Antibody (cPRA), cioè la percentuale di donatori incompatibili, si fonda sul cutpoint di 3000 MFI. In Italia livelli elevati di cPRA associati ad una lunga permanenza in dialisi giustifica l’inscrizione a liste prioritarie di allocazione di organi. Quello che conta, per il rischio di AMR, non è però il cPRA in sé, ma invece la presenza/assenza di DSA preformati. Questo è stato ampiamente dimostrato recentemente grazie all’approfondimento patogenetico sulla memoria umorale dall’Eurotransplant Acceptable Mismatch program, dove, quando tramite studi di terzo livello si identificano i donatori verso i quali il paziente con alto cPRA non può sviluppare DSA, un c-PRA pre-trapianto elevato smette di essere un fattore di rischio di AMR [9].

Al fine di superare la mancanza di una definizione omogenea di rischio immunologico pre-trapianto nei confronti di uno specifico donatore (cadavere o vivente), il gruppo europeo ENGAGE ha proposto una categorizzazione del rischio di AMR post trapianto basato sull’integrazione della storia “immunologica” pregressa (intesa come pregressi trapianti e/o trasfusioni e/o gravidanza) con il test Luminex, e i crossmatch, che si fondano sull’uso dei linfociti del donatore [10]. In questa classificazione si definisce un rischio proibitivo e non percorribile per pazienti con DSA e crossmatch in citotossicità complemento mediata (CDC-XM) positivo, rischio intermedio in pazienti con DSA e crossmatch in citofluorimetria (FC-XM) positivo e rischio basso in pazienti senza DSA e con solo Luminex positivo [11]. Questo è stato retrospettivamente dimostrato nei pazienti sottoposti a desensibilizzazione presso l’Istituto John Hopkins per trapianto da vivente HLA incompatibile dove è riportata una perdita del graft a 5 anni nel 20% dei pazienti che avevano solo Luminex positivo (e negatività dei crossmatch) mentre si raggiungeva una perdita del graft di oltre il 40% in quelli che avevano CDC-XM positivo. Quest’ultimo gruppo di pazienti presentava anche una mortalità a 5 anni pari al 20% [12].

La stratificazione del rischio umorale del gruppo ENGAGE è stata raccomandata nelle recenti linee guida della Società Europea Trapianti di Organo ESOT [11].

Uno strumento aggiuntivo di stratificazione del rischio immunologico è il test Luminex che valuta la capacità dei DSA di legare il complemento (C1q o C3d) la cui positività è predittiva di un CDC-XM positivo e di un rischio di early AMR severo [13, 14].

 

La classificazione di Banff

Il gold standard per diagnosticare il rigetto acuto nel trapianto di rene è la biopsia renale la cui istologia viene interpretata usando la classificazione di Banff, entrato progressivamente in uso a partire dall’inizio degli anni ’90, e sottoposto a continui aggiornamenti nell’arco dei suoi 30 anni di storia [15].

La classificazione di Banff riconosce tre categorie principali di rigetto sulla base del meccanismo patogenetico: rigetto anticorpo-mediato, rigetto cellulo-mediato e lesioni borderline per rigetto cellulo-mediato.

Le varie forme sono distinte sulla base della presenza di lesioni istologiche elementari a cui il Banff attribuisce uno score semiquantitativo con l’obiettivo di aumentarne la riproducibilità inter-osservatore.

Se nel corso delle ultime revisioni i criteri diagnostici del rigetto cellulo-mediato hanno subito minime modifiche, per quanto riguarda il rigetto anticorpo-mediato le revisioni dei criteri sono state numerose e particolarmente significative e questo è stato principalmente dovuto alla maggior conoscenza della sua patogenesi e all’introduzione dei test di diagnostica molecolare [16].

Ad oggi i tre criteri per la diagnosi rigetto anticorpale acuto (secondo la classificazione BANFF del 2017) sono:

  1. evidenza istologica di un danno tissutale con uno o più delle seguenti caratteristiche:
    • infiammazione microvascolare (g>0 e/o ptc>0) in assenza di una glomerulonefrite ricorrente o de novo;
    • arterite intimale o transmurale (v>0);
    • microangiopatia trombotica non correlata ad altre cause;
    • danno tubulare acuto non correlato ad altre cause;
  2. evidenza di una corrente o pregressa interazione tra gli anticorpi con l’endotelio vascolare (deposito lineare del C4d sui capillari peritubulari) o presenza di una moderata infiammazione microvascolare (MIV, g+ptc > o uguale a 2) o l’aumentata espressione dei trascritti genici nella biopsia fortemente associati con la diagnosi di AMR;
  3. evidenza sierologica di presenza di anticorpi anti DSA o presenza di C4d staining o l’evidenza di validati trascritti genici per AMR.

Il rigetto anticorpale AMR cronico attivo è il risultato del danno anticorpale cronico e si diagnostica con gli stessi criteri dell’aAMR con associati segni di danno endoteliale cronico rappresentato dalla presenza di una membrana dei capillari peritubulari multistrato (cg) e la presenza di un ispessimento intimale arteriolare (cv) [17].

 

Cenni patogenetici del rigetto anticorpo-mediato

La patogenesi del AMR è il risultato del danno che si manifesta sull’endotelio microvascolare dovuto ai DSA e i meccanismi effettori del danno coinvolti nei casi precoci di rigetto possono essere diversi rispetto a quelli responsabili dei casi tardivi e/o cronici.

I principali determinanti antigenici del rigetto anticorpale sono le molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), che nell’uomo codificano le molecole HLA. Gli antigeni HLA possono essere distinti in due differenti classi: HLA di classe I (locus A, B e C), presenti su tutte le cellule nucleate, e HLA di classe II (locus DQ, DR e DP) espresse solo sulle cellule presentanti l’antigene (APC: cellule dendritiche (DC), macrofagi e cellule B). L’espressione di HLA di classe II può essere comunque indotta anche sulle cellule epiteliali ed endoteliali vascolari sotto l’azione di fattori pro-infiammatori [18].

Il rigetto iperacuto anticorpo-mediato è la reazione dovuta agli anticorpi anti DSA preformati considerati oggi proibitivi in quanto capaci di attivare in maniera massiva la cascata complementare (causando CDC-XM positivo). Diversi anni fa, quando non erano disponibili le tecniche di crossmatch questo tipo di rigetto si manifestava quasi immediatamente dopo la riperfusione del graft: l’attivazione massiva del complemento da parte degli anticorpi anti HLA causava immediata necrosi, emorragia e trombosi del graft, che richiedeva l’espianto immediato [19].

Quando i livelli di anticorpi anti-HLA non sono tali da produrre un’attivazione massiva del complemento si verificano gli eventi che conducono all’AMR classico nelle sue varie forme: nelle forme “early” acute con l’adesione dei leucociti neutrofili sui glomeruli responsabili della glomerulite, la marginazione dei neutrofili sui capillari peritubulari dilatatati, con/senza trombosi dei capillari peritubulari e l’ attivazione del complemento [19]. La frazione del complemento C4d, che non è attiva, ma è in grado di legare covalentemente l’endotelio dei capillari peritubulari, rappresenta un biomarker specifico di interazione DSA-endotelio.

Nelle forme meno acute, il microcircolo è invaso da monociti più che da neutrofili, le trombosi dei capillari glomerulari sono rare, e le cellule NK assumono un ruolo patogenetico fondamentale [20, 21].

Grazie allo sviluppo negli ultimi 10 anni delle tecniche di microarray e l’analisi dei geni coinvolti nel rigetto si è scoperto che una considerevole proporzione di rigetti AMR sono C4d negativi e anti HLA-DSA negativi aprendo il varco verso la conoscenza di meccanismi effettori di danno non mediati dal complemento [22–24]. Tra questi un ruolo patogenetico più importante negli anni è stato dato alle cellule Natural Killer (NK). Le cellule NK normalmente rappresentano circa il 5-10% dei linfociti circolanti e mediano le risposte immunitarie contro le cellule tumorali o le cellule infette. La loro attività citolitica si esplica con lisi diretta o con citotossicità cellulare anticorpo-dipendente (ADCC) attraverso il rilascio di citochine infiammatorie e chimiche come il granzima e la perforina [25]. Nella patogenesi del rigetto anticorpale è stato proposto un modello secondo cui il legame anticorpale DSA-endotelio vascolare rappresenterebbe un trigger per il reclutamento delle cellule NK. Le cellule NK hanno l’esclusiva capacità, attraverso l’interazione del recettore FcγRIII (CD16+) presente sulle cellule NK e gli anticorpi, di promuovere la citotossicità cellulare anticorpo dipendente (ADCC). Le stesse cellule NK possono aumentare la produzione di molecole HLA sulle cellule endoteliali attraverso il rilascio di citochine come IFN-γ e TNF-α che aggrava il danno immuno-mediato attraverso un aumento del numero di antigeni target per gli stessi anticorpi [26, 27].

Recenti modelli sperimentali di analisi delle biopsie hanno dimostrato l’importante ruolo delle cellule NK nel rigetto cronico anticorpo-mediato. Usando infatti dati di microarray sono stati individuati circa 503 geni alterati con una quota significativa per quelli del pathway NK correlato sottolineando il ruolo patogenetico di queste cellule in questo tipo di rigetto [28].

Le cellule NK esprimono una ampia varietà di recettori inibitori e attivatori e tra questi di particolare rilievo sono i KIRs (killer cell immunoglobulin-like receptors). Questi possono modificare le attività delle cellule NK controllando che rimangano inattive o, al contrario, diventino cellule effettrici che provocano citotossicità e citolisi della cellula bersaglio. Alcuni studi, comunque allo stato attuale non confermati, hanno dimostrato che il mismatch tra KIRs e il loro natural ligando HLA di classe I (“missing self”) esercita una forte influenza sull’outcome del trapianto indipendentemente dalla presenza o assenza di DSA [25].

Sempre più evidenze suggeriscono l’importanza delle cellule B non solo nella patogenesi del rigetto anticorpale acuto, ma anche nel rigetto mediato da cellule T, e ancor di più, nel late AMR. Le cellule B non solo agiscono da effettori ma possono modulare o regolare negativamente la risposta immune. La comprensione del delicato e complesso processo immunologico che porta alla produzione anticorpale nei pazienti sensibilizzati così come in quelli naïve è di fondamentale importanza per capire la varietà di presentazione dei quadri di rigetto AMR e le possibili opzioni terapeutiche [1].

In assenza dell’interazione con le cellule T follicular helper (Tfh) all’interno dei centri germinativi, le cellule B si differenziano in plasmablasti di breve durata capaci di produrre anticorpi di bassa affinità. Al contrario, l’interazione con le cellule Tfh nei centri germinativi produce la memoria immunitaria anticorpo-mediata che è alla base della sensibilizzazione dei candidati al trapianto e contribuisce al late AMR. Le cellule B attivate nel centro si trasformano in cellule B di memoria, plasmacellule che migrano in particolari nicchie favorevoli nel midollo osseo dove sono in grado di sopravvivere per decenni producendo anticorpi anti-HLA ad alta affinità. Queste ultime, identificate dalla positività al CD 138, sono considerate le cellule cardine della memoria anticorpo-mediata [29]. Varie interazioni all’interno delle nicchie del midollo osseo determinano la loro lungo-sopravvivenza, quali varie integrine, le cellule stromali e mesenchimali, l’IL-6 e il CXCl-12 [30].

 

Trattamento standard del rigetto acuto anticorpale precoce o tardivo

Standard of care dell’early AMR

Il trattamento ottimale del rigetto anticorpale acuto ad oggi è ancora non ben definito in quanto basato solo su ampie case series e su un numero molto limitato di trials randomizzati. A ciò si aggiunge l’evoluzione continua dei criteri diagnostici, l’incompleta comprensione dei meccanismi patogenetici, la mancata distinzione nelle casistiche pubblicate tra rigetti precoci o tardivi e presenza di anticorpi anti DSA preformati o de novo post trapianto, tutti fattori che possono avere un impatto significativo sulla prognosi [8]. Il trattamento standard del rigetto anticorpale acuto si basa su un approccio multifarmacologico che ha l’immediato obiettivo di rimuovere prontamente gli anticorpi presenti nel siero dei riceventi di trapianto di rene, impedirne il rebound e favorire l’immunomodulazione della risposta immune e in particolare della risposta B-cellulare [31]. Così come suggerito dal gruppo di lavoro di esperti della società trapiantologica nel 2019 l’approccio terapeutico andrà differenziato sulla base dei seguenti elementi: tempo di insorgenza dal trapianto (rigetto precoce e tardivo), presenza di DSA preesistenti o de novo e caratteristiche istologiche al momento della diagnosi (AMR cronico o attivo) [1].

Il trattamento dell’AMR attivo raccomandato dalle linee guida KDIGO del 2009 e confermato nel 2019 nel Transplantation Society Working Group Expert Consensus prevede l’avvio di un ciclo di plasmaferesi (PEX) (giornaliere o a giorni alterni per un totale di 6) e la somministrazione di immunoglobuline ev (IVIG) alla dose di 100 mg/kg dopo ogni PEX o ad alte dosi (2 g/kg) alla fine del ciclo di PEX [1, 32].

Tale approccio deriva dal protocollo del Cedars-Sinai Medical Center pubblicato da Jordan nel 2010 che prevedeva l’immediata rimozione degli anticorpi tramite cinque sedute di plasmaferesi eseguite a giorni alterni con rimpiazzo del volume plasmatico in parte con plasma fresco e in parte con albumina. Terminato il ciclo di plasmaferesi seguiva la somministrazione di IVIG ad alte dosi (2 g/kg per una massima dose di 140 g) e a seguire una singola somministrazione di Rituximab, anticorpo monoclonale anti-CD 20 [33].

Le IVIG sono riconosciute come importanti regolatrici dell’infiammazione e dell’immunità. I meccanismi di azione non sono ben definiti ma è dimostrata sperimentalmente la loro capacità di inibire le risposte B-cellulari attraverso la loro porzione Fc che lega il frammento Fc del recettore IgG2b sulle cellule B, di causare apoptosi attraverso il loro legame con il CD22 sulle cellule B mature e di inibire l’attivazione del complemento attraverso l’eliminazione diretta e potente delle anafilatossine (es. C3b) [34].

Il rituximab (RTX) è un anticorpo monoclonale anti CD-20; questo antigene è espresso sulle cellule B ma non sulle plasmacellule mature. La regione variabile del RTX legandosi al CD 20 porta alla morte cellulare attraverso tre meccanismi diversi: ADCC, citotossicità complemento-mediata CDC e attraverso l’apoptosi cellulo-mediata. Il RTX causa una sostenuta deplezione delle cellule B circolanti per un periodo compreso tra i sei e dodici mesi ed è in grado di ridurre in parte la popolazione B cellulare nella milza e nei linfonodi. Il farmaco fu inizialmente usato nel trattamento dei rigetti refrattari basandosi sulla dimostrazione della presenza di infiltrati di cellule B intrarenali considerati a lungo un fattore di rischio per la steroido-resistenza e quindi associati a peggior prognosi. Le cellule B infatti non solo agiscono come precursori di plasmacellule producenti anticorpi ma anche come cellule presentanti l’antigene che producono segnali costimolatori per le cellule T esitando anche nella produzione di citochine infiammatorie direttamente responsabili di danno cellulare [35]. Pertanto, il RTX non solo permette di attenuare la risposta immune anticorpo-mediata (sebbene non agisca sulle plasmacellule di lunga durata) ma anche indirettamente sopprimere la risposta immunitaria mediata dalle cellule T [36].

Nonostante il suo frequente impiego nei centri trapianto nel trattamento del rigetto AMR, ci sono limitate evidenze scientifiche a supporto della sua efficacia. Da una recente review sistematica della letteratura che ha incluso 9 studi sull’AMR e 7 sul cAMR è emerso che il RTX può avere qualche beneficio sulle forme acute pur mancando tuttavia di dati di alta qualità ma, al contrario, non ha alcun effetto beneficio sull’outcome nel rigetto AMR cronico attivo [36].

Gli stessi dati sono stati confermati nella recente metanalisi di Wan et al su studi controllati che esplorano il trattamento dell’AMR dove è emerso che lo standard of care nel trattamento è rappresentato da PEX + IVIG seppur con deboli evidenze scientifiche e che l’uso del RTX non si associa ad una differenza significativa sulla sopravvivenza del graft a breve termine [37].

Pertanto, nella raccomandazione delle società trapiantologiche e nelle più recenti revisioni della letteratura pubblicate lo standard of care nell’AMR precoce o tardivo in presenza di anticorpi anti DSA preesistenti al trapianto così come nel caso di AMR tardivo con DSA de novo è rappresentato da PEX + IVIG associato in tutti i casi ad ottimizzazione della terapia immunosoppressiva standard e a trattamento specifico di un eventuale contestuale forma di rigetto cellulo-mediato. Il RTX è considerato un trattamento aggiuntivo da valutare caso per caso [1, 38].

Inibitori del complemento

L’attivazione della via classica del complemento rappresenta uno dei meccanismi effettori principali nell’AMR e negli anni molto interesse ha rivestito l’inibizione del complemento come target terapeutico. I target terapeutici oggetto di studio sono la frazione complementare C5, il C3 e il C1q. L’eculizumab è un anticorpo monoclonale anti-C5 che blocca la cascata complementare terminale. È stato impiegato in modo promettente in alcuni trial randomizzati nella prevenzione del AMR in trapianti da cadavere e da vivente in pazienti con crossmatch positivo con risultati promettenti sulla sopravvivenza del graft a breve termine sebbene ad oggi non ci siano risultati altresì positivi su dati a lungo termine (incidenza di cAMR e perdita del graft) [39, 40]. In numerosi report, è stato descritto il suo uso nel trattamento del rigetto AMR precoce e refrattario [41]. Nell’unico studio randomizzato e controllato disponibile che valuta l’efficacia del farmaco somministrato per una durata di sei mesi non sono emerse differenze significative e nessun beneficio a lungo termine sulla funzione del graft [42]. Tuttavia, l’eculizumab era stato usato in circa la metà dei soggetti randomizzati al gruppo di controllo e, comunque, numericamente la sopravvivenza del graft era di 20% superiore nel gruppo che era stato randomizzato ad eculizumab.

Altri inibitori del complemento sono stati testati in studi pilota: il C1 esterasi inibitore (Cinryze) e il C1 inibitore con risultati non conclusivi [43, 44].

Un trial clinico di fase III che esplorava l’uso del C1 inibitore nel trattamento dell’AMR è stato prematuramente interrotto per inefficacia (NCT02547220), ma uno studio di fase II che prevede l’uso di un anticorpo monoclonale anti-C1s è in corso (NCT05156710). Altre promettenti molecole in studio sono il C3 inibitore (CP40 appartenente alla famiglia della COMPSTATINA) e gli inibitori del fattore B e del fattore D [45].

Imlifidase

L’Imlifidase (Hansa Biopharma AB) è un enzima che degrada le IgG derivato dallo Streptococco Pyogenes (IdeS). Si tratta di un’endopeptidasi capace di rompere i ponti di solfuro tra la frazione Fab e il frammento Fc inibendo la citotossicità complemento mediata e la citotossicità dipendente da anticorpo [46].

Si tratta del primo farmaco approvato dall’FDA senza uno studio randomizzato per la desensibilizzazione pre-trapianto in pazienti iperimmuni in quanto conduce con la scomparsa degli anticorpi anti DSA preesistenti alla negativizzazione nell’arco di poche ore dalla somministrazione (6-8 h) del crossmatch permettendo il trapianto. Tuttavia, dopo 7-10 giorni dalla sua somministrazione si verifica un rebound anticorpale e si sviluppano anticorpi anti IdeS che impediscono il riutilizzo del farmaco.

In questo scenario appare plausibile che, nell’ambito del rigetto AMR, potrebbe essere esplorata la possibilità di utilizzo del farmaco in aggiunta ad altre terapie per ridurre i DSA a lungo termine rispettando tuttavia specifici intervalli di somministrazione che tengano conto della capacità del farmaco di rompere tutte le IgG e quindi della possibilità di annullare l’effetto di altri farmaci comunemente impiegati nel trattamento (es RTX, eculizumab, IVIG) [47].

Bortezomib

Il Bortezomib, un inibitore del proteosoma usato nel trattamento del mieloma multiplo è stato impiegato nel trattamento dell’AMR attivo per la sua capacità di indurre apoptosi delle plasmacellule. Tuttavia, nell’unico trial disponibile (BORTEJECT Trial) pubblicato, il suo impiego non si è associato ad alcun miglioramento della funzione renale, della sopravvivenza del graft e dei livelli di DSA, ma si associava a significativi effetti collaterali gastrointestinali ed ematologici [48].

Ciclofosfamide

La ciclofosfamide è comunemente impiegata nel trattamento delle malattie autoimmuni (e.g. vasculiti, lupus). Il suo possibile impiego nel trattamento dell’AMR è stato valutato su 13 pazienti con diagnosi di rigetto AMR sottoposti a trattamento con PEX + IVIG e 6 somministrazioni ev di ciclofosfamide (15 mg/kg) ad intervalli di 3 settimane. Alla fine del trattamento la sopravvivenza del graft era del 77% e la funzione renale del graft era significativamente migliorata, inoltre, il trattamento era stato relativamente sicuro [49]. Tuttavia, non essendoci ulteriori dati a supporto del suo impiego non se ne consiglia l’uso.

Trattamento del late AMR

Standard of care

Il rigetto cronico attivo è un processo patologico dovuto alla tossicità anticorpale diretta o indiretta che porta a un rimodellamento del graft e a un danno cronico dell’endotelio.

Questo tipo di rigetto poco risponde alle attuali strategie terapeutiche usate per le forme attive precoci o tardive e ad oggi rappresenta la sfida terapeutica più difficile da affrontare per i clinici che si occupano di trapianto. L’obiettivo della terapia in questo caso dovrebbe essere quello di stabilizzare o ridurre il grado di declino della funzione renale, stabilizzare il danno istologico, ridurre la proteinuria e ridurre i livelli di DSA. Tuttavia, evidenze recenti dimostrano il ruolo attivo delle cellule NK nel causare il danno, indipendentemente dalla presenza di DSA [50-52].

Lo standard of care attuale raccomandato nel Consensus è quello di ottimizzare la terapia immunosoppressiva con la reintroduzione dello steroide se il paziente segue un regime steroid-free e il controllo dei fattori di rischio [1].

L’uso di IVIG e PEX con o senza RTX non ha dimostrato alcun miglioramento dell’outcome.

Tuttavia, un approccio multifarmacologico potrebbe essere impiegato avvalendosi di nuovi ed emergenti farmaci che hanno come target alcuni elementi patogenetici. Dopo un iniziale entusiasmo sul ruolo dell’inibizione dell’IL-6, che ha un’importanza nell’attivazione delle cellule T e nella maturazione delle cellule B, ora l’attenzione si è spostata sugli anticorpi anti CD-38. 

Inibizione IL-6

L’interleuchina 6 è una citochina pleiotropica multifunzionale che riveste un ruolo fondamentale nella patogenesi del rigetto AMR. IL6 previene l’apoptosi delle cellule B attivate e promuove lo sviluppo e la maturazione delle cellule B in plasmacellule che producono anti DSA; attiva e induce la proliferazione delle cellule T e, in presenza di interleuchina 2, induce la differenziazione delle cellule T mature e immature in cellule citotossiche [53]. Inoltre, è una importante regolatrice della risposta infiammatoria acuta attivando le cellule endoteliali e promuovendo il danno vascolare [54]. Tutto questo ha reso questa citochina un target terapeutico attrattivo nell’ambito del rigetto. Esistono due farmaci attualmente testati: il tocilizumab, un anticorpo monoclonale diretto contro il recettore dell’IL6 e il clazakizumab, anticorpo monoclonale diretto controllo l’IL6.

Il tocilizumab è stato inizialmente impiegato nel trattamento dei rigetti anticorpali refrattari alla terapia standard mostrando un miglioramento dello score microvascolare alle biopsie di controllo e una significativa riduzione dei DSA con stabilizzazione della funzione del graft a tre anni [55]. Tuttavia, altri studi non hanno dimostrato tale efficacia [56].

Di recente il tocilizumab (alla dose di 8 mg/kg ev mensili, massima dose di 800 mg) è stato impiegato nel trattamento del rigetto cronico attivo anticorpo mediato. Lavacca et al hanno trattato 15 pazienti con diagnosi di cAMR e li hanno seguiti per una media di 20 mesi. Nonostante la maggior parte dei pazienti presentasse alla diagnosi una glomerulopatia cronica avanzata (cg3) eGFR e proteinuria si sono stabilizzate durante il follow-up; nelle biopsie protocollari si è osservata una riduzione del danno microvascolare e anche i livelli di DSA si sono ridotti sensibilmente [57]. Questo effetto positivo è stato descritto in numerosi case report, tuttavia, mancano ad oggi trial di impiego del farmaco nelle fasi precoci del rigetto cronico attivo.

Il clazakizumab (somministrato alla dose 12.5-25 mg sottocute mensilmente per circa 6-12 mesi) è stato oggetto di uno studio randomizzato controllato di fase 2 nel trattamento del rigetto AMR cronico attivo in pazienti che non avevano storia di diverticolite o di malattie infiammatorie intestinali [58]. Dopo un periodo di 12 settimane che ha previsto la somministrazione mensile di 25 mg sottocute del farmaco o del placebo (10 pazienti per gruppo) tutti i soggetti arruolati hanno ricevuto il farmaco per un periodo in media di 40 settimane. Nella prima fase del trial si è assistito ad una riduzione dei DSA per i pazienti trattati ma non si sono osservate nelle biopsie significativi cambiamenti; interessanti, tuttavia, sono stati i risultati dopo 51 settimane di trattamento in quanto si è assistito, oltre ad una ulteriore riduzione dei DSA, soprattutto ad una significativa riduzione dello score di rigetto e dei depositi di C4d. Il farmaco è stato ben tollerato sebbene ci siano stati due casi di diverticolite perforata nei pazienti trattati con clazakizumab [58]. Per esplorare l’efficacia del clazakizumab e consentire l’approvazione da parte dell’Food Drug Administration (FDA) dell’uso del clazakizumab nel trattamento del rigetto anticorpale cronico attivo era in corso il trial IMAGINE (Interleukin-6 Blockade Modifying Antibody-mediated Graft Injury and Estimated Glomerular Filtration Rate Decline) (NCT03744910) uno studio di fase III che usava come endpoint surrogato il declino del filtrato stimato dopo un anno di terapia [54, 59]. Questo studio è però stato interrotto precocemente per inefficacia [52].

Anti-CD38 daratumumab e felzartamab

Il Daratumumab è un anticorpo monoclonale umano IgG1k che si lega al recettore CD38 e inibisce lo sviluppo delle cellule immunitarie che lo esprimono in particolare plasmacellule e cellule NK [60]. Nei modelli sperimentali animali si è osservato che il farmaco porta a riduzione degli anticorpi, riduzione dei plasmablasti e ritardo nell’insorgenza del rigetto sebbene un rapido rebound anticorpale sia stato osservato al termine del trattamento.  Il farmaco è somministrato alla dose di 16 mg/kg ev settimanalmente per otto settimane e poi ogni due settimane per altre otto somministrazioni e a seguire mensilmente. Ad oggi sono disponibili solo pochi case report in letteratura che descrivono il suo impiego nel rigetto. Dorberer et al ne hanno descritto l’impiego in un paziente con diagnosi di rigetto cronico anticorpale attivo osservando a distanza di tre mesi dall’avvio stabilizzazione della funzione renale, scomparsa dei DSA e miglioramento dell’infiammazione microvascolare [61].

Pertanto, il daratumumab potrebbe essere una promettente strategia per ridurre le plasmacellule; tuttavia, ha diversi effetti immunitari fuori target, tra cui la riduzione delle cellule t regolatorie CD38+ e anche delle cellule B regolatorie portando ad un aumentato rischio di rigetto cellulo-mediato [62].

Di recente è stato pubblicato il risultato di trial di fase II sull’uso di un altro anticorpo anti-CD38 il felzartamab nel rigetto anticorpale cronico attivo [63]. Si tratta di un anticorpo umanizzato IgG1 anti-CD38. In questo trial l’obiettivo principale dello studio è stato quello di stabilire il profilo di sicurezza e gli effetti collaterali del farmaco mentre obiettivi secondari sono stati la riduzione dei livelli di DSA e dell’infiammazione microvascolare. Dei 22 pazienti arruolati 11 hanno ricevuto nove infusioni endovenose settimanali di felzartamab (dose 16 mg/kg ev) per 4 settimane e poi una volta al mese per 5 mesi. Nello studio il farmaco ha mostrato un buon profilo di sicurezza e la risoluzione del quadro di rigetto è stata osservata nel 70% nei pazienti trattati (20% nel gruppo placebo). Tuttavia, un paziente ha sviluppato un rigetto cellulo-mediato probabilmente legato all’effetto del farmaco sulle cellule T-reg e dopo l’interruzione del farmaco 3 dei 9 pazienti trattati con il farmaco hanno ripresentato un quadro di rigetto anticorpale [63]. Il risultato positivo di questo piccolo trial esplorativo apre la strada ad ulteriori studi che potrebbero consentire la validazione dell’uso di questo farmaco nel trattamento del rigetto AMR cronico attivo [64].

 

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T-cell-mediated acute rejection

Abstract

Despite the advances in immunosuppressive therapies and improvements in short-term allograft survival, acute rejection still represents one of the major causes of graft loss. We present a case of early acute T-cell-mediated rejection treated efficaciously with pulse steroids and we review the current literature on the pathogenesis, diagnosis, and treatment of acute T-cell-mediated rejection. Pathogenetic mechanisms involve recruitment, activation, and proliferation of donor-specific T-cells, capable of inducing graft injury through direct and indirect mechanisms. Histologically, Banff classification provides standardized and reproducible definitions and scoring for rejection categories, including T-cell mediated rejection (TCMR) and borderline for TCMR. Although allograft biopsy still represents the gold standard for acute rejection diagnosis, new non-invasive biomarkers are emerging to improve diagnostic timeliness and assist therapeutic choices.

Therapy of TCMR largely depends on histologic severity and may range from the adjustment of maintenance immunosuppressive therapy to the use of thymoglobulin and other aggressive immunosuppressive approaches. Finally, the response to the anti-rejection treatment is normally detected through serum creatinine and surveillance biopsies. However, new biomarkers are emerging to non-invasively monitor this response.

Keywords: Kidney transplantation, Graft rejection, Graft rejection diagnosis, Graft rejection treatment, Graft rejection prognosis

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Caso clinico

Uomo di 61 anni sottoposto a trapianto di rene pre-emptive da donatore vivente (la moglie di 58 anni). Nefropatia di base: diagnosi clinica di nefroangiosclerosi ipertensiva; non sottoposto a biopsia per condizione di monorene funzionale. Differenza altezza/peso tra donatore e ricevente rispettivamente 160 cm/54 kg e 170cm/77 kg. Fattori di rischio immunologici: 6 mismatch A/B/DR (DRw:1, D Q DRw: 1; DQα: 2; DQβ: 2; DPα: 0, DPβ: 2), cPRA pre-trapianto pari a 0%.

Eseguita terapia di induzione con basiliximab e di mantenimento con tacrolimus, micofenolato mofetile e metilprednisolone. Nel post-operatorio presenta immediata ripresa funzionale con progressiva riduzione della creatinina ma, in quarta giornata post-trapianto, la funzione renale peggiora improvvisamente (creatininemia da 2.1 a 3 mg/dl), per cui viene sottoposto a biopsia del graft. L’esame istologico mostra presenza di infiltrato infiammatorio linfoplasmocitario interstiziale di grado severo (>50% della corticale) nell’ambito del quale si osservavano numerose immagini di tubulite anche severa (> 10 cellule per sezione), fino alla distruzione dei profili tubulari. Non presenta significative aree di atrofia tubulare o di fibrosi interstiziale (Figura 1 A-B).

L’immunoreazione per c4d è negativa nei capillari peritubulari in immunofluorescenza e immunoistochimica; non presenta alloanticorpi anti-HLA donatore-specifici.

Viene pertanto posta diagnosi di rigetto acuto cellulo-mediato tipo IB secondo Banff (t3, i3, v0, ti3, iIFTA0, tIFTA0, si veda Tabella I), per cui il paziente viene trattato con 3 boli di metilprednisolone ev da 500 mg. Alla dimissione la creatinina è 1.5 mg/dl.

A tre mesi dal trapianto la creatinina è stabile a 1.3 mg/dl, non vi sono anticorpi donatore-specifici (DSA). Viene ripetuto la biopsia del graft che mostra minime aree di atrofia tubulare e di fibrosi interstiziale, tubulite focale e moderata (max 7-8 cellule per sezione tubulare). La diagnosi istologica è di lesioni borderline per rigetto acuto cellulo-mediato secondo Banff (t2, i0, v0, ti0, iIFTA0, tIFTA0). Si decide di non procedere al trattamento ma solo di potenziare la terapia di mantenimento (Figura 1 C-D).

La prima biopsia mostrava infiammazione interstiziale diffusa
Figura 1: La prima biopsia mostrava infiammazione interstiziale diffusa i3 (A, PAS, 10x) e tubulite focalmente severa t3 (B, PAS, 40x; le frecce mostrano le immagini di tubulite), compatibili con rigetto acuto cellulo-mediato IB. Nella seconda biopsia l’infiammazione interstiziale era completamente risolta (C, PAS, 4x) mentre si osservavano immagini di tubulite moderata t2 (D, PAS+CD3, 40x), borderline per rigetto acuto cellulo mediato.
Definizione delle lesioni istologiche elementari del rigetto cellulo-mediato Categoria e sottocategoria Diagnostica Lesioni caratterizzanti
Infiammazione interstiziale (i)

  • i1: infiammazione nel 10-25% della corticale non fibrotica
  • i2: infiammazione nel 25-50% della corticale non fibrotica
  • i3: infiammazione in >50% della corticale non fibrotica

Tubulite (t)

  • t1: 1-4 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito
  • t2: 5-10 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito
  • t3: >10 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito

Arterite Intimale (v): cellule infiammatorie sotto l’intima di arterie intrarenali (no arteriole)

  • v1: compromissione di <25% del lume
  • v2: compromissione di >25% del lume
  • v3: infiammazione transmurale o necrosi fibrinoide

Infiammazione totale (ti)

  • ti1: infiammazione nel 10-25% dell’intera corticale
  • ti2: infiammazione nel 26-50% dell’intera corticale
  • ti3: infiammazione in >50% dell’intera corticale

Infiammazione delle aree di atrofia tubulare (iIFTA)

  • iIFTA1: infiammazione nel 10-25% delle aree di IFTA
  • iIFTA2: infiammazione nel 26-50% delle aree di IFTA
  • iIFTA3: infiammazione in >50% delle aree di IFTA

Tubulite in tubuli parzialmente atrofici (tIFTA)

  • tIFTA1: 1-4 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito
  • tIFTA2: 5-10 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito
  • tIFTA3: >10 cellule infiammatorie nel tubulo più colpito

Vasculopatia cronica da trapianto (cv*): presenza di cellule infiammatorie nel contesto dell’ispessimento fibroso subintimale in arterie intrarenali (no arteriole)

 

Rigetto cellulo-mediato borderline

t>0 ma i≤1

oppure

t1 e i≥2

Rigetto cellulo-mediato acuto

Grado IA

Grado IB

Grado IIA

Grado IIB

Grado III

 

t2 e i≥2

t3 e i≥2

v1 a prescindere da i e t

v2 a prescindere da i e t

v3 prescindere da i e t

Rigetto cellulo-mediato cronico-attivo

Grado IA

Grado IB

Grado II

 

 

 

ti≥2 iIFTA≥2 e t2 o tIFTA2

ti≥2 iIFTA≥2 e t3 o fIFTA3

presenza di cv*

Tabella I: Categorie diagnostiche e lesioni elementari del rigetto cellulo-mediato. IFTA: atrofia tubulare e fibrosi interstiziale [1].

 

La classificazione di Banff

Il sistema di classificazione istologica di Banff, entrato progressivamente in uso a partire dall’inizio degli anni ’90, ha lo scopo di uniformare e standardizzare la refertazione delle lesioni istologiche che caratterizzano il rigetto del rene trapiantato. Il Banff ha subito continui aggiornamenti nell’arco dei suoi 30 anni di storia. Conferenze biennali consentono di integrare nel sistema di classificazione nuove categorie e lesioni istologiche allo scopo di migliorare la comprensione dei meccanismi patogenetici del rigetto d’organo, la classificazione e la riproducibilità delle lesioni istologiche che lo caratterizzano e l’efficacia degli schemi terapeutici per i vari tipi di rigetto [2].

La classificazione di Banff riconosce tre categorie principali di rigetto sulla base del meccanismo patogenetico: rigetto anticorpo-mediato, rigetto cellulo-mediato e lesioni borderline per rigetto cellulo-mediato. Le varie forme sono distinte sulla base della presenza di lesioni istologiche elementari, e a cui il Banff attribuisce uno score semiquantitativo, con l’obiettivo di aumentarne la riproducibilità inter-osservatore. Nel rigetto anticorpo-mediato, provocato dalla presenza di alloanticorpi donatore-specifici rivolti verso antigeni endoteliali del donatore, i reperti istologici principali sono l’infiammazione microvascolare (definita come presenza di glomerulite e/o capillarite peritubulare) ed eventuale positività immunoistochimica per C4d a livello dell’endotelio dei capillari peritubulari, considerato segno “indiretto” dell’avvenuta interazione antigene-anticorpo. Invece, nel rigetto cellulo-mediato propriamente detto o nella forma borderline l’istologia si caratterizza per la presenza di infiammazione a livello interstiziale e tubulare (tubulite) e, nelle forme più severe, a livello dell’endotelio arterioso dei vasi intrarenali (arterite intimale). La forma borderline manifesta le medesime lesioni infiammatorie del rigetto cellulo-mediato conclamato (a eccezione della arterite intimale), ma la severità relativamente modesta delle lesioni non consente di attribuirne con certezza la causa a un fenomeno di rigetto d’organo [1].

Le categorie di rigetto cellulo-mediato definite dalla classificazione di Banff e le lesioni elementari che le caratterizzano sono indicate nella Tabella I.

 

L’incidenza e la patogenesi del rigetto

Il rigetto rappresenta il tentativo da parte del sistema immunitario del ricevente di distruggere un organo riconosciuto come non-self. Si distingue in base alla rapidità di decorso in rigetto iperacuto, acuto e cronico, e in base al processo immunologico. Può infatti vedere il coinvolgimento dell’immunità umorale (rigetto anticorpo-mediato) o di quella cellulare (linfociti, rigetto cellulo-mediato).

Il rigetto acuto va sospettato in tutti i pazienti che presentino un rapido peggioramento della funzione renale (incremento della creatinina), che non possa essere attribuita a cause non immunologiche (es. problemi urologici e vascolari, cause infettive come l’infezione da poliomavirus BK o batteriche). La diagnosi di certezza si ottiene sottoponendo il paziente alla biopsia del rene trapiantato [3].

Il rigetto acuto cellulo-mediato si manifesta prevalentemente nei primi tre mesi post-trapianto, ma può comunque presentarsi anche più tardivamente in occasione di riduzioni dell’immunosoppressione, per mancata aderenza terapeutica del paziente, o per raccomandazione del medico. Talora è identificabile un evento scatenante che eserciti un’immunostimolazione, come quei casi che seguono a infezioni virali. L’incidenza di rigetto acuto cellulo-mediato è di circa il 15%, a un anno dal trapianto; successivamente scende a meno di 5% all’anno [4].

L’incidenza del rigetto acuto si è ridotta negli ultimi 15 anni dopo l’introduzione del tacrolimus e del micofenolato mofetile. Nel 2018-2019, l’OPTN (Organ Procurement and Transplantation Network) riportava un’incidenza di solo 7% nel primo anno [5].

La presentazione clinica più classica è un incremento della creatinina riscontrato agli esami di routine. Meno frequentemente, nei casi più severi, si associa a febbre, distensione del graft, oliguria e ipertensione. Di rado si può manifestare con proteinuria (talora nefrosica).

Come regola clinica, un incremento della creatinina è considerato significativo se ≥ 0.3 mg/dl o oltre il 20% rispetto al valore basale. Nei casi precoci esorditi con ritardata ripresa funzionale (Delayed Graft Function, DGF), dialisi dipendente, l’aumento della creatininemia non può essere usato come criterio per porre il sospetto diagnostico. In tal caso può essere solo diagnosticato dalla biopsia, che infatti generalmente si esegue trascorso attorno al 10 giorno post-trapianto, nei pazienti in cui non sia ancora iniziata la ripresa funzionale. All’ecografia, il graft in corso di rigetto può presentare un aspetto edematoso e ipoecogeno con perdita della differenziazione cortico-midollare e all’ecocolordoppler gli indici di resistenza (IR) intraparenchimali possono essere aumentati (>0.80). Tale quadro ecografico, tuttavia, non è patognomonico, essendo presente anche in corso di altre condizioni, come la necrosi tubulare acuta (NTA) [6].

 

La patogenesi

Il rigetto acuto cellulo-mediato è caratterizzato dalla reazione delle cellule T del ricevente nei confronti degli alloantigeni HLA presenti sulle cellule del donatore. Il ruolo dei linfociti T risulta essenziale nella patogenesi del rigetto e il loro blocco ne previene l’insorgenza. Infatti, i bersagli principali di tutti i farmaci antirigetto sono le vie di attivazione dei linfociti T CD4+ naive [7, 8].

Il sistema immunitario consta di una componente innata e di un sistema adattativo che interagiscono per contrastare le infezioni e i tumori. Entrambe le componenti del sistema immune sono coinvolte nel rigetto: linfociti T, linfociti B e cellule presentati l’antigene (APC) sono gli attori principali dell’immunità adattativa, mentre fattori solubili, granulociti, cellule natural killer (NKc) e macrofagi sono i principali attori della componente innata [9].

I principali determinanti antigenici del rigetto sono le molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), che nell’uomo codificano le molecole HLA [10].

I geni che codificano per le molecole HLA si localizzano nel braccio corto del cromosoma 6, e sono ereditati come aplotipo con espressione codominante. Gli antigeni HLA possono essere distinti in due differenti classi: HLA di classe I (locus A, B e C), presenti su tutte le cellule nucleate, e HLA di classe II (locus DQ, DR e DP) espresse solo sulle cellule presentanti l’antigene (APC: cellule dendritiche (DC), macrofagi e cellule B). L’espressione di HLA di classe II può essere comunque indotta anche sulle cellule epiteliali e endoteliali vascolari sotto l’azione di fattori pro-infiammatori [10]. Le molecole HLA sono altamente polimorfe, cioè ne esistono numerose varianti alleliche.

L’alloreattività immunitaria consta di tre fasi: il riconoscimento degli antigeni da parte delle cellule T, l’attivazione-espansione delle cellule T, e l’esercizio di funzioni effettrici che portano alla distruzione dell’organo trapiantato [11].

L’alloriconoscimento è l’evento primario e normalmente si realizza attraverso tre diversi pathways: nelle fasi iniziali le cellule presentanti l’antigene provenienti dall’organo del donatore (in particolare leucociti migranti provenienti dall’interstizio dell’organo trapiantato) inducono l’espansione clonale dei linfociti T CD4+ naive del ricevente. Le APC protagoniste di questo fenomeno sono le cellule dendritiche (“professional” APC) [12]. Queste risiedono normalmente nel parenchima di ogni organo. In condizioni fisiologiche, le APC immature catturano materiale dalle cellule apoptotiche e lo portano alle cellule T nei linfonodi dove, secondo un processo fisiologico, garantiscono il mantenimento della tolleranza verso gli antigeni self. Al contrario, in presenza di un danno infiammatorio-necrotico, come quello che può verificarsi in seguito a intervento chirurgico o ischemia-riperfusione, le APC diventano “mature”, cioè acquistano la capacità di esprimere le molecole di istocompatibilità e le molecole costimolatorie necessarie per l’attivazione delle cellule T, e gli stessi stimoli attivano la APC del ricevente che infiltrano il graft come parte integrante del processo infiammatorio [12].

Sia le APC attivate del donatore che quelle del ricevente migrano fuori dal graft, raggiungendo i linfonodi dove attivano le cellule CD4+. Il fenomeno per cui una APC proveniente dal donatore attiva una cellula T del ricevente è detto via “Diretta” di alloriconoscimento. Questo processo è un fenomeno immunologico peculiare del trapianto. Col tempo le APC del donatore tendono però ad esaurirsi, cedendo il passo al fenomeno della via “Indiretta” di alloriconoscimento che è, del resto, il normale sistema di riconoscimento antigenico: sotto lo stimolo di chemochine le APC del ricevente migrano verso l’organo trapiantato, catturano peptidi, soprattutto degli HLA di classe II che circolano perché rilasciati spontaneamente dalle cellule del trapianto o che le APC staccano direttamente dalle stesse cellule, e poi migrano ai linfonodi per presentarli alle cellule T CD4+ [12].

La via diretta, che coinvolge un elevato numero di cellule T (circa 1‰-1%) e pertanto porta alle reazioni immunologiche cellulari più vigorose, è responsabile del rigetto acuto nelle prime fasi del trapianto. La via indiretta, che coinvolge invece un numero più basso di cellule T (circa 0.01‰ delle cellule T) che riconoscono peptidi estranei presentati nel contesto delle proprie molecole MHC e che pertanto porta a reazioni immunologiche più blande, è responsabile del rigetto cronico e del rigetto attivo subclinico nel lungo termine. Si ritiene che l’alloimmunità mediata dalle cellule T origini da fenomeni di cross-reattività, per cui linfociti T maturi riconoscono specifici antigeni microbici e cross-reagiscono con MHC allogenici [13].

Il danno infiammatorio-necrotico attiva, inoltre, la produzione locale del complemento da parte delle cellule prossimali tubulari. Il complemento è poi in grado di stimolare le cellule B a produrre anticorpi (oltre a svolgere complesse funzioni regolatorie sulle stesse cellule T) [14].

L’immunità innata ha un ruolo determinante nella maturazione delle APC [15]. Lo stesso atto chirurgico, l’ambiente necrotico-infiammatorio che ne consegue, il danno da ischemia/riperfusione nel trapianto da cadavere, sono fenomeni in grado di attivare l’immunità innata. Ad esempio, il danno cellulare del graft comporta la liberazione di frammenti di membrana, che sono definiti pattern molecolare associato a danno (DAMP) e pattern molecolare associato ai patogeni (PAMP) che attivano i fattori solubili dell’immunità innata [16]. Tra questi, i Toll-like receptors (TLR) rappresentano quelli meglio caratterizzati e il complemento. La funzione ancestrale di questi recettori è permettere il precoce riconoscimento di pattern molecolari comuni a molte specie microbiche patogene [17]. È infatti dimostrato che tali meccanismi si attivano nei processi infiammatori e di ischemia [18] che si sviluppano nel corso del trapianto [19].

È in tale contesto che avviene l’attivazione e maturazione delle APC, alla base dell’avvio e amplificazione della risposta immune adattativa verso il graft condotta dalle cellule T [19]. Questo si realizza attraverso la secrezione di citochine (e.g IL-1, IL-6, IL-8, TNFα) e di chemochine, che determinano l’espressione delle molecole costimolatorie necessarie per l’attivazione delle cellule T [20]. Anche l’attivazione del complemento, tradizionalmente associato all’immunità anticorpo mediata, ha in realtà un ruolo fondamentale per l’avvio e il mantenimento del processo infiammatorio così come della risposta immune adattativa associata al rigetto del graft [19].

Alla fase di alloriconoscimento segue la fase di attivazione ed espansione delle cellule T CD4+ naive, il cui pathway molecolare rappresenta il principale bersaglio dei farmaci usati nella terapia di mantenimento del trapianto. Il legame del TCR (CD3) del linfocita T con l’MHC della APC del donatore (via diretta) o con il MHC della propria APC, che accoglie però nella sua fenditura un peptide proveniente dall’MHC del donatore (via indiretta), consente di selezionare i cloni specifici: è questo il cosiddetto “Segnale 1 [11]. L’istruzione per la loro attivazione viene data però dalle molecole costimolatorie, in assenza delle quali si formerebbero cellule T anergiche che non porterebbero a termine alcuna riposta effettrice. In particolare, il CD40 sulle APC lega il CD40L (CD154) sulle cellule T. La costimolazione CD40-CD40L attiva le APC a produrre IL-12 e a aumentare l’espressione di CD80 (B7-1)/CD86 (B7-2) che legano il CD28 sulle cellule T. Il legame del CD80/CD86 col CD28 determina l’attivazione delle cellule T. Essa media, inoltre, la funzione helper delle cellule CD4+ e delle cellule B. Il belatacept è un inibitore selettivo dell’attivazione tramite il CD28 delle cellule T. Il belatacept è infatti una molecola ottenuta modificando il CTLA-4, cioè il naturale inibitore sulla superficie delle cellule T dell’attivazione CD80/CD86-indotta. Il contemporaneo legame del TCR e della molecola costimolatoria CD28 induce delle modificazioni delle molecole di membrana che attivano la Protein-Kinase C (la cui funzione è antagonizzata dal farmaco sotrastaurina) al rilascio di Calcio nel citosol, che attiva una catena di enzimi che porta alla sintesi di citochine pro-infiammatorie tra cui l’IL-2. I principali sistemi che vengono coinvolti in questa funzione sono la formazione del complesso calcio-calmoduline che attiva la calcineurina (la cui azione è inibita dalla ciclosporina e dal tacrolimus), la quale defosforila l’NFAT citoplasmatico (Nuclear Factor of Activated T cells). L’NFAT defosforilato può allora entrare nel nucleo dove attiva nel DNA linfocitario il promoter del gene per l’IL-2. Gli inibitori della calcineurina esercitano la loro azione antagonista dopo essersi legati a recettori specifici, quali la ciclofillina per la ciclosporina e l’FKBP per il tacrolimus. Altri sistemi attivati sono il MAPK (Mitogen Activated Protein Kinase che a sua volta attiva l’AP-1 (Activator Protein 1), e il l’NFkB, che sono antagonizzati dai farmaci glucocorticoidi. Le interleuchine, tra cui principalmente IL-2 e IL-15, si legano ai loro recettori espressi sui linfociti attivati e di cui il CD25 è una componente (il basiliximab è un antagonista di questa molecola). La traduzione del loro segnale avviene ad opera delle pathway delle JAK-STAT che portano alla replicazione e all’espansione dei cloni di cellule effettrici. Gli inibitori di mTOR (sirolimus ed everolimus), il micofenolato e gli antagonisti della JAK3 agiscono appunto a questo livello [11].

Le cellule T CD+4 naive o T helper svolgono un ruolo molto importante nella determinazione della risposta adattativa; infatti, a seconda dell’interazione con l’antigene attraverso il TCR possono differenziarsi in varie linee che includono le classiche cellule effettrici Th1 e Th2, le cellule Th17, le cellule helper follicolari (Tfh), le Th9 e le cellule regolatorie indotte iTreg [21]. La differenziazione dipende da vari fattori in particolare dalla forza del segnale TCR, dall’affinità del TCR per l’antigene, ma soprattutto dalla natura delle molecole costimolatorie responsabili del secondo segnale.

Le cellule effettrici Th1 contribuiscono significativamente alla risposta alloimmune e alla patogenesi del rigetto. Le cellule Th1 producono IFN-alfa e IL2 che stimolano l’espressione di MHC di classe I sulle cellule bersaglio. Il CD40 si esprime in modo significativo sulle APC quando è presente una quantità elevata di antigene, promuovendo attraverso il suo legando CD40L la produzione di citochine come IL12 e TNF e favorendo la diffenziazione nella classe Th1 [21].

Le cellule Th1 usano molecole di adesione, come LFA-1 per rotolare (rolling) aderendo all’endotelio e migrare attraverso i capillari peritubulari per entrare nel graft.

Le cellule Th1 producono IFN-alfa che stimola l’espressione di MHC di classe I sulle cellule bersaglio. I cloni alloreattivi riconoscono queste molecole sulle cellule bersaglio da distruggere. La distruzione avviene prevalentemente attraverso meccanismi di apoptosi indotti a seguito del contatto diretto con le cellule epiteliali tubulari e, in minor misura, attraverso la citolisi mediata dalle citochine. Le cellule T CD8 inseriscono nella cellula target la perforina, una proteina che crea un poro che consente l’ingresso del granzima A e B cha provoca apoptosi cellulare attraverso la via della caspasi. La stessa via può essere attivata attraverso le molecole FAS/e ligando di FAS. I linfociti T CD4 possono attaccare le cellule del graft che esprimono antigeni minori di istocompatibilità attraverso la secrezione di TNF alfa e TNF beta che si lega ai recettori del TNF espressi sulle cellule tubulari e endoteliali causando apoptosi cellulare. In corso di rigetto i linfociti T infiltrano e si proliferano nello spazio interstiziale e nei tubuli causando tubulite. Le citochine prodotte dalle cellule T dello spazio interstiziale attivano le cellule tubulari epiteliali che a loro volta attraggono più linfociti attraverso chemiochine (CCL 2, CX3CL1). I linfociti T CD8 attraversano la membrana basale del tubulo dove proliferano e determinano apoptosi delle cellule tubulari. Alla fine del processo le cellule tubulari danneggiate possono trasformarsi da fenotipi epiteliale a miofibroblasti mesenchimali causando fibrosi interstiziale. Tutti questi processi reiterati nel tempo conducono inoltre allo sviluppo di atrofia tubulare, che assieme alla fibrosi interstiziale è espressione di un danno cronico e irreversibile [22].

Il processo di alloriconoscimento si associa infine alla formazione di cellule CD4+ e CD8+ memoria. Queste cellule sono in grado di produrre citochine pro-infiammatorie. Le CD8+ memoria sono dotate di attività citotossica e le CD4+ memoria sono in grado di fornire aiuto per altre cellule T naive e per cellule B al fine di produrre anticorpi. Le cellule memoria hanno una bassissima soglia per l’attivazione e pertanto possono attivarsi fuori dai linfonodi e non richiedono APC professionali. Peraltro, il rilascio di citochine pro-infiammatorie induce l’espressione di MHC sulle APC non professionali (cellule endoteliali ed epiteliali, cellule B e macrofagi) [23].

Le cellule memoria esprimono varie molecole costimolatorie tra le quali ICOS (inducible T-cell costimulator), PD-1 (programmed death-1), CD134, CD27, e CD137, che potrebbero essere in futuro potenziali target per terapie specifiche. Non esprimono invece le classiche molecole costimolatorie come il CD28 [23].

 

La terapia del rigetto acuto cellulo-mediato

La terapia del rigetto acuto cellulo-mediato si stabilisce in base all’entità e gravità del danno individuato con la biopsia.

Il rigetto borderline è rappresentato da lesioni infiammatorie tubulointerstiziali molto modeste, spesso riscontrate incidentalmente in corso di biopsie di sorveglianza, in assenza di segni clinici di rigetto. In pazienti con lesioni borderline per rigetto cellulo-mediato molti clinici preferiscono non trattare il rigetto, a meno che tali lesioni non siano riscontrate in biopsie per indicazione clinica.

C’è un accordo unanime definito dalle linee guida internazionale di trattare il rigetto cellulare acuto IA e IB con terapia steroidea ev secondo schemi di somministrazione degli steroidi diversi a seconda del centro [24].

Generalmente si somministrano boli di metilprednisolone da 500 mg per tre giorni consecutivi (o 3-5 mg/kg/die). La dose non deve tuttavia essere inferiore a 250 mg/die e nei cinque giorni successivi si programma lento tapering. Nei casi più severi si possono usare dosi maggiori (es. 10 mg/kg, per una dose cumulativa massima di 3 g). La risposta viene definita generalmente con ritorno della creatininemia entro il 30% dei valori basali trascorsa una settimana dall’inizio del trattamento.

In caso di presenza di un quadro istologico più grave (con presenza di arterite v), o in caso di mancata risposta alla terapia steroidea, è necessario avviare trattamento con terapia depletante le cellule T, basata su anticorpi di coniglio antitimociti umani (rabbit antithymocyte globulin, rATG). In Italia viene generalmente usata la formulazione Thymoglobuline®, alla dose iniziale dai 2.5 mg/kg da somministrare in infusione lenta, nell’arco di 6-12 ore, previa premedicazione con antistaminici, steroidi (metilprendisolone 20-40 mg) e paracetamolo (1000 mg), nell’arco di 8-12 ore. La somministrazione va ripetuta alla dose di 1.5 mg/kg ogni 24 ore, raggiungendo mediamente una dose cumulativa di 8mg/kg [25]. Per i pazienti che non possono ricevere trattamento con rATG perché allergizzati alle proteine di coniglio con rischio di sviluppo di malattia da siero [26] è possibile la monosomministrazione di alemtuzumab (anticorpo anti-CD52 che depleta tutte le cellule immunitarie, incluse le cellule B). Per il trattamento del rigetto, l’alemtuzumab è però un farmaco off-label.

Per i pazienti trattati con Thymoglobuline, è indicata una profilassi per Pneumocystis jirovecii, Citomegalovirus, e candida, con trimetroprim-sulfametossazolo, valganciclovir e nistatina. La profilassi per Pneumocystis jirovecii è comunque consigliabile in ogni paziente trattato per rigetto acuto, anche se con soli steroidi, o incremento della terapia immunosoppressiva di mantenimento.

 

La risposta al trattamento e prognosi a lungo termine

Non è ancora chiaro come valutare la risposta nel breve-medio termine al trattamento per il rigetto acuto, essendo quello basato sulla sola funzione renale, un criterio spesso considerato insufficiente. Una revisione sistematica della letteratura pubblicata ha messo in evidenza quanto le definizioni della risposta al trattamento siano eterogenee. In particolare, pochi centri trapianti valutano la risposta terapeutica attraverso la ripetizione di una biopsia di controllo [24]. In una recente coorte prospettica di 256 pazienti con diagnosi bioptica di rigetto acuto cellulo-mediato sono state analizzate risposta clinica, istologica e immunologica al momento della diagnosi e a tre mesi dal trattamento [27].

In questo studio, dove la percentuale di non-responders era del 40%, sono stati identificati cinque diversi pattern di risposta al trattamento. Questi si fondano sull’eGFR, sul grado di infiammazione in aree di atrofia tubulare e fibrosi interstiziale (i-IFTA) e sulla presenza di alloanticorpi anti-HLA donatore specifici (DSA). I pazienti con risposta al trattamento avevano un eGFR > 22 ml/min/1.73m2, e uno score di iFTA Banff ≤1, e assenza di DSA. Tra questi quelli con eGFR > 44 ml/min/1.73m2 avevano una sopravvivenza del graft a 10 anni di oltre il 90% [28].

Diversi studi hanno infatti dimostrato la correlazione tra la presenza di infiammazione nelle aree cicatriziali (i-IFTA) e la ridotta sopravvivenza del trapianto [29, 30]. Per tale motivo, nella definizione nella recente revisione dello score Banff 2017, l’i-IFTA è stata considerata espressione del rigetto cellulare cronico attivo.

Tale interpretazione non ha trovato accordo in uno studio in cui Halloran et al. hanno valutato la correlazione tra diagnosi molecolare di rigetto acuto cellulo-mediato basata su microarray (MMDx) [31] e i-IFTA, studiando 519 campioni bioptici. Il sistema MMDx permette di avere report automatizzati che si fondano su algoritmi che generano probabilità numeriche di rigetto anticorpale o cellulare [28].

Da questo studio, gli autori hanno concluso che l’i-IFTA non è altro che una risposta aspecifica a danno parenchimale recente [32].

 

Le nuove strategie per la diagnosi di rigetto

La diagnosi invasiva

La biopsia renale è tradizionalmente considerata il gold standard per la diagnosi di rigetto. Negli anni ’90, l’introduzione della classificazione di Banff ha consentito di migliorare la riproducibilità delle diagnosi si rigetto. Tuttavia, col passare degli anni ne sono emersi i limiti. I limiti sono legati al fatto che il Banff si fonda sull’uso di uno score semiquantitativo che valuta una serie di lesioni elementari comuni per vari pattern istologici (ad esempio l’arterite nel rigetto acuto cellulo-mediato e anticorpo-mediato) [33]. Tale score, essendo frutto di una valutazione quantitativa, è inevitabilmente poco riproducibile tra patologi. Inoltre, molte delle lesioni elementari associate a rigetto non sono in realtà specifiche. Infine, non è sufficientemente accurato per apprezzare un’evoluzione nel tempo. Peraltro, il Banff richiede, per la sua valutazione, un campione adeguato in termini di dimensioni e qualità (idealmente sono necessari due frustoli, rappresentativi della corticale, con almeno 10 glomeruli e un’arteria di medio calibro) [34].

La trascrittomica

Per ovviare ai limiti della valutazione semiquantitativa del Banff, sono state introdotte tecniche di biologia molecolare, fondate sulla trascrittomica e prevalentemente basate su microarray. Tra queste, il Molecular Microscope Diagnostic System (MMDx) è stata la prima introdotta a uso clinico nell’ambito del trapianto renale [35]. La tecnica prevede la rilevazione dell’RNA messaggero di numerosi geni in una piccola porzione di frustolo agobioptico (3-5 mm), anche privo di corticale e conservato con inibitori delle RNAsi, quali RNAlater, per prevenire la degradazione dell’RNA [36].

L’analisi trascrittomica tramite MMDx consente di fornire una misurazione quantitativa e specifica dell’infiammazione [35, 37-39], e una classificazione in categorie diagnostiche (non rigetto, rigetto cellulo-mediato, rigetto misto, rigetto anticorpo-mediato iniziale, rigetto anticorpo-mediato franco e rigetto anticorpo-mediato avanzato) [40]. L’MMDx ha inoltre consentito l’individuazione di trascritti associati a progressione di malattia [41-43] e posto le basi per un confronto quantitativo su biopsie seriali dei parametri diagnostici classici, istologici e sierologici [39, 44]. Dal 2013 questa tecnica è stata introdotta nella classificazione di Banff [45]. È intatti grazie all’MMDx che la categoria del rigetto anticorpo-mediato C4d negativo è stata inclusa nella classificazione di Banff [37]. L’MMDx, identificando come pattern molecolari patogenetici aumentassero la sensibilità e la specificità diagnostica [46], ha finito anche per proporre nuovi target terapeutici, come nel caso dell’identificazione del ruolo delle cellule NK nell’infiammazione microvascolare.

Attualmente, l’MMDx non è rimborsato nella maggioranza dei paesi. Esso non è inoltre scevro di limitazioni: valutando l’espressione di mRNA in toto, è artificialmente influenzato da fattori quali il numero di glomeruli e dal rapporto tra tessuto infiammato e sclerotico. Per questo motivo, le alterazioni focali (ad esempio glomerulari) tendono a essere sottostimate rispetto a quelle diffuse [35, 47]. Infine, l’MMDx non è utile nel diagnosticare patologie renali diverse dal rigetto, quali le glomerulonefriti, le malattie vascolari e infettive. D’altra parte, la maggior parte degli studi pilota e di validazione di MMDx hanno utilizzato biopsie ‘per causa’: la sua performance nelle biopsie per protocollo, in particolar modo nei casi di lesioni borderline, deve essere ancora validato [48].

In conclusione, l’MMDx sembra essere un valido strumento da affiancare alla patologia tradizionale nei casi clinici dubbi per rigetto, e un utile mezzo per ampliare le conoscenze sui meccanismi patogenetici [49].

Il machine learning

Recentemente, Naensens et al. hanno proposto un modello basato sul machine learning per quantificare la flogosi in corso di rigetto acuto, partendo dallo score Banff attivo (t, i, g, ptc, c4d) e dalla presenza o assenza di microangiopatia trombotica e DSA in 7345 biopsie protocollari e ‘per causa’. Sono stati evidenziati 6 cluster, solo parzialmente sovrapponibili a quelli dello score di Banff [50]. Questo nuovo modello sembra essere in grado di quantificare la flogosi e predire la disfunzione renale meglio dello score di Banff e potrebbe essere utile nella pratica clinica per dirimere casi dubbi.

 

La diagnosi non-invasiva

Il dd-cfDNA

Il DNA circolante libero derivato dal donatore (dd-cfDNA) è il DNA non-cellulare plasmatico che deriva dall’apoptosi e necrosi delle cellule dell’organo trapiantato, e può essere espresso come quantità assoluta o percentuale sulla totalità del cfDNA (derivante perlopiù dai linfociti del ricevente) [51].

L’idea di utilizzare il dd-cfDNA come biomarcatore precoce di rigetto è nata nel 1998, quando Lo et al. dimostrarono la presenza di chimerismo plasmatico in pazienti femmine portatrici di trapianto di organo solido da donatori maschi utilizzando i cromosomi sessuali [52]. Da allora, la metodica è stata ottimizzata per misurare la frazione di dd-cfDNA plasmatico attraverso la misurazione della frequenza di migliaia di poliformismi a singolo nucleotide (SNP) ad alta variabilità [53]. In considerazione della breve emivita del cfDNA, la tecnica richiede analisi immediata o l’utilizzo di provette apposite contenenti inibitori delle nucleasi.

La percentuale di dd-cfDNA presenta un calo progressivo fino a raggiungere i livelli di baseline di 0.21%-0.46% alla seconda o terza settimana post-trapianto, e un calo più rapido è stato osservato nei trapianti da donatore vivente. Al contrario, un calo anomalo è stato associato a complicanze immunologiche, infettive e chirurgiche nell’immediato post-operatorio [54].

In considerazione della sua sensibilità nel rilevare un danno d’organo, il dd-cfDNA è stato proposto come biomarcatore non-invasivo di rigetto. Considerando tutte le categorie di rigetto, è stata riportata una sensibilità dell’80% e una specificità del 76% [54-60] e quando utilizzato in combinazione ai DSA raggiunge un potere predittivo negativo dell’85% e positivo dell’81% [61].

Il dd-cfDNA sembra essere un biomarcatore performante per il rigetto anticorpo-mediato raggiungendo una sensibilità di oltre l’80% utilizzando il cut-off di 1%, mentre per il rigetto cellulo-mediato la sensibilità è del 59% [60]. È stato ipotizzato che questo fenomeno sia dovuto alla maggiore degradazione del DNA in corso di intensa infiammazione interstiziale con creazione di frammenti più brevi, difficili da rilevare con alcune tecniche [60].

Un elevato dd-cfDNA è stato riscontrato anche nei pazienti non aderenti alla terapia (bassi livelli assoluti e variabilità >60% dei livelli ematici di tacrolimus), suggerendo un suo possibile ruolo di rilevazione dei pazienti ad alto rischio di sviluppare rigetto [57].

Il dd-cfDNA è quindi da considerare un marcatore non-invasivo, facilmente ripetibile, precoce e sensibile di danno d’organo; al contrario, si presenta poco specifico per rigetto nella popolazione generale, esso infatti può essere elevato in corso di infezioni batteriche, virali (es BKV), necrosi tubulare acuta o problematiche chirurgiche (anche nelle 12 ore seguenti l’agobiopsia renale). Inoltre, ogni paziente presenta livelli di baseline differenti e in caso di danni extrarenali la sensibilità della metodica può essere compromessa. Al contrario, nei pazienti ad alto rischio (iperimmuni, con DSA, non aderenti alla terapia) o in pazienti a basso rischio in corso di tapering dell’immunosoppressione potrebbe presentare un potere predittivo negativo più elevato. Sebbene questo biomarcatore, approvato per uso clinico e rimborsato da molti paesi, non sia in grado di fornire tutte le informazioni derivanti dalla biopsia renale (ad esempio la valutazione del danno cronico) può essere affiancato a essa per fornire un’indicazione bioptica precoce, in particolar modo nei pazienti ad alto rischio, e utilizzato nel follow-up dopo terapia anti-rigetto.

Le chemochine urinarie

Le chemochine (CXCL9 e CXCL10) sono molecole prodotte in risposta all’IFNgamma rilasciato dalle cellule renali e infiammatorie in seguito a danno e richiamano all’interno del graft i linfociti CXC3+ responsabili del rigetto cellulo-mediato. Per questo motivo sono state proposte come biomarcatori precoci di rigetto cellulo-mediato [62, 63].

La misurazione di CXCL9 su urine è stata associata a diagnosi di rigetto cellulo-mediato con potere predittivo negativo del 92% [64-66]. Inoltre, dai dati derivati dai trial di sospensione di tacrolimus (CTOT-09, NCT01517984), il monitoraggio seriato tramite ELISA di CXCL9 urinario è stato in grado di diagnosticare il rigetto cellulo-mediato con un anticipo di 30 giorni rispetto ai parametri clinici-laboratoristici convenzionali [67]. Infine, il suo monitoraggio seriato, tramite metodica rapida, è stato associato alla risposta alla terapia antirigetto [68].

In conclusione, le chemochine urinarie sembrano essere biomarcatori promettenti per il rigetto cellulo-mediato, in quanto precoci, economici, ripetibili e associati alla risposta alla terapia anti-rigetto.

 

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