Gennaio Febbraio 2020 - In depth review

Different methods to manage dry weight in hemodialysis patients

Abstract

Estimating the euvolemia and dry weight of hemodialysis patients still represents a challenge for the nephrologist, since both dehydration and hyperhydration are associated with intradialytic events and cardiovascular complications in the short and long term.

Despite the need for a precise and objective definition of the dry weight for the individual patient on dialysis, this is usually determined on a clinical basis. To obtain greater sensitivity the dosage of natriuretic peptides, Bioelectrical Impedance Analysis (BIA) and, more recently, Lung Ultra-Sound (LUS) can all be used. The BIA allows to estimate the subject’s body composition and, in particular, the distribution of body fluids. The presence of hyperhydration, as determined through the BIA, is predictive of an increased mortality in numerous observational studies.

In recent years, pulmonary ultrasound has taken on an increasingly important role not only within the cardiology and intensive care units, but also in a nephrology setting, especially in dialysis.

The purpose of this article is to analyze the advantages and limitations of the methods that can be used to assess the dry weight of patients undergoing hemodialysis treatment.

 

Keywords: hemodialysis, lung ultra-sound, bioelectrical impedance analysis, overhydration, dry weight

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Introduzione

Nel paziente in emodialisi, sia la disidratazione che l’iperidratazione favoriscono complicanze intra ed extra dialitiche e cardiovascolari sia nel breve che nel lungo termine, ma la stima della volemia e del peso secco dei pazienti rappresenta ancora oggi una sfida per il nefrologo [1]. L’iperidratazione anche subclinica si associa ad ipertensione arteriosa, incremento della rigidità vascolare, ipertrofia ventricolare sinistra e aumentato rischio di eventi e di mortalità cardiovascolare [2]. 

Nonostante la comprensibile necessità di una precisa ed obiettiva definizione del peso secco per il paziente in dialisi, questo viene a tutt’oggi determinato essenzialmente con criteri clinici come la presenza o meno di edema periferico, dispnea, crampi o ipotensione a fine dialisi, o per la persistenza di ipotensione o ipertensione arteriosa. Purtroppo tale approccio è poco accurato [3]. 

Per una più corretta stima della volemia dei pazienti in dialisi è necessario utilizzare altri elementi quali il dosaggio dei peptidi natriuretici, la bioimpedenziometria (Bioelectrical Impedance Analysis, BIA) e più recentemente l’ecografia polmonare (Lung Ultra-Sound, LUS) [4]. Tutti questi metodi (Figura 1) possono essere impiegati correntemente nella pratica clinica per la loro riproducibilità, facilità di esecuzione, basso costo e ripetibilità nel tempo. 

Scopo di questo articolo è quello di analizzare i vantaggi ed i limiti delle metodiche ad oggi disponibili e potenzialmente utili nella gestione del peso dei pazienti in trattamento emodialitico.

 

L’iperidratazione nel paziente in emodialisi

Nei pazienti in emodialisi l’espansione di volume è una condizione clinica frequente e talvolta misconosciuta, alla quale concorrono numerosi fattori come l’assunzione di sale e acqua con la dieta, l’entità della diuresi residua, la composizione del dialisato e l’ultrafiltrazione [5]. Utilizzando la bioimpedenziometria, una recente analisi condotta su 2000 pazienti in trattamento emodialitico cronico in 34 centri dialisi europei ha riportato che il 28,3% dei pazienti risulta iperidratato prima dell’inizio della seduta, presentando un eccesso di acqua extracellulare maggiore di 2,5 L rispetto ad una teorica condizione di normovolemia [6]. Questo dato testimonia la difficoltà a raggiungere il peso secco in una grande percentuale di pazienti, e predispone al rischio di trattamenti aggiuntivi anche in urgenza e di maggiore ospedalizzazione [7].

Anche nei pazienti in pre-dialisi, la BIA è in grado di rilevare una elevata percentuale di soggetti iperidratati. In uno studio su 338 pazienti affetti da malattia renale cronica in stadio 4-5 ND è emerso che circa il 20% risultava iperidratato con un relative fluid overload >7%, nonostante non presentassero segni e/o sintomi compatibili con un sovraccarico di volume [8].

Nei pazienti in emodialisi, uno stato persistente di iperidratazione si associa ad un aumento della mortalità e il sovraccarico di volume provoca alterazioni strutturali a carico del miocardio e dei vasi. In particolare, il rimodellamento ventricolare sinistro secondario al sovraccarico di volume e di pressione conduce all’ipertrofia ventricolare sinistra (IVS) eccentrica e/o concentrica e quindi alla disfunzione sisto-diastolica, fino all’insufficienza cardiaca [5]. L’esposizione all’iperidratazione cronica inoltre, contribuisce a incrementare la rigidità vascolare dei pazienti emodializzati attraverso un ispessimento medio-intimale delle pareti vascolari. Ciò si traduce nello sviluppo di ipertensione sistolica isolata con aumento della differenziale, di ipertrofia ventricolare sinistra e ridotta perfusione cardiaca, che contribuiscono ad incrementare il rischio cardiovascolare [9].

Recenti studi hanno anche messo in evidenza l’associazione tra ipervolemia e infiammazione. Pazienti iperidratati alla BIA presentavano livelli di Proteina C-Reattiva (PCR) e di interleuchina IL-6 significativamente più elevati rispetto ai pazienti normoidratati. Questo sembrerebbe riconducibile alla presenza di edema a livello della mucosa intestinale, con aumento della permeabilità e quindi di traslocazione di endotossine batteriche nel circolo ematico; ne deriverebbe uno stimolo pro-infiammatorio persistente, in grado a sua volta di aumentare il rischio cardiovascolare [10,11].

Viceversa, l’infiammazione può associarsi a sovraccarico di volume per le note alterazioni che induce sullo stato nutrizionale, cioè uno stato catabolico con progressiva perdita di massa muscolare. La naturale conseguenza di questo processo è una riduzione del peso secco effettivo che, se non viene adeguatamente aggiustato , espone i pazienti al rischio di uno stato di cronica iperidratazione [12]. 

In uno studio retrospettivo su circa 35.000 pazienti americani in trattamento emodialitico cronico trisettimanale, Kalantar-Zadeh et al. hanno riportato che un elevato incremento ponderale interdialitico correlava ad un aumentato rischio di mortalità cardiovascolare e per tutte le cause, anche in presenza di un adeguato stato nutrizionale [13]. In particolare, i pazienti con incremento ponderale interdialitico superiore a 1,5 Kg mostravano un più elevato rischio di mortalità, direttamente proporzionale all’incremento ponderale; tale rischio aumentava di oltre il 25% nel gruppo di pazienti con incremento ponderale maggiore di 4 kg [13]. 

L’associazione tra sovraccarico idro-salino e sopravvivenza è stata riportata anche da Movilli et al. [14]. In oltre il 60% dei trattamenti emodialitici effettuati, i pazienti non riuscivano a raggiungere il proprio peso target dopo un follow-up di 3 anni, rimanendo in una condizione di iperidratazione residua; questo si associava ad una più elevata mortalità rispetto ai pazienti che raggiungevano il peso programmato [14]. Pazienti iperidratati alla valutazione bioimpedenziometrica eseguita prima della dialisi, così definiti dalla presenza di un valore percentuale di acqua extracellulare >15%, hanno mostrato una minore sopravvivenza rispetto ai pazienti normoidratati [2]. Inoltre, l’iperidratazione è un fattore di rischio indipendente di mortalità per tutte le cause (Hazard Ratio: 2,1), secondo solo alla presenza di diabete mellito (Hazard Ratio: 2,7) [2].

Un’ulteriore associazione tra sovraccarico idrico e aumentata mortalità proviene da uno studio che, confrontando 50 pazienti normoidratati alla BIA selezionati dal centro dialisi di Tassin con 35 pazienti iperidratati selezionati da un centro dialisi tedesco (Giessen), ha mostrato in quest’ultimo gruppo un incremento significativo del rischio di mortalità, tre volte più elevato rispetto a quello dei pazienti normoidratati [15]. 

Ad analoghe conclusioni è giunto uno studio multicentrico osservazionale condotto su una popolazione di 35.000 pazienti, in cui sono state effettuate oltre 200.000 misurazioni dello stato volemico mediante bioimpedenziometria in 5 anni. È risultato che i pazienti iperidratati, ovvero coloro con relative fluid overload >15% (maschi) o >13% (femmine), avevano già al baseline un rischio di mortalità aumentato del 26% rispetto ai soggetti normoidratati. Tale rischio, una volta stratificato per i valori pressori predialitici, risultava inferiore nei pazienti iperidratati con valori di pressione sistolica tra 130 e 160 mmHg e maggiore per valori <130 o >160 mmHg. Gli autori hanno poi valutato, restringendo l’analisi ai pazienti sopravvissuti dopo il primo anno di dialisi (n=22.845), gli effetti in termini di mortalità di una esposizione cronica all’ipervolemia, calcolata come area sotto la curva di tutte le misurazioni bioimpedenziometriche ottenute nei pazienti iperidratati nel primo anno di trattamento. È risultato che la presenza di fluid overload cumulativo era correlata ad un più elevato rischio di mortalità e che tale rischio era maggiore in pazienti con valori di pressione arteriosa pre-dialitica <130 mmHg o >160 mmHg. Inoltre è emerso che i pazienti esposti ad una condizione di ipervolemia cumulativa avevano un rischio di mortalità più elevato rispetto ai pazienti iperidratati al baseline, suggerendo che l’esposizione cronica all’ipervolemia, più che quella episodica, ha un maggior potere predittivo negativo sulla sopravvivenza [16]. 

 

La determinazione del peso secco in emodialisi 

Il giusto peso di fine dialisi è un obiettivo importante da individuare, raggiungere e mantenere. Esso dovrebbe rappresentare il peso “secco”. Nonostante il metodo con cui stimarlo sia ancora fonte di dibattito, il concetto di peso secco risale all’origine della dialisi e la sua definizione si è evoluta nel tempo [17]

Il termine peso secco venne introdotto per la prima volta da Thomson nel 1967 e definito come il peso al quale si assisteva ad una riduzione della pressione arteriosa fino all’ipotensione, non associata ad altre cause evidenti, durante l’ultrafiltrazione nel corso della seduta dialitica. Successivamente, negli anni ’80, è stato definito da Henderson come il peso raggiunto al termine del trattamento di dialisi, al di sotto del quale il paziente diventa sintomatico. Con una definizione ancora più stringente Charra et al., nel 1996, hanno definito il peso secco come quello al quale il paziente è, e rimane, normoteso fino alla dialisi successiva, nonostante l’incremento ponderale interdialitico e in assenza di terapia antiipertensiva [18]. Nel 2009, Sinha e Agarwal proposero una definizione, ancora oggi valida, in cui il peso secco era inteso come il minor peso post-dialisi tollerato, raggiunto gradualmente, con minimi segni o sintomi di ipovolemia [19]. 

Nella pratica clinica, per peso secco si intende il peso di fine dialisi più basso che un paziente può tollerare senza sintomi intradialitici ed ipotensione; i sintomi intradialitici sono tuttavia influenzati anche dalla distribuzione dell’acqua corporea, dall’equilibrio tra ultrafiltrazione e refilling plasmatico dall’interstizio, dalla massa magra, dallo stato nutrizionale e dal grado di disfunzione cardiaca. Il peso secco viene definito generalmente attraverso vari tentativi ma la sua determinazione è essenziale per una corretta impostazione del trattamento emodialitico [17].

 

a) Valutazione Clinica

Nella pratica clinica quotidiana il peso secco di un paziente in dialisi è stimato sulla base della comparsa o meno di crampi muscolari o di segni periferici di disidratazione, della misurazione della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, e sul riscontro di edemi, di rumori umidi all’auscultazione del torace, di turgore giugulare o sulla comparsa di ortopnea o dispnea da sforzo.

Tenendo conto esclusivamente di questi segni e sintomi, il rischio di non definire correttamente il peso secco risulta elevato, dal momento che esistono numerosi fattori confondenti che rendono poco sensibile una valutazione di questo tipo. Ad esempio, una condizione di iperidratazione non necessariamente produce segni o sintomi [20]. La presenza di elevati valori di pressione arteriosa non riflette necessariamente una condizione di ipervolemia nei pazienti in trattamento emodialitico, ed una grande percentuale di pazienti iperidratati risulta normotesa o ipotesa [21]; allo stesso modo, un’ipotensione in dialisi non significa necessariamente che sia stato raggiunto il peso secco. Inoltre, la normalizzazione dei valori pressori può seguire di settimane o mesi il raggiungimento della normo-volemia. Questo fenomeno noto come “lag-time”, complica ulteriormente il rapporto tra volemia e pressione arteriosa, suggerendo come la valutazione della sola pressione arteriosa sia un surrogato poco affidabile dello stato di idratazione [22].

Analogamente, la presenza di edema periferico non costituisce un segno esclusivo, specifico, di iperidratazione; essa può dipendere da altre cause, come un’aumentata permeabilità vascolare, una stasi venosa e l’uso di farmaci ad azione vasodilatatoria. Allo stesso modo, l’assenza di edema periferico non necessariamente sottende una condizione di euvolemia e una elevata percentuale di pazienti iperidratati non presenta edema periferico [23,24]. 

Anche le variazioni del peso corporeo, almeno nel lungo periodo, non riflettono sempre una variazione del volume extracellulare ma possono essere dovute anche a modifiche della composizione corporea in termini di massa grassa o massa magra [23].

 

b) I peptidi natriuretici

Il Brain Natriuretic Peptide (BNP) è un neuro-ormone secreto in modo predominante nel ventricolo sinistro in risposta ad un sovraccarico di volume e/o pressorio [25]. Ha funzione di ormone contro regolatore rispetto all’angiotensina II, norepinefrina ed endotelina e ha effetti diuretici, natriuretici e vasodilatatori [26]. Il precursore del BNP è il ProBNP che è scisso da una proteasi in BNP e N-Terminal-proBNP (NT-proBNP). Quest’ultimo ha una sequenza peptidica più lunga rispetto al BNP.

Le concentrazioni plasmatiche di BNP e NT-proBNP hanno un ruolo diagnostico nel paziente con scompenso cardiaco acuto e prognostico nel paziente con scompenso cardiaco cronico, essendo predittori indipendenti di eventi cardiovascolari e di mortalità. Quindi, il dosaggio degli ormoni natriuretici ha assunto un ruolo sempre più importante nella comune pratica clinica come strumento per guidare la diagnosi e la terapia nei pazienti con scompenso cardiaco, sia nella sua fase acuta, sia nella fase cronica [27,28]. In accordo con queste evidenze, tutte le linee guida, sia nazionali [29] che internazionali [30,31], raccomandano con il maggior grado di evidenza l’utilizzo del dosaggio di BNP e NT-proBNP per la diagnosi e la stratificazione del rischio dei pazienti con scompenso cardiaco acuto o cronico.

Purtroppo nei pazienti con insufficienza renale l’interpretazione dei livelli plasmatici di BNP e NT-proBNP risulta più difficile: la compromissione della funzione renale causa un incremento della concentrazione dei peptidi natriuretici (in particolare del NT-proBNP) a parità di età e genere, senza che necessariamente ciò sia espressione di una miocardiopatia sottostante.

Negli ultimi anni, una crescente attenzione è stata posta sul ruolo di queste molecole come potenziali indicatori di fluid overload nei pazienti in trattamento emodialitico. Tuttavia, il loro dosaggio può riflettere anche una compromissione della funzione cardiaca, spesso presente nei pazienti con malattia renale terminale. Si stima, infatti, che il 75% dei pazienti che iniziano il trattamento emodialitico presentino una ipertrofia ventricolare sinistra, con una compromissione della funzione ventricolare che compare nel 16% dei casi [32].

Numerosi studi hanno messo a confronto i peptidi natriuretici con altre metodiche strumentali usate per stimare lo stato volemico dei pazienti in emodialisi, come la BIA, giungendo a conclusioni differenti. Jacobs et al. in uno studio condotto su 44 pazienti in emodialisi seguiti per 6 mesi, hanno dimostrato l’esistenza di una stretta correlazione tra i parametri bioimpedenziometrici e i livelli di BNP e NT-proBNP misurati, indipendentemente dalla storia cardiologica dei pazienti [33]. Analogamente, Antalanger et al. in uno studio comprendente 212 pazienti in emodialisi, hanno riportato una corrispondenza tra i livelli plasmatici di NT-proBNP e lo stato volemico valutato attraverso la BIA, indipendentemente dallo stato infiammatorio, dai valori di pressione arteriosa e dall’incremento ponderale interdialitico [34]. Una ulteriore conferma della corrispondenza tra livelli plasmatici di BNP e la presenza di fluid overload valutato alla BIA, proviene da uno studio osservazionale condotto su 41 pazienti in dialisi extracorporea. Gli autori hanno dimostrato una relazione di tipo esponenziale tra iperidratazione e BNP, identificando un cut-off di 500 pg/ml di BNP per discriminare la presenza di fluid overload da una condizione di euvolemia [35].

A differenti risultati sono giunti invece Paniagua et al. che, in uno studio su una popolazione più ampia di 753 pazienti sia in emodialisi che in dialisi peritoneale, non hanno trovato alcuna correlazione tra i livelli di NT-proBNP, BNP e i parametri bioimpedenziometrici indicativi dello stato di volume [36]. Altri autori, invece, hanno descritto una relazione statisticamente significativa tra il sovraccarico di volume valutato sia clinicamente (presenza di edemi) che con la BIA e i livelli plasmatici di  NT-proBNP solo in pazienti con disfunzione diastolica del ventricolo sinistro valutata mediante ecocardiogramma [37].

Il significato prognostico del BNP ed il suo ruolo come strumento predittivo di eventi cardiovascolari è stato valutato su una popolazione di 217 pazienti in emodialisi seguiti per 2 anni [38]: aumentati livelli plasmatici di BNP e  NT-proBNP erano associati ad una aumentata mortalità cardiaca e ad una elevata insorgenza di eventi cardiovascolari. Sebbene il NT-proBNP si fosse dimostrato più accurato nel predire episodi di infarto miocardico e scompenso cardiaco, non è risultata alcuna superiorità predittiva in termini mortalità tra i due peptidi [38]. 

A conferma di questo è giunto poi uno studio che, confrontando il valore del BNP e del peptide natriuretico atriale (ANP) come indicatori dello stato volemico dei pazienti in emodialisi, ha osservato una diretta associazione tra i livelli plasmatici di BNP e il rischio di eventi cardiovascolari; solo le elevate concentrazioni di BNP erano un fattore di rischio indipendente di mortalità cardiaca a 5 anni. Questo suggerisce la superiorità predittiva del BNP rispetto all’ANP, per il quale non è stata evidenziata alcuna relazione con la sopravvivenza [39].

Infine, un ulteriore aspetto da considerare per interpretare correttamente il dato relativo alla concentrazione plasmatica dei peptidi natriuretici nei pazienti in trattamento emodialitico è la loro clearance dialitica. Uno studio del 2004 ha dimostrato, misurando i livelli plasmatici prima e dopo la dialisi di BNP e di  NT-proBNP e la loro concentrazione nel dialisato, che entrambi questi peptidi vengono eliminati durante il trattamento, ma con alcune differenze in base al tipo di membrana. Mentre il BNP viene eliminato sia in corso di trattamenti effettuati con membrane ad alta che a bassa permeabilità, il NT-proBNP viene significativamente rimosso solo con membrane high flux, per il suo maggior peso molecolare [39].

Nonostante l’apparente buona relazione tra i livelli plasmatici dei peptidi natriuretici, lo stato volemico e la sopravvivenza dei pazienti in trattamento emodialitico, il BNP e  NT-proBNP non sembrano essere, ad oggi, indicatori specifici di iperidratazione. Infatti i livelli plasmatici di BNP possono aumentare anche in corso di patologia cardiaca ed extracardiaca, come lo stroke emorragico ed ischemico [40], la sepsi [41] in presenza di ipertensione polmonare [42] e di altre patologie come anemia [43], cirrosi epatica [44] ed ipertensione arteriosa [45].

 

c) La bioimpendenziometria 

L’utilizzo della bioimpedenziometria in dialisi nasce dalla necessità di poter disporre di una metodica non invasiva, rapida, poco costosa e facilmente ripetibile per la stima della composizione corporea. Lo BIA permette di stimare l’acqua totale corporea (Total Body Water, TBW), l’acqua intracellulare (Intra Cellular Water, ICW), l’acqua extracellulare (Extra Cellular Water, ECW). Dall’acqua totale corporea è possibile inoltre stimare, tramite opportune equazioni, la massa corporea magra e, per differenza con il peso, la massa grassa. La bioimpedenziometria consiste nel passaggio di corrente alternata per via transcutanea attraverso elettrodi di superficie. L’impedenza bioelettrica dei tessuti è la forza che interferisce con il flusso di corrente elettrica nei tessuti ed è data dalla somma vettoriale di due componenti, la resistenza (Rz) e la reattanza (Xc). La resistenza è la componente dell’impedenza corrispondente al flusso di corrente attraverso i fluidi corporei mentre la reattanza è la componente dell’impedenza corrispondente al flusso della corrente attraverso le membrane cellulari che, per la loro struttura, si comportano come condensatori [46]. Sono attualmente disponibili due diverse metodiche bioimpedenziometriche: BIA monofrequenza (Single-Frequency Bioimpedance, SF-BIA) e BIA multifrequenza (Multi-Frequency Bioimpedance, MF-BIA) [47]. Queste modalità possono essere utilizzate per un’analisi dell’intera superficie corporea (Whole-Body) o di distretti (segmenti) selezionati (Segmental-BIA, SG-BIA).

Tra tutte le metodiche a disposizione, quella che viene applicata maggiormente per ottenere una stima dello stato volemico dei pazienti in emodialisi è la bioimpedenza multifrequenza, che, analizzando i tessuti ad un intervallo variabile di frequenza (fino a 50 diverse frequenze che variano da un minimo di 5 fino a 1000 kHz), è in grado di stimare la distribuzione dei fluidi intra ed extracellulari del soggetto studiato. Tale metodica ed i parametri da questa derivati sono stati validati comparandoli con le metodiche gold standard per la misurazione della acqua corporea totale (TBW) cioè il dueterio, e per la misurazione del volume intracellulare (ICV) cioè il potassio marcato [48].

La metodica bioimpedenziometrica in multifrequenza è in grado di determinare la resistenza elettrica dell’acqua extracellulare e corporea totale al passaggio di corrente alternata in pacchetti di diverse frequenze. Mentre correnti alternate a bassa frequenza (<5 Khz) hanno una distribuzione prevalentemente extra-cellulare, quelle ad alta frequenza, superiori a 50 Khz, attraversano sia il compartimento extracellulare che quello intracellulare. La resistenza R viene, pertanto, interpretata come R extracellulare dopo iniezione di impulsi di corrente alternata a bassa frequenza (Ro, 1-5 kHz), e come R totale (intra ed extracellulare) dopo iniezione di corrente ad alta frequenza (Ro, 100-1000 kHz). Il volume elettrico intracellulare (R intracellulare) viene quindi ottenuto dalla differenza dei due volumi elettrici totale ed extracellulare. Dalla misura della resistenza, attraverso formule di regressione, applicando il modello di Cole-Cole, è poi possibile ottenere una stima in litri del volume di acqua extra-cellulare, intracellulare e corporea totale del soggetto esaminato.

Una volta ottenuti questi parametri (TBW, ICW, ECW) e conoscendo l’altezza ed il peso corporeo del soggetto, sfruttando un modello tissutale tri-compartimentale basato su costanti fisiologiche di idratazione tissutale (modello di Chamney), il Body Composition Monitor (BCM) permette di ricavare [49]: (i) il tessuto magro normo idratato (Lean Tissue Mass, LTM) e (ii) il tessuto grasso normo idratato (Fat Tissue Mass, FTM), da cui deriviamo il Lean Tissue Index (LTI) ed il Fat Mass Index (FMI) per normalizzazione con il quadrato dell’altezza e l’eccesso di fluidi od over-hydration (OH). I soggetti sani normoidratati, non presentando un eccesso di fluidi, possono essere valutati con la bioimpendenza in termini di massa magra e grassa, la cui somma definisce il peso corporeo dell’individuo. 

In condizioni patologiche, invece, l’eccesso di fluidi corrisponde solitamente ad un aumento della sola quota di acqua extracellulare senza che vi siano variazioni a carico del volume intracellulare. L’eccesso di fluidi può presentarsi isolato oppure contestualmente ad un aumento dell’idratazione extracellulare dei tessuti magro e grasso al di sopra dei normali valori di riferimento. Dal momento che la quota di ECW nei rispettivi tessuti è nota, è possibile calcolare il normale valore atteso di ECW di questi tessuti. La differenza tra ECW atteso in condizioni fisiologiche e quello misurato definisce l’eccesso di fluidi (OH).

I valori di riferimento sono disponibili per i seguenti parametri: OH, LTI, FTI e ECW/ICW. Tali valori sono stati ottenuti considerando una popolazione di 2071 soggetti sani di età compresa tra 2 e 95 anni con un Body Mass Index variabile tra 18 e 35 Kg/m2. I valori considerati normali corrispondono all’intervallo tra il decimo e il novantesimo percentile della popolazione sana di riferimento dello stesso sesso ed età [21]. Dalla comparazione tra i valori dei parametri misurati con quelli di riferimento è quindi possibile identificare eventuali alterazioni della composizione corporea e dello stato di idratazione del soggetto in esame. Relativamente allo stato volemico, è possibile distinguere tra:

  • Absolute fluid overload (AFO) che esprime l’eccesso di fluidi in litri;
  • Relative fluid overload (ROH) che esprime l’eccesso di fluidi in percentuale rispetto al ECW del paziente.

Considerando separatamente questi due parametri è possibile definire come: 

  • normoidratato il paziente con AFO misurato prima dell’inizio della dialisi compreso tra -1,1 e +1,1 litri, 
  • moderatamente iperidratato il paziente con AFO compreso tra 1,1 e 2,5 litri,
  • severamente iperidratato il paziente con AFO >2,5 litri. 

Tenendo conto del ROH, misurato prima dell’inizio della dialisi, si considera:

  • normoidratato il paziente con ROH compreso tra -7 e +7%, 
  • moderatamente iperidratato quando ROH è compreso tra +7 e +15%,
  • severamente iperidratato quando ROH >15% [47]. 

Nei soggetti in trattamento dialitico, l’obiettivo è quello mantenere un eccesso di fluidi in termini di ROH al di sotto del 15% prima dell’inizio della dialisi, raggiungendo quando è possibile una idratazione compresa tra -7 e +7% alla fine della seduta dialitica [50].

L’utilità della bioimpedenza non si esaurisce solo nella stima dello stato volemico del paziente ma, fornendo informazioni sulla sua composizione corporea in termini di massa magra e grassa, è di fondamentale importanza per identificare variazioni della composizione corporea nel breve e lungo periodo, che a sua volta richiedono una modulazione del peso secco [49]. Da questo punto di vista la bio-impedenziometria monofrequenza sembra essere la più affidabile.

Raggiungere uno stato di normo-idratazione resta un obiettivo primario della dialisi, dal momento che il sovraccarico di volume costituisce la causa principale di ipertensione arteriosa, che a sua volta rappresenta il più importante fattore di rischio di eventi cardiovascolari e mortalità nei pazienti in emodialisi [20]. La presenza di una condizione di iperidratazione all’esame bioimpedenziometrico è predittiva di una aumentata mortalità, di eventi cardiovascolari e di una maggiore ospedalizzazione in numerosi studi osservazionali [2,15,51,52].

Wizemann et al. hanno osservato come, su una popolazione di 269 pazienti in emodialisi cronica, la presenza di uno stato di iperidratazione alla BIA effettuata prima dell’inizio della seduta dialitica, e definito come un eccesso di 2,5 litri di acqua extracellulare rispetto ad una condizione ideale di normovolemia (corrispondente ad un ROH >15%), costituisca un importante fattore di rischio indipendente di mortalità per tutte le cause, secondario solo alla presenza di diabete [2].

L’associazione tra iperidratazione e aumentato rischio di mortalità nei pazienti in emodialisi è stata confermata da Onofriescu et al. che hanno osservato come tale relazione era mantenuta indipendentemente dalla funzione cardiaca all’ecocardiogramma [51]. Il valore prognostico dell’iperidratazione è stato valutato anche da Chazot et al. che, nel corso di uno studio osservazionale, hanno confrontato 50 pazienti normoidratati alla BIA, selezionati dal centro dialisi francese di Tassin, con 158 pazienti selezionati dal centro tedesco di Giessen. I secondi sono stati poi divisi in normoidratati o in iperidratati in base alla BIA. Dopo un follow-up di 6.5 anni è risultato che la mortalità per tutte le cause fosse significativamente più elevata nei pazienti iperidratati (HR 3.4) rispetto a quelli normoidratati, suggerendo come la presenza di iperidratazione costituisce un importante predittore di mortalità nei pazienti in dialisi [15].

L’utilità della bioimpedenziometria come strumento per guidare la gestione del peso è riportata anche da Macheck et al. che hanno utilizzato misurazioni bioimpedenziometriche mensili. I pazienti sono stati sottoposti a differenti protocolli di variazione del peso secco con l’obiettivo di raggiungere uno stato di normoidratazione. In particolare, per i pazienti iperidratati è stato scelto come target di euvolemia il raggiungimento di un ROH pre-dialitico inferiore a 15% e, quando possibile, un ROH compreso tra -7 e +7% al termine della seduta dialitica.Ne è risultato un miglior controllo dei valori di pressione arteriosa nel corso del tempo, con una riduzione media di 25 mmHg dei valori di pressione sistolica, e ad una riduzione del 35% nell’uso di farmaci antiipertensivi.

Analogamente, nei pazienti inizialmente disidratati è stato osservato contestualmente ad un incremento del peso secco, una riduzione degli eventi avversi intradialitici (fino al 73%) senza un significativo incremento dei valori di pressione arteriosa [53]. 

In linea con questo approccio, Moissl et al. per primi hanno condotto un trial che ha utilizzato la BIA multifrequenza per guidare la prescrizione dell’ultrafiltrazione. Il parametro utilizzato per stabilire lo stato di idratazione e per modulare il peso secco dei pazienti è stato la Time Average Fluid Overload (TAFO), definita come la media settimanale dell’eccesso di ECW (AFO) calcolato prima e dopo la dialisi, assumendo un accumulo lineare di fluidi durante il periodo interdialitico. Al termine del follow-up, si è osservata una significativa riduzione della volemia e un progressivo miglioramento dei valori di pressione arteriosa, senza evidenziare contestualmente un aumento dell’incidenza di eventi avversi intra ed inter dialitici [54]. 

Nonostante una sempre più crescente attenzione sia stata riservata negli ultimi anni all’impiego della BIA come metodica per stimare lo stato volemico dei pazienti in dialisi, ad oggi solo pochi trials randomizzati controllati sono stati effettuati per valutare la reale utilità della BIA nella gestione clinica di questi pazienti.

Il primo trial pubblicato da Hur et al. ha suddiviso 156 pazienti in trattamento emodialitico in due gruppi: un gruppo di intervento, in cui il peso secco veniva modulato in accordo con i risultati della BIA, e uno di controllo, in cui il peso secco veniva invece modificato sulla base della sola valutazione clinica. Nei pazienti nei quali è stata usata la BIA è stato osservato un significativo miglioramento dei valori pressori ad un anno, con una riduzione della stiffness arteriosa e una riduzione dell’indice di massa ventricolare sinistra [55].

A risultati ancora più importanti è giunto un altro trial che, al termine di un periodo di osservazione di 2.5 anni, ha evidenziato una differenza significativa non solo in termini di valori di pressione arteriosa, rigidità vascolare, terapia antiipertensiva e stato di idratazione, ma anche di sopravvivenza tra i pazienti sottoposti al monitoraggio e alla modulazione strumentale del peso secco mediante BIA in confronto a pazienti il cui stato volemico veniva giudicato esclusivamente da un punto di vista clinico [56]. Un altro trial randomizzato controllato multicentrico condotto su 189 pazienti in emodialisi ha dimostrato un miglior controllo dello stato volemico dei pazienti sottoposti a valutazione bioimpedenziometrica rispetto a coloro che venivano valutati solo clinicamente, senza però osservare nessuna differenza significativa in termini di sopravvivenza tra questi due gruppi.

Nonostante i segnali incoraggianti, una recente meta-analisi di trial randomizzati e controllati conclude che l’uso della BIA nella pratica clinica non risulta associata ad un significativo miglioramento della sopravvivenza. Rimane comunque uno strumento utile, in particolare se impiegato nel monitoraggio del paziente nel tempo, a guidare  verso una ottimizzazione della stato volemico [57]. 

Abbas et al. hanno utilizzato la bioimpedenziometria multifrequenza spettroscopica segmentale misurata al livello del polpaccio (calf-BIA) come metodica per definire il peso secco. Tale indagine viene effettuata apponendo 4 elettrodi sulla regione del muscolo tricipite surale durante il trattamento emodialitico [58, 59].

La scelta della sede della misurazione è basata sull’ipotesi che per effetto della gravità sia molto più probabile riscontrare un eccesso di acqua extracellulare a livello degli arti inferiori rispetto al tronco e agli arti superiori. Durante l’ultrafiltrazione si assiste ad un incremento della resistenza contestuale alla rimozione di fluidi che tende ad aumentare fino a quando tutto il liquido extracellulare in eccesso non sia stato rimosso. La stabilizzazione della curva R0/Rt (in cui R0 è R al tempo zero e Rt è R ad un dato tempo t durante la seduta dialitica) per un periodo di almeno 20 minuti, nonostante l’ultrafiltrazione in corso, costituisce il parametro di riferimento per stabilire il raggiungimento del peso secco [60]. 

Sebbene ancora pochi, gli studi presenti in letteratura suggeriscono che l’uso della Calf-BIA come guida nel determinare il peso secco dei pazienti in trattamento emodialitico cronico consenta di ridurre l’incidenza di ipertrofia ventricolare sinistra, di migliorare il profilo pressorio e di conseguenza ridurre il rischio di eventi cardiovascolari in pazienti in dialisi [61,62]. 

 

d) L’ecografia polmonare

L’ecografia del polmone si è sviluppata solo negli ultimi anni, ed è basata sul cosiddetto “paradosso del polmone”, cioè il fenomeno per cui questo organo, poco esplorabile con gli ultrasuoni in condizioni normali, mostra significativi segnali in caso di specifiche patologie. La semeiotica ecografica del polmone è basata sui movimenti pleurici e sugli artefatti generati dal parenchima polmonare durante il passaggio degli ultrasuoni. Si riconoscono due tipi di artefatti:

  • linee A: artefatti orizzontali che si generano al di sotto della linea pleurica nel polmone normalmente aerato o iper-aerato e sono dovuti alla riflessione quasi totale dell’onda incidente sul piano impedente della pleura viscerale e ai multipli rimbalzi dell’onda acustica tra la linea pleurica e il trasduttore;
  • linee B: le cosiddette “comete” polmonari che appaiono come riverberi iperecogeni verticali che originano dalla linea pleurica, si muovono in sincronia con gli atti respiratori e si estendono in profondità a tutto schermo. Sono verosimilmente generate dalla differenza di impedenza acustica che si viene a creare tra aria alveolare e setti inter-lobulari subpleurici polmonari ispessiti, in condizioni di edema interstiziale polmonare.

Quindi l’aumento del volume extravascolare polmonare determina un’interfaccia aria-acqua tale da favorire la formazione di linee B multiple e bilaterali [63]. Questi reperti ecografici hanno una elevata sensibilità per la diagnosi di edema polmonare e la loro assenza esclude la diagnosi di edema polmonare fin dalla sua fase interstiziale [64]. Una recente meta-analisi suggerisce che la presenza di 3 o più linee B in 2 o più scansioni polmonari in entrambi i polmoni è diagnostica di un quadro di edema polmonare con una sensibilità del 94% e una specificità del 92% [65].

Le linee B aumentano di numero con l’aumentare dei segni di congestione polmonare alla radiografia del torace e sono l’equivalente ecografico delle strie tipo B di Kerley [66]. Il loro numero è inoltre correlato ai valori di acqua polmonare misurati con la pressione di incuneamento dei capillari polmonari mediante cateterismo [67] e con i livelli circolanti dei peptidi natriuretici [68].

La specificità delle linee B non è comunque assoluta, dal momento che si generano in tutte quelle condizioni caratterizzate da un incremento di spessore dell’interstizio polmonare. Per ottenere una corretta interpretazione del riscontro ecografico è necessario integrarlo con la storia clinica del paziente [69]. Lichtenstein et al. hanno osservato che le comete sono assenti nel 92% dei soggetti con dispnea da BPCO, mentre compaiono nel 100% dei soggetti con edema polmonare [64]. Le linee B cardiogene tendono ad essere bilaterali ma più numerose a livello del polmone destro, con una zona di maggior densità a livello del terzo e quarto spazio intercostale 3-4. Inoltre, in caso di edema polmonare, esse si riducono significativamente nell’arco di alcune ore dopo la somministrazione di diuretici o dopo ultrafiltrazione. Nei casi di fibrosi polmonare, invece, le linee B sono prevalenti a livello dei lobi inferiori, e la linea pleurica, da dove esse originano, appare ispessita, irregolare e frammentata [70].

L’ecografia toracica può essere effettuata utilizzando diverse tipologie di sonda che vanno da quella cardiologica a quella convex e lineare con un range di frequenze compreso tra 2,5 fino a 7,5 mHz [71]. La ricerca delle B-lines richiede l’esplorazione di varie regioni del torace, idealmente 4 per emi-torace per un totale di 28 scansioni a livello degli spazi intercostali lungo la linee parasternali, ascellare anteriore, medio ascellare e ascellare posteriore bilateralmente [72].

Attraverso questa metodica è possibile ottenere una valutazione semi-quantitativa dell’acqua interstiziale polmonare attraverso la conta delle B-lines: in ciascun spazio interstiziale viene contato il numero di linee B da 0 (completa assenza di linee B nella regione di interesse), a 10 (presenza di una area dello schermo completamente iperecogena o “white lung”), definite come linee iperecogene che si estendono dalla linea pleurica fino al margine inferiore dello schermo e che si muovono in modo sincrono con lo sliding pleurico. La somma delle linee B permette di definire il B-lines score (BLS) che è un indice del grado di congestione dell’interstizio polmonare:

  • numero di Linee B < 5: assenza di congestione polmonare,
  • numero di Linee B 5 – 14: congestione polmonare lieve,
  • numero di Linee B 15 – 29: congestione polmonare moderata,
  • numero di Linee B > 30: congestione polmonare severa [64,69].

Grazie alla sua non invasività, al facile utilizzo e alla possibilità di essere effettuata bed-side, l’ecografia polmonare rappresenta per il nefrologo una delle metodiche più interessanti per stimare lo stato volemico dei pazienti in trattamento emodialitico, dal momento che la quantificazione delle linee B è strettamente correlata all’entità del volume interstiziale polmonare [73]. Questo, seppure costituisca solo una piccola parte del volume idrico totale, ne rappresenta una componente fondamentale e ha un forte impatto in termini di rischio cardiovascolare e mortalità dal momento che è strettamente correlata alla pressione di riempimento ventricolare sinistra [74].

La riduzione delle linee B al termine della seduta dialitica correla con il volume ultrafiltrato e con la riduzione di peso. Questa osservazione è stata fatta quantificando le B-lines in tre momenti differenti, rispettivamente prima, durante e al termine della seduta di emodialisi. È stata stimata una riduzione di 2.7 Linee B per 500 ml di volume ultrafiltrato. La riduzione delle B-lines osservata in real-time, contestualmente alla rimozione dei fluidi, sembra confermare la relazione tra la ritenzione idrosalina sistemica e polmonare, di cui le linee B sono il corrispettivo [75]. 

Analoghi risultati sono stati descritti in una popolazione di 40 pazienti in emodialisi dove l’eccesso di peso pre-dialitico, così come il peso residuo alla fine della seduta dialitica, correlavano con il numero di linee B prima e dopo la dialisi, rispettivamente. Inoltre, era presente una significativa riduzione del numero delle linee B al termine dell’ultrafiltrazione, suggerendo una stretta relazione tra congestione polmonare e stato volemico del paziente in dialisi [76].

Basso et al. hanno riportato una stretta correlazione tra il numero di Linee B misurate mediante ecografia polmonare e lo stato volemico stimato alla BIA, maggiormente significativa ad inizio dialisi [77]. Ad una simile conclusione sono giunti anche Siripol et al. che hanno messo in evidenza l’esistenza di una significativa relazione tra il B-lines Score e i parametri derivati dall’analisi bioimpedenziometrica (ROH, TBW, ECW, ICW) sia in pre- che in post-dialisi (ROH, TBW, ECW) indipendentemente dalla funzione cardiaca valutata mediante ecocardiogramma [78]. 

Infine, Vitturi et al. hanno dimostrato una associazione tra B-lines Score misurato a fine dialisi e il peso residuo valutato con la BIA, osservando un numero di linee B significativamente maggiore nei pazienti con peso superiore a quello stimato come “secco” [79]. 

Alla stessa conclusione sono arrivati anche Donadio et al. che hanno dimostrato una correlazione tra ECW e TBW misurati con la bioimpedenziometria toracica prima e dopo la dialisi, e il numero delle B-lines misurate con l’ecografia polmonare [80].

Le osservazioni che mettono in diretta relazione l’iperidratazione sistemica rilevata con la BIA e le linee B rilevate all’ecografia polmonare, non sembrano tuttavia confermate dai dati di Mallamaci et al. [81] in una coorte di 75 pazienti dializzati. Sebbene il numero delle B-lines fosse minore al termine della dialisi, l’entità della riduzione non correlava con lo stato di idratazione stimato alla BIA, ma piuttosto con i parametri di performance cardiaca (frazione di eiezione del ventricolo sinistro, volume atriale sinistro, pressione polmonare). La mancanza di associazione tra il livello di congestione polmonare e l’iperidratazione sistemica suggerisce che la performance cardiaca, più che lo stato volemico, rappresenta il principale determinante della congestione polmonare e della comparsa delle B-lines nei pazienti affetti da insufficienza renale cronica terminale [81]. Un altro dato importante che emerge dallo studio di Mallamaci è quello relativo alla scarsa associazione esistente tra il numero delle B-lines e la presenza di un quadro clinico di congestione polmonare. Infatti, più del 57% dei pazienti con congestione polmonare da moderata a severa (BLS >15), era completamente asintomatico. Questo risultato è in linea con quelli emersi in altri lavori eseguiti sia su pazienti in emodialisi che in dialisi peritoneale [82, 83] e rafforza ulteriormente il ruolo e l’utilità dell’ecografia polmonare nella diagnosi di congestione polmonare in uno stadio pre-clinico. È presumibile che la comparsa delle linee B sia un evento molto precoce, in grado di rendersi evidente prima ancora dell’insorgenza di un quadro sintomatico di edema polmonare, dei reperti radiografici alla Rx del torace, e della riduzione della PO2 all’emogasanalisi [84].

In realtà l’origine delle linee B sembra riflettere una genesi multifattoriale. Sebbene i principali determinanti della formazione delle linee B siano l’iperidratazione sistemica da una parte e la disfunzione cardiaca dall’altra, un contributo aggiuntivo sembra essere fornito da un aumento della permeabilità capillare polmonare, che si osserva tipicamente nel paziente in dialisi. In questi soggetti la maggiore produzione di citochine pro-infiammatorie, come l’interleuchina IL-6 innescata dalle membrane dialitiche e dalle tossine uremiche, è tale da incrementare la permeabilità capillare polmonare e favorire così l’accumulo di fluido nell’interstizio polmonare [85]. 

L’importanza della LUS come strumento prognostico in grado di predire la mortalità nei pazienti in dialisi è stata sottolineata in un lavoro multicentrico italiano condotto su 392 pazienti seguiti per un periodo di 2 anni. Dallo studio è emerso che i pazienti con congestione polmonare severa (B-lines score pre-dialisi >60) erano esposti ad un maggior rischio di morte e di eventi cardiovascolari (cardiopatia ischemica, aritmie, scompenso cardiaco, embolia polmonare) rispetto a quelli con moderata (B-Lines score tra 15 e 60) o nessuna congestione (B-lines score <15) anche dopo aggiustamenti per classe NYHA e altri fattori confondenti quali ipoalbuminemia, iperfosfatemia, stato infiammatorio (Hazard Ratio 3,04 95% intervalli di confidenza 1,73-5,35) [86].

In accordo con questa conclusione sono i dati di uno studio monocentrico osservazionale prospettico che ha confrontato tre diverse strategie (ecografia polmonare, bioimpedenziometria multi-frequenza e ecocardiogramma) nel predire la mortalità nei pazienti in emodialisi. Dallo studio emerge come il B-Lines Score calcolato prima della dialisi, ed in particolare la presenza un numero di Linee B >30, sia il miglior predittore di mortalità, sopravanzando lo stato di idratazione corporea misurato con la bioimpedenziometria spettroscopica, ed i parametri ecocardiografici [78].

Il LUST (Lung Water by Ultrasound Guided Treatment in Hemodialysis Patients) Trial (ClinicalTrials.gov identificativo n.NCT02310061) è uno studio multicentrico, randomizzato e controllato ancora in corso che ha lo scopo di valutare l’utilità dell’ecografia polmonare nella prevenzione di eventi clinici avversi (mortalità, eventi cardiovascolari, ricoveri e progressione di ipertrofia ventricolare sinistra) in pazienti in emodialisi ad elevato rischio cardiovascolare (storia di infarto miocardico con sopra-sottoslivellamento ST, angina stabile e instabile, NYHA III-IV). Nell’ambito del LUST study, sono stati già riportati alcuni dati sulla corrispondenza tra reperti clinici, come crepitii all’ascultazione del torace e edema periferico, e reperti ecografici, linee B, di 79 pazienti. In totale sono state eseguite 1106 ecografie pre- e post-dialisi (in media 14 per paziente) in un periodo di osservazione di 11 mesi. I crepitii polmonari, da soli o combinati con edema periferico, non riflettevano la presenza di edema interstiziale rilevato all’ecografia. Questo risultato rafforza l’ipotesi che la ricerca delle linee B possa permettere interventi più mirati e tempestivi per correggere la congestione polmonare, e con questo prevenire le complicanze cardiovascolari nei pazienti cardiopatici in dialisi [87].

Un solo trial clinico randomizzato (BUST STUDY), ha finora indagato il ruolo della ecografia polmonare come guida per ottimizzare lo stato di idratazione nei pazienti in dialisi. Questo studio, che ha coinvolto 250 pazienti in emodialisi, ha valutato l’utilità di un approccio combinato tra ecografia polmonare e bioimpedenziometria spettroscopica nei confronti della sola valutazione clinica nella gestione del peso. Dall’analisi dei risultati dopo un follow-up di 2,4 anni non è emersa alcuna differenza statisticamente significativa in termini di mortalità e di eventi cardiovascolari tra i due gruppi, ma solo una minor incidenza di episodi di dispnea in fase pre-dialitica nei pazienti appartenenti al gruppo attivo [88] (Tabella 1).

 

Conclusioni

Una precisa ed obiettiva individuazione del peso secco rappresenta una priorità per una ottimale gestione clinica nel paziente in dialisi. I criteri clinici, il dosaggio dei peptidi natriuretici, una più ampia applicazione della bioimpedenziometria e l’introduzione della ecografia polmonare possono tutti contribuire allo scopo (Figura 1, sopra).

La BIA permette una stima della composizione corporea del soggetto, in particolare dello stato di idratazione. La presenza di una condizione di iperidratazione determinata con la BIA è predittiva di una aumentata mortalità in numerosi studi osservazionali.

L’ecografia polmonare è in grado di esaminare lo stato di idratazione del piccolo circolo. La somma delle B-Lines permette di definire il “B-line Score” che è espressione diretta del grado di congestione polmonare. Negli ultimi anni l’ecografia polmonare ha assunto un ruolo sempre più importante non soltanto all’interno delle unità di cardiologia e di terapia intensiva, ma anche in ambito nefrologico e in particolar modo in dialisi: nel paziente stabile le misurazioni ripetute sono utili per gli adattamenti del peso e per la sua corretta gestione nel tempo. 

Anche se al momento non vi è ancora una chiara dimostrazione di efficacia clinica nel migliorare la sopravvivenza, i dati della letteratura indicano che sussistono tutte le premesse per implementare l’uso della ecografia polmonare nei pazienti in dialisi, in particolare se cardiopatici.

 

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