Maggio Giugno 2019 - Articoli originali

Steroid and cyclosporine therapy in idiopathic membranous nephropathy: monocentric experience and literature review

Abstract

Introduction: Immunosuppressive treatment of patients with idiopathic membranous nephropathy (IMN) is debated due to its possible side effects. The 2012 KDIGO guidelines suggest alkylating agents as first choice therapy. The aim of the study is to retrospectively evaluate the induction and maintenance of clinical remission in patients with histological diagnosis of IMN undergoing steroid and/or cyclosporine therapy at the Nephrology Unit of the Sant’Andrea Hospital in Rome.

Materials and methods: Therapy A (conservative) was reserved to low-risk patients. 8 medium and high risk patients were induced by Therapy B (Prednisone 1 mg / kg ≤12-16 weeks plus 8 weeks withdrawal); 6 patients by Therapy C (Prednisone 1 mg /kg ≥20-24 weeks plus 8 week withdrawal) and, finally, 6 steroid-resistent patients by Therapy D (steroid withdrawal + cyclosporine 3-5 mg / kg for 2 years).

Results: Complete remission was observed in 37.5% of patients in Therapy B, in 83.3% of patients in Therapy C and in 66.6% of patients in Therapy D. Patients in group B relapsed more frequently than patients in the other groups. Side effects were irrelevant.

Conclusions: In view of the potential cytotoxicity of alkylating agents, steroids are a valid alternative in inducing and maintaining clinical remission over time, when administered with a more aggressive induction scheme. In cases of steroid resistance or rapid relapse, cyclosporine is a valid alternative to alkylating agents.

 

Keywords: nephrotic syndrome, steroid therapy, cyclosporine, idiopathic membranous nephropathy

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Introduzione

La nefropatia membranosa idiopatica (IMN) è la causa più comune di sindrome nefrosica nell’adulto e rappresenta circa il 15-36% di tutte le biopsie renali [1]. L’incidenza è maggiore dalla quarta decade di vita in poi, con un picco nella fascia d’età fra i 40 e i 60 anni, e si attesta attorno a 1,2-1,7 casi per 100.000 abitanti, con maggiore prevalenza nel sesso maschile (M:F = 2:1) [2]. Cause secondarie di nefropatia membranosa includono malattie autoimmuni, virus dell’epatite B e C, farmaci e tumori [3].

Sebbene il decorso naturale della IMN sia notevolmente variabile, la proteinuria e la funzione renale sono i due principali fattori predittivi dell’evoluzione della malattia [4, 5].

Circa il 30% dei pazienti con IMN raggiungono spontaneamente una remissione totale o parziale e hanno generalmente una buona prognosi. I restanti 2/3 presentano invece una proteinuria persistentemente elevata (>8 g/die per oltre 6 mesi) con aumentato rischio di sviluppare una malattia renale allo stadio terminale entro 5-15 anni [68].

Una terapia di supporto con inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE inibitori) o bloccanti del recettore dell’angiotensina (ARB), dieta iposodica, diuretici e statine sono indicati in tutti i pazienti per un periodo osservazionale iniziale di almeno 6 mesi [9].

Il trattamento di IMN con agenti immunosoppressori, come steroidi, agenti alchilanti, inibitori della calcineurina o monoclonali anti CD-20 è indicato in pazienti con proteinuria persistente nel range nefrosico e/o riduzione della funzione renale, ed è principalmente basato sull’equilibrio tra i fattori di rischio della malattia, progressione e complicanze. Il loro utilizzo è però ampiamente dibattuto a causa dei numerosi effetti collaterali [10, 11]. Sulla base dei risultati riportati in letteratura i corticosteroidi da soli sembrano essere di minore utilità clinica nel trattamento a lungo termine della IMN, tuttavia l’utilizzo di basse dosi e/o per tempi brevi, potrebbe giustificare le limitazioni di questi agenti [12]. Inoltre, la ciclosporina (CsA) è stata usata negli ultimi anni con maggiore frequenza nella terapia delle glomerulonefriti: i risultati cumulativi di studi non controllati, considerati nell’insieme, mostrano che la ciclosporina in monoterapia o associata a dosi variabili di terapia steroidea è in grado di ridurre la proteinuria, la perdita della funzione renale nel tempo, ed anche il livello degli anticorpi anti-PLA2R [13].

 

Obiettivo

Obiettivo dello studio è stato valutare retrospettivamente l’induzione e il mantenimento della remissione clinica in pazienti con diagnosi istologica di IMN a medio ed alto rischio sottoposti a terapia a base di steroidi e/o CsA presso la UOC di Nefrologia dell’Università “Sapienza/Azienda Ospedaliera-Universitaria Sant’Andrea” di Roma tra il 2003 e il 2017.

 

Materiali e metodi

Pazienti

Sono stati inclusi nello studio tutti i pazienti con diagnosi istologica di nefropatia membranosa idiopatica diagnosticati presso A.O.C. Sant’Andrea tra gennaio 2003 e gennaio 2017 (Figura 1).

La raccolta dei dati è stata effettuata retrospettivamente usufruendo del database digitale Winsap, nel quale sono state registrate tutte le biopsie renali eseguite presso l’ospedale Sant’Andrea nel periodo oggetto di studio. Sono stati invece esclusi: i pazienti con nefropatia membranosa secondaria o concomitante malattia renale; i pazienti con follow- up inferiore ad un anno o con scarsa compliance terapeutica; i pazienti sottoposti a cosiddetto “protocollo Ponticelli” (che prevedeva nei mesi 1, 3, 5 la somministrazione di metilprednisolone 1g ev per 3 giorni, seguiti da 0.5 mg/kg/die per os di prednisone per 27 giorni nei mesi 1, 3, 5 e dalla somministrazione di ciclofosfamide 2 mg/kg/die per os nei mesi 2, 4, 6). Nel periodo considerato, tutte le biopsie renali sono state esaminate dallo stesso anatomopatologo mediante microscopio ottico, immunofluorescenza e microscopio elettronico. La stadiazione della IMN è stata effettuata secondo la classificazione di Ehrenreich e Churg [14]. Uno score semi-quantitativo è stato attribuito sulla base della presenza o meno di lesioni tubulari acute, atrofia tubulare, infiltrati interstiziali e fibrosi interstiziale, in considerazione della percentuale del compartimento tubulo-interstiziale interessato: ‘0’ per 0-25%, ‘1’ per 25-50% e ‘2’ per >50%. L’indice tubulo-interstiziale acuto è stato ottenuto aggiungendo i punteggi delle lesioni tubulari acute e infiltrati interstiziali; l’indice tubulo-interstiziale cronico è stato invece calcolato come la somma di atrofia tubulare e fibrosi interstiziale. Lesioni dell’arteria/arteriole, ovvero la sclerosi intimale delle piccole arterie e la ialinosi arteriolare, sono stati documentati come ‘0’ in caso di assenza e ‘1’ in caso di presenza.

 

Protocolli terapeutici

Nella pratica clinica la scelta terapeutica è stata effettuata sulla base dell’appartenenza alle classi di rischio [15, 16].

La Terapia A (terapia conservativa) è stata riservata per i pazienti a basso rischio, ovvero per i pazienti che presentavano una proteinuria <4 g/d con funzione renale nella norma per un periodo di osservazione di almeno 6 mesi. Essa consisteva in un regime a basso contenuto di sale (Nacl 3 gr/die), restrizione idrica, diuretici, Ace-inibitori (ACE-I) o bloccanti del recettore dell’angiotensina (ARB), antiaggreganti piastrinici e statine. L’aderenza ad un regime dietetico iposodico è stata valutata mediante il controllo della natriuria sulla raccolta delle urine delle 24h.

I pazienti a medio ed alto rischio, ovvero con proteinuria rispettivamente tra 4 g/d e 8 g/d e superiore a 8 g/die con sindrome nefrosica clinicamente evidente, sono stati invece indotti mediante uno dei seguenti regimi immunosoppressivi:

  • Terapia B: prednisone 1 mg/kg per un periodo complessivo ≤12-16 settimane con decalage in 8 settimane;
  • Terapia C: prednisone 1 mg/kg per un periodo complessivo ≥20-24 settimane con decalage in 8 settimane;
  • Terapia D: associazione della CsA al prednisone dopo 6 mesi di steroido-resistenza con decalage successivo dello steroide e mantenimento della CsA per almeno 2 anni.

Le dosi di CsA erano comprese fra i 3 e i 5 mg/kg/die divise in due somministrazioni giornaliere, al fine di mantenere una concentrazione plasmatica del farmaco compresa fra 50 e 150 μg/l al C0 e tra 400-800 μg/l al C2.

La recidiva della sindrome nefrosica è stata trattata mediante la reinduzione con terapia steroidea (1 mg/kg) per almeno 3 mesi in associazione a CsA, con medesima durata e dosaggio sopra esposto.

 

Follow-up

I pazienti sono stati osservati a intervalli periodici, secondo le correnti linee guida, mediante: visita ambulatoriale, esame obiettivo, peso corporeo, pressione arteriosa sistolica (PAS) e diastolica (PAD) e valutazione di esami di funzionalità renale, uricemia, elettroliti, dosaggio della proteinuria delle 24 ore, emocromo, assetto lipidico, elettroforesi delle sieroproteine.

La valutazione della funzionalità renale è stata effettuata mediante il calcolo del filtrato glomerulare (eGFR ml/min/1.73 m2) secondo l’equazione CKD-EPI [17].

La remissione completa è stata definita come dosaggio della proteinuria delle 24 ore <0,5 g/d, albumina sierica >3.5 g/dl ed eGFR >60 ml/min/1.73 m2. La remissione parziale è stata invece definita come una riduzione della proteinuria delle 24h di almeno il 50% dalla basale e con una escrezione delle proteine delle 24 h <3,5 g/d, accompagnata da una normalizzazione o miglioramento dell’albumina sierica e da una stabilità della creatinina sierica [18].

Sono stati invece definiti steroido-resistenti coloro che non appartenevano a nessuna delle due categorie.

 

Analisi statistica

I parametri nominali sono presentati in numero assoluto e percentuali, mentre le variabili continue come media e deviazione standard. Le differenze tra i gruppi sono state analizzate mediante il test di Kruskal-Wallis H per le variabili quantitative non normalmente distribuite, e mediante test Chi quadro per le variabili qualitative dicotomiche o policotomiche.

Il valore di P <0,05 è stato considerato statisticamente significativo.

 

Risultati

I pazienti con diagnosi istologica di IMN, diagnosticati nel periodo considerato, sono stati in tutto 56. Di questi, con riferimento ai criteri d’inclusione e di esclusione sovraesposti, 27 pazienti sono stati inclusi nello studio e allocati nei gruppi a basso (N=7) e medio-alto rischio (N=20) sulla base della probabilità di sviluppare o meno un deterioramento della funzione renale (Figura 1). Il follow-up mediano è stato di 296 settimane. Le caratteristiche della popolazione studiata sono riassunte in Tabella I. I pazienti ad alto rischio presentavano una proteinuria significativamente più alta e livelli di proteine totali e albuminemia significativamente più basse. Non sono state invece riscontrate differenze significative in termini di età, genere, creatinina, eGFR, PA, colesterolo, utilizzo di ACE-I o ARB, comorbidità associate e impegno istologico.

Nei gruppi di pazienti ad alto rischio si è osservata una riduzione significativa della proteinuria rispetto ai valori basali rispettivamente a 1, 2 e 3 anni, a differenza di quanto osservato nei pazienti a basso rischio. I pazienti in terapia conservativa (Terapia A) hanno mantenuto la remissione clinica nel tempo.

Nei pazienti del gruppo B trattati con un ciclo steroideo più breve (<12 settimane) la remissione completa è stata osservata solo nel 37, 5% (N=3/8) dei pazienti, a differenza del 83,33% (N=5/6) osservato nei pazienti del gruppo C trattati con terapia steroidea d’induzione di circa 6 mesi.

Nei pazienti del gruppo D, in cui è stata aggiunta la CsA come induttore di remissione per circa 2 anni, la remissione completa si manteneva a 1 anno dalla sospensione della terapia nel 66,6% dei pazienti (Figura 2).

La creatinina e il filtrato glomerulare sono rimasti stabili durante il follow-up, senza variazione significativa, in entrambi i gruppi a medio-alto e basso rischio (Figura 3).

I pazienti del gruppo B che hanno raggiunto una remissione parziale nel 62,5% hanno recidivato in maniera statisticamente maggiore rispetto ai pazienti degli altri gruppi (P <0.01) (Figura 4). Il tempo mediano di recidiva della sindrome nefrosica del gruppo B è stato di 24 mesi. Nel gruppo C un solo paziente ha recidivato dopo 74 mesi. Un solo paziente del gruppo D non ha mai raggiunto la remissione clinica ed ha sviluppato ESRD che ha necessitato l’inizio della terapia sostitutiva renale.

Nei pazienti a basso rischio non si sono verificati eventi avversi severi, decessi o evoluzione verso insufficienza renale terminale. Anche gli eventi avversi dei pazienti ad alto rischio sono stati di scarsa entità clinica. In particolare, un paziente del gruppo B e uno del gruppo C hanno sviluppato un disordine psicotico regredito prontamente dopo decalage della terapia steroidea. Nessuna infezione severa o sepsi si è verificata durante il follow up, fatta eccezione di un solo episodio di broncopolmonite in un paziente del gruppo B (Tabella II).

 

Discussione

I dati riportati in letteratura mostrano che nei pazienti con IMN la terapia immunosoppressiva aumenta l’incidenza di remissione della sindrome nefrosica e migliora la sopravvivenza renale [5]. In particolare, diversi studi hanno dimostrato che la risposta favorevole del danno funzionale è sempre subordinata alla remissione della sindrome nefrosica o ad un deciso miglioramento della proteinuria. Pertanto, nella pratica clinica, la remissione della sindrome nefrosica viene considerata l’obiettivo principale della terapia con immunosoppressori [19].

La necessità primaria di ridurre i valori di proteinuria è contemplata anche per quei pazienti che si presentano alla diagnosi con uno score di rischio basso, per i quali è indicata di preferenza la terapia nefroprotettiva attraverso l’impiego di ACE-inibitori e sartani [20].

Le linee guida KDIGO del 2012 suggeriscono l’associazione di steroidi (metilprednisolone) più citotossici (clorambucil o ciclofosfamide) per 6 mesi come terapia di prima scelta [18]. Tale terapia di associazione, in grado di determinare una remissione duratura della sindrome nefrosica nel 75% dei pazienti, è attualmente l’unico regime terapeutico in grado di garantire la stabilità della funzione renale e la sopravvivenza nel lungo termine, come confermato da studi randomizzati controllati e da metanalisi [2124].

Il principale limite all’uso dei farmaci citotossici è rappresentato però da effetti collaterali come la mielotossicità, la maggiore suscettibilità alle infezioni, le cistiti emorragiche, i disturbi gastrointestinali. A questi si aggiungono l’infertilità e l’aumentato rischio neoplastico, che possono comportare un’interruzione precoce del trattamento [10]. Pertanto, nel nostro Centro, l’utilizzo di tale protocollo è stato riservato a quei pazienti che presentavano all’esordio un quadro clinico e istologico particolarmente severo.

La ciclosporina, stabilizzando il citoscheletro dei podociti, costituisce una valida alternativa terapeutica ai farmaci citotossici, particolarmente indicata per i pazienti con sindrome nefrosica severa, persistente o recidiva dopo sospensione della terapia di induzione [25]. La risposta ottimale richiede però un trattamento di almeno un anno, al termine del quale la sospensione deve avvenire gradualmente per prevenire la comparsa di recidive della malattia [26]. Alcuni studi hanno suggerito che mantenere basse dosi di ciclosporina per un periodo di tempo più prolungato riduce o previene le recidive nel tempo [13]. Il principale limite del trattamento con CsA è il fatto che sia controindicato in caso d’insufficienza renale avanzata [27].

In uno studio randomizzato controllato, l’ormone adrenocorticotropo, usato in monoterapia al dosaggio di 1 mg due volte a settimana, è risultato efficace nell’indurre la remissione nell’80% dei pazienti a 6 mesi [28]. La ragione dell’utilizzo di tale farmaco è il suo effetto mediato dalla stimolazione della secrezione endogena di steroidi, oppure da influenze dell’ormone sull’emodinamica renale. Il trattamento è ben tollerato, gli effetti collaterali modesti e di scarsa entità clinica. Tuttavia, ulteriori studi sono necessari per validarne l’efficacia [29].

È stato suggerito l’impiego di micofenolato come possibile alternativa al regime “steroido-citotossici” ma vi sono pochi dati sul mantenimento della funzione renale a lungo termine [30].

Recentemente, è emerso l’anticorpo monoclonale anti-CD20 (rituximab) come terapia promettente per i casi di nefropatia membranosa resistente o severa [31]. In una larga coorte di 376 pazienti con IMN, Cattran e colleghi hanno dimostrato una correlazione positiva tra durata della remissione, outcome e prognosi renale [32]. Analisi comparative successive di pazienti con caratteristiche di base simili ma trattati con diversi regimi (il rituximab in monoterapia, steroidi più agenti alchilanti o terapia conservativa) hanno mostrato che i pazienti trattati con rituximab avevano un tasso più elevato di remissioni ed erano più efficacemente protetti dalla perdita della funzione renale nel tempo rispetto ai pazienti trattati con agenti steroidi e alchilanti [33]. Gli svantaggi consistono però nella mancanza di trials in grado di dimostrarne l’efficacia a lungo termine da un lato e nei costi elevati dall’altro.

Inoltre, un recente studio pilota ha riportato una riduzione del 70% della proteinuria a 6 mesi in 11 pazienti trattati per 28 settimane con somministrazione endovenosa mensile di belimumab, un inibitore dell’attivazione delle cellule B [34]. Futuri trials sono necessari per confermare questi risultati iniziali.

Le esperienze con l’utilizzo dei corticosteroidi in monoterapia sono invece risultate negative [3538]. La loro limitata utilità nel trattamento della IMN è stata confermata da una meta-analisi che ha dimostrato che i corticosteroidi, quando confrontati con la terapia sintomatica, non aumentano le probabilità di remissione della proteinuria, né riducono il rischio di sviluppare insufficienza renale [3940]. Tuttavia, la scarsa efficacia di questi agenti potrebbe essere giustificata dal loro utilizzo a basse dosi o per tempi brevi. Inoltre, uno studio giapponese ha riportato buoni risultati nell’induzione e mantenimento della remissione in pazienti trattati con la sola terapia steroidea [41], mentre Ponticelli et al. hanno dimostrato che un trattamento basato su boli e.v. più somministrazione orale di steroidi comportava un’incidenza di remissione della sindrome nefrosica come primo evento del 55% [22].

Obiettivo del nostro studio è stato valutare l’efficacia e sicurezza dei protocolli immunosoppressivi a base di steroidi e ciclosporina in gruppi di pazienti a medio e alto rischio con diagnosi istologica di glomerulopatia membranosa idiopatica. I clinical trials e gli studi osservazionali suggeriscono un basso tasso di recidiva nei pazienti che ottengono la remissione completa della sindrome nefrosica. Nel Toronto Glomerulonephritis Registry (registro delle glomerulonefriti di Toronto) si è osservata una recidiva della sindrome nefrosica nel 23% dei 102 pazienti in remissione completa, con un tempo mediano di recidiva di 25 mesi (2-164 mesi), e nel 46% dei 136 pazienti in remissione parziale, con un tempo mediano di recidiva di 8 mesi (1-147 mesi) [42]. Nel nostro studio i pazienti trattati con un protocollo steroideo più breve (Terapia A) hanno ottenuto una remissione parziale nel 62,5% dei casi e hanno recidivato in maniera statisticamente maggiore rispetto ai pazienti degli altri gruppi, con un tempo mediano di recidiva di 24 mesi dalla sospensione della terapia steroidea. Un solo paziente trattato con il ciclo steroideo ad alte dosi per 6 mesi (Terapia B) ha recidivato a distanza di 74 mesi dalla sospensione della terapia steroidea.

Nel nostro centro la CsA è stata utilizzata come induttore di remissione nei pazienti con sindrome nefrosica steroido-resistente o nei pazienti che presentavano una recidiva della sindrome nefrosica. I pazienti trattati con CsA hanno ottenuto e mantenuto una remissione completa a 1 anno dalla sospensione della terapia nel 66,6% dei casi con una buona tolleranza clinica e minimi eventi avversi. La terapia steroidea è stata complessivamente ben tollerata e gli effetti collaterali sono stati di scarsa entità clinica con la sola eccezione di un episodio di broncopolmonite che ha necessitato la somministrazione di terapia antibiotica in un paziente trattato con la Terapia B.

Lo studio presenta alcune limitazioni dovute alla sua natura retrospettiva e all’esiguo numero di pazienti considerato. Inoltre, il monitoraggio degli anticorpi anti-PLA2R non è stato incluso a causa della recente identificazione del relativo antigene.

 

Conclusioni

In conclusione, il trattamento della IMN basato sull’associazione degli steroidi con i citotossici, somministrati a mesi alterni per 6 mesi, non è l’unico regime in grado di favorire la remissione della sindrome nefrosica e di mantenere la funzione renale nel tempo. In considerazione della potenziale citotossicità degli immunosoppressori convenzionali, la nostra esperienza ha dimostrato come i migliori risultati terapeutici possano essere ottenuti individualizzando la scelta terapeutica e stabilendo per ogni paziente il rapporto rischio-beneficio di ogni trattamento.

Gli steroidi in monoterapia sono una valida alternativa nell’indurre e mantenere nel tempo la remissione clinica completa della sindrome nefrosica, quando somministrati a dosaggio pieno per almeno 6 mesi. La CsA è una valida alternativa come stabilizzatore di remissione in caso di steroido-resistenza o rapida recidiva.

Studi randomizzati e controllati sono necessari per ampliare la nostra esperienza in questo campo, con particolare riferimento alla conservazione della funzione renale dopo un intervallo di 10 anni o più.

 

 

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