Kidney Transplant in a Highly Sensitized Patient Treated with Imlifidase

Abstract

Through a clinical case, we will describe the difficulties associated with providing transplantation opportunities to highly immunized patients. We will therefore focus on new desensitization therapies and their pharmacological effects with the consequent improvement in clinical outcomes. The main desensitization strategies in use and the main future therapeutic prospects will also be discussed.

Keywords: Imlifidase, Kidney Transplant, Hyperimmune Patients

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Introduzione

Il numero di pazienti affetti da malattia renale allo stadio terminale è in forte aumento in tutto il mondo, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo [1]. Tra questi molti risultano idonei al trapianto di rene, opzione che rispetto alla dialisi si associa a una qualità di vita e una sopravvivenza significativamente migliori. La presenza di un quadro di sensibilizzazione e il conseguente sviluppo di anticorpi rivolti contro antigeni leucocitari umani (HLA) di classe I e/o II rendono difficile trovare un aplotipo compatibile in caso di trapianto. Elevati livelli di anticorpi donatore specifici (HLA DSA) sono correlati con un maggiore rischio di rigetto iperacuto che può essere ulteriormente incrementato in seguito a numerosi eventi come: emotrasfusioni, pregressi aborti o gravidanze [24]. Per questo motivo, nonostante un marcato aumento del numero di allotrapianti da donatore vivente (DLA), molti potenziali riceventi con donatori idonei sono relegati nelle liste di attesa per la presenza di anticorpi anti antigene leucocitario umano preformati. Per rilevare rapidamente la presenza di anticorpi nel siero del ricevente rivolti contro linfociti isolati dal sangue del donatore, sono state sviluppate procedure di crossmatch (CM) che consentono un’efficace valutazione della sopravvivenza a breve termine degli alloinnesti renali.  La valutazione dello stato di pre-sensibilizzazione di un paziente in lista d’attesa per trapianto, avviene o tramite la tecnica di citotossicità complemento-mediata (CDC) o attraverso tecniche di fase solida (SPI) [5]. Indipendentemente dalla tecnica utilizzata, la percentuale di sensibilizzazione di un paziente nei confronti delle molecole HLA viene stimata attraverso il PRA (Panel Reactive Antibody), un test di fissazione del complemento attraverso cui viene testata la capacità del siero del ricevente di lisare un pannello di cellule T da un gruppo di potenziali donatori.

La tecnica CDC, elaborata da Terasaki e Mc Clelland nel 1964 [6], viene eseguita utilizzando un pannello di linfociti T a tipizzazione nota; pochi laboratori utilizzano anche i linfociti B, che permettono di identificare non solo anticorpi diretti contro molecole di classe I ma anche anticorpi specifici per molecole di classe II. Sono note diverse varianti della metodica originale che ne aumentano la sensibilità; quella più utilizzata nei laboratori italiani è la tecnica “long incubation”.

Le tecniche in fase solida (solid‐phase immunoassay ‒ SPI) prevedono che il siero in studio venga incubato in microsfere di lattice ricoperte di molecole HLA purificate o ricombinanti rappresentative di tutte le specificità HLA antigeniche note nonché, in alcuni casi, di una o più specificità alleliche di una particolare molecola HLA [7]. Dopo incubazione con un anticorpo fluorescinato anti-human-IgG (o IgM) le sfere vengono analizzate con un citofluorimetro classico (FlowPRA screening/FlowPRA Single Antigen beads) o con un citofluorimetro dedicato (Luminex® Screening e Single Antigen beads) permettendo l’identificazione di tutti gli anticorpi anti-HLA presenti nel siero in studio. Il test Luminex® si basa su microsfere e mediante PCR un oligonucleotide a sequenza specifica (SSO) consente il rilevamento simultaneo di un massimo di 100 diversi analiti da una provetta velocizzando notevolmente il processo di tipizzazione [8]. La tecnologia Luminex® è quella maggiormente utilizzata nei laboratori italiani [9] e l’analisi attraverso metodiche SPI rappresenta il “gold standard” nello studio della sensibilizzazione anti-HLA nel trapianto [10]. Il problema dell’iperimmunizzazione nei pazienti in lista di attesa è stato affrontato negli Stati Uniti già nel 2014 attraverso l’attivazione del sistema di allocazione renale (KAS) che ha determinato un notevole miglioramento dei tassi di trapianto anche nei pazienti sensibilizzati [11]. Nonostante l’attivazione di questo programma, attraverso un’analisi condotta da Schinstock e collaboratori su 1791 pazienti, è stato evidenziato come i tassi di trapianto nei soggetti che presentano iperimmunizzazione (ovvero anticorpi reattivi del pannello calcolati [cPRA] > 99,9%) non siano stati influenzati significativamente, pertanto tali pazienti presentavano maggiori probabilità di morire o essere rimossi dalle liste di attesa rispetto ai pazienti meno sensibilizzati [12].

Analizzando i dati forniti dall’Eurotransplant è possibile evidenziare, anche nel nostro continente, una tendenza simile alla casistica statunitense, infatti circa il 19% di 10.320 pazienti è considerato sensibilizzato, e di questi il 30% rientra nella categoria altamente sensibilizzata con un cPRA > 85% [13]. Le strategie di desensibilizzazione rappresentano la sfida principale per favorire sia l’incremento del numero dei potenziali riceventi che indirettamente la sopravvivenza degli organi trapiantati. Il rigetto cronico del trapianto renale (CKTR) è spesso un processo immunitario allogenico clinicamente silente, ma progressivo, che porta a lesioni cumulative del graft con deterioramento della funzione d’organo. Il rigetto cronico può essere suddiviso in linfocita T mediato (TCMR) e anticorpo mediato (ABMR) e secondo i criteri revisionati nel 2017 della classificazione di Banff, tali alterazioni possono coesistere [1416]. Gli attuali protocolli di desensibilizzazione consistono principalmente in immunoglobuline per via endovenosa (IVIG), rituximab, plasmaferesi o immunoadsorbimento e la loro efficacia è stata evidenziata in vari studi [17, 18]. Tuttavia, la rimozione incompleta degli anticorpi specifici del donatore (DSA) o un possibile rebound di DSA post-trapianto possono aumentare il rischio di rigetto anticorpo mediato [19, 20]. Pertanto, sono necessari nuovi farmaci o protocolli terapeutici che agendo su specifici target immunologici possano migliorare la desensibilizzazione anticorpale e garantire il successo del trapianto. Come evidenziato nella figura sottostante, le proteasi di derivazione batterica come l’imlifidase si inseriscono come trattamento desensibilizzante aggiuntivo con azione mirata sugli anticorpi anti HLA.

Figura1. Siti di azione dei vari agenti desensibilizzanti (tratto da Noble J [21]).
Figura1. Siti di azione dei vari agenti desensibilizzanti (tratto da Noble J [21]).

Caso clinico

Descriviamo il caso clinico di una donna caucasica di 43 anni di nazionalità rumena, seguita presso l’ospedale San Giovanni Battista di Foligno per CKD secondaria a glomerulonefrite post-infettiva e in trattamento emodialitico trisettimanale che ha ricevuto un trapianto renale previo trattamento desensibilizzante con imlifidase. All’anamnesi patologica remota: pregresso trapianto renale eseguito nel 2003, all’età di 22 anni allocato in fossa iliaca sinistra, presso il paese d’origine, complicato con un episodio di rigetto acuto trattato con boli di metilprednisolone. A partire dal 2008 si registravano diversi episodi infettivi, a giugno si documentava un’infezione delle vie urinarie (IVU) sostenuta da E. Coli complicata da setticemia e trattata con antibioticoterapia mirata, mentre a luglio 2008 si osservava la positivizzazione del CMV-DNA e dell’EBV-DNA trattati con ganciclovir. Successivamente per un quadro di epatopatia cronica HCV relata (genotipo 1 b), si avviava trattamento con interferone e ribavirina fino alla completa guarigione documentata tramite negativizzazione dell’RNA virale. A causa del progressivo peggioramento degli indici di funzione renale, si rendeva necessario rivalutare tramite biopsia sul graft le condizioni dell’organo, che mostrava la presenza di un “infiltrato infiammatorio interstiziale associato a focale glomerulopatia cronica e moderata fibrosi interstiziale”.

Nel gennaio 2009 per nuovo episodio di rigetto del graft, si provvedeva ad espianto dell’organo e ripresa del trattamento emodialitico con frequenza trisettimanale. All’inizio del marzo 2009, in seguito a episodio di edema polmonare acuto non responsivo a terapia medica si provvedeva al ricovero urgente in terapia intensiva e all’avvio di cicli di CVVHDF. La degenza era complicata da un episodio di anemizzazione trattato tramite emotrasfusioni con emazie concentrate. Nel dicembre 2011, ricovero presso l’Ospedale di Foligno per polmonite lobare destra, associata a versamento pleurico massivo omolaterale risolto tramite il posizionamento di drenaggio pleurico. In corso di degenza si riscontrava un quadro di cardiomiopatia dilatativa ipocinetica associata ad insufficienza mitralica ed ipertensione polmonare. A partire dall’inizio del 2012, per la comparsa di numerosi episodi di metrorragia sintomatica, si ricorreva a numerose emotrasfusioni. Dal medesimo anno fino al trapianto, si verificavano numerosi eventi immunizzanti come emotrasfusioni e poliabortività, inoltre per progressivo esaurimento dei siti disponibili, si osservava una crescente difficoltà nel mantenimento degli accessi vascolari. Dapprima infatti, si rendeva necessario un intervento di superficializzazione della vena basilica destra, mentre nel 2014 si provvedeva al posizionamento di protesi nel medesimo arto e nel 2016 si verificava una stenosi della succlavia destra secondaria all’utilizzo di questa vena per il posizionamento di CVC. Per la presenza di progressiva ipersensibilizzazione, secondaria agli eventi immunizzanti intercorsi negli anni, si procedeva, dal luglio del medesimo anno, a programma di desensibilizzazione tipo Jordan (rituximab + IVIG) per eventuale nuovo trapianto.

Nel 2022 la paziente veniva inserita nel programma nazionale iperimmuni (PNI) per la presenza di immunizzazione del 100% in classe I e del 95% in classe II. A novembre del medesimo anno, si ricoverava presso l’Azienda Ospedaliera di Padova per essere sottoposta a trapianto di rene da donatore deceduto, previa desensibilizzazione con imlifidase. All’ingresso in reparto, veniva eseguita valutazione del titolo degli anticorpi anti-HLA pre-trapianto con riscontro di DSA rivolti contro gli antigeni di classe I A32, A29 e di classe II DRB1* 11, DR 52, DRB1*07:01, DQB1*03:01, DQB1*02.

Si procedeva, quindi, secondo protocollo, all’infusione di imlifidase 13 mg pre-trapianto e alla successiva rivalutazione del titolo DSA; come evidenziato nelle figure sottostanti, si riduceva drammaticamente nelle ore successive all’infusione.

Figura 2. Andamento titolo anticorpale evidenziato tramite mean fluorescent intensity MFI in classe I e II.
Figura 2. Andamento titolo anticorpale evidenziato tramite mean fluorescent intensity MFI in classe I e II.

Al termine degli accertamenti pre-operatori, si eseguiva intervento di trapianto renale singolo da donatore deceduto, un uomo di 68 anni di razza caucasica. Il Kidney Donor Profile Index (KDPI) era del 71%, compatibile con un funzionamento atteso del graft di almeno nove anni, mentre il Kidney Donor Risk Index (KDRI), ovvero il rischio di fallimento del trapianto sulla base delle caratteristiche del donatore, era di 1,22. Il trapianto veniva eseguito in data 02/11/2022 e il graft veniva allocato in fossa iliaca destra. Il tempo di ischemia fredda è stato di sette ore. Come da protocollo, si avviava dapprima una terapia immunosoppressiva con metilprednisolone e successivamente una tripla associazione costituita da tacrolimus, acido micofenolico e corticosteroidi. Il successivo decorso clinico post operatorio si caratterizzava per pronta ripresa della diuresi e progressiva riduzione della creatinina sierica con normalizzazione degli indici di funzione renale. Durante la degenza si eseguiva monitoraggio quotidiano del titolo di anticorpi DSA e si eseguiva infusione di siero antilifocitario (timoglobuline di coniglio) per tre giorni consecutivi (ovvero in quarta, quinta e sesta giornata post operatoria) per un totale di 4 mg/kg, cui faceva seguito in settima giornata l’infusione di 1 g di rituximab; contestualmente si iniziava vaccinazione anti meningococcica contro i gruppi A, C, W-135 e Y. In ottava giornata, per un peggioramento della funzionalità renale e anuria associati a rialzo della temperatura corporea fino a 38,4 C°, la paziente veniva sottoposta a biopsia del graft suggestiva per rigetto anticorpo mediato come evidenziato dalla presenza di capillarite con infiltrato granulocitario associato, positività per Cd4 e C5b9 (Figure 3A e 3B).

Figure 3A e 3B. Biopsia eseguita sul graft della paziente.
Figure 3A e 3B. Biopsia eseguita sul graft della paziente.

Si procedeva dapprima alla somministrazione di eculizumab (1200 mg) e all’infusione di tre dosi di timoglobuline (75 mg), quindi all’esecuzione di sedute di plasmaferesi associando, al termine di ciascuna seduta, l’infusione di eculizumab a dosaggio di mantenimento (600 mg). In seguito alle misure intraprese, si osservava risoluzione del quadro clinico ed un rapido miglioramento degli indici di funzione renale (creatinina 1,13 mg/dl). A completamento diagnostico si eseguiva ecografia del rene trapiantato che risultava nella norma sia in termini morfologici che di vascolarizzazione. La paziente veniva dimessa in buone condizioni cliniche e inviata presso il centro territoriale di competenza (A.O. di Perugia) per la gestione della terapia post-trapianto. In data 02/12/2022 in considerazione del miglioramento clinico e del mantenimento di una adeguata funzione del graft, si procedeva alla rimozione CVC tunnellizzato per dialisi. Attualmente la paziente appare in buone condizioni cliniche generali e prosegue regolari follow-up ambulatoriali. Agli ultimi esami ematochimici eseguiti nel giugno 2023 si evidenzia la persistenza di una lieve anemia associata a deficit marziale (Hb 10 g/dl MCV 89 fl TSAT 13%) in trattamento con epoetina  zeta 8000UI 1fl a settimana, una funzione renale compatibile con un’insufficienza renale cornica lieve-moderata (Crs 1,3 mg/dl EGFR 45 ml/min con MDRD), un iperparatiroidismo secondario normocalcemico in fase di correzione (PTH 187 pg/ml, Ca++ 9,6 mg/dl, P- 2,4 mg/dl) e un lieve deficit di vitamina D (14,3 ng/ml). Indici di flogosi negativi. Al momento non si registra inoltre riattivazione virale risultando negativa la ricerca per BK, CMV EBV. Si riportano nel grafico sottostante i livelli sierici di creatininemia (espessa in μmol/l) e di tacrolemia nei cinque mesi successivi al trapianto (Figura 4).

Figura 4. Andamento della creatinina e della tacrolemia nei 5 mesi successivi al trapianto.
Figura 4. Andamento della creatinina e della tacrolemia nei 5 mesi successivi al trapianto.

L’attuale terapia immunosoppressiva della paziente risulta costituita da tacrolimus (1mg + 0,5 mg die), micofenolato (360 mg 1 cpr × 2) e metilprednisolone 16 mg 1/2 cpr die.

 

Discussione

L’imlifidase è una cisteina proteasi di 35 kDa individuata inizialmente nello streptococcus pyogenes e prodotta tramite DNA ricombinante in E. Coli, che possiede la capacità di scindere tutte le sottoclassi di IgG umane in modo altamente specifico. L’inibizione delle IgG dura circa 1-2 settimane, ovvero fino a quando non diventa rilevabile una nuova sintesi di immunoglobuline [22]. L’azione dell’imlifidase si realizza tramite idrolisi a livello dell’aminoacido Gly236 localizzato nella regione cerniera inferiore delle catene pesanti delle IgG umane [23] (Figura 5).

Figura 5. Meccanismo di azione dell’imlifidase (tratto da: www.ema.europa.eu  riferimento [24]).
Figura 5. Meccanismo di azione dell’imlifidase (tratto da: www.ema.europa.eu  riferimento [24]).
 La scissione in questo sito è critica, poiché la regione del frammento cristallizzabile (Fc) delle IgG interagisce con i recettori Fcγ localizzati sulle cellule immunitarie, pertanto l’idrossilazione delle molecole di IgG con rimozione dei frammenti Fc inibisce la citotossicità complemento dipendente (CDC) e la citotossicità cellulare anticorpo mediata (ADCC), processi indispensabili per l’avvio e il mantenimento del rigetto anticorpo mediato (AMR) [25]. L’importanza dell’eliminazione delle IgG e del potenziale effetto nei pazienti trapiantati sono noti già nel 2015, attraverso uno studio randomizzato condotto da Winstet e coll. [26] su venti volontari sani. È stato documentato come l’enzima sia in grado di scindere, con la medesima efficacia, sia proteine libere che legate ai rispettivi antigeni o complessate con i recettori dei linfociti B(BCR) [27]. La rilevanza di questa caratteristica appare evidente se si considera l’importanza del complesso BCR nell’attivazione linfocitaria in seguito all’interazione antigene-anticorpo. La porzione che interagisce con il ligando è costituita da un Ab con un dominio transmembrana la cui porzione di segnalazione è costituita da un eterodimero chiamato Ig-α/Ig-β (CD79a/CD79b). Le proteine ​​CD79 attraversano la membrana plasmatica e possiedono una coda citoplasmatica che presenta un’attivazione immunorecettoriale tirosino-mediata (ITAM). In seguito all’attivazione recettoriale, l’ITAM viene fosforilato da una chinasi (LYN) che recluta la tirosina chinasi portando alla formazione di un complesso di segnalazione associato alla membrana plasmatica, chiamato signalosoma, che assembla molecole di segnalazione, come fosfolipasi-Cγ2 (PLC-γ2), PI3K, tirosina chinasi di Bruton, VAV1 e molecole adattatrici con conseguente attivazione cellulare [28, 29]. Alcuni intermedi fondamentali che appartengono alla cascata di segnalazione generata nel processo di attivazione, sono rappresentati da BCR, PLC-γ2 e PI3K, che attraverso la generazione di secondi messaggeri chiave attivano la chinasi IκB e ERK1/2 (alias MAPK3 e MAPK1) regolando di fatto il destino delle cellule B determinandone quindi proliferazione, sopravvivenza, differenziazione ed eventuale apoptosi [30]. Sulla base di queste evidenze, è stato osservato come in seguito al trattamento con imlifidase, i linfociti B non siano più in grado di attivare correttamente la cascata di segnalazione mediata dall’interazione dell’anticorpo con BCR, con conseguente riduzione sia delle cellule B di memoria che della produzione di IgG [26]. L’imlifidase è quindi in grado di negativizzare un cross match in un paziente positivo ma a differenza dei metodi di desensibilizzazione esistenti, come la plasmaferesi o le immunoglobuline, riesce ad eseguire tale operazione in tempi molto rapidi [31]. Un aspetto apparentemente limitativo del farmaco è rappresentato dal rebound anticorpale che si verifica generalmente in un periodo compreso tra i tre giorni e le due settimane, tuttavia questo svantaggio viene ampliamente superato dal fatto che fino all’89,5% dei pazienti trattati con imlifidase ha dimostrato la conversione del crossmatch da positivo a negativo entro 24-48 ore dal trattamento [32].

Oltre all’utilizzo per la desensibilizzazione nel ricevente di trapianto renale, il farmaco è stato impiegato con successo in un caso di trapianto polmonare [33] e uno studio in vitro, effettuato su topi, ne ha dimostrato il potenziale utilizzo nei riceventi il trapianto di midollo osseo [34].

L’azione inibitoria, esercitata dall’imlifidase, ha aperto ulteriori possibilità di utilizzo per questo farmaco anche nelle patologie immunomediate resistenti alle comuni terapie immunosoppressive. L’utilizzo del farmaco appare possibile non solo per patologie renali, come la malattia della membrana basale anti-glomerulare, la vasculite IgA mediata, la nefrite lupica o la crioglobulinemia, ma anche in ambito ematologico come nell’emofilia congenita A (PwHA) [3537], sebbene siano necessari ulteriori studi prima di una conferma definitiva. In considerazione del meccanismo d’azione dell’imlifidasi e della conseguente soppressione dei livelli di IgG per un periodo compreso tra due settimane e un mese, esiste la possibilità di un incremento del rischio infettivo nei pazienti in cui viene utilizzato. Come riportato dall’European Medicine Agency (EMA) è stato osservato un rischio aumentato di infezioni specie polmonari e delle vie urinarie in questi pazienti, inoltre l’utilizzo del farmaco è stato precluso ai soggetti affetti da porpora trombotica trombocitopenica o da gravi infezioni non eradicabili [24]. Oltre all’imlifidase, la ricerca si è orientata verso altri target immunitari e sono stati proposti numerosi siti alternativi su cui agire per ottenere una rapida desensibilizzazione. Si riportano nella Figura 6 gli attuali target oggetto di studio.

Figura 6. Possibili siti di azione per farmaci desensibilizzanti (tratto da Choi AY et al [38]).
Figura 6. Possibili siti di azione per farmaci desensibilizzanti (tratto da Choi AY et al [38]).
Un sito alternativo è rappresentato dal recettore Fc neonatale (FcRn), espresso nelle cellule endoteliali, presentanti l’antigene (monociti/macrofagi), dendritiche e nei linfociti B [39, 40]. Il blocco del recettore FcRn ottenuto tramite l’anticorpo monoclonale rozanolixizumab [41, 42], inizialmente sviluppato contro malattie IgG mediate come miastenia gravis e trobocitopenia immune [43], sembra avere un ruolo sia nella riduzione delle IgG circolanti totali che nel miglioramento del cross match, sebbene non sia stata evidenziata né riduzione delle IgM totali circolanti né dei DSA [44].

Diversi autori hanno proposto l’utilizzo degli inibitori del proteasoma in funzione desensibilizzante. Everley et al. [45] hanno proposto l’uso del bortezomib per il trattamento dell’AMR e dell’ACR nei riceventi di trapianto renale, mentre Mulder e collaboratori [46] hanno evidenziato il ruolo del farmaco nell’inibizione delle cellule B e nell’induzione di apoptosi in quelle già attivate. L’utilizzo del bortezomib in ottica desensibilizzante è da attribuirsi a Woodle che attraverso un trial condotto su 44 persone ha ottenuto, tramite un’associazione tra bortezomib, plasmaferesi e rituximab, una riduzione dei DSA nell’86% dei casi, una percentuale di successo del trapianto nei pazienti altamente sensibilizzati pari al 43,2% e una percentuale dell’89,5% di graft funzionali ad un follow-up mediano di 436 giorni [47]. Risultati simili sono stati ottenuti da Jeong et al. utilizzando una combinazione costituita da alte dosi di IVIG, rituximab e bortezomib [48]. L’uso di inibitori del proteasoma di seconda generazione (carfilzomib, ixazomib) ha dato buoni risultati in termini di efficacia e migliorato la tollerabilità al trattamento [38].

L’anticorpo monoclonale umanizzato anti-CD19 inebilizumab appare molto promettente nella desensibilizzazione nei pazienti iperimmuni candidati al trapianto renale e attualmente è in corso un trial randomizzato di fase II per valutarne l’efficacia [49]. Anche il tocilizumab, un anticorpo monoclonale umanizzato rivolto verso il recettore dell’IL6, appare un buon candidato nelle strategie di desensibilizzazione poiché agisce sul pathway infiammatorio, sulla maturazione dei linfociti T helper e sulla differenziazione dei linfociti B [50]. Inoltre l’efficacia dell’associazione tra tocilizumab e IVIG appare confermata [51]. Anche gli agenti inibitori del fattore di attivazione delle cellule B (BAFF) potrebbero rivestire un ruolo nelle strategie desensibilizzanti. Il fattore di attivazione delle cellule B (BAFF) è un omotrimero e membro della famiglia del fattore di necrosi tumorale (TNF) che si trova sulla superficie cellulare come proteina transmembrana oppure è rilasciato in forma solubile dopo scissione [52] il cui ruolo è fondamentale per la maturazione e proliferazione delle cellule B [53]. Il blocco di questa molecola può essere importante nella modulazione linfocitaria e nella produzione anticorpale. L’anticorpo monoclonale belimumab (Benlysta®), è stato il primo farmaco biologico che presenta una specifica azione contro BAFF proposto, in monoterapia, per la desensibilizzazione nel trapianto renale [54, 55].

 

Conclusioni

Possiamo affermare che il trattamento con l’imlifidase appare ben tollerato e con un elevato tasso di risposta valutata in termini di negativizzazione del cross match. Nei pazienti in cui tale farmaco è stato utilizzato per ottenere una desensibilizzazione non si sono osservati risultati differenti rispetto a quanto osservato utilizzando i protocolli standard di desensibilizzazione. In questa popolazione ad alto rischio, infatti, si è osservata una relativa stabilità della funzione dell’allotrapianto e un profilo di sicurezza a lungo termine senza incrementi significativi dei tassi di infezione o di malignità. Sebbene ulteriori studi possano definire l’utilizzo ottimale di questo nuovo agente, l’imlifidase costituisce un importante opzione per consentire il trapianto tra quei pazienti per i quali la dialisi a vita e la relativa morbilità possono essere l’unica alternativa. Al momento persistono dubbi circa il profilo di sicurezza del farmaco nel lungo periodo sebbene non siano evidenti particolari fenomeni di criticità. Tale limitazione deriva dal fatto che il numero dei pazienti indagati è basso e per tale motivo sono necessari ulteriori studi in tal senso. Ulteriori target terapeutici sono in fase di studio e rappresenteranno un valido strumento da affiancare alle terapie desensibilizzanti attualmente in uso. Si evidenzia, comunque, la necessità di una attenta valutazione dei candidati al trattamento con imlifidase, in considerazione degli effetti sistemici del farmaco e delle possibili complicanze.

 

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