Renal involvement in SLE

Abstract

Lupus nephritis (LN) is a frequent and severe manifestation of systemic lupus erythematous (SLE). Clinically, LN may occur with extremely variable clinical presentations, ranging from urinary anomalies to rapidly progressive glomerulonephritis. Renal biopsy remains the gold standard for the diagnosis of LN, as the clinical-laboratory presentation doesn’t always correlate with histological data. Treatment of LN includes supportive therapies and targeted immunosuppressive therapies with an induction phase, now called initial treatment and a maintenance phase, now called subsequent treatment. In addition to steroids, mycophenolate mofetil and cyclophosphamide, new drugs such as calcineurin inhibitors (voclosporin) and monoclonal antibodies such as belimumab and rituximab have been introduced in recent decades. Although patient and renal survival have significantly improved from 1970, LN still remains an important negative prognostic factor. Early diagnosis, targeted therapeutic protocols, prevention, and management of complications are the most important factors for the prognosis of these patients.

Keywords: lupus nephritis, immunosuppression, end-stage kidney disease, remission

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Introduzione

Il Lupus Eritematoso Sistemico (LES) è una malattia cronica autoimmune sistemica, che colpisce maggiormente giovani donne, in età fertile, con un rapporto donne/uomini compreso tra 8:1 e 15:1, che scende a 4:3 in età pre-pubere e nei bambini [1, 2]. Il coinvolgimento renale in corso di LES è molto frequente ed è riscontrato in circa il 40% dei pazienti. Sebbene la prognosi dei pazienti affetti da nefrite lupica (NL) sia migliorata negli ultimi decenni grazie a diagnosi precoci, all’uso di protocolli terapeutici mirati e a migliori terapie di supporto, la sopravvivenza di questi pazienti continua ad essere inferiore a quella dei pazienti affetti da LES senza interessamento renale [3]. Insieme a infezioni, neoplasie ed eventi cardiovascolari improvvisi, la NL rappresenta ancora oggi una delle più comuni cause di morte [4-8].

Hanly et al descrivono una coorte internazionale incidente di 1826 pazienti affetti da LES. La NL, diagnosticata in 700 pazienti (il 38,3%), è più frequente in pazienti giovani, di sesso maschile e di razza non caucasica; purtroppo però in questo studio solo il 56,4% dei pazienti sono stati sottoposti a biopsia renale. Negli afroamericani la NL, oltre ad essere più frequente, si presenta più precocemente, con quadri più aggressivi e con una maggior incidenza di malattia proliferativa diffusa alla biopsia renale rispetto alle altre etnie [9, 10].

 

Manifestazioni cliniche 

L’esordio clinico renale è molto spesso subdolo e asintomatico e la diagnosi di NL si basa su un complesso inquadramento clinico-patologico. Da ciò si evince l’importanza di uno stretto follow-up della funzione renale e dell’esame urine con rapida esecuzione di biopsia renale se presenti segni clinico-laboratoristici sospetti. La maggior parte dei pazienti sviluppa interessamento renale nei primi 5 anni dalla diagnosi di LES anche se può manifestarsi come prima manifestazione di malattia [10]. L’interessamento renale in corso di LES è stato definito dai criteri dell’American College of Rheumathology (ACR) del 1982 dalla presenza di proteinuria maggiore di 500 mg/die o 3+ al dipstick urine e/o di cilindri cellulari all’esame del sedimento urinario [11]. I criteri del 2012 del Systemic Lupus International Collaborating Clinics (SLICC) hanno confermato come criterio clinico di interessamento renale la proteinuria delle 24 ore > 500 mg/die (o rapporto proteinuria/creatininuria P/C > 500 mg/g su campione estemporaneo) e/o la presenza di cilindri ematici al sedimento urinario. Inoltre, la presenza di quadro istologico compatibile con LES alla biopsia renale, secondo la classificazione dell’International Society of Nephrology/Renal Pathology Society (ISN/RPS) [12], in associazione a positività degli anticorpi anti-nucleo (ANA) o degli anti-double stranded (dsDNA), è sufficiente a porre diagnosi di LES anche in assenza di ulteriori criteri di malattia [13]. Negli ultimi criteri classificativi del 2019 dell’ACR e dell’European Legue Against Rheumathism (EULAR) è stata introdotta la positività degli ANA 1:80 quale criterio d’ingresso indispensabile per la diagnosi di LES e sottolineata l’importanza della biopsia renale; la presenza di NL classe III e IV alla biopsia renale, infatti, rappresenta l’unico criterio clinico/immunologico sufficiente da solo, insieme agli ANA positivi, a porre diagnosi di LES (Tabella1) [14].

 

Criteri ACR del 1997*

Proteinuria persistente maggiore di 500 mg/24 ore o proteine > 3+ al dipstick urinario

e/o

Presenza di cilindri cellulari all’esame del sedimento urinario (ematici, granulari, tubulari o misti)

 

Criteri SLICC del 2012**

Proteinuria delle 24 ore > 500 mg/24 ore o rapporto P/C > 500 mg/g su campione urine estemporaneo

e/o

Presenza di cilindri ematici al sedimento urinario

e/o

Presenza di quadro istologico compatibile con LES alla biopsia renale (secondo la classificazione dell’ISN/RPS). Quest’ultima, in associazione a positività degli ANA o dei dsDNA, è sufficiente da sola a porre diagnosi di LES anche in assenza di ulteriori criteri di malattia

 

Criteri EULAR/ACR del 2019***

Proteinuria > 500 mg/24 ore o rapporto P/C equivalente su campione urine estemporaneo

e/o

Biopsia renale compatibile con nefrite lupica (secondo la classificazione dell’ISN/RPS).

La presenza di NL classe III e IV alla biopsia renale rappresenta l’unico criterio clinico/immunologico sufficiente da solo, insieme agli ANA positivi, a porre diagnosi di LES.

Tabella 1: Criteri classificativi di interessamento renale nel LES [11-14].
ACR: American College of Rheumatology; SLICC: Systemic Lupus International Collaborating Clinics; P/C: proteinuria/creatininuria; LES: lupus eritematoso sistemico; ISN/RPS: International Society of Nephrology/Renal Pathology Society; ANA: anticorpi anti-nucleo; dsDNA,:anti-double stranded; EULAR: European League Against Rheumatism.
*La classificazione ACR si basa su 11 criteri. La diagnosi di LES è possibile in presenza di almeno 4 degli 11 criteri classificativi.
**La classificazione SLICC si basa su 17 criteri, divisi in clinici (tra cui l’interessamento renale) e immunologici. La diagnosi di LES è possibile in presenza di almeno 4 criteri, di cui almeno 1 clinico e 1 immunologico o in presenza di biopsia renale compatibile con nefrite lupica in associazione a positività degli ANA o dei ds-DNA, anche in assenza di altri criteri.
***I criteri EULAR/ACR richiedono la positività degli ANA 1:80 quale criterio d’ingresso indispensabile per la diagnosi di LES. I criteri aggiuntivi sono 7 clinici (tra cui l’interessamento renale) e 3 immunologici, ognuno dei quali ha un punteggio da 2 a 10. La diagnosi di LES è possibile in presenza di ANA positivi e almeno 10 punti.

Le manifestazioni cliniche renali variano da anomalie urinarie isolate (proteinuria subnefrosica e/o microematuria glomerulare in assenza di alterazione della funzione renale) a quadri più severi quali sindrome nefrosica, sindrome nefritica o forme di glomerulonefrite rapidamente progressiva con insufficienza renale. In una recente casistica italiana di 499 pazienti affetti da NL, il 40,7% dei pazienti presenta anomalie urinarie isolate al momento della diagnosi, il 34,9% sindrome nefrosica, il 18,4% sindrome nefritica acuta e il 9% insufficienza renale rapidamente progressiva. Questi pazienti sono stati divisi in 3 gruppi in base all’anno in cui sono stati sottoposti a biopsia renale, con 106 pazienti nel gruppo dal 1970 al 1985, 158 pazienti dal 1986 al 2000 e 235 pazienti dal 2001 al 2016. L’analisi dei tre gruppi ha mostrato significative differenze sia in termini epidemiologici che di presentazione clinico-laboratoristica. Dal 1970 al 2016 si è registrato, infatti, un progressivo aumento del numero di pazienti di sesso maschile (6,6% vs 12% vs 20%) e dell’età al momento della diagnosi (28,4 vs 28,9 vs 34,4). Dal punto di vista clinico, dalla primo al terzo periodo, è stata riscontrata una significativa riduzione di sindromi nefritiche e delle forme rapidamente progressive (da 29% a 12% e da 13,3% a 3,3% rispettivamente) a fronte di un incremento delle anomalie urinarie isolate (da 27% a 49%). Questi ultimi dati sono verosimilmente legati a una diagnosi precoce di NL (Figura 1) [15].

Presentazione clinica di 499 pazienti con nefrite lupica diagnosticata
Figura 1: Presentazione clinica di 499 pazienti con nefrite lupica diagnosticata con biopsia renale e seguiti dal 1970 al 2016, divisi in 3 gruppi in base all’anno in cui sono stati sottoposti a biopsia renale, con 106 pazienti nel gruppo dal 1970 al 1985, 158 pazienti dal 1986 al 2000 e 235 pazienti dal 2001 al 2016.

 

Classificazione istologica e correlazione clinico-patologica

La biopsia renale percutanea è elemento fondamentale per la diagnosi e la classificazione della NL. Già nel 1999 venne dimostrata l’importanza della biopsia renale, in quanto le manifestazioni cliniche non sempre correlano con il dato istologico e anomalie urinarie isolate possono associarsi a quadri proliferativi alla biopsia renale [16-18]. L’analisi istologica ci permette di differenziare la NL in classi istopatologiche, di classificare la gravità del coinvolgimento renale in termini di attività e cronicità del danno parenchimale e di escludere altre patologie renali quali la microangiopatia trombotica, altri tipi di glomerulonefrite (IgA nephropathy ad esempio), podocitopatie non da immunocomplessi e quadri di nefrite tubulointerstiziale o di necrosi tubulare acuta [19-21].

La biopsia renale è indicata in tutti i pazienti con proteinuria > 500 mg/24 ore o con P/C > 500 mg/g (50 mg/mmol), microematuria glomerulare con o senza cast eritrocitari o in presenza di alterazione della funzione renale non attribuibile ad altra causa specifica. Anche in presenza di leucocituria o piuria persistente, dopo un completo screening diagnostico, può essere utile l’esecuzione di biopsia renale [22-24]. La NL è divisa in sei classi istologiche in base alla presenza di specifiche lesioni microscopiche e alla distribuzione degli immunocomplessi (IC), secondo la classificazione istologica ISN/RPS del 2003 poi revisionata nel 2018. Al momento non esistono marcatori sierici o urinari in grado di predire la classe istologica [12, 25].

La classe I o minima mesangiale è rara, ha una prevalenza dell’1% e del 2,3% negli adulti e nei bambini rispettivamente in quanto questi pazienti tipicamente presentano minima proteinuria e funzione renale nella norma. All’immunofluorescenza (IF) e alla microscopia elettronica (ME) si evidenziano immunodepositi mesangiali di C3 e di immunoglobuline (soprattutto IgG e IgM) in assenza di anomalie alla microscopia ottica (MO) [26]. La classe II o proliferativa mesangiale rappresenta il 7-22% di tutti i casi e si presenta clinicamente con microematuria glomerulare, proteinuria subnefrosica e funzione renale nella norma. Questa è caratterizzata da ipercellularità mesangiale ed espansione della matrice mesangiale alla MO, con immunodepositi mesangiali e pochi depositi subepiteliali e subendoteliali visibili unicamente all’IF o alla ME. La prognosi di questa classe istologica è buona e non richiede terapia specifica anche se il rischio di progressione a proliferativa diffusa può raggiungere il 47% [27]. Nella classe III o proliferativa focale < 50% dei glomeruli presenta alla MO ipercellularità endocapillare o extracapillare, segmentale o globale, ma depositi mesangiali e subendoteliali diffusi alla ME, positivi per IgG e C3 all’IF. La classe IV o proliferativa diffusa è la classe istologica più frequente (rappresenta 50% di tutte le biopsie). Istologicamente più del 50% dei glomeruli è coinvolto e presenta ipercellularità, lesioni necrotizzanti e anche in alcuni casi proliferazione extracapillare con formazione di semilune. All’IF ci sono depositi di immunoglobuline (specialmente di IgG) e complemento (soprattutto C3). La ME mostra depositi subendoteliali con o senza alterazioni mesangiali. Le classi proliferative si presentano tipicamente con microematuria glomerulare e proteinuria, anche se alcuni pazienti possono presentare sindrome nefrosica, sindrome nefritica, ipertensione arteriosa o riduzione del filtrato glomerulare con rapida progressione verso l’insufficienza renale. I pazienti hanno livelli di complementemia ridotti (specialmente C3) ed elevati livelli di ds-DNA soprattutto in corso di malattia attiva [28]. Le classi III e IV sono associate a prognosi peggiore, con maggior rischio di progressione a malattia renale cronica terminale (End-Stage Kidney Disease, ESKD) e necessitano di trattamento immunosoppressivo [29]. La classe V o nefropatia membranosa lupica rappresenta il 10-20% dei pazienti con interessamento renale [30, 31]. I pazienti presentano tipicamente sindrome nefrosica con quadro molto simile ai pazienti con nefropatia membranosa idiopatica. Dal punto di vista istologico è caratterizzata da ispessimento delle membrane basali glomerulari alla MO, immunodepositi subepiteliali con coinvolgimento segmentale o globale all’IF e alla ME. Può essere riscontrata in combinazione con le classi III o IV e in tal caso la diagnosi è mista; negli anni si è visto un aumento delle forme miste (III/IV+ V) (Tabella 2).

Classe I Glomeruli normali alla Microscopia ottica e depositi mesangiali alla Immunofluorescenza e Microscopia elettronica
Classe II Aumento della cellularità mesangiale e depositi mesangiali
Classe III Proliferazione focale e segmentaria o globale estesa a meno del 50% dei glomeruli in fase attiva (A) o cronica (C) (A, AC, C)
Classe IV Come la classe terza, ma coinvolge più del 50% dei glomeruli
Classe V Glomerulonefrite membranosa con depositi subepiteliali a distribuzione globale o segmentaria
Classe VI Lesioni sclerotiche estese a più del 90% dei glomeruli
Tabella 2: Classificazione istologica ISN/RPS nefrite lupica [25].

La classe V non presenta tipicamente manifestazioni cliniche o sierologiche tipiche del LES, con livelli di complementemia nella norma e autoimmunità negativa. La velocità di progressione a ESKD è lenta ma può associarsi a importanti complicanze correlate alla sindrome nefrosica quali eventi trombotici e infezioni [32]. La classe VI o di sclerosi avanzata è caratterizzata da glomerulosclerosi in più del 90% dei glomeruli, rappresenta lo stadio terminale dei processi infiammatori a carico dei glomeruli ed è associata a sedimento urinario inattivo, proteinuria di vario grado e progressione verso l’insufficienza renale [33].

La revisione della classificazione del 2018 ha introdotto un indice di attività e cronicità di malattia in sostituzione delle precedenti lesioni attive e croniche delle classi proliferative e ha eliminato la precedente distinzione tra segmentale (S) e globale (G) delle classi III e IV [25]. È stato sostituito il termine ‘proliferativo’ con ‘ipercellularità’ e sono state introdotte definizioni di caratteristiche istologiche tipiche, quali la definizione di podocitopatia, intesa come presenza di fusione pedicellare alla ME anche in pazienti con lesioni minime alla MO, con o senza IC; quest’ultima si presenta con sindrome nefrosica ed è più facilmente associata a progressione a ESKD [34].

Nella casistica italiana di 499 pazienti sopracitata, il 53,7 % dei pazienti presentava una glomerulonefrite proliferativa diffusa (classe IV) alla biopsia renale, il 22,8% una glomerulonefrite proliferativa focale (classe III), il 17,2% una nefropatia membranosa lupica (classe V) e il 4,4% una proliferativa mesangiale (classe II) (Figura 2). L’analisi istologica nei gruppi non ha mostrato differenze in termini di classi istologiche e di attività di malattia nei tre periodi, ma si è riscontrata una significativa progressiva riduzione dell’indice di cronicità nei pazienti sottoposti a biopsia dal primo al terzo. Quest’ultimo dato, unito al fatto che i pazienti biopsiati dal 2001 al 2016 presentavano più frequentemente anomalie urinarie isolate al momento della biopsia, conferma l’importanza della diagnosi precoce in termini prognostici [15].

Una seconda biopsia renale è indicata in caso di peggioramento della funzione renale, importante aumento della proteinuria o comparsa di sedimento urinario attivo oltre che in caso di non risposta al trattamento [35]. In un recente studio l’indicazione alla rivalutazione istologica potrebbe essere utile per guidare la sospensione della terapia immunosoppressiva [36].

Classe istologica alla biopsia renale dei 499 pazienti con nefrite lupica
Figura 2: Classe istologica alla biopsia renale dei 499 pazienti con nefrite lupica, diagnosticati tra il 1970 e il 2016.

 

Trattamento

L’approccio terapeutico nella NL è guidato dai dati clinico-istologici, in particolare non solo dalla classe istologica ma anche dal grado di attività o cronicità di malattia (activity index) e dalla presenza di lesioni alla biopsia renale, quali l’interessamento tubulo-interstiziale o microangiopatia trombotica.

In accordo con le ultime raccomandazioni EULAR, l’obiettivo della terapia della NL è preservare la funzione renale, ridurre le recidive, controllare le comorbidità e migliorare così la mortalità dei pazienti. Inoltre, è fondamentale prevenire le tossicità iatrogene, in particolare preservare la fertilità [18, 24]. In tutti i pazienti affetti da NL è raccomandata un’adeguata terapia di supporto volta a ridurre il rischio cardiovascolare (controllo delle dislipidemie, sospensione del fumo, controllo del peso corporeo), migliorare i valori di proteinuria (controllo della pressione arteriosa, inibizione del sistema renina angiotensina aldosterone (RAAS)), ridurre il rischio infettivo (di vaccinazioni, profilassi farmacologica per infezioni opportunistiche) e prevenire i danni farmacologici legati a trattamenti prolungati (controllo osteoporosi, screening oncologici e percorsi per preservare la fertilità) [37]. Nelle classi proliferative (III e IV) e nella classe V, accanto alla terapia di supporto, è necessario un trattamento immunosoppressivo. Da decenni l’utilizzo di protocolli terapeutici sempre più mirati, ha migliorato la prognosi di questi pazienti.

Per le classi I e II le attuali raccomandazioni non includono terapia con immunosoppressori ma sola terapia di supporto. Nelle classi III e IV i protocolli terapeutici prevedono una fase di induzione e una fase di mantenimento, oggi definite terapia iniziale e terapia successiva rispettivamente. La terapia iniziale dura 3-6 mesi, ha l’obiettivo di ottenere la remissione della malattia infiammatoria renale acuta ed è basata sull’uso corticosteroidi in associazione a farmaci immunosoppressori. Al fine di ridurre la dose cumulativa dello steroide e degli effetti collaterali ad esso correlati, è raccomandata la somministrazione di steroidi ev ad alte dosi (boli di metilprednisolone con dose cumulativa compresa tra 500 e 2500 mg, suddivisi in 3 boli in 3 giorni consecutivi) seguita da terapia per os (prednisone 0,3-0,5 mg/kg/die), da ridurre a ≤ 7,5 mg/die in 3-6 mesi.  L’utilizzo di prednisone per os (prednisone 1 mg/kg/die) non preceduto dai boli, è indicato in pazienti con bassa severità di malattia. I farmaci immunosoppressori raccomandati come prima linea nella terapia iniziale rimangono la ciclofosfamide (CYC) ev a bassa dose (500 mg ogni 2 settimane per un totale di 6 dosi) o il micofenolato mofetile (MMF) (dose target 2-3 g/die o acido micofenolico allo stesso dosaggio per 6 mesi) [38].

Già dagli anni ‘80 Austin et al (del National Institute of Health, NIH) hanno dimostrato che l’introduzione della CYC ev ad alta dose in aggiunta alla terapia steroidea è associata a un miglior outcome renale rispetto alla sola terapia steroidea. Successivamente Houssiau et al, al fine di ridurre il dosaggio cumulativo della CYC e la tossicità ad essa legata, hanno confrontato un gruppo di pazienti trattati con CYC a bassa dose (schema Euro-Lupus Nephritis Trial, ELNT, 6 boli da 500 mg ogni 14 giorni) con i pazienti trattati con CYC ev ad alta dose (schema del NIH 8 boli 0,75g/m2 ogni mese) e evidenziando una minor incidenza di eventi avversi, in particolare di infezioni severe, nel gruppo di pazienti trattati con CYC a bassa dose [39-41]. Questo studio mostra anche che non ci sono differenze significative in termini di risposta al trattamento nei due schemi, seppur i pazienti dell’NIH presentassero un quadro clinico più severo rispetto ai pazienti dell’ELNT. Pertanto, alte dosi di CYC (0,5-0,7 g/m2 mensilmente per 6 mesi) sono consigliate solo nelle forme più gravi che si presentano con insufficienza renale, necrosi fibrinoide o semilune alla biopsia e quindi con elevato rischio di progressione a ESKD. La CYC può essere somministrata anche per via orale al dosaggio di 1-1,5 mg/kg/die con dose massima di 150 g/die per 2-4 mesi [42]. L’alternativa alla CYC è il MMF, che nelle ultime decadi risulta il farmaco più utilizzato. Lo studio multicentrico Aspreva Lupus Management Study (ALMS) ha dimostrato, infatti, una non inferiorità del MMF se utilizzato al dosaggio di 3 g/die, con pari effetti collaterali ma minor tossicità gonadica rispetto alla CYC; inoltre, il MMF si associa a miglior risposta terapeutica nei pazienti di razza africana e ispanica, sottolineando l’importanza dell’etnia in termini di risposta al trattamento [43]. Le attuali raccomandazioni suggeriscono in caso di non risposta al MMF di avviare trattamento con CYC e viceversa. Nei pazienti non-responder o refrattari alla terapia, il rituximab (RTX), anticorpo monoclonale anti-CD20, rappresenta un’alternativa per la terapia iniziale, pur essendo ancora off-label. Sebbene lo studio LUNAR (Lupus Nephritis Assessment With Rituximab Study), trial clinico randomizzato prospettico, non abbia dimostrato un miglioramento dell’outcome nei pazienti trattati con RTX in associazione a terapia di induzione standard (MMF o CYC) rispetto al placebo, altri studi retrospettivi/osservazionali hanno mostrato come la terapia con RTX si associa a significativa riduzione dell’attività di malattia e della proteinuria; inoltre, è stato dimostrato che possa essere utilizzato come steroid-sparing. Il dosaggio consigliato è di 1000 mg nei giorni 0 e 14 [44-49].

Gli inibitori delle calcineurine (CNI), soprattutto il tacrolimus (TAC), in associazione al MMF (1-2 g/die) costituiscono un’altra alternativa per la terapia iniziale e sono raccomandati principalmente nei pazienti con proteinuria in range nefrosico. Sono controindicati in presenza di malattia renale cronica, di alto indice di cronicità alla biopsia renale e di scarso controllo pressorio. In diversi studi i CNI determinano una remissione completa simile alla CYC ev e al MMF; inoltre, in uno studio randomizzato cinese di 362 pazienti, la combinazione di CNI e MMF, definita terapia multi-tagret, si è dimostrata superiore rispetto alla CYC nel breve termine. Non essendo ancora studiata nelle diverse etnie, la terapia multi-target non risulta ancora tra i farmaci raccomandati come prima linea [50, 51].

Nel gennaio ‘21 la US Food and Drug Administration (FDA) ha approvato l’utilizzo di voclosporina in aggiunta a steroidi e MMF per il trattamento dei pazienti con NL attiva. La voclosporina è un CNI di nuova generazione con una differenza aminoacidica rispetto alla ciclosporina A (CyA) che la rende 4 volte più efficace; presenta un’eliminazione più rapida dei metaboliti e conseguente minor esposizione agli effetti collaterali soprattutto in termini di tossicità renale e miglior controllo lipidico e glucidico rispetto a CyA e TAC rispettivamente [52]. Nello studio randomizzato di fase II AURA-LV su 265 pazienti l’utilizzo di voclosporina, in aggiunta a MMF e steroide, confrontato al placebo dimostrava maggior efficacia in termini di risposta completa a 6 mesi anche se associato a maggior incidenza di eventi avversi [53]. Nello studio successivo, uno studio randomizzato di fase IIII, controllato in doppio-cieco, sono stati studiati 357 pazienti affetti da NL attiva, di diverse etnie, sottoposti a terapia orale con voclosporina o placebo in associazione a MMF e steroide per os a basso dosaggio e con rapido decalage. I pazienti trattati con voclosporina hanno raggiunto la remissione completa in numero più significativo senza differenze di riduzione della funzione renale, aumento della pressione arteriosa o scarso controllo glicemico e lipidico [54]. Questo studio dimostra come voclosporina a basse dosi in associazione alla terapia immunosoppressiva standard può migliorare la prognosi dei pazienti con NL; i limiti di questo studio sono l’esclusione di pazienti con GFR < 45 ml/min e un breve follow-up per la valutazione della nefrotossicità [55]. Anche l’ocrelizumab, anticorpo umanizzato anti CD20, è stato studiato nella NL nello studio BELONG. Lo studio è stato però interrotto per comparsa di un numero significativo di infezioni severe nel gruppo trattato con l’anticorpo monoclonale rispetto al placebo anche se si associava a miglioramento dei livelli di complemento e di ds-DNA [56].

Tra le alternative terapeutiche recentemente approvate nel LES c’è il belimumab, un anticorpo monoclonale umano che si lega al ‘B-cell activating factor’, BAFF, citochina coinvolta nella maturazione dei linfociti B. Questo farmaco è stato registrato per il trattamento del LES in associazione alla terapia standard grazie a una serie di studi controllati.  Nel BLISS-LN 448 pazienti con NL attiva sono stati trattati con belimumab (10 mg/kg) o placebo come terapia di induzione in associazione a MMF o CyC ev a bassa dose. Lo studio ha mostrato una risposta renale significativamente superiore nei pazienti trattati con belimumab rispetto al placebo; nei sottogruppi la significatività veniva raggiunta solo nei pazienti trattati con MMF, ma si manteneva nelle diverse etnie coinvolte. Il belimumab è il primo farmaco biologico che ha ottenuto risultati in termini di outcome primari e secondari. Esso può essere considerato in aggiunta alla terapia standard come steroid-sparing per ridurre le riacutizzazioni e come miglior controllo delle manifestazioni extrarenali [57-59].

Dopo un’adeguata terapia iniziale, è raccomandata la terapia di mantenimento o terapia successiva, che ha l’obiettivo di ridurre le recidive e consolidare la risposta terapeutica evitando le tossicità farmacologiche. Essa si basa sull’uso di steroidi per via orale a basso dosaggio (< 5-7,5 mg/die) in associazione a MMF come prima scelta (1-2 g/die o acido micofenolico 720-1440 mg/die) o AZA (1,5-2 mg/kg/die con dose massima di 150-200 mg/die) per 3-5 anni dopo la remissione completa. Nello studio MANTAIN non ci sono state differenze tra Aza e MMF in pazienti caucasici affetti da NL; nello studio ALMS condotto su diverse etnie il MMF si è dimostrato superiore rispetto ad AZA in termini di mortalità, progressione a ESKD, flares e necessità di terapia rescue. In alternativa a MMF e AZA, anche nella terapia di mantenimento sono indicati i CNI, in particolare nei pazienti con persistenza di elevati valori di proteinuria (TAC 4-6 ng/ml o CyA 60-100 nl/ml). Uno studio italiano randomizzato ha mostrato uguale efficacia di AZA e CyA come terapia di mantenimento nel prevenire le recidive in 75 pazienti con NL proliferativa trattati con boli di steroide e CYC per os come terapia di induzione e poi randomizzati a CyA o AZA per due anni; lo studio non ha mostrato differenze significative di funzione renale e controllo pressorio nei due gruppi. L’uso di CYC ev non è consigliato nel mantenimento in quanto meno efficace e più tossica [43, 60-66].

La durata ottimale della terapia immunosoppressiva non è ancora chiara; le linee guida suggeriscono una durata di almeno 36 mesi di trattamento nei pazienti affetti da NL e almeno 1 anno di remissione completa renale in assenza di manifestazioni extrarenali per poter sospendere la terapia immunosoppressiva [24, 37]. Una terapia di mantenimento più prolungata è consigliata in pazienti di sesso maschile, di etnia africana e ispanica, con glomerulonefrite con semilune o microangiopatia trombotica alla biopsia renale e in pazienti con ds-DNA ad alto titolo. La sospensione della terapia immunosoppressiva deve essere graduale e prevede l’eliminazione in primis della terapia steroidea, quindi dell’immunosoppressore; essendo una malattia sistemica, la terapia va stabilita anche in base alle manifestazioni extrarenali [24].

In tutti i pazienti in classe V è consigliata un’adeguata terapia di supporto al fine di evitare possibili complicanze quali trombosi e dislipidemia. Solo nei pazienti con proteinuria > 1 g nonostante la terapia con inibitori del RAAS o con sindrome nefrosica è raccomandata la terapia immunosoppressiva. Le linee guida indicano come prima linea il MMF (3 g/die o acido micofenolico equivalente per 6 mesi) in associazione a steroide ev seguito da terapia steroidea per os (0,5 mg/kg/die); CYC ev e CNI (soprattutto TAC) sono indicati come alternative. I CNI possono essere somministrati in monoterapia o in associazione al MMF soprattutto nei pazienti con sindrome nefrosica. Il RTX può essere considerato nei pazienti non responder [24, 37, 67-69]. Se in associazione a classe III o IV, la nefropatia membranosa lupica va trattata come le classi proliferative.

La classe VI non richiede alcun trattamento immunosoppressivo, ma l’avvio al follow-up della malattia renale cronica.

L’idrossiclorochina (HCQ), antimalarico, è indicata in tutti i pazienti affetti da LES, se non controindicato, al dosaggio di ≤ 5 mg/kg aggiustato nei pazienti con GFR< 30 ml/min; a essa, infatti, si associa minor rischio di sviluppare NL nei pazienti con LES e in associazione alle terapie immunosoppressive riduce le recidive, rallenta la progressione a ESKD, aumentando così la sopravvivenza di questi pazienti. Può essere utilizzata anche in gravidanza.

 

Risposta alla terapia e ‘flare’ di malattia

La risposta renale al trattamento viene valutata in termini di remissione completa (RC), intesa come riduzione della proteinuria a 0,5-0,7 g/die entro 12 mesi dall’inizio del trattamento e remissione parziale (RP) con proteinuria ridotta di almeno il 50% entro 6 mesi, entrambe in presenza di stabilità della funzione renale. Nei pazienti con proteinuria in range nefrosico il tempo per valutare la risposta arriva sino a 12 mesi.  La proteinuria a un anno dall’inizio del trattamento rappresenta, infatti, il miglior predittore di outcome renale a lungo termine [17, 40, 62, 70-71].

Le recidive sono molto frequenti nei pazienti affetti da NL e si associano a peggior outcome renale. Per ‘flare’ o recidiva di malattia si intende un incremento di attività di malattia che richiede una modifica terapeutica. I flares sono classificati in proteinurici e nefritici e severi e non severi. I principali fattori di rischio correlati alla comparsa di recidive sono giovane età < 30 anni alla diagnosi, sesso maschile, etnia afro-americana, ritardo diagnostico-terapeutico, bassi livelli di C4, risposta parziale, rialzo dei ds-DNA, ipertensione arteriosa, bassa dose di immunosoppressione e manifestazioni extrarenali di LES severe quali coinvolgimento del sistema nervoso centrale [72-74].

 

Outcome e conclusioni

Negli ultimi 50 anni la prognosi dei pazienti affetti da NL è significativamente migliorata, con un aumento del tempo di progressione a insufficienza renale e una riduzione della mortalità. In una metanalisi sul rischio di ESKD in pazienti di diverse etnie affetti da NL dal 1970 al 2015, Teckidou et al descrivono un significativo miglioramento dagli anni ‘70 agli anni ‘90, legato all’introduzione della ciclofosfamide, con una successiva stabilizzazione della progressione a ESKD e della sopravvivenza negli ultimi decenni [17].  Nella coorte italiana di 499 pazienti sopradescritta, principalmente costituita da pazienti caucasici, lo sviluppo di malattia renale cronica e ESKD si è significativamente ridotto negli anni (dal 7,9% e 24,8% dei pazienti del periodo 1970-1985 contro il 4,5% e l’1,3% del periodo 2001-2016 rispettivamente), con un ESKD-free survival a 10 e 20 anni del 87% e 80% nel primo gruppo, del 94% e 90% nel secondo gruppo e del 99% nel terzo gruppo. Allo stesso modo nei pazienti diagnosticati e trattati negli ultimi anni è stato registrato un incremento significativo della remissione completa (ottenuta nel 58% dei pazienti con diagnosi dal 2001 al 2016 contro il 49,6% nel primo periodo). Anche la riduzione della mortalità nell’ultimo lasso di tempo rispetto agli altri è statisticamente significativa [15]. I fattori demografici che influenzano negativamente l’outcome renale sono il sesso maschile e l’etnia, con un miglior outcome nei caucasici rispetto agli africani e agli asiatici; i fattori clinici includono la presenza di proteinuria nefrosica, di anemia, di insufficienza renale e giovane età al momento della biopsia renale e di ipertensione arteriosa non controllata e aumentato rischio cardiovascolare durante il follow-up; infine, dal punto di vista istologico le classi istologiche proliferative III e IV sono quelle caratterizzate da decorso clinico più aggressivo e peggior prognosi.

In conclusione, pur essendo migliorata la prognosi di questi pazienti, la NL rimane un importante fattore prognostico negativo nei pazienti affetti da LES e diagnosi precoci, terapia immunosoppressive mirate, adeguate terapie di supporto con prevenzione e miglior gestione delle complicanze sono fondamentali nel determinare la prognosi di questi pazienti.

 

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Anti-Glomerular Basement Membrane Disease: new insights on an old disease

Abstract

Anti-glomerular basement membrane disease is a rare small-vessel immune-complex vasculitis (incidence <1/1.000000/year), characterized by the presence of serum antibodies directed against glomerular and pulmonary basement membrane antigens. It is characterized by rapidly progressive crescentic glomerulonephritis, active urinary sediment, subnephrotic proteinuria and oligo-anuria, often coupled to alveolar haemorrage. The main renal lesion on histology specimen is the presence of crescents, often associated to fibrinoid necrosis and linear pattern anti-glomerular basement membrane antibodies positivity on direct immunofluorescence. Lung involvement can be determined clinically, radiologically or by bronchoscopy, by isolation of macrophagic hemosiderin deposits. In order to rapidly remove the pathogenetic autoantibody, plasmapheresis is the mainstay of treatment, associated with cyclophosphamide and steroids, both to control the inflammation and reduce antibody production. A deep knowledge of the pathogenetic mechanisms involved in the anti-GBM disease is mandatory to reach a more and more appropriate diagnostic-therapeutic approach: on one hand, new triggers of the disease (SARS-COV2 infection) and new pathogenetic autoantigens (laminin-521, peroxidasin) have been identified; on the other hand, new therapeutic approaches to lower antibody clearance emerged. The monoclonal anti-CD20 antibody Rituximab can be reasonably used in refractory disease with persistence of antibody anti-GBM, or where standard therapy is not suitable. IdeS (Immunoglobulin G degrading enzyme of Streptococcus pyogenes), which cleaves pathogenetic IgG in a specific site, could be used in place of apheresis, if associated with immunosuppressive therapy. New studies are necessary to better understand pathogenesis, etiology, and treatment options. Key words: Anti-GBM, vasculitis, laminin-521, COVID-19, RItuximab, IdeS

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Introduzione

La malattia da anticorpi anti-membrana basale glomerulare (AA-MBG) è una rara vasculite dei piccoli vasi causata da immuno-complessi (come classificata nel Revised International Chapel Hill Consensus Conference Nomenclature of Vasculitides del 2012) [1]. Questa interessa i capillari glomerulari e/o quelli polmonari ed è caratterizzata dalla presenza di anticorpi sierici diretti contro gli antigeni della membrana basale. Clinicamente si presenta con emorragia alveolare e glomerulonefrite crescentica rapidamente progressiva. La malattia di Goodpasture fu descritta per la prima volta da Stanton e Tange nel 1958 [2] in onore di Ernest Goodpasture, che nel 1919 l’aveva identificata per la prima volta, scambiandola per un caso atipico di influenza [3]. Fino al 1964 la malattia ha avuto una diagnosi prettamente clinica; in seguito, con l’avvento delle tecniche di immunofluorescenza, Scherr, Grossman, Wilson e Dickson hanno descritto rispettivamente la deposizione lineare delle IgG a livello delle MBG e la glomerulonefrite (GN) da AA-MBG in toto [4, 5]. L’eponimo “Malattia di Goodpasture” è rimasto di uso comune per identificare interessamento renale e polmonare di pazienti in cui si era dimostrata la presenza di AA-MBG. Tuttavia, come emerge dalla letteratura, l’assenza degli anticorpi specifici non esclude la presenza della forma atipica della malattia, caratterizzata da antigeni (es. laminina-521 (LM521), perossidasina), epitopi o sottoclassi IgG atipici, quindi non rilevati dai kit di laboratorio attualmente disponibili in commercio [6, 7].

 

Epidemiologia

L’AA-MBG è una malattia rara, con un’incidenza inferiore ad 1/1.000000/anno nelle popolazioni europee: rappresenta l’1-2% di tutte le glomerulonefriti ed il 10-15% di tutte le glomerulonefriti crescentiche rapidamente progressive. La distribuzione per età è di tipo bimodale (terza e sesta decade) con picco di incidenza nella terza decade e lieve prevalenza maschile [8]. La presentazione renale e polmonare concomita prevalentemente nella terza decade mentre negli anziani è più comune l’interessamento renale isolato [8-12].

Nel 21-47% dei pazienti è possibile riscontrare positività per anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili (ANCA) con prevalenza per gli anti-mieloperossidasi (MPO) [6, 9, 13-19].

Alcuni fattori ambientali quali fumo di sigaretta ed inalazione di idrocarburi possono contribuire allo sviluppo di sintomatologia polmonare: l’infiammazione locale indotta dall’inalazione delle tossine altera la permeabilità capillare e la struttura quaternaria della membrana basale alveolare, esponendo antigeni sequestrati agli autoanticorpi [8, 20-24].

 

Eziologia e patogenesi

L’AA-MBG è dovuta ad una reazione autoimmune ai danni di componenti della membrana basale polmonare e glomerulare. Nella sua forma più comune, la risposta autoimmunitaria è data dalla produzione di anticorpi specifici diretti contro l’“antigene Goodpasture”, ovvero gli epitopi EA ed EB del dominio non-collagenosico (NC1) della catena α3 del collagene IV, che è normalmente sequestrato all’interno della struttura quaternaria (nel siero dei pazienti possono essere presenti anticorpi con titolo inferiore diretti contro altre catene del collagene, forse prodotti secondariamente alla risposta primaria contro la catena α3) [6, 8, 25-27].

Nei pazienti con doppia positività AA-MBG e ANCA la presenza degli ANCA induce infiammazione a livello glomerulare e quindi predispone l’esposizione degli epitopi del collagene, stimolando la produzione di anticorpi specifici [8, 28].

Negli ultimi anni, tuttavia, nuovi studi hanno dimostrato che pazienti con positività per AA-MBG possono presentare anche anticorpi anti-perossidasina (una perossidasi extracellulare che contribuisce alla creazione dei cross-link sulfiliminici che stabilizzano gli NC1 opposti nella molecola del collagene) o anti-laminina-521 (LM 521, un componente della membrana basale matura) [6, 29].

Come capita per molte malattie autoimmuni, per la Malattia di Goodpasture sono stati identificati fattori genetici predisponenti, come il fattore HLA di tipo II DRB*1501: l’esposizione a fattori scatenanti (fumo di sigaretta, inalazione di idrocarburi, litotrissia, vasculite ANCA-associata (VAA), infezione da SARS-COV2) può più facilmente indurre in questi pazienti modifiche conformazionali della struttura della membrana basale, con conseguente slatentizzazione della malattia [6, 8, 30-32]. Inoltre, parallelamente alla risposta umorale, anche le cellule T hanno un ruolo diretto nella patogenesi (come dimostrato dalla presenza di infiltrato infiammatorio mononucleare nei reperti bioptici), forse per una autoreattività determinata da multipli fattori (non sono stati ad oggi identificati epitopi patogeni delle cellule T nell’uomo), che favorisce lo sviluppo dell’autoimmunità per alterazione della membrana basale e conseguente esposizione degli epitopi chiave [8, 33-40].

 

Presentazione clinica e diagnosi

Malattia da AA-MBG tipica

Nella maggioranza dei casi (80-90%), la malattia si presenta con una glomerulonefrite crescentica rapidamente progressiva, caratterizzata da sedimento urinario attivo, proteinuria subnefrosica e oligo-anuria, accompagnata da emorragia alveolare nel 40-60% dei casi. Nel 10% dei casi la presentazione è atipica, con titolo anticorpale anti-MBG variabile, prevalenza di coinvolgimento polmonare più o meno grave, e minimo o nessun interessamento renale.

La presenza di emorragia alveolare può essere determinata clinicamente, radiologicamente o tramite broncoscopia, con riscontro al lavaggio bronco-alveolare di depositi macrofagici di emosiderina.

La diagnosi di malattia da AA-MBG è posta sulla base della presenza di AA-MBG sierici (prevalentemente IgG1 e IgG3); in caso di coinvolgimento renale, il gold-standard è la biopsia renale, caratterizzata da positività all’immunofluorescenza diretta per AA-MBG con pattern lineare. Alla microscopia ottica, la lesione cardine è costituita da semilune floride, spesso associate a necrosi fibrinoide, presenti nel 95% dei pazienti nel 90-100% dei glomeruli. La microscopia elettronica invece ha scarsa utilità, se non per determinare la presenza di eventuali concomitanti glomerulopatie [7, 8].

Varianti della Malattia da AA-MBG

Nel 10% dei casi, la malattia da AA-MBG ha una presentazione clinico-laboratoristica atipica. La letteratura ne è ricca: vi sono casi di positività ad AA-MBG di classe IgG4, non rilevati dai kit convenzionali, associati a manifestazione cliniche severe ma quasi esclusivamente renali e vi sono casi con AA-MBG sierici negativi, immunofluorescenza su preparato renale positiva in assenza di semilune alla microscopia ottica e manifestazioni cliniche modeste sia da punto di vista renale che polmonare [7, 8, 41, 42].

Sono descritti inoltre casi in cui coesiste una nefropatia membranosa (NM) anti-recettore della fosfolipasi A2 negativa o una positività per ANCA (GN associata a doppia positività ANCA/anti-MBG). Nel primo caso, i pazienti presentavano una malattia da AA-MBG meno aggressiva, ma con proteinuria più elevata, quadro istologico renale con caratteristiche di NM ed un numero inferiore di semilune [7, 43].

Il 21-47% di pazienti con malattia da AA-MBG presenta ANCA-positività (70% ANCA-MPO, 27% ANCA-PR3, 3% ANCA-MPO/PR3), mentre solo il 10% dei pazienti con VAA presenta positività per AA-MBG. Non è certo quale sia il meccanismo che porti alla doppia positività, ma è stato dimostrato che la positività degli ANCA precede quella degli AA-MBG, suggerendo che sia il processo infiammatorio a livello glomerulare ad indurre lo sviluppo della malattia da AA-MBG. La prognosi di questi pazienti è nettamente peggiore rispetto a quelli con positività esclusiva ad AA-MBG, sia in termini di mortalità che di recidive a distanza, quest’ultime paragonabili ai pazienti con VAA. Per questo motivo, necessitano di un follow-up più stretto e di una terapia immunosoppressiva di mantenimento [6-8, 13-19].

Malattia da AA-MBG post-trapianto

In caso di malattia renale terminale, si può ricorrere al trapianto con buona sopravvivenza. Tuttavia, se effettuato in presenza di AA-MBG, nel 50% dei casi si assiste a recidiva di malattia sul graft. Per questo motivo è raccomandata la persistenza di siero-negatività per almeno 6 mesi prima di essere sottoposti a trapianto renale [7, 8, 44].

Malattia da AA-MBG post-trapianto nella Sindrome di Alport

La Sindrome di Alport è dovuta a mutazione di geni che codificano le catene tessuto specifiche del collagene di tipo IV, prevalentemente α5. Dopo il trapianto renale, l’esposizione degli antigeni presenti sulla membrana basale glomerulare del graft e precedentemente sconosciuti al sistema immunitario dell’host, può comportare lo sviluppo di AA-MBG. Contrariamente a quanto succede per la malattia da AA-MBG classica, non vi è una risposta agli epitopi EA ed EB della catena α3, ma a degli epitopi specifici della catena α5. Per questo motivo, gli AA-MBG non sono sempre dosabili nel siero dei pazienti (solo nel 5-10%) e anche la clinica, probabilmente a causa della terapia anti-rigetto, è raramente grave. Quando si sviluppa, ad ogni modo, è generalmente molto precoce e spesso porta a fallimento del graft [7, 8].

Malattia da AA-MBG da Alemtuzumab

L’alemtuzumab è un anticorpo monoclonale anti-CD52 utilizzato nel trattamento della sclerosi multipla che può determinare l’insorgenza di nefropatia membranosa e malattia da AA-MBG nella fase di ripopolazione linfocitaria, per elevata autoreattività. In caso di utilizzo del alemtuzumab per altre necessità (es. farmaco di induzione al trapianto renale) non sono stati descritti casi di malattia da anti-GBM (nel caso del trapianto, probabilmente a causa dell’immunosoppressione massiva) [45-47].

Malattia da AA-MBG in gravidanza

È estremamente rara, ma nei casi descritti si presenta prevalentemente nel secondo trimestre: a causa del passaggio degli anticorpi IgG attraverso la barriera placentare, può scatenare una sindrome rene-polmone nel feto con conseguente aborto (spontaneo o indotto) o parto di feto morto [47-49].

 

Trattamento

Il trattamento, fin dal 1976 e ancora approvato dalle linee guida, consiste in sedute di plasmaferesi (PLEX) per rimuovere rapidamente l’autoanticorpo (specialmente in caso di severo coinvolgimento polmonare) in associazione a ciclofosfamide (CYC) e corticosteroidi (CS) sia per controllare l’infiammazione, sia a scopo immunosoppressivo per bloccare la produzione anticorpale (Tabella I) [8, 50, 51].

Il vantaggio di un rapido avvio della PLEX, e la conseguente rapida riduzione del titolo degli anticorpi (circa 60-65% per seduta), ha un impatto sulla prognosi sia renale che del paziente [8, 12, 52].

Un’alternativa alla PLEX è l’immunoadsorbimento (IA), una tecnica extracorporea che, a seconda del sistema utilizzato, consente la rimozione del 71-86% degli autoanticorpi per sessione, con l’ulteriore vantaggio di minimizzare le reazioni allergiche poiché non necessità di sostitutivi proteici (albumina) o accessi venosi centrali [52, 53]. 

CS CYC PLEX/ IA

Dose iniziale:

  • Prednisone 1 mg/kg per os (max 60 mg)
  • Metilprednisolone ev 1g/die per 3 giorni consecutivi e poi per os
  • Riduzione a 20 mg/die entro 6 settimane
  • Sospensione entro 6 mesi

Dose iniziale: 2-3 mg/kg per os

  • Adeguare per funzione renale (riduzione del 25% se eGFR 45-59 ml/min; del 40% se eGFR 30-44 ml/min; del 50% se eGFR 15-29 ml/min; del 60% se eGFR <15 ml/min o dialisi)
  • Max 2 mg/kg se età > 55 anni
  • Se leucopenia 75% della dose
  • Da proseguire per 3 mesi
  • Non ci sono dati sufficienti sulla somministrazione in bolo

PLEX:

1–1.5 di volume plasmatico (massimo 4000 ml) or 60 ml/kg, utilizzando albumina o plasma fresco congelato. Giornalmente fino alla scomparsa/titolo non significativo degli autoanticorpi

IA:

  • Pazienti allergici a emoderivati
  • Peso corporeo superiore a 80/90 Kg (con la PLEX non possono essere raggiunti i volumi ideali)
Tabella I: Terapia della malattia da AA-MBG [6-8,50-53].

 

Outcome e terapia di mantenimento

La letteratura concorda su una sopravvivenza ad un anno pari all’80-90%, con sopravvivenza renale strettamente dipendente dal grado di alterazione della funzione renale alla diagnosi, preservazione della diuresi e necessità di emodialisi in corso di malattia [7].

Le recidive sono piuttosto rare (intorno al 3%) e spesso associate alla continua esposizione ad irritanti polmonari (es. fumo, idrocarburi). In questi casi non esistono delle indicazioni precise nelle linee guida per cui si opta per l’immunosoppressione con steroidi e citotossici; negli ultimi anni si sono avuti buoni risultati con il Rituximab (RTX) [8, 12, 47, 50, 54-57].

In assenza di recidive, a meno di malattie concomitanti (es. doppia positività con ANCA, specialmente PR3 o nefropatia membranosa), la terapia di mantenimento non è generalmente necessaria oltre i 6 mesi richiesti per il decalage dello steroide [6-8, 47, 50].

 

Nuovi risvolti di una malattia antica

Nuovi autoantigeni: laminina-521

Il repertorio di autoantigeni coinvolti nella malattia da AA-MBG è in espansione: la laminina è una glicoproteina di membrana, uno dei maggiori costituenti della membrana basale. Ne esistono almeno 16 isoforme tessuto-specifiche, con una struttura trimerica assemblata da un repertorio di 5 catene a, 4 b e 3 g [58].

La laminina riveste il ruolo di autoantigene in diverse malattie autoimmuni: la laminina-332 nel pemfigoide mucoso, la laminina gi nel pemfigoide anti-p200 e nel lupus eritematosus cutaneo, la laminina-511 nella pancreatite autoimmune [59, 60].

La laminina-521 (LM521, a5b2g1) è l’isoforma maggiormente rappresentata nella membrana basale glomerulare matura e si trova in quantità relativamente più abbondante nella MB alveolare; il suo ruolo nella patogenesi della malattia è stato indagato inizialmente in modelli animali: topi transgenici per la catena a5 della laminina umana (LAMA5) sono stati incrociati con femmine wild-type. Alla prima gravidanza le femmine hanno sviluppato una risposta anticorpale anti-LAMA5: nelle gravidanze successive, il trasferimento placentare delle IgG materne tramite sacco vitellino ha comportato lo sviluppo di glomerulonefrite anti-GBM nei neonati transgenici (non nei wild-type) [61].

Sulla base dei dati precedenti, il ruolo patogenetico della laminina-521 nell’uomo è stato indagato in uno studio retrospettivo: sono stati testati 101 pazienti con AA-MBG e 185 controlli (30 controlli sani e 155 controlli con malattia renale) tramite un dosaggio immunologico a fase solida in grado di misurare le IgG specifiche per la laminina-521 ricombinante, con struttura ed attività simili a quella nativa. Anticorpi anti-laminina-521 (prevalentemente IgG1 e IgG4) sono stati individuati nel 33% dei pazienti con AA-MBG ma in nessun controllo sano, né con altra malattia glomerulare. In particolare, gli anticorpi sono stati rilevati nel 51,5% dei pazienti con coinvolgimento di malattia sia renale che polmonare, contro un 33% dei pazienti con coinvolgimento esclusivamente renale (P=0.005). La presenza degli anticorpi era associata significativamente alla presenza di emorragia alveolare (P=0.005), emottisi (P=0.008) e fumo di sigaretta (P=0.01), senza alcuna associazione con marcatori di danno renale [62].

In conclusione, gli anticorpi anti-laminina 521 hanno un ruolo patogenetico nella malattia da anti-GBM, in particolare potrebbero contribuire al coinvolgimento polmonare di malattia [29].

Nuovi trigger di malattia: la pandemia da SARS-COV2

La presenza di cluster spazio-temporali di malattia da AA-MBG ha lasciato spazio all’idea che fattori ambientali, fra cui quelli infettivi, possano contribuire allo sviluppo della patologia [2, 4].

Durante la pandemia da SARS-COV2, un cluster di malattia è stato identificato nell’area geografica a nord-ovest di Londra: fra dicembre 2020 ed aprile 2021 sono stati diagnosticati 8 nuovi casi, 5 volte di più rispetto all’incidenza attesa di 1.5 milioni/anno. Tutti i pazienti hanno sviluppato sintomi prodromici aspecifici: il test molecolare anti-SARS-COV2 alla presentazione è risultato negativo nei 5 pazienti testati; tuttavia, in 4 pazienti su 8 sono stati riscontrati livelli circolanti di IgM e/o IgG, suggerendo infezione pregressa. Due ulteriori case report hanno proposto la stessa associazione [30-32].

Sebbene l’associazione causale sia solo speculativa, l’infezione da SARS-COV2 potrebbe stimolare una risposta immunitaria aberrante che si renderebbe evidente a settimane dalla risoluzione dell’infezione acuta, sviluppando una AA-MBG.

Nuove terapie per la clearance anticorpale

Rituximab

Recentemente il RTX è diventato un farmaco di largo impiego nel campo delle glomerulonefriti, in particolare nelle vasculiti ANCA-associate, nella nefrite lupica e nella nefropatia membranosa [63-65].

Negli ultimi anni numerosi case-report e reviews hanno indagato l’uso del RTX nella terapia della malattia da AA-MBG, in associazione alla terapia classica ed in sostituzione della CYC. Il RTX è un’opzione terapeutica teoricamente valida: il ruolo patogenetico degli AA-MBG è stato precedentemente dimostrato su modelli animali e in studi clinici [8, 66] e la terapia si basa sulla rapida eliminazione degli anticorpi patogenetici. Inoltre, l’interazione B-T cellulare precede e stimola lo sviluppo anticorpale: cellule B e T sono state riscontrate a livello renale [67].

Il RTX è un anticorpo monoclonale chimerico anti-CD20: il CD20 è un antigene di membrana specifico dei linfociti B e coinvolto sia nella differenziazione B cellulare e produzione anticorpale, che nella stimolazione B-T cellulare.

Jain et al. hanno comparato 22 case-reports presenti in letteratura: in 14 casi su 15, l’uso del RTX nelle forme refrattarie alla terapia classica o recidivanti ha comportato una rilevante riduzione dei livelli di AA-MBG circolanti con risoluzione della sintomatologia associata, senza tuttavia permettere la sospensione della terapia dialitica dove iniziata; inoltre, se utilizzato come regime primario in sostituzione della ciclofosfamide, il Rituximab sembrerebbe facilitare la rapida riduzione dei livelli anticorpali circolanti, senza però preservare necessariamente la funzione renale.

La dose di RTX utilizzata è variabile nei diversi studi: 375 mg/m2 per 2-6 settimane o 1000 mg 1 o 2 dosi a 2 settimane. Inoltre, la PLEX rimuove dal plasma circa il 65% del farmaco, che deve quindi essere somministrato dopo la seduta e almeno 48 ore prima dalla seduta successiva [57, 68].

Data la rarità e severità della patologia, non esistono attualmente in letteratura studi controllati e randomizzati che confrontino RTX con la terapia standard, né esiste evidenza sulla terapia delle forme di malattia refrattarie o recidivanti. Sulla base dei dati a disposizione, il RTX può essere ragionevolmente utilizzato nei casi di malattia refrattaria alla terapia standard con persistenza di AA-MBG; può essere inoltre un’alternativa alla terapia standard nei casi questa non fosse consigliata (es. nei pazienti giovani al posto della CYC per preservare la fertilità) [57].

Imlifidase (IdeS)

Nell’ottica di ottenere un rapido ed efficace cleavage anticorpale, fra le nuove terapie in studio si annovera l’endopeptidasi IdeS (Immunoglobulin G degrading enzyme of Streptococcus pyogenes), comunemente conosciuta con il nome di Imlifidase. L’IdeS cliva le IgG in un sito specifico a livello della regione cerniera, generando frammenti F(ab’)2 e Fc ed inibendo la citotossicità complemento mediata ed il richiamo di neutrofili [69].

Scoperta da Bjork nel 2008, ha mostrato risultati promettenti in diversi modelli animali di malattie autoimmuni (es. porpora trombotica trombocitopenica, malattia di Guillan Barrè e glomerulonefriti) causando una rapida e specifica clearance delle IgG circolanti, senza riscontro di effetti avversi [70, 71]. Jordan et al. hanno somministrato Imlifidase in 25 pazienti con elevata sensibilizzazione HLA in attesa di trapianto renale da donatore con HLA incompatibile, permettendo una desensibilizzazione efficace in 24 su 25 pazienti, con sospensione dell’aferesi [72].

Sulla base dei dati precedenti, l’IdeS è stata introdotta nella gestione della malattia da AA-MBG come terapia vicariante PLEX/IA nelle forme non responsive. In pregressi modelli animali, il pretrattamento con IdeS aveva permesso una riduzione sia dei livelli di IgG circolanti, che dei depositi lineari di IgG su biopsia renale (90% in meno rispetto ai controlli), rimuovendo la porzione Fc degli anticorpi legati alla membrana basale glomerulare e prevenendo il danno indotto da complemento e neutrofili [73].

Nel 2019 Soveri et al. hanno trattato con IdeS 3 pazienti con glomerulonefrite da anti-MBG refrattaria alla terapia. I pazienti non avevano coinvolgimento polmonare ed erano sottoposti a terapia dialitica sostitutiva (creatinina all’ingresso: 534, 837 e 2046 mmol/L). La percentuale di semilune glomerulari alla biopsia renale, direttamente proporzionale alla prognosi di malattia, era compresa fra l’84% ed il 100%. Una singola dose di Ides (0,25 mg/kg) ha comportato una completa clearance degli anticorpi circolanti in tutti i pazienti entro 2 ore. In confronto, una singola seduta di PLEX rimuove circa il 60% delle IgG totali, necessitando diversi giorni per una riduzione sotto i livelli di tossicità; una seduta di IA comporta una rimozione di circa l’80% delle IgG totali. Tuttavia, dal punto di vista clinico, nessun paziente ha beneficiato di un miglioramento della funzione renale, ma l’output urinario è migliorato in 2 pazienti su 3. L’IdeS ha un effetto transitorio sulle IgG: in tutti i pazienti si è verificato un rebound anticorpale dopo 6-13 giorni, necessitante nuovamente l’uso della PLEX.

Ad una analisi istopatologica, il segmento Fc è risultato assente in tutti i casi: Ides agisce anche a livello dei depositi anticorpali renali. In due pazienti su 3 è stata riscontrata una positività lineare del segmento Fab’ lungo la membrana basale glomerulare, il cui ruolo patogenetico in assenza del frammento Fc è ancora discusso [74].

In uno studio di fase IIa recentemente concluso sono state valutate l’efficacia e la sicurezza di una singola dose di Imlifidase nella terapia della malattia da AA-MBG. Lo studio europeo multicentrico ha incluso 15 pazienti con severo danno renale acuto (eGFR <15 ml/min per 1.73 m2) o refrattari alla terapia, in assenza di anuria da più di 48 ore o non sottoposti a dialisi da più di 5 giorni. All’ingresso 10 pazienti erano in dialisi. Una singola dose di Ides (0,25 mg/kg) ha comportato una completa clearance degli anticorpi circolanti in tutti i pazienti entro 6 ore; tuttavia, nel giro di 7 giorni in media, 10 pazienti hanno necessitato terapia con plasmaferesi per un nuovo aumento dei livelli di IgG. A 6 mesi, 10 pazienti non necessitavano di terapia dialitica (eGFR mediano 27 ml/min/1.73m2), 1 paziente è morto e 4 sono rimasti in dialisi (GOOD-IDES01, NCT03157037).

Per il suo effetto rapido, efficace ma transitorio sulle IgG, l’IdeS può essere utilizzato come sostituto dell’aferesi, se associato a terapia immunosoppressiva che inibisca la produzione anticorpale attiva a origine dai linfociti B e riduca l’entità del noto rebound anticorpale. L’eventuale ripetizione di una seconda dose di IdeS per scongiurare l’effetto rebound non è attualmente indicata: lo sviluppo di una risposta anticorpale anti-farmaco da una parte potrebbe scatenare una risposta da ipersensibilità, dall’altra ridurre l’efficacia del farmaco stesso. Per ora, plasmaferesi ed immunoassorbimento restano terapie fondamentali per la gestione della malattia da anti-GBM.

Non è da escludere la possibilità che la rapida clearance delle IgG IdeS-mediata non abbia necessariamente un correlato clinico, essendo coinvolti nella patogenesi della malattia diversi fattori indipendenti (es. cellule T, IgM). Un maggior livello di evidenza è necessario per stabilire l’utilità clinica di questa nuova opzione terapeutica nella malattia da AA-MBG, stabilirne eventualmente la dose e lo schema adeguato [6, 69].

 

Conclusioni

Nell’era della medicina personalizzata, una profonda conoscenza dei meccanismi patogenetici alla base dell’anti-GBM è necessaria per un’appropriatezza diagnostico-terapeutica sempre maggiore, soprattutto nel campo delle malattie rare. Nuovi studi sono necessari per identificare indicatori clinici e patologici che possano meglio predire la risposta al trattamento.

 

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Il rene sclerodermico

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La sclerosi sistemica (sclerodermia)

La sclerosi sistemica (SSc) o sclerodermia è una malattia autoimmune ad andamento cronico, caratterizzata da lesioni cutanee indurative, alterazioni vascolari (fenomeno di Raynaud, ulcere ischemiche), calcinosi sottocutanea e da molteplici impegni viscerali: polmonare, cardiaco, renale e gastroenterico [13].

L’eziologia della SSc rimane sconosciuta, anche se si ritiene che diversi elementi capaci di indurre un danno endoteliale (sostanze chimiche, agenti infettivi), possano innescare le alterazioni del microcircolo che caratterizzano la malattia in soggetti che abbiano una predisposizione genetica all’autoimmunità [46].

La disfunzione endoteliale determina la liberazione di endotelina, potente vasocostrittore, e di chemochine stimolanti l’attivazione di cellule immunocompetenti (B e T linfociti); questa provoca inoltre un’attivazione delle piastrine, che producono mediatori (PDGF) stimolanti i fibroblasti. Anche le T cellule liberano mediatori (TGFbeta, CTGF) che determinano la trasformazione dei fibrociti in miofibroblasti. Queste cellule esplicano una sintesi non controllata di collagene e di altre componenti della matrice extracellulare, che porta alla fibrosi dei tessuti [7].

La SSc si caratterizza per una espressività clinica molto eterogenea. In base alla estensione del coinvolgimento cutaneo si riconoscono principalmente due subset di malattia [8, 9]:

  • forma cutanea diffusa (20-25% dei casi) caratterizzata da una rapida evolutività, da lesioni cutanee indurative estese che oltre agli arti coinvolgono il tronco, da impegni viscerali frequenti e precoci e quindi da una prognosi più severa;
  • forma cutanea limitata (70-75% dei casi) caratterizzata da sclerosi cutanea limitata alle zone acrolocalizzate (mani e volto), da calcinosi sottocutanea, teleangectasie da coinvolgimenti viscerali poco frequenti, a parte l’apparato digerente e tardivamente l’ipertensione arteriosa polmonare; questa forma ha quindi una prognosi più favorevole.

La SSc viene classificata fra le malattie rare. La malattia può manifestarsi in tutte le età, ma il picco d’insorgenza è tra i 40 e i 50 anni. Colpisce più le donne che gli uomini, con un rapporto F:M da 6 a 8:1 nelle principali casistiche.

Sintomo di esordio della SSc è in oltre il 90% dei pazienti il fenomeno di Raynaud. Rilevanti ai fini della diagnosi precoce sono la positività di anticorpi antinucleo specifici (anti-centromero, anti-topoisomerasi I, antiRNApolimerasi III) [10] e la presenza di caratteristiche alterazioni del microcircolo alla capillaroscopia [11, 12]. I diversi anticorpi specifici sono anche correlati con le diverse forme di SSc, con l’evolutività della malattia e con gli impegni d’organo [13].

Ritornando alle manifestazioni cliniche, alcune sono una evidente espressione della microangiopatia dovuta alla disfunzione endoteliale: il fenomeno di Raynaud, le teleangectasie, le ulcere digitali, la crisi renale sclerodermica, l’ipertensione arteriosa polmonare. Alla disregolazione immunitaria sono riconducibili lesioni infiammatorie quali l’artrite, la miosite e le tendiniti. Dovute alla fibrosi sono l’indurimento cutaneo tipico della malattia, l’ipoperistaltismo della parete del tubo digerente, la fibrosi polmonare e la cardiomiopatia sclerodermica.

Fra gli impegni viscerali il più frequente è quello polmonare, seguito da quelli gastro-enterico, cardiaco e renale [14].

 

Il rene sclerodermico

Il coinvolgimento renale nella SSc può manifestarsi con diverse modalità (Figura 1) [15]. Anche se studi autoptici hanno mostrato alterazioni renali, soprattutto vascolari, nel 60-80% dei pazienti, nella maggior parte dei casi la nefropatia rimane subclinica [16]. Tra queste sono descritte una riduzione isolata del filtrato glomerulare, una proteinuria non significativa, la “stiffness” delle arterie intrarenali all’ecografia, una nefropatia associata agli anticorpi antifosfolipidi. Sono invece causa di nefropatia severa la cosiddetta “crisi renale sclerodermica” e la vasculite renale ANCA-associata.

Molti pazienti presentano una nefropatia cronica a lenta progressione, con una riduzione del GFR di lieve entità e con valori di creatinina sierica mantenuti entro i limiti di norma.

Figura 1: Modalità di manifestazione del coinvolgimento renale nella sclerosi sistemica.
Figura 1: Modalità di manifestazione del coinvolgimento renale nella sclerosi sistemica.

 

Una proteinuria non significativa (inferiore a 1 g/die), è stata descritta nel 20-25% dei pazienti con SSc [17].

Studi ultrasonografici longitudinali hanno dimostrato una aumentata stiffness dei vasi intrarenali nei pazienti, nella maggior parte dei casi senza una decurtazione della funzione [18].

Gli anticorpi antifosfolipidi sono positivi in una percentuale molto variabile di pazienti sclerodermici, ma pochi sviluppano le manifestazioni trombotiche dovute a questi anticorpi [19]. È stata segnalata la correlazione tra la positività di tali anticorpi e la riduzione del filtrato glomerulare [20].

Meno del 10% dei pazienti con SSc presenta una vasculite ANCA-associata (di solito correlata agli anticorpi anti-MPO, raramente agli anti-PR3). Sono quasi tutti affetti dalla forma limitata di SSc, e la complicanza renale insorge tardivamente, dopo molti anni di malattia. Si tratta di una glomerulonefrite dovuta alla interazione degli ANCA con l’endotelio del polo vascolare e alla conseguente lesione infiammatoria del glomerulo [21]. Clinicamente la vasculite si manifesta con una insufficienza renale progressiva a decorso subacuto e con ipertensione arteriosa di lieve entità, che non risponde agli ACE-inibitori. Gli esami di laboratorio mostrano un progressivo incremento della creatinina sierica, con proteinuria e microematuria. Per la diagnosi è indispensabile la biopsia renale, che mostra un quadro di glomerulonefrite extra-capillare, con necrosi focale segmentaria, infiltrati infiammatori e semilune [22].

 

La crisi renale sclerodermica

La forma più tipica di nefropatia nella SSc è la cosiddetta “crisi renale sclerodermica” (SRC). Si tratta di una insufficienza renale ad esordio acuto e ad evoluzione rapidamente progressiva, in circa il 90% dei casi accompagnata da ipertensione arteriosa severa (“maligna”) e nel 40-50% da microangiopatia [2325].

Questa è dovuta ad un danno endoteliale che determina un ispessimento intimale ed un restringimento del lume nelle arterie renali interlobulari ed arcuate. Alla ipoperfusione intrarenale contribuiscono anche episodi di vasospasmo (cosiddetto fenomeno di Raynaud “renale”). La riduzione del flusso porta ad iperplasia dell’apparato iuxtaglomerulare, con aumentata liberazione di renina ed ipertensione arteriosa ingravescente. L’iper-reninemia è a sua volta causa di vasocostrizione e di ischemia renale [26]. La vasocostrizione è dovuta anche all’endotelina-1, i cui recettori sono over-espressi nei pazienti con SRC [27]. Alla patogenesi della SRC possono contribuire anche alterazioni nella attivazione e nel clivaggio di frazioni del complemento [28].

La SRC colpisce il 10-15% dei pazienti con forma cutanea diffusa, mentre è molto rara in quelli con forma cutanea limitata [29]. Un tempo, in era predialitica, costituiva la prima causa di morte nella SSc, negli ultimi anni è diventata progressivamente più rara [30]; si ritiene che alla riduzione della incidenza della SRC abbia molto contribuito l’ampia prescrizione di farmaci vasodilatatori (calcio-antagonisti e prostanoidi) nei pazienti sclerodermici, che potrebbe esplicare effetti benefici sulla circolazione intrarenale [31].

La crisi renale insorge nella forma diffusa di malattia, di solito nei primi quattro anni dalla diagnosi di SSc. Colpisce più spesso i pazienti con anticorpi specifici anti-RNA-polimerasi III, meno quelli con anticorpi anti-topoisomerasi I [32]. Altri fattori di rischio per la SRC sono lo scompenso cardiaco recente, gli scrosci tendinei e le deformità delle mani in flessione. Rischiano inoltre la crisi renale i pazienti sclerodermici trattati con dosaggi di cortisone superiori a 15 mg/die, oppure con la ciclosporina come immunosoppressore [33, 34].

Clinicamente la SRC si presenta con oliguria e con i disturbi provocati dai livelli molto elevati di pressione arteriosa: scompenso cardiaco (edema polmonare acuto, aritmie e versamento pericardico), encefalopatia ipertensiva (cefalea, crisi epilettiche, emorragia cerebrale), retinopatia di grado avanzato. L’ipertensione arteriosa aumenta rapidamente a valori superiori a 150 mmHg di massima e 90 mmHg di minima, spesso raggiungendo valori da ipertensione “maligna” (superiori a 200/120 mmHg).

Gli esami di laboratorio mostrano un rapido incremento della creatinina sierica, con proteinuria (0,5-1 g/24 ore), microematuria e cilindri granulari al sedimento urinario. I pazienti con microangiopatia presentano anemia emolitica (LDH elevata, riduzione della aptoglobina), trombocitopenia e schistociti nello striscio periferico.

In circa il 10% dei pazienti sclerodermici la SRC si verifica senza rialzo dei valori pressori [35, 36], o con un loro modesto aumento. In assenza della sintomatologia da ipertensione arteriosa la diagnosi è spesso tardiva e basata sulle alterazioni di laboratorio. Per una definizione diagnostica è in questi casi indicata la biopsia renale (che invece usualmente non è necessaria nella SRC). L’esame istologico mostra alterazioni caratteristiche a carico delle arterie interlobulari ed arcuate, con ispessimento intimale, proliferazione delle cellule muscolari lisce, fibrosi periavventiziale e restringimento del lume; le arterie assumono un aspetto di onion skinning. Le biopsie mostrano inoltre collasso ischemico dei glomeruli, atrofia dei tubuli e fibrosi interstiziale, iperplasia dell’apparato iuxtaglomerulare [37, 38].

Sono stati proposti diversi set di criteri diagnostici per la SRC, nessuno unanimemente accettato. I più seguiti, quelli dello UK Scleroderma Study Group, identificano come criteri essenziali l’incremento della pressione arteriosa e l’insufficienza renale acuta (>50% di creatininemia rispetto ai valori basali oppure incremento di almeno 26,5 mmol/L) [39].

La prognosi della SRC rimane ancora severa: la mortalità a 5 anni è del 30-40% [40]. Nel 50-65% dei pazienti l’insufficienza renale acuta richiede la dialisi, permanente nel 25-40% dei casi. È descritta anche la possibilità di un recupero della funzione renale anche dopo 12-15 mesi di dialisi, tale da consentire la sospensione del trattamento, ma in meno del 10% dei casi.

I dati del registro europeo ERA-EDTA hanno mostrato che la sopravvivenza a 5 anni dei pazienti sclerodermici in dialisi è molto minore (38,9%) rispetto a quelli affetti da altre forme di nefropatia cronica (63,6%). La sopravvivenza dei pazienti con SSc a 5 anni dal trapianto è invece risultata elevata (88,2%) e vicina a quella degli altri pazienti nefropatici (89,2%); la sopravvivenza del graft è 74,4% versus 81,5% nei trapiantati con altre patologie renali [41]. I dati di uno studio longitudinale francese hanno mostrato a 5 anni dal trapianto una sopravvivenza dei pazienti del 82,5% e del graft del 92,8% [42].

Il tempo medio per accedere al trapianto di rene è di 2,9 anni, quasi doppio rispetto a quello dei pazienti con altre forme di insufficienza renale in trattamento dialitico; ciò è dovuto soprattutto al fatto che la SSc è una malattia sistemica e i pazienti presentano in molti casi impegni di altri organi che potrebbero compromettere l’outcome del trapianto [43]. Di contro è stato rilevato che i pazienti sclerodermici sottoposti a trapianto renale vanno incontro ad un miglioramento di molte manifestazioni cliniche della SSc, verosimilmente dovuto alla terapia anti-rigetto con farmaci immunosoppressori [44].

 

La terapia della crisi renale sclerodermica

I risultati della terapia sono tanto migliori quanto più precoce è la diagnosi; in altre parole, se la decurtazione del filtrato glomerulare è già avanzata le probabilità di un recupero della funzione renale sono molto ridotte. Per tale motivo il follow-up dei pazienti sclerodermici, soprattutto quelli con malattia di recente insorgenza e con forma cutanea diffusa, deve prevedere misurazioni pressoché quotidiane della pressione arteriosa e valutazioni frequenti degli indici di funzionalità renale. La diagnosi precoce e l’aggressività nel trattamento della SRC sono infatti cruciali.

Scopo della terapia è la normalizzazione della pressione arteriosa in tempi rapidi (72 ore), anche a rischio di un peggioramento temporaneo della insufficienza renale. La flow-chart di terapia della SRC è riassunta nella Figura 2.

Figura 2: Terapia della crisi renale sclerodermica.
Figura 2: Terapia della crisi renale sclerodermica.

L’outcome della SRC è drasticamente migliorato da quando furono introdotti in terapia i farmaci ACE-inibitori. Uno studio pubblicato nel 1990 dimostrò che la sopravvivenza a un anno dei pazienti trattati con questi farmaci era del 76%, contro il 15% nei soggetti non trattati [45].

Le raccomandazioni dell’EULAR ribadiscono che gli ACE-inibitori sono i farmaci di prima linea nel trattamento della SRC e vanno somministrati aumentando rapidamente la dose fino a raggiungere quella massima tollerata [46]. Nei pazienti intolleranti agli ACE-inibitori o nei casi di microangiopatia, assieme alla terapia farmacologica è indicata la plasmaferesi, applicando un protocollo che prevede due-tre sedute alla settimana per venti giorni e poi una seduta settimanale, fino ad ottenere il miglioramento o almeno la stabilizzazione della insufficienza renale [47]. Qualora con l’ACE-inibitore non si ottenga la normalizzazione dei valori pressori la terapia va potenziata associandovi altri farmaci antiipertensivi: calcio-antagonisti, diuretici o alfa-bloccanti; sono controindicati i beta-bloccanti che potrebbero accentuare il vasospasmo [48]. Se il suddetto trattamento risulta efficace e arresta la progressione della insufficienza renale e i valori del filtrato glomerulare sono sufficienti a evitare la dialisi, la terapia anti-ipertensiva va portata avanti per un lungo tempo, con un monitoraggio frequente della funzione renale. In caso di inefficacia della terapia anti-ipertensiva con ACE-inibitori o con schemi di combinazione sono indicati tentativi terapeutici con farmaci che agiscono su tappe patogenetiche diverse della SRC: gli antagonisti dei recettori dell’endotelina (bosentan) [49], oppure gli inibitori dell’attivazione di fattori del complemento (eculizumab) [50]. Se anche questi tentativi non sortiscono buoni risultati e l’insufficienza renale progredisce è inevitabile il ricorso alla dialisi. Come riportato in precedenza questo trattamento può essere anche transitorio, nel senso che alcuni pazienti possono recuperare una funzionalità renale sufficiente a sospenderlo. Nella maggior parte dei casi invece la dialisi diventa permanente e il paziente viene valutato per l’inserimento nella lista di attesa per il trapianto renale.

 

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La glomerulonefrite acuta post-infettiva

Abstract

La glomerulonefrite acuta post-infettiva è una nefropatia ben definita, immunomediata, che si verifica a causa e successivamente ad un evento infettivo prevalentemente di origine batterica. Nel passato, la forma più frequente di glomerulonefrite acuta post-infettiva era la post-streptococcica, più diffusa nei bambini e a prognosi benigna. Negli ultimi decenni si è osservata una variazione dello scenario epidemiologico e clinico con prevalenza maggiore negli adulti fragili, sostenuta da infezioni non streptococciche, a prognosi sfavorevole con evoluzione verso la malattia renale cronica.

Parola chiave: glomerulonefrite acuta post-infettiva

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Introduzione

Per glomerulonefrite acuta post-infettiva si intende quella forma di nefropatia acuta glomerulare che si verifica a causa e successivamente ad un evento infettivo prevalentemente di origine batterica.

Nel passato, la forma più frequente di glomerulonefrite acuta post-infettiva era sostenuta da infezione streptococcica delle prime vie aeree o da infezione della cute (impetigine e cellulite), cosiddetta glomerulonefrite post-streptococcica, prevalente in età infantile, ad andamento in genere benigno. Il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie ne ha ridotto la sua incidenza [13].

Nel mondo occidentale industrializzato, si è osservata una variazione dello scenario epidemiologico e clinico: la forma post-streptococcica si è certamente ridotta; sono invece aumentate le nefropatie associate a infezioni batteriche non streptococciche, con coinvolgimento prevalente di soggetti di età adulta e immunologicamente fragili, in cui la glomerulonefrite si sviluppa durante e non dopo l’infezione, con rischio non trascurabile di evoluzione verso una malattia renale cronica [1, 4].

Per tali ragioni, è preferibile parlare di glomerulonefriti associate ad infezioni e, in questo ambito, discriminare la forma classica post-infettiva, di cui la post-streptococcica rappresenta il prototipo, dalle altre in corso di infezione attiva acuta o cronica [4, 5] (Figura 1).

Figura 1. Glomerulonefriti associate ad infezioni: 2 setting clinici.
Figura 1. Glomerulonefriti associate ad infezioni: 2 setting clinici.

Glomerulonefrite acuta post-infettiva (post-streptococcica)

Nefropatia ben definita, immunomediata, la sua incidenza è ridotta per ragioni non interamente chiare, ma verosimilmente secondarie alla diagnosi precoce e all’efficace trattamento dell’infezione streptococcica. Nonostante ciò si osservano ancora focolai epidemici in alcune aree geografiche e casi sporadici rappresentano nei Paesi in via di sviluppo la causa del 20% dei ricoveri in età pediatrica [1].

La presentazione clinica varia dalla microematuria asintomatica alla sindrome nefritica, caratterizzata da micro/macroematuria, proteinuria che può raggiungere il range nefrosico, edema, ipertensione arteriosa, insufficienza renale acuta. Nel 90% dei casi si osserva la riduzione, in genere in fase precoce di malattia, del C3 e del CH50 (attività totale del complemento), che rientrano nei limiti entro 4-8 settimane.

Il quadro renale è in genere preceduto da un episodio infettivo faringitico o della cute: dopo un periodo di latenza variabile da 1 a 3 settimane dall’episodio infettivo possono comparire i segni del coinvolgimento renale e a quell’epoca l’infezione essere quasi o definitivamente guarita. Solo in un quarto dei casi è possibile rilevare un esame colturale positivo della faringe o della cute; è possibile, inoltre, osservare variazioni dell’antistreptolysin O (ASO) e dello streptozyme test che solo in un 25% dei casi può avere valore diagnostico. La prognosi è in genere favorevole.

Glomerulonefrite associata ad infezione (dell’adulto)

Negli ultimi anni e nelle società occidentali la glomerulonefrite post-infettiva è diventata più frequente negli adulti/anziani, ha una prognosi riservata, con una significativa evoluzione verso la malattia renale cronica e l’end-stage renal disease. Siccome negli adulti il coinvolgimento renale è generalmente associato al processo infettivo attivo, il termine di glomerulonefrite associata ad infezione appare più appropriato. È più frequente nel sesso maschile; un background di fragilità del sistema immunocompetente è presente in oltre la metà dei casi descritti ed è fattore prognostico sfavorevole: si tratta di pazienti affetti da diabete mellito, neoplasie, malnutrizione severa, patologia valvolare cardiaca, che hanno fatto abuso di droghe o alcol. Rispetto a quanto osservato nei bambini, i siti di infezioni sono eterogenei e includono le prime vie aeree, la cute, polmoni, cuore, apparato urinario, la mucosa intestinale o gli ascessi somatici. Le forme non streptococciche sono più frequenti delle streptococciche: lo stafilococco (aureus, meticillino-resistente, epidermidis) risulta tre volte più frequente negli anziani e nei diabetici, segno di aumentata colonizzazione della loro cute e delle mucose; seguito dai batteri Gram negativi (E. Coli, il più frequente; Yersinia, Pseudomonas ed Hemophilus).

Le manifestazioni cliniche renali variano dalle anomalie urinarie alla sindrome nefritica acuta. I valori di creatininemia all’esordio sono più elevati negli anziani che nei giovani adulti, con rischio di scompenso cardiovascolare maggiore perché la popolazione è affetta da varie comorbidità. L’ipocomplementemia, presente fino al 70-80 % dei casi, si normalizza entro due mesi dalla presentazione, eccetto nei casi in cui persiste l’infezione [6].

Dal punto di vista istologico, nel 2003 Nasr descriveva 5 casi di glomerulonefrite proliferativa endocapillare ed essudativa associata a infezione stafilococcica, caratterizzati dalla presenza alla immunofluorescenza di depositi granulari di C3 e dominanti di IgA nel mesangio e lungo i capillari. Questa nuova variante morfologica, cosiddetta “IgA dominant Infection related glomerulonephritis” è stata successivamente descritta in maniera più frequente, soprattutto negli anziani, talora diabetici e affetti da più comorbidità, a prognosi sfavorevole [79].

 

Patogenesi

La forma post-infettiva è una malattia glomerulare da immunocomplessi indotta nella forma post-streptococcica da specifici ceppi nefritogenici dello streptococo beta emolitico di gruppo A che innescano l’attivazione del complemento e la risposta infiammatoria.

Precocemente, anche prima che ci sia una risposta anticorpale, gli antigeni derivanti dall’infezione entrano in circolo e possono depositarsi nei glomeruli. Quando si verifica la riposta anticorpale, l’infezione viene bloccata ma gli antigeni di origine infettiva e gli immunocomplessi derivati dalla reazione antigene-anticorpo continuano a circolare. Quando raggiungono una certa dimensione molecolare, configurazione o carica elettrica, si depositano nei glomeruli. Inoltre, gli anticorpi circolanti possono legarsi agli antigeni infettivi precedentemente depositati nel glomerulo, formando così gli immunocomplessi in situ. Gli immunocomplessi circolanti e quelli formati in situ si accumulano gradualmente e innescano una risposta infiammatoria, mediata dalla prevalente attivazione locale della via alterna del complemento, determinando una glomerulonefrite giorni o settimane dopo che l’infezione è guarita.

In sintesi i meccanismi principali di danno glomerulare sono rappresentati [10, 11]:

  • dalla deposizione di immunocomplessi circolanti;
  • dalla formazione in situ di immunocomplessi risultanti dalla deposizione di antigeni streptococcici all’interno della membrana basale glomerulare e successivo legame con anticorpi;
  • dalla formazione in situ di immunocomplessi derivanti dalla interazione tra anticorpi contro antigeni streptococcici circolanti che cross-reagiscono con componenti della membrana basale glomerulare (molecular mimicry);
  • da meccanismi autoimmuni.

Due sono gli antigeni streptococcici più studiati:

  • NAPIr (Nephritis-associated plasmin receptor): un enzima glicolitico con attività plasminica che può promuovere una reazione infiammatoria locale; anticorpi anti-NAPIr sono stati dosati nel siero del 92% di pazienti con glomerulonefrite post-streptococcica [12];
  • SPE B (Streptococcal Pyrogenic exotoxin B): una proteinasi, che è stata localizzata nei depositi subepiteliali [13].

Questi antigeni attivano la via alterna del complemento (riscontro caratteristico della glomerulonefrite post-infettiva) e amplificano l’espressione delle molecole di infiammazione.

 

Quadro istologico renale

Microscopia ottica

Il quadro istologico tipico è quello di una glomerulonefrite proliferativa intracapillare diffusa ed essudativa, con presenza di numerosi leucociti polimorfonucleati nel lume dei capillari glomerulari (Figura 2).  La presenza di semilune è rara ed è associata a prognosi severa.

Figura 2. Microscopia ottica: glomerulonefrite proliferativa diffusa endocapillare e essudativa.
Figura 2. Microscopia ottica: glomerulonefrite proliferativa diffusa endocapillare e essudativa.

Immunofluorescenza

Depositi di C3 e IgG sono caratteristicamente distribuiti in un pattern granulare e diffuso nel mesangio e nelle pareti capillari. Il pattern granulare di C3 nelle pareti dei capillari (deposito tipo ghirlanda) conferisce un aspetto a cielo stellato (Figura 3).

Figura 3. Immunofluorescenza: depositi granulari di C3 dominante e di IgG.
Figura 3. Immunofluorescenza: depositi granulari di C3 dominante e di IgG.

Microscopia elettronica

La caratteristica peculiare, patognomonica, è la presenza di depositi subepiteliali, a forma di gobba, cosiddetti “humps”, corrispondenti ai depositi di IgG e C3, positivi alla immunofluorescenza (Figura 4).

Figura 4. Microscopia elettronica: “humps” subepiteliali.
Figura 4. Microscopia elettronica: “humps” subepiteliali.

 

Diagnosi

La diagnosi di glomerulonefrite post-infettiva è in genere basata sul quadro clinico e la dimostrazione di una infezione recente [14]. Secondo Nasr [6] la diagnosi richiede che siano soddisfatti almeno 3 dei 5 seguenti criteri diagnostici:

  • Evidenza clinica e laboratoristica di una infezione recente o all’esordio della glomerulonefrite
  • Riduzione dei livelli di C3
  • Quadro istologico di glomerulonefrite proliferativa endocapillare e essudativa
  • Deposito glomerulare di C3 dominante o codominante alla immunofluorescenza
  • Presenza di humps alla microscopia elettronica

La diagnosi può essere ritardata quando non c’è una storia chiara di correlata infezione.

La biopsia renale non viene eseguita nella maggior parte dei pazienti, soprattutto se bambini, per confermare una diagnosi clinica classica e circostanziata. Per queste ragioni è verosimile che la reale incidenza delle glomerulonefriti post-infettive sia sottostimata, proprio perché tiene conto di una popolazione selezionata che è stata sottoposta a biopsia renale, escludendo così i casi in cui la diagnosi viene posta solo in base ai dati clinici e laboratoristici.

Indicazione alla biopsia renale

La biopsia renale è indicata nei casi in cui l’andamento clinico della sospetta glomerulonefrite post-infettiva è atipico: quando la nefropatia è in progressivo peggioramento in assenza di un chiaro episodio di infezione precedente; quando il C3 rimane persistentemente basso dopo le 4-6 settimane; quando la storia clinica è caratterizzata da episodi ricorrenti di ematuria; quando bisogna escludere altre forme di glomerulonefrite che hanno una presentazione simile ma che richiedono un trattamento immunosoppressivo più aggressivo.

Diagnosi differenziale

La biopsia renale può essere necessaria per differenziare da:

  • C3 glomerulopathy: la presentazione clinica della C3 glomerulopathy può non essere distinguibile dalla post-infettiva [15]. Essa si può manifestare con ematuria, ipertensione, proteinuria e ipocomplementemia, segni e sintomi che possono comparire a seguito di una infezione delle prime vie aeree in alcuni pazienti. A differenza della forma post-infettiva che va in risoluzione entro 4-6 settimane, nel paziente con C3 glomerulopathy il C3 continua a rimanere basso e può esserci un peggioramento della creatininemia. Il termine “glomerulonefrite postinfettiva atipica” è stato coniato per descrivere il decorso di quella nefropatia diagnosticata come post-infettiva, non seguita da risoluzione ma caratterizzata dalla persistenza delle anomalie urinarie o addirittura dal peggioramento della funzione renale; sono stati riportati in letteratura quei casi in cui il paziente sviluppava in seguito una forma cronica di C3 glomerulopathy. Perciò è stato postulato che la post-infettiva atipica possa rappresentare una forma self-limiting di C3 glomerulopathy e che ricada nello spettro di un continuum della C3 glomerulopathy e della malattia da depositi densi [16, 17]. D’altra parte sono stati descritti 11 casi in cui la maggior parte dei pazienti con una forma atipica di glomerulonefrite post-infettiva aveva un sottostante difetto della regolazione della via alterna del complemento. Gli autori hanno ipotizzato che quando una infezione attiva la via alterna del complemento, in condizioni normali la via rientra sotto controllo quando la infezione guarisce. Nei pazienti con un difetto regolatorio della via alterna, il sistema complemento e infiammazione rimane continuamente attivato anche dopo la risoluzione dell’infezione, comportando lo sviluppo di una forma atipica di glomerulonefrite post-infettiva. In questi pazienti predisposti l’infezione smaschera un difetto sottostante delle proteine del sistema alterno del complemento [18]. Per questo, nelle forme di glomerulonefrite atipica è consigliato lo studio delle proteine regolatorie e la genetica del complemento.
  • Glomerulonefrite da IgA: nei pazienti affetti la comparsa del quadro renale è in genere quasi contemporaneo all’evento infettivo (meno di 5 giorni rispetto ai 10 giorni della forma post-streptococcica) e i pazienti possono avere avuto storia pregressa di episodi di macroematuria. Non è facile differenziare morfologicamente, in assenza dello studio ultrastrutturale, la glomerulonefrite da IgA dalla forma IgA dominante correlata all’infezione da stafilococco, descritta negli adulti come glomerulonefrite post-stafilococcica. Tuttavia, l’età più elevata, la ipocomplementemia, la presenza di comorbidità e la infezione sostenuta da stafilococco sono elementi utili nell’indirizzare la diagnosi [69].
  • Altre glomerulonefriti associate a ipocomplementemia, come la nefrite lupica o la crioglobulinemica; oppure le IgA vasculitis (Schonlein-Henoch): in questi casi il quadro renale è associato ad altre manifestazioni extrarenali.
  • Glomerulonefrite associata ad infezione endocarditica: il quadro istologico più frequente è una glomerulonefrite necrotizzante con semilune, pauci immune ANCA-associata.
  • Glomerulonefrite associata a infezione cronica dello shunt ventricolo-atriale o ventricolo-giugulare o ventricolo-peritoneale inseriti per il trattamento dell’idrocefalo: il pattern tipico è una glomerulonefrite membrano-proliferativa, con proliferazione endo ed extracapillare con semilune. L’immunofluorescenza documenta depositi granulari sottoendoteliali e mesangiali di IgM IgG e complemento.

 

Terapia

La terapia è antibiotica (se presente l’infezione) e di supporto nella gestione del sovraccarico idrico e dell’ipertensione arteriosa (restrizione idrica, dieta iposodica e diuretici). La necessità di trattamento emodialitico è rara. L’uso degli steroidi è stato descritto aneddoticamente nelle forme post-infettive, ma non ci sono evidenze che sia efficace; è controindicato nel trattamento delle glomerulonefriti in corso di infezione attiva acuta o cronica, in cui la vera terapia consiste solo nella terapia antibiotica [14].

 

Decorso clinico

L’outcome è eccellente nei bambini. Una summary series di 229 bambini con glomerulonefrite post-streptococcica ha evidenziato la persistenza di anomalie urinarie nel 20% dei casi, ma normale funzione renale nel 92-99% dei casi a distanza di 5-18 anni dall’esordio della glomerulonefrite [2].

Comunque, la prognosi long-term non è sempre benigna, soprattutto negli adulti [1921] (Figura 5). Uno studio retrospettivo italiano ha descritto che dopo un follow-up medio di 7.5 anni solo il 43% dei pazienti rimaneva in remissione completa, il 27% aveva sviluppato insufficienza renale cronica e il 10% era in dialisi. L’assenza di comorbidità e l’assenza di infiltrato interstiziale risultavano predittivi di remissione completa di malattia [19].

I pochi dati pubblicati in letteratura suggeriscono che la prognosi long-term è peggiore negli adulti probabilmente perché la tipologia dei pazienti affetti da glomerulonefriti associate ad infezione è cambiata negli anni: la classica post-streptococcica diventata più rara, mentre il numero di casi con comorbidità è progressivamente aumentato (pazienti più anziani, affetti da diabete mellito, patologia cardiovascolare e BPCO, neoplasie, ecc.).

Figura 5. Glomerulonefrite post infettiva: decorso clinico.
Figura 5. Glomerulonefrite post infettiva: decorso clinico.

 

Conclusioni

Sebbene il trattamento precoce delle infezioni streptococciche nei bambini abbia permesso di ridurre l’incidenza della glomerulonefrite classica post-streptococcica, essa rimane ancora frequente nei Paesi in via di sviluppo. Negli adulti, le glomerulonefriti associate ad infezione vanno considerate una condizione molto seria, da monitorare regolarmente, in cui anche le evoluzioni favorevoli possono comportare diversi mesi di ricovero e cure, gravate da un alto rischio di malattia renale cronica e di insufficienza renale di grado severo.

Una considerazione importante meritano i casi di “glomerulonefrite post-infettiva atipica”, in cui è necessario un attento monitoraggio clinico e laboratoristico e l’esecuzione della biopsia renale al fine del corretto inquadramento diagnostico e terapeutico.

 

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Thrombotic microangiopathy: atypical hemolytic uremic syndrome

Abstract

Atypical hemolytic uremic syndrome is an ultra-rare disease characterized by acute kidney injury, thrombocytopenia, and microangiopathic hemolytic anemia (thrombotic microangiopathy) that occurs with a reported incidence of approximately 0.5 per million per year.

At least 50% of patients with aHUS have an underlying inherited and/or acquired complement abnormality, which leads to dysregulated activity of the alternative pathway at the endothelial cell surface.

Until recently, the prognosis for aHUS was poor, with the majority of patients developing end-stage renal disease within 2 years of presentation. However, with the introduction of eculizumab, a humanized monoclonal antibody against C5, effective to inhibit complement-mediated thrombotic microangiopathy, it is now possible to control the renal disease and prevent development of end-stage renal disease.

Dosing schedule and treatment duration remain controversial and should be rigorously studied.

On this regard, C5b-9 endothelial deposition assay may represent an advance to monitor complement activity in aHUS and to individualize therapy, but currently it can be performed in only specialized laboratories.

 

Keywords: Atypical hemolytic uremic syndrome, complement, anti-C5 monoclonal antibody, C5b-9 assay

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Introduzione

Il termine sindrome emolitico-uremica (SEU) atipica è stato utilizzato per molto tempo per definire qualsiasi forma di SEU non causata da Shiga-tossina (SEU tipica). Le attuali classificazioni riflettono una maggiore comprensione dei meccanismi della malattia, compreso l’impatto del background genetico e dei fattori scatenanti [1]. L’indagine per Shiga-tossina dovrebbe essere comunque di routine in tutti i pazienti con presunta SEU atipica, poiché circa il 5% dei casi di SEU da Shiga-tossina non ha diarrea prodromica, mentre il 30% dei casi di SEU atipica mediata dal complemento ha diarrea o gastroenterite concomitanti.

Attualmente si usa spesso il termine di SEU atipica primaria quando si sospetta fortemente un’anomalia genetica (o acquisita) della via alternativa del sistema del complemento e sono state escluse altre cause di SEU secondaria. Tuttavia, anche in alcuni di questi ultimi casi può venire identificata un’anomalia del complemento. In molti pazienti con un sottostante fattore di rischio del complemento, è inoltre necessario un fattore scatenante per la manifestazione della SEU atipica [2]. Fattori scatenanti possono includere condizioni autoimmuni, trapianto, gravidanza, infezioni, farmaci e condizioni metaboliche [3].

La dimostrazione che la SEU atipica è una malattia associata ad anomalie del complemento ha aperto la strada a trattamenti complemento-specifici, come l’eculizumab, un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro il fattore C5 del complemento [4], che ha migliorato notevolmente la prognosi a lungo termine di questa patologia modificandone drasticamente la storia naturale.

 

Implicazioni delle anomalie genetiche nella SEU atipica

Studi su centinaia di pazienti con SEU atipica hanno permesso di comprendere i fattori genetici della malattia e fornito informazioni in merito alle correlazioni genotipo-fenotipo predittive della progressione della malattia, della risposta alla terapia e del rischio di recidiva dopo il trapianto [5].

Il pannello base di geni da analizzare nello screening genetico della SEU atipica (attualmente mediante Next generation sequencing) dovrebbe comprendere CFH, CD46, CFI, C3, CFB, THBD, CFHR1 e DGKE [611]. Questa analisi dovrebbe includere anche la genotipizzazione per gli aplotipi di rischio CFH-H3 e MCPggaac [12], che rappresentano fattori genetici di suscettibilità per la SEU atipica, spesso presenti in concomitanza con una variante patogenetica.

Nella SEU atipica, le varianti patogenetiche compromettono in modo specifico la capacità di proteggere le cellule endoteliali e le piastrine dell’ospite dal danno o dall’attivazione del complemento [1315]. È inoltre chiaro che la combinazione di diverse varianti patogenetiche e/o la combinazione di varianti patogenetiche e degli aplotipi di suscettibilità in CFH e MCP determinano il rischio e la predisposizione genetica individuale alla SEU atipica [12, 1618].

Le analisi genetiche devono inoltre includere tecnologie adeguate (quale la metodica MLPA, Multiplex Ligation-dependent Probe Amplification) per rilevare la variazione del numero di copie dei geni CFHR, i geni ibridi e altri complessi riarrangiamenti genomici nella regione genomica di CFH/CFHR [1921]. La presenza della delezione in omozigosi dei geni CFHR3-CFHR1 rappresenta un fattore di rischio per la formazione di anticorpi anti-Fattore H, identificati nel 5-10% dei casi di SEU atipica (specialmente bambini) e solitamente associati con questa delezione in omozigosi [22].

L’identificazione di una variante genetica patogenetica in un paziente con SEU atipica rafforza la diagnosi e stabilisce con precisione la causa della malattia, facilitando la gestione del paziente [5].

L’analisi genetica è inoltre essenziale nel trapianto di rene da donatore vivente [23]. La raccomandazione generale nella SEU atipica è che il trapianto da donatore consanguineo di rene dovrebbe essere preso in considerazione solo nel caso in cui fattori genetici chiaramente identificati nel ricevente siano assenti nel donatore consanguineo. In questo contesto, la presenza nel donatore degli aplotipi di suscettibilità CFH-H3 o MCPggaac non costituisce una controindicazione alla donazione [5].

Questo livello di comprensione supporta un approccio individualizzato alla gestione e al trattamento del paziente basato sull’interpretazione esperta dei profili genetici e richiede la diagnostica molecolare in ogni paziente. I tempi per ottenere i risultati dagli studi genetici non dovrebbero peraltro posticipare il trattamento, poiché il trattamento precoce è fondamentale per preservare la funzione renale ed evitare sequele irreversibili [24].

 

Trattamento della SEU atipica

La dimostrazione che la SEU atipica è una malattia associata ad anomalie del complemento ha aperto la strada a trattamenti complemento-specifici.

L’introduzione di eculizumab, un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro il fattore C5 del complemento [4], ha cambiato la storia naturale della SEU atipica. Prima di eculizumab, nella maggior parte dei pazienti con SEU atipica la malattia progrediva verso l’insufficienza renale terminale, momento in cui il processo di microangiopatia trombotica di solito cessava [25]. Con la terapia inibitoria del complemento, la perfusione glomerulare e la funzione renale vengono invece mantenute.

Tutti i pazienti con una diagnosi clinica di SEU atipica primaria sono eleggibili per il trattamento con un inibitore del complemento. Viene raccomandato di seguire lo schema posologico riportato negli studi [4], sebbene siano state prese in considerazione due possibili opzioni per modificare il dosaggio: la dose minima richiesta per ottenere il blocco del complemento, e uno schema posologico di allungamento dell’intervallo delle infusioni fino all’interruzione del trattamento [4]. Non ci sono però dati a supporto di nessuna delle due opzioni ed entrambe richiedono il monitoraggio dell’attività del complemento. Non è comunque raccomandata l’interruzione della terapia che blocca la via terminale del complemento durante una malattia intercorrente, una situazione ad alto rischio di recidiva di SEU atipica.

Se l’accesso alla terapia con eculizumab non è disponibile, è possibile utilizzare il plasma. Il trattamento con plasma-exchange dovrebbe essere preso in considerazione anche per la SEU atipica associata ad anticorpi anti-Fattore H e nel trattamento di emergenza di pazienti critici con grave microangiopatia trombotica (ad es. coma o convulsioni) e un forte sospetto di porpora trombotica trombocitopenica, fino a quando non si dimostra che l’attività di ADAMTS13 sia superiore al 10% [26].

L’utilizzo di plasma-exchange quando l’eculizumab è disponibile può essere associato a qualche miglioramento del quadro clinico, ma può esserci il rischio che ritardare l’inizio della terapia con eculizumab possa portare a un risultato terapeutico non ottimale.

La durata del trattamento con eculizumab è controversa e ad oggi non ci sono prove a sostegno di una terapia permanente in tutti i pazienti affetti da SEU atipica. Gli esperti sono comunque a favore di un periodo minimo di trattamento per consentire un recupero renale ottimale senza recidive precoci [5]. Non ci sono infatti studi prospettici controllati in pazienti con SEU atipica per definire i criteri per l’interruzione della terapia con eculizumab. L’interruzione del trattamento può essere presa in considerazione caso per caso nei pazienti dopo almeno 6-12 mesi di trattamento e almeno 3 mesi di normalizzazione (o stabilizzazione in caso di malattia renale cronica residua) della funzionalità renale. Una interruzione anticipata (a 3 mesi) può essere presa in considerazione nei pazienti (soprattutto bambini) con varianti patogenetiche nel gene MCP, se si è verificata una rapida remissione e recupero della funzione renale [5]. Nei pazienti sottoposti a dialisi, la terapia con eculizumab deve essere mantenuta per almeno 4-6 mesi prima di considerare l’interruzione. Nei pazienti che hanno subito un trapianto, in particolare quelli che hanno perso precedenti trapianti, l’interruzione non è raccomandata [27, 28].

Gli studi prospettici sono fondamentali per valutare parametri predittivi di recidiva e per definire in che modo la genetica, la qualità del recupero renale, l’età, la presenza o assenza di un evento scatenante e biomarcatori correlati all’attivazione del complemento e/o al danno delle cellule endoteliali possano dare informazioni utili per decidere in merito alla sospensione della terapia con eculizumab.

Se la terapia con eculizumab deve essere interrotta, è comunque fondamentale un attento e periodico monitoraggio della funzionalità renale e dei parametri ematologici.

 

Trapianto di rene nella SEU atipica

Il trapianto di rene dovrebbe essere posticipato fino ad almeno 6 mesi dopo l’inizio della dialisi poiché può verificarsi un minimo recupero renale diversi mesi dopo l’inizio della terapia con eculizumab [29, 30]. La risoluzione dei segni ematologici della microangiopatia trombotica e delle manifestazioni extrarenali è un prerequisito per il trapianto. La decisione di utilizzare la terapia di inibizione del complemento per il trapianto dovrebbe essere basata sul rischio di recidiva [5].

La donazione di rene da vivente può comportare un rischio di recidiva nel ricevente e un rischio di malattia de novo nel donatore se il donatore è portatore di una variante genetica di rischio. Dovrebbero essere quindi esclusi potenziali donatori con evidenza di attività anomala della via alternativa del complemento. Se il potenziale donatore vivente non è portatore di una variante patogenetica in un gene del complemento e non ha evidenza di un’attivazione anomala del complemento, la donazione è invece possibile [5].

 

Test di deposizione endoteliale del complesso terminale del complemento C5b-9

Nella SEU atipica si verifica un’attivazione del complemento ristretta all’endotelio e la remissione clinica si basa su un’efficace inibizione del complemento a livello endoteliale.

Nel 2014 Noris M., Galbusera M. e collaboratori hanno analizzato un gruppo di 44 pazienti affetti da SEU atipica per testare nuovi saggi di attivazione del complemento e per trovare uno strumento per il monitoraggio dell’efficacia di eculizumab [31].

Nel 50% dei pazienti vi erano normali livelli nel circolo di C3, C5a o di C5b-9 solubile, anche durante la fase acuta della malattia, il che indicava che questi non erano utili marcatori di attivazione del complemento nella malattia. Invece, il siero prelevato in fase acuta di SEU atipica, ma non il siero in fase di remissione, induceva un’aumentata deposizione di C5b-9, rispetto al siero di controllo, su cellule endoteliali microvascolari umane non stimolate (HMEC). Inoltre, nelle cellule HMEC attivate con adenosina difosfato anche il siero raccolto in remissione induceva un eccesso di depositi di C5b-9 nella maggior parte dei pazienti.

I risultati di cui sopra confermavano precedenti studi in vitro con proteine mutanti del complemento, indicando che l’attivazione del complemento sulle cellule endoteliali piuttosto che in fase fluida svolge un ruolo patogenetico nella SEU atipica [8, 3234].

Inoltre in 8 pazienti affetti da SEU atipica trattati con eculizumab, i depositi di C5b-9 endoteliali si normalizzavano dopo il trattamento, in parallelo o addirittura precedendo la remissione, e guidavano il dosaggio e la tempistica del farmaco.

Questi risultati indicavano che per il trattamento della SEU atipica è necessaria un’efficace inibizione del complemento a livello endoteliale, che permette di proteggere dalla trombosi microvascolare, e che i depositi endoteliali di C5b-9 indotti dal siero ex vivo sono uno strumento sensibile per monitorare l’attivazione del complemento e l’efficacia di eculizumab nella SEU atipica.

Nel 2019 Galbusera M. e collaboratori valutavano inoltre l’utilità del test di deposizione endoteliale di C5b-9 ex vivo per differenziare la SEU atipica attiva dalla remissione, monitorare l’efficacia della terapia con eculizumab, e identificare le recidive della malattia durante la riduzione graduale del dosaggio di eculizumab e dopo l’interruzione del trattamento [35]. I test con cellule HMEC attivate con adenosina difosfato mostravano depositi di C5b-9 elevati per i pazienti con SEU atipica non in trattamento con eculizumab, indipendentemente dall’attività della malattia, mentre i test con cellule HMEC non stimolate mostravano depositi di C5b-9 solo nella malattia attiva. I depositi di C5b-9 indotti dal siero sull’endotelio attivato e su quello non stimolato si normalizzavano durante il trattamento con eculizumab. La maggior parte dei pazienti trattati con eculizumab a intervalli di somministrazione estesi di 3 o 4 settimane dimostravano normali depositi di C5b-9 sull’endotelio attivato. Durante la riduzione graduale del dosaggio di eculizumab o dopo l’interruzione del trattamento, tutti i pazienti che manifestavano ricadute della malattia avevano depositi di C5b-9 elevati sull’endotelio non stimolato.

Sulla base di questi risultati, il test di deposizione endoteliale di C5b-9 (eseguito però solo in laboratori specializzati) può rappresentare un utile marcatore per monitorare l’attività della SEU atipica e personalizzare la terapia con eculizumab.

 

Conclusioni

I test genetici dovrebbero essere effettuati in tutte le persone con sospetta SEU atipica primaria, nei pazienti candidati a trapianto renale per SEU atipica e nei pazienti in cui si sta valutando l’interruzione della terapia con eculizumab.

Nonostante i notevoli progressi nella nostra comprensione dei meccanismi patologici sottostanti coinvolti nella SEU atipica, molto resta da imparare sul trattamento. L’eculizumab ha modificato la storia naturale della SEU atipica, ma sono sorte controversie in diverse aree del trattamento, in particolare il dosaggio e la durata del trattamento rimangono da stabilire e dovrebbero essere rigorosamente studiati.

A tale proposito, lo studio dei depositi endoteliali di C5b-9 potrebbe aiutare a monitorare l’efficacia di eculizumab, e potrebbe essere uno strumento utile per regolare la dose di eculizumab e l’estensione dell’intervallo tra le dosi per mantenere bloccato il complemento a livello endoteliale.

Il test di deposizione endoteliale C5b-9 può rappresentare quindi un aiuto nella capacità di monitorare l’attività del complemento nella SEU atipica e nel personalizzare la terapia.

Il limite è rappresentato dal fatto che questo test può essere eseguito solo in laboratori specializzati. I risultati sulla riduzione graduale del dosaggio di eculizumab devono inoltre essere confermati con studi di monitoraggio della deposizione di C5b-9.

Dovrebbero inoltre essere condotti studi prospettici prima di poter raccomandare questo test nella pratica clinica.

Un biomarcatore predittivo rappresenterebbe comunque una preziosa salvaguardia per la riduzione graduale del dosaggio o per l’eventuale interruzione del trattamento con eculizumab perché porterebbe alla ripresa precoce del trattamento prima di una recidiva conclamata di SEU atipica e/o al mantenimento del trattamento nei pazienti a rischio di recidiva.

 

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Clinical Xenotransplantation: recent findings and remaining hurdles

Abstract

Xenotransplantation, or transplantation between individuals from different species, has long been investigated with the objective to solve the shortage of human organs, tissues and cells for clinical transplantation. Decades of research have convinced scientists that the pig is the most appropriate donor species. Indeed, in addition to numerous anatomical and physiological similarities between pig and man, pig husbandry lends itself to providing the large number of animals necessary to meet the clinical demand.

In the last few years, research in the field of solid organ xenotransplantation has made sensational progress. In particular, in vitro studies and pre-clinical research using pig-to-nonhuman primate transplantation models have clarified the key immunological and physiological barriers to xenotransplantation and provided a better comprehension of the mechanisms underlying the lesions observed in rejected xenografts. This has ultimately resulted in the genetic engineering of specifically-designed, more compatible donor pigs.

The present review article describes the major hurdles that need to be overcome to enable successful solid organ xenotransplantation in humans. These include immunological, physiological and biosafety issues. Discussion on the ideal organ source and on the selection of the most appropriate candidates for first-in-human studies is provided. Particular attention has been dedicated to kidney xenotransplantation. Indeed, at this stage it would appear that the critical immunological and physiological obstacles to clinical xenotransplantation have never been perceived as surmountable as they appear today.

 

Keywords: Kidney, Patient selection, Genetically-engineered pigs, Xenotransplantation, Physiology

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Introduzione

La disponibilità molto limitata di organi, cellule e tessuti umani rimane la più grande barriera all’espansione della medicina dei trapianti. In tutto il mondo il divario tra la richiesta di organi e il numero di trapianti eseguiti è ampio ed in aumento. Questo ha spinto la comunità scientifica internazionale a cercare fonti alternative di organi, cellule e tessuti, con particolare attenzione allo sviluppo di nuove conoscenze anche nel settore dello xenotrapianto.

Con il termine xenotrapianto (dal greco xenos: straniero) oggi si intende qualsiasi procedura di trapianto, impianto o infusione in un ricevente umano di cellule, tessuti o organi vivi di provenienza da altra specie animale. Nello stesso termine si comprendono fluidi, cellule, tessuti o organi umani che abbiano avuto un contatto ex vivo con cellule, tessuti o organi di altra specie animale.

Lo xenotrapianto offre almeno in teoria parecchi vantaggi (numero illimitato di cellule, tessuti e organi; organi di ogni taglia; cellule, tessuti e organi disponibili in maniera elettiva; cellule, tessuti e organi privi di infezioni; rispetta le barriere culturali alla donazione di organi umani da donatore deceduto) e sin dal diciannovesimo secolo si cominciò ad esplorarne l’applicazione clinica nell’uomo mediante trasfusioni di sangue o trapianti di cute e/o organi solidi di specie animali non umane con perdita precoce dello xenotrapianto nel giro di minuti o ore, nella maggior parte dei casi.

I primati non umani figurano tra le specie donatrici utilizzate nei primi studi clinici. Questo impiego, tuttavia, è associato a problemi di natura etica, economica e di biosicurezza che hanno spostato l’attenzione dei ricercatori verso il maiale quale potenziale specie donatrice per l’uomo. Il maiale, infatti, oltre ad avere anatomia e fisiologia per molti aspetti simili all’uomo, comporta minori problemi di natura etica; basti pensare che, per soli scopi alimentare, negli Stati Uniti ogni anno vengono macellati più di 50 milioni di maiali. Inoltre, il maiale permette di ottenere rapidamente un grande numero di donatori grazie al breve periodo di gestazione, alla pluriparità e alla rapida crescita della progenie.

In questa breve revisione della letteratura, verranno illustrati gli avanzamenti delle conoscenze nel settore dello xenotrapianto. Particolare attenzione sarà rivolta ai risultati conseguiti nello xenotrapianto di rene che, dopo i traguardi importanti raggiunti nel settore della ricerca preclinica, hanno permesso l’avvio delle prime applicazioni cliniche dello xenotrapianto dal maiale all’uomo.

 

Applicazione clinica dello xenotrapianto: le barriere da superare

a) Gli ostacoli immunologici

Il rigetto anticorpo-mediato

La componente umorale della risposta immunitaria è da sempre considerata la barriera principale alla sopravvivenza a breve e lungo termine di un organo xeno-trapiantato.

Come nel trapianto tra individui della stessa specie (allo-trapianto), anche in un contesto xenogenico gli anticorpi possono innescare diversi tipi di rigetto, in particolare il rigetto iperacuto (hyperacute rejection o HAR) e il rigetto acuto anticorpo-mediato (acute humoral xenograft rejection o AHXR).

Il rigetto iperacuto avviene a distanza di minuti o ore dal trapianto a causa del legame di anticorpi del ricevente formatisi prima del trapianto d’organo. La successiva attivazione della cascata del complemento determina un danno endoteliale severo, formazione di trombi e deposito di fibrina. Si osserva accumulo di neutrofili nei capillari del trapianto, e occlusione trombotica dei capillari stessi con conseguente necrosi fibrinoide. Il risultato finale è una rapida e irreversibile perdita dell’organo [1].

Come nell’allotrapianto, il rigetto acuto anticorpo-mediato di uno xenotrapianto avviene a distanza di giorni o mesi dal trapianto ed è solitamente indotto dalla produzione da parte del ricevente di una risposta anticorpale de novo verso antigeni dell’organo trapiantato. Le caratteristiche istologiche dell’AHXR comprendono deposizione di IgM, IgG, C4d e C5b-9, perdita di integrità capillare, necrosi delle cellule endoteliali ed estesi depositi di fibrina. Gli aspetti istologici delle lesioni sono in gran parte influenzati dall’isotipo e dalla specificità degli anticorpi coinvolti, dal tipo di organo trapiantato, dalle caratteristiche del donatore dell’organo e dall’intervento immunosoppressivo messo in atto per prevenire il rigetto anticorpo-mediato [2, 3]. L’AHXR può essere causato da IgM o IgG. In entrambi i casi l’attivazione della cascata del complemento rappresenta un elemento chiave nello sviluppo del danno che dovrà essere accuratamente controllata [4]. La citotossicità cellulo-mediata anticorpo-dipendente (ADCC), l’attivazione della cascata infiammatoria, l’induzione di un fenotipo pro-coagulativo con conseguente attivazione della coagulazione e della trombosi rappresentano ulteriori meccanismi di danno legati alla risposta umorale nei confronti degli xeno-antigeni.

Nel contesto dello xenotrapianto grande attenzione è stata rivolta verso i carboidrati legati alle proteine o ai lipidi di superficie delle cellule quali principali antigeni bersaglio. Il target più importante degli anticorpi naturali o de novo umani è il residuo αGal (Galα(1,3)Galβ4Glc-Nac-R), un dimero di galattosio (Galα(1,3)Gal) legato alla N-acetil-lattosamina, sintetizzato dall’enzima α1,3-galactosiltransferasi (α1-3 GalT), un enzima presente nei mammiferi ma non nell’uomo e nei primati non umani del Vecchio Mondo [5]. Grazie ai progressi della biologia molecolare e dell’ingegneria genetica, sono stati ottenuti maiali knock-out (KO) per il gene a1-3GT (animali quindi privi dell’epitopo αGal: animali GTKO) [6].

Tuttavia, l’αGal non è l’unico epitopo glucidico riconosciuto dagli anticorpi xeno-reattivi umani.  Grazie alle ricerche pre-cliniche degli ultimi anni sono stati individuati altri due target glucidici supplementari, il Neu5GC e il Sda.

L’antigene Neu5GC fa parte della famiglia degli acidi sialici e deriva dalla idrossilazione dell’acido N-acetilneuraminico (Neu5AG). Tale reazione è catalizzata dall’enzima CMP-Neu5Ac-idrossilasi (CMAH) presente nei tessuti di molti mammiferi ma non nell’uomo. Per questa ragione tale residuo risulta essere immunogenico per l’uomo. Anche in questo caso è stato possibile ottenere maiali ingegnerizzati privi degli enzimi α1-3 GalT e CMAH e il loro impiego ha dimostrato di avere effetti benefici al fine di diminuire sia il legame che la citotossicità degli anticorpi umani diretti contro le cellule di maiale [7].

Studi successivi hanno tuttavia dimostrato che quasi il 100% dei sieri umani possiede anche IgM e IgG dirette verso l’Sda, un antigene di un gruppo sanguigno raro sintetizzato dalla β1,4-N-acetilgalactosamiltranferasi [8].

L’avvento della tecnologia CRISPR/Cas9, una tecnica di editing del genoma altamente precisa, efficace e di facile utilizzo, ha permesso di generare maiali knock-out per tutte le glicotransferasi/idrossilasi precedentemente descritte [9].

Uno studio recente ha dimostrato che l’uomo di solito non possiede anticorpi preformati verso questi animali “triple knock out” (TKO) [10].  Tuttavia, alcuni soggetti presentano anticorpi diretti contro il maiale TKO. Ulteriori approfondimenti hanno evidenziato che tali anticorpi riconoscono antigeni del complesso di maggiore istocompatibilità del maiale (swine leukocyte antigen, SLA) di classe I e II [10, 11]. Questo risultato non è del tutto inatteso, giacché i sistemi maggiori di istocompatibilità porcino (SLA) e umano (HLA) hanno tipicamente una omologia di circa il 75% a livello di sequenza amminoacidica ed hanno una struttura tridimensionale molto simile [10].

Rigetto cellulo-mediato dello xenotrapianto

Come nell’allotrapianto, anche uno xenotrapianto può attivare una risposta cellulo-mediata in aggiunta ad una potente risposta umorale. È stato infatti dimostrato che sia le cellule dell’immunità innata sia quelle della immunità adattativa possono causare un danno ai tessuti ed agli organi xenogenici, spesso a causa dell’esistenza di diverse incompatibilità molecolari recettoriali tra specie e della conseguente disregolazione dei segnali di attivazione/inibizione che governano finemente le cellule del sistema immunitario.

Nel caso dell’immunità innata è stato ad esempio dimostrato che le cellule NK infiltrano rapidamente xenotrapianti suini perfusi ex vivo con sangue umano.  L’attivazione dei recettori NKp44 or NKG2D delle cellule NK umane da parte di ligandi espressi sulle cellule di maiale, quali ad esempio l’ULPB, associata al mancato riconoscimento delle molecole SLA-1 da parte dei recettori inibitori delle NK umane, porta alla lisi cellulo-mediata delle cellule di maiale. In un contesto xenogenico, inoltre, le cellule NK oltre a mediare l’ADCC interagiscono con i linfociti B della zona marginale della milza mediante l’interazione tra CD40 e CD154, e stimolano la produzione di anticorpi xenoreattivi con un meccanismo linfocita T-indipendente [12].

Un ruolo fondamentale nel rigetto di uno xenotrapianto è rivestito dai monociti e macrofagi che consentono l’attivazione e il reclutamento dei linfociti T CD4+ e CD8+ ed esercitano la loro attività fagocitica. Anche in questo caso la mancata compatibilità tra il recettore inibitore dei macrofagi umani SIRP-α ed il CD47 sulle cellule di maiale favorisce l’attività fagocitica dei macrofagi [13].

Anche le cellule T sono coinvolte nel rigetto di uno xenotrapianto. L’analisi istologica di organi di maiale trapiantati nel primate non umano e rigettati spesso evidenzia infiltrati di cellule T CD4+ e CD8+ associati a monociti/macrofagi, cellule B e NK. Analogamente al contesto allogenico, le cellule T dell’uomo possono reagire contro le cellule di maiale riconoscendo direttamente le molecole SLA o possono riconoscere indirettamente gli xenoantigeni processati presentati dall’MHC-self. Il riconoscimento dell’antigene in un contesto xenogenico per via indiretta da parte dei linfociti T CD4+ risulta essere più vigoroso rispetto al contesto allogenico, probabilmente a causa del maggior numero di xenoantigeni presentati dalle antigen presenting cells (APC) umane [14]. Inoltre, è stato riportato che i principali epitopi xenogenici riconosciuti indirettamente dalle cellule T sulle APC umane sono antigeni derivati dalle molecole SLA di classe I [14]. È stato anche dimostrato che particolari alleli SLA sono in grado di indurre una risposta cellulare molto elevata. Allo stesso modo, soggetti con particolari configurazioni alleliche HLA sono risultati “strong responders” verso cellule di maiale [15]. Questi dati sottolineano che un’accurata selezione del donatore e del ricevente è importante per proteggere l’organo trapiantato non solo dalla risposta umorale ma anche da quella cellulo-mediata.

Complessivamente, i dati ottenuti in vitro e in vivo sottolineano in maniera incontrovertibile l’esistenza di una vigorosa risposta T-mediata verso organi xenotrapiantati che deve essere controllata con farmaci immunosoppressori convenzionali o attraverso il blocco delle molecole co-stimolatorie. In particolare, l’approccio maggiormente perseguito è il blocco della via di attivazione CD40-CD154, mediante anticorpi monoclonali anti-CD40 o anti-CD154, che risulta essere efficace anche nel prevenire la risposta anticorpale linfocita T-dipendente.

b) Fisiologia

La sperimentazione condotta in modelli clinicamente rilevanti suggerisce che gli organi di maiale sono sufficientemente simili a quelli umani da poterne soddisfare le necessità fisiologiche e funzionali. Esistono tuttavia delle differenze fisiologiche che vanno approfondite al fine di permettere una possibile applicazione clinica di successo.

È esperienza di tutti i gruppi di ricerca che la sopravvivenza di un organo xeno-trapiantato nel modello maiale-primate sia gravemente limitata da una alterata regolazione della cascata della coagulazione, spesso associata a trombosi [16, 17]. Le cause sono essenzialmente riconducibili a: attivazione delle cellule endoteliali dell’organo che assumono un profilo pro-coagulante; espressione del Fattore Tissutale sulle piastrine del ricevente indotta dalle cellule endoteliali di maiale; incompatibilità molecolari che impediscono a molecole anticoagulanti endoteliali del maiale di controllare adeguatamente fattori della coagulazione del primate. A tal proposito è stato dimostrato che: la molecola Tissue Factor Pathway Inhibitor (TFPI) di maiale non blocca efficientemente il complesso TF/Fattore VIIa umano; la trombomodulina di maiale lega la trombina umana ma non permette un’attivazione adeguata della proteina C umana; il Fattore di von Willebrand suino contribuisce all’eccessiva attivazione della coagulazione e trombosi nel primate. L’alterata regolazione della coagulazione porta in molti casi allo sviluppo di microangiopatia trombotica con perdita dell’organo, si associa frequentemente a coagulopatia da consumo con sanguinamenti importanti e non sembra dipendere solamente dalla risposta anticorpo mediata [18].

Focalizzando l’attenzione sugli aspetti anatomici, il rene di maiale ha la stessa organizzazione del rene umano ma possiede un minor numero di nefroni ed un numero ridotto di nefroni con ansa di Henle lunga [19]. Conseguentemente, rispetto all’uomo, i reni di maiale hanno una ridotta capacità di concentrare l’urina. Tuttavia il rene di maiale è in grado di mantenere gli elettroliti principali (compresi sodio, potassio e cloro) in un range fisiologicamente normale [20]. La velocità di filtrazione glomerulare (GFR) ed il flusso ematico renale sono sostanzialmente sovrapponibili tra uomo e maiale, così come è paragonabile la proteinuria tra le due specie. Rimangono tuttavia delle differenze tra maiale e primate. Ad esempio, l’osmolalità delle urine è più bassa nel maiale. Allo stesso modo vi sono delle differenze considerevoli a livello dei mediatori ormonali che regolano la funzionalità renale nelle due specie, il cui impatto reale nell’uomo potrà essere definitivamente chiarito solo dopo i primi trial clinici. In particolare: (i) l’angiotensinogeno umano non sembra essere un substrato ottimale per la renina prodotta dal rene di maiale e resta quindi da definire l’efficienza del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) dopo uno xenotrapianto; (ii) l’ormone antidiuretico umano (ADH) è strutturalmente diverso da quello suino e risulta meno potente verso i recettori presenti sull’organo di maiale. Questo potrebbe portare ad una diminuzione nel riassorbimento dell’acqua e a una ridotta capacità di concentrare le urine dopo uno xenotrapianto; (iii) sebbene molto simile a quella umana, l’eritropoietina renale del maiale non sembra essere in grado di stimolare adeguatamente l’eritropoiesi nel primate, cosa che potrebbe spiegare l’anemia sistematicamente osservata dopo xenotrapianto di rene nel primate non umano [21, 22]. Il pH ematico è simile tra uomo e maiale. Tuttavia, resta ancora da chiarire la capacità del rene di maiale di espellere i fosfati e l’impatto del rene di maiale sui meccanismi di regolazione dei livelli del calcio e del fosfato.

c) Biosicurezza dello xenotrapianto

Come nell’allotrapianto, anche lo xenotrapianto è associato al rischio di infezioni legato all’impiego di terapie immunosoppressive, che prevengono il rigetto ma che abbassano anche le difese immunologiche del soggetto trapiantato nei confronti delle infezioni. In questo caso però, oltre alle infezioni comuni causate da patogeni nell’uomo (quali ad esempio il virus citomegalico (CMV) o il virus di Epstein-Barr (EBV) umani), vi è anche il rischio potenziale di trasmissione di infezioni di origine suina.

Al momento, i patogeni che potrebbero essere problematici in ambito xenogenico sono: (i) quelli che rimangono in forma latente a livello intracellulare in un soggetto asintomatico come il citomegalovirus di maiale (pCMV), l’herpes virus linfotropico di maiale (PHLV), il virus dell’epatite E (HEV) e i retrovirus endogeni del maiale (Porcine Endogenous RetroVirus o PERV); (ii) eventuali microrganismi ancora ignoti che pertanto richiedono un continuo monitoraggio post trapianto [23].

Il pCMV e il PHLV sono due herpes virus con capacità di infettare le cellule umane. L’infezione da pCMV può causare nell’organo trapiantato una attivazione endoteliale e una coagulopatia sistemica e può portare a rigetto dello xenotrapianto, mentre i PHLV potrebbero causare linfomi nell’ospite infettato. Sino ad oggi infezioni da pCMV erano state riportate solo in modelli preclinici nei quali la loro presenza era stata dimostrata essere inequivocabilmente correlata con una ridotta sopravvivenza di uno xenotrapianto [2426]. Recentemente è stata riportata un’inaspettata infezione da pCMV nel paziente ricevente un cuore di maiale nella sperimentazione clinica condotta dall’Università di Maryland, il cui impatto sarà fonte di ulteriori approfondimenti [27].

Per quanto riguarda i PERV, ne esistono 3 sottotipi: il PERV-A, PERV-B e PERV-C. I PERV- A e -B hanno un tropismo per le cellule umane, mentre il PERV-C non è in grado di infettare le cellule umane. Il PERV-C può però permettere la formazione della variante ricombinante PERV-A/C che è in grado di infettare le cellule umane e replicarsi in maniera maggiore del PERV-A [28]. Tuttavia, è importante sottolineare che a tutt’oggi non esistono evidenze di infezioni da PERV sia in modelli preclinici maiale-primate non umano che nei recenti studi clinici [2932].

È degno di nota che molti dei patogeni potenzialmente presenti negli animali donatori possono essere eliminati. In particolare, recentemente è stato possibile generare una linea di maiali nei quali i PERV sono stati inattivati grazie all’applicazione della tecnica di editing genomico CRISPR/Cas9 [3335]. In ogni caso, sebbene il rischio di trasmissione all’uomo di infezione attraverso uno xenotrapianto appaia oggi molto limitato, esso deve comunque essere contenuto al massimo. A questo scopo è necessaria anche una minuziosa sorveglianza microbiologica degli animali donatori cresciuti in allevamenti barrierati, i cosiddetti animali “designated pathogen-free” (DPF). Questa designazione è riservata a maiali saggiati per una lista di potenziali patogeni umani e suini che sono stati esclusi dall’allevamento. Inoltre, le misure di sicurezza dello xenotrapianto devono prevedere il monitoraggio rigoroso e per tutta la vita dei riceventi di uno xenotrapianto (e preferibilmente dei loro contatti stretti), la raccolta di campioni da archiviare in biobanche per possibili indagini retrospettive, nonché lo sviluppo e validazione di test PCR quantitativi altamente sensibili per valutare la possibile presenza virus porcini nelle cellule umane.

 

Ingegnerizzazione dell’animale donatore ideale per uno xenotrapianto

Da quanto sopra esposto è evidente che l’immunità naturale e adattiva, così come l’infiammazione e le deregolazioni della coagulazione, sono tutti fattori che possono contribuire alla perdita prematura di uno xenotrapianto di maiale nell’uomo. Di conseguenza gli esperti del settore sono convinti che diversi approcci dovranno essere necessariamente applicati in maniera sinergica per contrastare i vari meccanismi immunitari e non coinvolti in questo processo [36]. In particolare, a questo punto si pensa che una sopravvivenza a lungo tempo di uno xenotrapianto potrà essere possibile solo con l’impiego di agenti immunosoppressori diretti contro l’attivazione del complemento e contro la risposta T e B, possibilmente in combinazione con nuove linee di suini transgenici knock-out e knock-in per diversi geni umani (Tabella 1). Molteplici studi in vitro e in vivo hanno dimostrato in maniera convincente che ad oggi la miglior fonte di organi di maiale per lo xenotrapianto deve prima di tutto essere priva degli epitopi zuccherini maggiormente riconosciuti dalla risposta immunitaria anticorpale. Questo è reso possibile attraverso l’ingegnerizzazione di linee di maiali GalTKO/ CMAHKO/ β4GalNT2KO. Inoltre, la linea donatrice dovrà esprimere una o più molecole regolatorie della cascata del complemento umano (hCD46, hCD55, hCD59), una o più molecole regolatorie della cascata della coagulazione (trombomodulina e recettore della proteina C endoteliale [EPCR]), e preferibilmente anche molecole umane anti-infiammatorie/anti-apoptotiche (hHO-1, hA20). In aggiunta appare preferibile che l’animale donatore sia transgenico per molecole in grado di modulare l’attività fagocitica dei macrofagi (quali hCD47). Infine, per poter contrastare la crescita dell’organo di maiale dopo il trapianto, è stata suggerita un’ulteriore manipolazione genetica in grado di silenziare il gene del recettore dell’ormone della crescita (GH-KO). È degno di nota che organi con queste caratteristiche sono già stati utilizzati nei recenti xenotrapianti nell’uomo eseguiti in Alabama e nel Maryland [27, 32].

Data l’evidenza che le molecole SLA di classe I e II possono costituire un bersaglio per l’immunità umorale e cellulare dell’uomo, sono in corso diversi tentativi sperimentali per eliminare tali antigeni dagli organi di maiali donatori [37, 38].

Infine, alla luce di quanto spiegato sopra, è chiaro che l’ingegnerizzazione del donatore potrà anche contribuire ad aumentare i livelli di sicurezza dello xenotrapianto.

Ingegnerizzazione Applicazione in clinica
Obiettivo Tipo Xeno-rene

([31])

Xeno-rene

( [32])

Xeno-cuore

([27])

Rimozione di determinanti antigenici
α1,3-galactosiltransferasi (GALT) Knock-out
Idrossilasi CMP-Neu5Ac (CMAH) Knock-out
β1,4 N-acetilgalactosaminil transferasi (β4GalNT2) Knock-out
Regolazione della cascata del complemento
CD46 umano Transgene
CD55 umano Transgene
CD59 umano Transgene
Regolazione della cascata della coagulazione
Inibitore del fattore tissutale umano (TFPI) Transgene
Trombomodulina umana Transgene
Recettore endoteliale della proteina C umana Transgene
CD39 umano Transgene
Regolazione della infiammazione e dell’apoptosi
A20 umano Transgene
Emeossigenasi-1 (HO-1) umano Transgene
Controllo della fagocitosi
CD47 umano Transgene
SIRPα umano Transgene
Controllo della risposta cellulo-mediata
MHC-Classe I (MHC-I-KO) Knock-out
FAS ligand (CD95L) umano Transgene
Prevenzione dell’infezione da PERV
Geni PERV Knock-out
Regolazione della crescita dell’organo
Recettore dell’ormone della crescita Knock-out
Tabella 1: Ingegnerizzazione di linee di maiali per possibili applicazioni pre-cliniche e cliniche dello xenotrapianto

  

Primi trials clinici e selezione dei candidati per procedure di xenotrapianto

Una volta identificato ed ottenuto il donatore ottimale per una applicazione clinica dello xenotrapianto, rimane da stabilire quali pazienti possano essere eticamente selezionati per i primi trials clinici [39, 40]. Nel caso del trapianto di rene, alcuni ricercatori hanno proposto che i candidati ideali per uno xenotrapianto potrebbero essere quei pazienti in lista d’attesa per un allotrapianto con ridotta aspettativa di vita (inferiore ai 2 anni) i quali difficilmente potrebbero ricevere un organo da donatore umano. In questo caso i pazienti in attesa di un trapianto di rene sono i candidati ideali, in quanto, a differenza dei pazienti in attesa di un cuore, l’organo trapiantato potrebbe essere rimosso qualora si registrasse insufficienza d’organo, o sviluppo di infezioni con necessità di interruzione della terapia immunosoppressiva. In questo caso, infatti, il paziente potrebbe tornare in dialisi ed essere mantenuto in vita. Altri hanno proposto che possibili candidati potrebbero anche essere pazienti in età avanzata e condizioni fisiche accettabili, per i quali si prevede una lunga permanenza in lista d’attesa. Questi soggetti potrebbero voler prendere in considerazione lo xenotrapianto renale al fine di migliorare la propria qualità di vita, senza le restrizioni imposte dalla dialisi cronica mentre sono in attesa di un allotrapianto. Altra categoria di pazienti potenzialmente candidabili per i primi xenotrapianti di reni è costituita da coloro i quali hanno una alta probabilità di ricorrenza di malattia in caso di un possibile allotrapianto, ma non nel caso dello xenotrapianto, come la glomerulopatia da C3 o la nefropatia da IgA [41, 42].

Infine, meritano particolare attenzione i pazienti iperimmunizzati di qualsiasi età con alti livelli di anticorpi anti-HLA (PRA superiore al 99%), per i quali la probabilità di avere accesso a un allotrapianto è praticamente nulla. In questo caso i possibili candidati allo xenotrapianto saranno coloro nei quali gli anticorpi anti-HLA non cross-reagiscono con gli antigeni SLA del maiale donatore. Naturalmente il maiale ideale in questo caso è rappresentato dall’animale ingegnerizzato privo di molecole SLA.

 

Recenti risultati preclinici ed avvio degli studi clinici nello xenotrapianto di rene

Come precedentemente riportato, lo xenotrapianto di rene rappresenta la procedura più appropriata per l’inizio della sperimentazione clinica nell’uomo. Questa affermazione risulta anche sostenuta dai risultati favorevoli ottenuti di recente sia in ambito preclinico nel primate non umano che nell’uomo.

La più lunga sopravvivenza di uno xenotrapianto di rene di maiale salvavita in un primate non umano riportata in letteratura è di 499 giorni [43]. Tale risultato è stato possibile mediante l’applicazione sinergica di strategie innovative atte a controllare sia l’immunità umorale che la risposta T cellulo-mediata. Inoltre i reni xenotrapiantati sono stati ottenuti da maiali GalTKO transgenici per la molecola regolatrice del complemento hDAF (CD55). I macachi rhesus riceventi sono stati selezionati tra quelli con titoli più bassi di anticorpi anti-donatore preformati mediante cross-match donatore/ricevente. La terapia di induzione prevedeva l’utilizzo di un anticorpo monoclonale anti-CD4, mentre la terapia di mantenimento consisteva nella inibizione del pathway costimolatore CD40-CD154 mediante l’impiego di un anticorpo monoclonale anti-CD154 in combinazione con micofenolato mofetile e steroidi. Questi risultati enfatizzano l’importante ruolo delle cellule T-CD4+ nel rigetto dello xenotrapianto di rene e ribadiscono la necessità di utilizzare inibitori delle molecole co-stimolatorie nella terapia immunosoppressiva dopo xenotrapianto.

Alla luce di questi studi preclinici molto incoraggianti è stato autorizzato negli Stati Uniti l’avvio delle prime applicazioni nell’uomo dello xenotrapianto di rene. Sino ad oggi sono stati riportati in letteratura tre casi di soggetti in stato di morte cerebrale, ma con conservate funzioni cardiovascolari, che hanno ricevuto uno xenotrapianto di rene. In due casi sono stati trapiantati un rene da maiale GTKO che comprendeva anche tessuto timico del maiale con l’obiettivo di modulare la risposta T-cellulare [31]. La terapia immunosoppressiva è stata fatta utilizzando micofenolato mofetile e metilprednisolone. La sperimentazione è durata 54 ore, dopo di che l’organo è stato espiantato. Per tutta la durata della sperimentazione i reni xenotrapiantati sono rimasti ben perfusi, la filtrazione glomerulare è aumentata ed hanno continuato a produrre abbondanti quantità di urina; i livelli di creatinina si sono ridotti, senza comparsa di proteinuria. L’analisi istologica ha escluso la presenza di rigetto anticorpo- o cellulo-mediato, anche se in un caso sono stati evidenziati depositi focali di C4d. In aggiunta non è stato evidenziato alcun segnale di deregolazione della cascata della coagulazione.

Questi risultati sono stati in parte replicati da un secondo gruppo di ricerca [32]. In questo caso, una volta accertata la morte celebrale, il paziente è stato nefrectomizzato e sono stati trapiantati entrambi i reni ottenuti da un maiale ingegnerizzato con 10 modifiche genetiche (riportate nella Tabella 1). La sperimentazione è stata condotta per 74 ore durante le quali la funzionalità renale è stata mantenuta in termini di produzione di urina anche se la clearance della creatinina non è migliorata. Istologicamente sin dall’inizio si è osservata una microangiopatia trombotica di grado moderato che non è progredita nel tempo e che non era associata a depositi di anticorpi, di complemento o a rigetto cellulo-mediato.

A questo punto è importante sottolineare che in entrambi questi studi, che si sono avvalsi di maiali donatori con alto profilo di sicurezza (DPF) associato a monitoraggio microbiologico assiduo del ricevente, non c’è stata nessuna evidenza di trasmissione di infezione all’uomo, in particolare da PERV.

Nonostante il breve periodo di follow-up legato alla particolare condizione sperimentale utilizzata, questi studi fanno ben sperare che organi appropriatamente ingegnerizzati in combinazione con un adeguato protocollo immunosoppressivo siano in grado di svolgere le normali funzioni fisiologiche di un rene in vista di una più ampia applicazione clinica futura.

 

Conclusioni

La carenza cronica di organi, cellule e tessuti umani per la cura di malati, unita al loro sempre più crescente fabbisogno, ha dato un grosso impulso alla ricerca di fonti alternative di organi. In quest’ambito lo xenotrapianto rappresenta una delle vie correntemente esplorate dai ricercatori. In particolare, grazie alla sua somiglianza anatomica e fisiologica con l’uomo, alla sua crescita veloce e ad aspetti economici ed etici, il maiale è stato individuato come la specie più promettente per una possibile applicazione clinica dello xenotrapianto.

Una migliore comprensione dei meccanismi immunitari responsabili del rigetto di uno xenotrapianto ha permesso di ottenere animali ingegnerizzati maggiormente compatibili con l’uomo e lo sviluppo di nuove terapie immunosoppressive. Allo stesso modo è stato possibile generare animali in grado di superare alcune incompatibilità fisiologiche tra maiale e primate, e con un aumentato profilo di sicurezza.

Questi progressi hanno permesso di prolungare significativamente la sopravvivenza di xenotrapianti di maiale nel primate non umano e hanno consentito l’avvio prudente di sperimentazioni cliniche nell’uomo fino ad oggi ritenute impossibili.

 

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Kidney and immune system

Abstract

Il rene e il sistema immunitario sono caratterizzati da una stretta e complessa relazione multidirezionale. Il sistema immunitario è causa di nefropatie immunomediate oltre ad essere un fondamentale mediatore del danno parenchimale renale in corso di nefropatie acute e croniche. Occorre inoltre sottolineare come la disfunzione renale, soprattutto se cronica, ha un impatto determinante sulla funzionalità del sistema immunitario causando un’immunosenescenza accelerata ed “inflammaging”.

Questo articolato cross-talk fornisce potenzialmente numerose possibilità di intervento; da notare infatti come l’armamentario terapeutico per la gestione delle nefropatie immunomediate sia in significativo aumento con numerosi farmaci immunomodulanti già entrati nella pratica clinica o in prossimità di entrarvi. D’altro canto, strumenti in grado di modificare significativamente l’impatto del sistema immunitario sulla progressione del danno renale in corso di nefropatia, così come strumenti in grado di modulare l’effetto della nefropatia cronica sulla disfunzione ad essa secondaria del sistema immunitario, non sono ancora disponibili nella pratica clinica.

Scopo di questa review è quello di discutere la complessa interazione esistente tra rene e sistema immunitario con un focus particolare sulle potenziali traslazioni cliniche attuali e future.

Parole chiave: glomerulopatia, autoimmunità, complemento, anti-CD20, Blyss

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Introduzione

La complessa relazione tra fisiopatologia renale e sistema immunitario è un argomento di grande interesse scientifico, sia dal punto di vista patogenetico che terapeutico. La perdita della tolleranza immunologica e l’attivazione della risposta immunitaria sia innata che adattativa è infatti implicata nella patogenesi di numerose nefropatie. La crescente comprensione dei meccanismi patogenetici sottostanti ha portato ad importanti risvolti in ambito diagnostico e prognostico, a significativi avanzamenti terapeutici nella gestione delle glomerulopatie, sempre più tendente ad un approccio personalizzato e multimodale. Il sistema immunitario svolge inoltre un ruolo nella progressione del danno renale non immunomediato sia nel contesto della malattia renale acuta (AKI) che della malattia renale cronica (MRC). Occorre inoltre sottolineare come il rene stesso abbia un impatto profondo sull’attività del sistema immunitario: la malattia renale si accompagna infatti ad una varietà ancora parzialmente incompresa di effetti a carico del sistema immunitario. Il seguente manoscritto tratterà questi argomenti, soffermandosi sui più recenti avanzamenti in ambito terapeutico.

 

Sistema immunitario e cellule residenti all’interno del parenchima renale

Oltre alla funzione depurativa, al mantenimento del bilancio dei fluidi corporei e dei principali elettroliti, e alla funzione ormonale, il rene svolge un ruolo importante nel mantenimento di una corretta omeostasi immunitaria. Il glomerulo è infatti in grado di mitigare la risposta infiammatoria grazie alla clearance di tossine, prodotti della degradazione batterica (es. lipopolisaccaride) e citochine [1, 2].  Inoltre, numerose popolazioni cellulari residenti, distribuite in maniera polarizzata nei diversi compartimenti del parenchima renale, in condizioni fisiologiche partecipano ad un corretto mantenimento dell’omeostasi renale e alla tolleranza immunologica [36]; cellule dendritiche e monociti/macrofagi sono le sottopopolazioni più rappresentate, tuttavia possono essere presenti in misura minore anche linfociti B e T, cellule natural killer e mastociti [3, 5].

Le cellule dendritiche sono specializzate nella presentazione dell’antigene e, conseguentemente, nell’iniziazione della risposta immunitaria, ponendosi a ponte tra immunità innata e adattativa. Le cellule dendritiche sono principalmente localizzate nel tubulo-interstizio, a stretto contatto con il compartimento vascolare peri-tubulare; a tale livello, esse sono in grado di captare frammenti antigenici proteici a basso peso molecolare filtrati dal glomerulo per poi migrare ai linfonodi renali, dove favoriscono la tolleranza immunologica grazie all’inattivazione dei cloni T cellulari autoreattivi. Il legame con antigeni non-self induce l’attivazione della risposta infiammatoria adattativa negli organi linfoidi secondari e, a livello locale, la chemiotassi di neutrofili e monociti/macrofagi grazie alla produzione di citochine e chemochine con efficienza e magnitudine nettamente maggiore rispetto alle cellule tubulari (anch’esse in grado di produrre chemochine) [3, 7]. I macrofagi sono invece cellule scavenger con ruolo cardine nella clearance di patogeni e cellule apoptotiche e necrotiche (fenotipo M1), nonché nella riparazione del danno tissutale (fenotipo M2). I macrofagi renali residenti sono principalmente localizzati nella midollare e nella capsula di Bowman, anche se l’attivazione della risposta infiammatoria può portare alla loro infiltrazione diffusa del parenchima renale da parte dei monociti circolanti [3, 7, 8]. Nel soggetto sano questo porta ad un’efficace clearance dei patogeni e al successivo innesco dei meccanismi riparativi [3, 5, 7]; in situazioni di disregolazione immunitaria, invece, tali popolazioni cellulari sono in grado di perpetuare l’infiammazione portando al danno irreparabile del nefrone e all’attivazione di meccanismi profibrotici [9].

I linfociti B e T, pilastri dell’immunità adattativa, in condizioni fisiologiche sono scarsamente rappresentati a livello renale; la presenza di infiltrati linfocitari importanti solitamente è un correlato fisiopatologico di alcune nefropatie immunomediate (es. Vasculiti ANCA associate, Lupus Eritematoso Sistemico, nefriti tubulointerstiziali).  Altre cellule del sistema immunitario possono essere identificate a livello del parenchima renale (es. cellule natural killer, cellule linfoidi innate, mastociti); il loro ruolo nell’omeostasi renale tuttavia non è ancora stato pienamente delucidato [3, 5].

 

Il sistema immunitario influenza il rene: ruolo nella patogenesi e target terapeutici di interesse nelle principali glomerulopatie immunomediate

La disregolazione dell’immunità innata e adattativa è stata implicata nella patogenesi di numerose nefropatie [5]. Dal punto di vista meccanicistico, il tipo di danno immunomediato sul rene può essere di tipo diretto o indiretto [1]: nel primo caso, il sistema immunitario produce autoanticorpi diretti contro un antigene primariamente localizzato a livello glomerulare (es. malattia da anticorpi anti-membrana basale glomerulare, glomerulopatia membranosa) o tubulare (es. malattia da anticorpi anti-membrana basale tubulare, sindrome di Sjögren). Differentemente, il danno immunomediato di tipo indiretto è causato da una disregolazione immunitaria generalizzata, che si estrinseca nella formazione e deposizione di immunoglobuline o immunocomplessi nelle varie porzioni del nefrone o nell’iperattivazione del sistema del complemento, più frequentemente della via alterna. Il danno immunomediato nella maggior parte dei casi si verifica in condizioni di autoimmunità (es. Vasculiti ANCA associate, Lupus Eritematoso Sistemico) o iperattivazione in seguito a stimoli esterni (es. infezioni), mentre una minoranza dei casi riconosce una base genetica (es. Microangiopatie Trombotiche, Glomerulopatie a deposito di C3) [1, 5]. La crescente comprensione dei meccanismi alla base del danno immunomediato ha consentito non solo una più corretta classificazione delle glomerulopatie, ma anche l’identificazione di nuovi target terapeutici di interesse.

Per gli scopi di questo manoscritto, ci focalizzeremo nei prossimi paragrafi su due compartimenti del sistema immunitario che hanno ricevuto grande attenzione negli ultimi anni in quanto centrali nella patogenesi di diverse nefropatie ed importanti bersagli terapeutici: il comparto B cellulare e il sistema del complemento.

 

Il comparto B cellulare

I linfociti B sono cellule del braccio adattativo del sistema immunitario, dotati di estrema eterogeneità fenotipica e funzionale. Dal fegato fetale al midollo osseo, i linfociti B vanno incontro ad una serie di stadi maturativi che terminano nel rilascio nel circolo periferico di cellule naive dotate di recettore B cellulare (BCR) adeguatamente funzionante e non autoreattivo. Il contatto con antigeni ed apteni a livello periferico e linfonodale stimola l’ulteriore maturazione dei linfociti B a plasmacellule e plasmablasti, secernenti immunoglobuline, e allo sviluppo delle cellule B della memoria, responsabili dell’immunità secondaria. Tali fasi maturative si accompagnano a caratteristiche variazioni dei principali markers di superficie: di particolare interesse è il CD20, non presente su plasmacellule/plasmablasti. Il principale meccanismo effettore dei linfociti B nella genesi delle nefropatie immunomediate è determinato dalla secrezione di immunoglobuline; altri meccanismi di danno, detti anticorpo-indipendenti, includono la secrezione di citochine e la presentazione dell’antigene ai linfociti T (comunicazione B-T cellulare) [5, 10].

Lo studio delle diverse sottopopolazioni B cellulari potrebbe portare ad interessanti sviluppi sia in ambito terapeutico che nel monitoraggio dell’attività di malattia [10, 11]. La disregolazione del comparto B cellulare è evidente nel Lupus Eritematoso Sistemico, in cui la genesi di autoanticorpi diretti contro numerosi antigeni nucleari provoca la formazione di immunocomplessi, l’attivazione del complemento e la produzione diffusa di citochine e cloni T autoreattivi, generando uno stato infiammatorio che a livello renale si traduce in un quadro istopatologico e fenotipico molto eterogeneo [12]. Nelle Vasculiti ANCA associate, la produzione di anticorpi diretti contro la mieloperossidasi (MPO) e la proteinasi 3 (PR3) è in grado di stimolare la degranulazione dei neutrofili attivati con conseguente infiammazione vascolare necrotizzante caratterizzata a livello renale dallo sviluppo di una glomerulonefrite rapidamente progressiva [13, 14].

Nella nefropatia membranosa primitiva, la produzione di immunocomplessi antigene-anticorpo nella maggior parte dei casi rivolti verso il recettore della fosfolipasi A2 (PLA2R) e, in minor misura, della trombospondina di tipo 1 7A (THSD7A) porta al danneggiamento della barriera di filtrazione glomerulare e allo sviluppo di sindrome nefrosica [1517].  Nella nefropatia a depositi mesangiali di IgA la produzione di IgA degalattosilate, legata alla verosimile migrazione di B cellule dell’immunità mucosale al midollo osseo, porta alla formazione di immunocomplessi che si depositano a livello mesangiale, attivando la risposta infiammatoria [18]. Infine, la comunicazione B-T cellulare sembra svolgere un ruolo cardine anche nella patogenesi delle podocitopatie primitive in cui un fattore circolante attualmente sconosciuto, verosimilmente di origine T cellulare, è in grado di danneggiare le cellule epiteliali viscerali della barriera di filtrazione glomerulare, determinandone la perdita di selettività e la comparsa di sindrome nefrosica [19].

Utilizzare il comparto B cellulare nelle sue diverse fasi maturative come target terapeutico è ormai la base del trattamento di svariate nefropatie immunomediate [1, 5, 20]. Il CD20, antigene espresso sin dalle fasi precoci della maturazione B cellulare e perso nella maturazione a plasmacellula, presenta le evidenze più solide in letteratura: l’anticorpo monoclonale chimerico rituximab è infatti utilizzato come prima linea terapeutica in diverse nefropatie immunomediate. L’esperienza maggiore proviene dal trattamento delle Vasculiti ANCA associate, in cui il rituximab, in associazione con i glucocorticoidi, è utilizzato in prima linea sia nella induzione che nel mantenimento della remissione di malattia [20]. I trial clinici RAVE (n=197) e RITUXVAS (n=44) sono i primi ad aver documentato la non inferiorità del rituximab rispetto alla terapia standard con ciclofosfamide nella poliangite microscopica (MPA) e nella granulomatosi con poliangite (GPA): l’outcome primario è stato infatti raggiunto dal 64% versus 53% e dal 76% versus 82% dei pazienti, rispettivamente, con profilo di sicurezza e tassi di recidiva simili durante il periodo di osservazione [21, 22]. I trial MAINRITSAN e RITAZAREM hanno successivamente indagato il ruolo del rituximab come terapia di mantenimento [2327]: nel MAINRITSAN 1 (n=115), dopo una terapia di induzione a base di ciclofosfamide e glucocorticoidi, si è osservato un beneficio in termini di recidive maggiori nei pazienti in mantenimento con rituximab rispetto ad azatioprina (a 28 mesi: 29% nel gruppo trattato con azatioprina versus 5% nel braccio trattato con rituximab, p=0.0002) [23]. Il trial RITAZAREM (n=188) ha portato a risultati simili in pazienti con Vasculite ANCA associata recidivante trattati con rituximab e corticosteroidi in induzione e, successivamente, rituximab o azatioprina come terapia di mantenimento, con un hazard ratio nella protezione da recidiva di 0.36 (95% CI 0.23-0.57, p<0.001) [27, 28].

Rimane ancora da chiarire quale sia lo schema di mantenimento a base di rituximab ideale. Nel MAINRITSAN 1 i pazienti, all’avvio della fase di mantenimento, venivano trattati con rituximab 500 mg al giorno 0 e 14 e poi al mese 6, 12, 18; nel RITAZAREM, dopo induzione con rituximab, la dose era di 1000 mg al mese 4, 8, 12, 16, 20. Lo studio MAINRITSAN 2 ha invece confrontato lo schema di rituximab utilizzato come terapia di mantenimento del MAINRITSAN 1 con uno schema on-demand, in cui il ritrattamento era guidato dal ripopolamento dei linfociti B CD20 o da un aumento significativo degli ANCA senza identificare differenze significative tra i due regimi; occorre tuttavia sottolineare un trend non statisticamente significativo verso una minor incidenza di recidive nel braccio trattato a cadenza fissa semestrale [24]. La terapia di mantenimento ideale a base di rituximab nel contesto delle Vasculiti ANCA associate è ancora da chiarire (Tabella 1) e i diversi regimi di mantenimento proposti possono al momento essere considerati in modo alternativo nel contesto di scenari clinici diversi (es. età del paziente, funzione renale residua, fenotipo di malattia, comorbidità, pregresse recidive); idealmente, studi futuri saranno in grado di fornirci biomarkers efficaci nell’identificare l’approccio ideale per il singolo paziente. Occorre inoltre considerare che il rituximab può essere utilizzato in maniera efficace e sicura anche come mantenimento a lungo termine [25, 29, 30]; un più rapido ripopolamento del comparto B cellulare, la ripositivizzazione degli ANCA e la loro specificità PR3 sono fattori di rischio per la recidiva, identificando un sottogruppo di pazienti che potrebbe beneficiare da schemi di mantenimento aggressivi e monitoraggi stretti [25, 29, 30].

 

 

MAINRITSAN (2014)

N=57

MAINRITSAN 2 (2018)

N= 162

RITAZAREM (2020)

N=85

Caratteristiche basali

 

Sesso femminile*

Età (anni) *

ANCA-PR3 *

ANCA-MPO*

GPA*

MPA*

Vasculiti renali*

 

 

20 (35%)

54±13°

44 (77%)

9 (16%)

47 (82%)

8 (14%)

2 (4%)

Schema personalizzato (n=81)

 

31 (38%)

62±14°

38 (47%)

26 (32%)

56 (69%)

25 (31%)

Schema fisso (n=81)

 

37 (46%)

59±13°

38 (47%)

24 (29%)

61 (75%)

20 (25%)

 

 

42 (49%)

57 (18 – 89)+

61 (72%)

24 (28%)

Popolazione arruolata Remissione completa dopo terapia di induzione Remissione completa dopo terapia di induzione Recidiva di malattia
Schema di mantenimento con RTX 500 mg al giorno 0 e 14 e, successivamente, al mese 6-12-18 500 mg al giorno 0, trattamento guidato dall’aumento degli ANCA o ripopolazione B cellulare 500 mg al giorno 0 e 14 e, successivamente, al mese 6-12-18 1 g ogni 4 mesi (mese 4-24)
Follow-up (mesi) 28 28 Minimo 24 mesi
Recidive maggiori di malattia* 3 (5%) 6 (7%) 3 (4%) 2 (2%)
SAE (n° pazienti, %) 25 (44%) 26 (27%) 31 (38%) 19 (22%)
Tabella 1: Caratteristiche cliniche, strategie di terapia di mantenimento, tassi di recidiva ed eventi avversi nei bracci tratti con Rituximab degli studi prospettici focalizzati sulla terapia di mantenimento delle Vasculiti ANCA associate.
*: n/N (%); °: media ± deviazione standard; +: mediana (range interquartile); GPA: granulomatosi con poliangite; MPA: micropoliangite; RTX: rituximab; SAE: eventi avversi severi (severe adverse events).

Un’altra glomerulopatia in cui il rituximab è ormai identificato come terapia di prima linea nella maggior parte dei contesti clinici è la nefropatia membranosa; infatti, il rituximab si è dimostrato superiore rispetto al solo approccio supportivo con inibitori del sistema renina angiotensina aldosterone (GEMRITUX, n= 75) [31] e alla terapia con ciclosporina soprattutto dopo la sospensione di quest’ultima (MENTOR, n=130) [32]. Il ruolo del rituximab rispetto allo storico schema ciclico a base di ciclofosfamide e corticosteroidi è invece più dibattuto: nel trial STARMEN (n=86) lo schema ciclico è stato comparato ad un approccio sequenziale con tacrolimus e rituximab somministrato come singola dose di 1 g, identificando una differenza a favore dello schema ciclico nel raggiungimento della remissione di malattia, sia completa che parziale, a 24 mesi (83.7% versus 58.1%) [33]. Questo studio, pur non mostrando un’equivalenza della terapia ciclica alla terapia sequenziale con tacrolimus e rituximab, ha tuttavia dimostrato il potenziale ruolo del rituximab come terapia, almeno in certi contesti clinici, in grado di consolidare la remissione alla sospensione degli inibitori della calcineurina, condizione gravata da un elevato rischio di recidiva.

Il più recente trial RI-CYCLO (n=74) ha confrontato terapia ciclica e rituximab 1 g x 2 senza identificare differenze tra i due trattamenti a 24 mesi in termini di efficacia clinica: la probabilità di ottenere una risposta completa o parziale è risultata sovrapponibile tra i due gruppi, con una tendenza alla remissione più rapida nello schema ciclico. Il sesso maschile, un’età <55 anni e la presenza di una sindrome nefrosica più severa sono risultati fattori associati ad una minore probabilità di sperimentare una remissione di malattia [34]. Anche in questo contesto, lo schema terapeutico ideale (Tabella 2) e il possibile impatto della dose di rituximab sulla risposta clinica deve essere investigato ulteriormente, soprattutto considerando l’incrementata perdita urinaria del farmaco in corso di sindrome nefrosica [35].

Trial Trattamento (n° pazienti) Follow-up (mesi) Risposta clinica (CR+PR) Recidive di malattia Eventi avversi severi

(n°eventi)

GEMRITUX (2017)

RTX 375 mg/m2 al giorno 1 e 8 (n=37)

Terapia supportiva (n=38)

17 (12.5–24.0)+

 

17 (13.0–23.0)+

24/37%

 

13/38%

8

 

8

MENTOR (2019)

RTX 1g al giorno 1 e 15 (eventualmente ripetuto a 6 mesi) (n=65)

Ciclosporina (3.5 mg/kg/die) per 12 mesi, scalato fino a sospensione in 2 mesi (n=65)

24 39/65$

 

 

13/65$

 

2/39$

 

 

18/34$

 

13

 

 

22

 

STARMEN (2021)

Schema ciclico: MPDN (1 g/die x 3) seguito da PDN (0.5 mg/kg/die) per 27 giorni al mese 1-3-5, alternato a ciclofosfamide orale (2 mg/kg/die) al mese 2-4-6 (n=43)

Tacrolimus (0.05 mg/kg/die) fino al mese 6, poi scalato fino a sospensione in 3 mesi + RTX 1g al giorno 180 (n=43)

24 36/43$

 

 

 

 

 

25/43$

1/36%

 

 

 

 

 

3/25%

10

 

 

 

 

 

7

RI-CYCLO (2021)

RTX 1g al giorno 1 e 15 (n=37)

Schema ciclico: MPDN (1 g/die x3) seguito da PDN (0.5 mg/kg/die) per 27 giorni al mese 1-3-5, alternato a ciclofosfamide orale (2 mg/kg/die) al mese 2-4-6 (n=37)

Fino a 36 mesi 17/20$

 

 

 

16/22$

3/23%

 

 

 

6/27%

8

 

 

 

6

Tabella 2: Caratteristiche cliniche, schemi terapeutici, tassi di risposta clinica/recidiva ed eventi avversi negli studi prospettici sul ruolo del Rituximab nella Nefropatia Membranosa.
+: mediana (range interquartile); %: risposta cumulativa; $: alla fine del follow-up; MPDN: metilprednisolone; PDN: prednisone; RTX: rituximab

Nonostante il ruolo centrale del comparto B cellulare nella patogenesi del Lupus Eritematoso Sistemico, i primi dati di efficacia terapeutica dei farmaci anti-CD20 di tipo I (rituximab, ocrelizumab) in corso di nefrite lupica sono stati poco incoraggianti, infatti le ultime linee guida ACR/EULAR riservano il trattamento con RTX solo nella patologia lupica refrattaria o difficile da trattare [36,37]. Nel trial clinico di fase III LUNAR (n= 144) l’aggiunta del RTX alla terapia di background in pazienti con nefrite lupica proliferativa non ha apportato sostanziali benefici in termini di risposta clinica rispetto a placebo (p=0.18) [38]. Il trattamento con rituximab è stato inoltre indagato come terapia di mantenimento, nel tentativo di identificare un ruolo del farmaco in questo contesto così come di esplorare un potenziale impatto dell’utilizzo di una elevata dose cumulativa del farmaco nel modificare il rischio di recidiva nel lungo termine, evento descritto nelle Vasculiti ANCA associate [30].

In uno studio retrospettivo di 147 pazienti [39] affetti da Lupus Eritematoso Sistemico, 80 di questi erano stati trattati con terapia di mantenimento con rituximab (in media, 1 g ogni 6 mesi per 2 anni): una risposta clinica completa è stata ottenuta nel 48% dei pazienti a 24 mesi; i pazienti con ipocomplementemia per C4, un numero più basso di linee terapeutiche prima del rituximab ed un coinvolgimento d’organo grave presentavano migliori probabilità di sperimentare una risposta clinica positiva. La terapia di mantenimento con rituximab ha consentito un complessivo risparmio di steroide, tuttavia il 65% dei pazienti ha sperimentato almeno una recidiva in corso di terapia di mantenimento (53/100 pazienti-anno), più frequentemente tra i 6 e 12 mesi dopo la prima somministrazione del farmaco e a coinvolgimento d’organo non severo, ossia per lo più osteoarticolare e cutaneo. La sospensione del mantenimento con rituximab, a differenza delle Vasculiti ANCA associate, non si associava ad un ritardo nel tempo libero da recidiva rispetto ai pazienti trattati con rituximab con il solo scopo di indurre la remissione e poi mantenuti in terapia standard. Alla sospensione della terapia di mantenimento, si osservava un incremento del tasso di recidive maggiori (da 38% a 67%, p=0.01) con interessamento neurologico, ematologico e polmonare, mentre la frequenza di recidive maggiori con coinvolgimento renale rimaneva sostanzialmente stabile [39]. Veniva quindi concluso che una terapia di mantenimento a base di rituximab può essere considerata un’opzione in malati con Lupus Eritematoso Sistemico difficile da trattare, che il rischio di recidive muscolo-scheletriche in corso di terapia esiste ma le recidive maggiori erano infrequenti; tuttavia, alla sospensione della terapia di mantenimento il rischio di recidiva rimaneva identico a quello di pazienti trattati con la sola induzione a base di rituximab.

La minor efficacia del rituximab nell’ambito del lupus eritematoso sistemico rispetto ad altre malattie immunomediate non ha ancora un’interpretazione univoca. Le spiegazioni possibili sono molteplici, queste esiterebbero comunque in un’incompleta deplezione dei linfociti B che manterrebbero quindi la loro capacità di perpetuare la risposta autoimmunitaria [4042]. Per certo, una adeguata deplezione B linfocitaria sembrerebbe condizione necessaria al fine di ottenere una risposta al rituximab in corso di Lupus Eritematoso Sistemico in generale e nefrite lupica in particolare. Un’analisi post-hoc della cinetica di deplezione nei pazienti dello studio LUNAR ha infatti rilevato una maggior incidenza di remissione sostenuta a 78 settimane (ma non a 52 settimane) nei pazienti con una deplezione B cellulare più sostenuta. La presenza di un eGFR più elevato, un minor consumo complementare e un grado minore di proteinuria erano fattori associati ad una deplezione più sostenuta [40].

L’incompleta deplezione B cellulare dopo rituximab, unitamente alla sua immunogenicità e alla lenta cinetica, potrebbero essere superate dai nuovi anticorpi monoclonali anti-CD20 di classe II, di cui attualmente l’obinutuzumab è la molecola che si sta rivelando in grado di raccogliere le maggiori evidenze. Oltre alla minor immunogenicità, legata alla bioingegnerizzazione di tipo umanizzato, obinutuzamab è dotato di un effetto citotossico diretto più marcato e una miglior resistenza all’internalizzazione mediata dal recettore per il frammento costante gamma; ciò si traduce in una miglior capacità depletiva sul comparto B cellulare residuo a livello tissutale [43]. I primi risultati nei pazienti con Lupus Eritematoso Sistemico sono incoraggianti: lo studio di fase II NOBILITY (n=125) ha infatti evidenziato una miglior risposta renale a 104 settimane nei pazienti trattati con obinutuzumab rispetto a placebo in aggiunta a terapia di background con steroide e micofenolato mofetile (p=0.026), con una cinetica di deplezione B cellulare molto più rapida rispetto al RTX (96% dopo 2 settimane versus 52% nel trial LUNAR) e un profilo di sicurezza favorevole [44]. È attualmente in fase di arruolamento lo studio di fase III REGENCY (NCT04221477), che auspicabilmente fornirà ulteriori evidenze prospettiche a favore di questa nuova arma terapeutica. Il trattamento con obinutuzumab è in corso di studio anche nella nefropatia membranosa (NCT04629248, fase III) e nella glomerulosclerosi focale e segmentaria (NCT04983888, fase II), mentre dati aneddotici ne documentano l’efficacia nelle Vasculiti ANCA associate, contesto clinico in cui peraltro una inefficacia del rituximab è significativamente meno frequente [45].

Un più recente approccio terapeutico nelle glomerulopatie immunomediate mira ad una modulazione più indiretta del compartimento B cellulare attraverso un’azione sulle citochine che ne regolano lo sviluppo e la differenziazione. Particolare attenzione è stata posta all’inibizione del fattore attivante i linfociti B (BAFF), uno dei principali fattori immunostimolanti del braccio B cellulare dell’immunità adattativa nei suoi diversi compartimenti [1, 10]. L’anticorpo monoclonale umano belimumab è ormai approvato per il trattamento dei pazienti con Lupus Eritematoso Sistemico non controllato dalla terapia standard [36]. I principali dati sulla nefrite lupica derivano dal trial clinico di fase III BLISS-LN (n=448), in cui belimumab è stato comparato con placebo in aggiunta alla terapia di background in pazienti con nefrite lupica proliferativa in fase attiva. Già dalle 24 settimane di follow-up, l’aggiunta di belimumab è stata associata ad un maggior tasso di raggiungimento dell’outcome renale primario rispetto a placebo indipendentemente dalla terapia di induzione utilizzata (ciclofosfamide seguita da azatioprina rispetto a micofenolato mofetile). Tale beneficio è stato sostenuto lungo tutto il periodo di osservazione di 104 settimane (43% vs 32%, odds ratio, 1.6; IC95% 1.0 – 2.3; p=0.03). I pazienti randomizzati a belimumab hanno inoltre sperimentato una miglior risposta sierologica. Infine, il trattamento con belimumab è stato associato ad un minor rischio di eventi renali o morte (hazard ratio= 0.51, IC95% 0.34 – 0.77, p=0.001), presentando un profilo di sicurezza assimilabile alla sola terapia di background [46]. Una post hoc analisi avrebbe ristretto il beneficio in termini degli outcomes renali ai casi con classi proliferative di nefrite lupica e con proteinuria lieve o moderata; non veniva identificato invece un segnale di efficacia nelle forme di membranosa lupica [47].

L’effetto di Belimumab è stato inoltre indagato nelle Vasculiti ANCA associate, in cui il BAFF svolge un importante ruolo patogenetico nel perpetuare la produzione di ANCA. Lo studio di fase III BREVAS (n=105) ha valutato l’efficacia di belimumab versus placebo in associazione ad azatioprina e glucocorticoidi come terapia di mantenimento nelle GPA ed MPA. In tale setting, il trattamento con belimumab non ha raggiunto l’outcome primario e non ha dimostrato sostanziali benefici in termini di protezione dalle recidive, sebbene il tempo mediano alla recidiva fosse più lungo nel braccio belimumab rispetto a placebo (251 giorni versus 105 giorni); occorre sottolineare come lo studio sia stato chiuso in anticipo senza raggiungere il target di reclutamento prefissato. È interessante segnalare come tutte le recidive verificatesi nel braccio trattato con belimumab fossero pazienti PR3-ANCA positivi che avevano ricevuto un’induzione a base di ciclofosfamide, mentre nessuna recidiva è stata riportata in pazienti trattati con rituximab come induzione che avessero ricevuto anche belimumab come mantenimento [48], suggerendo che la combinazione dei due farmaci potrebbe avere un ruolo nella gestione delle Vasculiti ANCA associate. In questo ambito, occorre sottolineare come un polimorfismo del singolo nucleotide della regione regolatoria del gene BAFF, associato a segni di maggior attività del compartimento B cellulare, sia stato identificato associato ad una minor probabilità di risposta in Vasculiti ANCA associate trattate con rituximab come induzione, ulteriormente rafforzando il razionale della potenziale utilità del targeting contemporaneo di linfociti B e di loro citochine attivanti almeno in alcuni contesti clinici [49]. Infine, una monoterapia biennale con belimumab è stata indagata in pazienti con nefropatia membranosa PLA2R positiva attraverso un piccolo trial open-label, in cui 11 pazienti hanno raggiunto una remissione completa o parziale di malattia, ottenuta a seguito di una remissione sierologica. Tutti i pazienti hanno sperimentato almeno un evento avverso durante il follow-up, principalmente di natura infettiva, sebbene si trattasse di eventi lievi-moderati a risoluzione spontanea [50]. In tutti e tre gli studi, il trattamento con belimumab si è associato ad un decremento dei linfociti B naive e ad un aumento farmaco-correlato dei linfociti B della memoria, probabile espressione di una aumentata mobilizzazione degli stessi dagli organi linfoidi tissutale al circolo ematico ponendo un intrigante razionale teorico per una terapia in combinazione di belimumab e rituximab in cui il belimumab preceda la somministrazione del farmaco anti-CD20 con l’obiettivo di rendere le cellule della memoria CD20 positive più accessibili al killing rituximab mediato [46, 48, 50].

 

Il sistema del complemento

Il sistema del complemento è un importante pilastro dell’immunità innata, attivato a livelli sub-soglia in condizioni fisiologiche. La sua attivazione avviene con un meccanismo a cascata che riconosce tre vie distinte: la via classica, la via alternativa e la via lectinica; momento ultimo comune è la formazione del complesso di attacco alla membrana (MAC), con attività litica, e la produzione delle anafilotossine C3a e C5a, che partecipano alla chemiotassi delle cellule immunitarie nei siti di infiammazione [51]. La disregolazione del sistema del complemento è un elemento patogenetico centrale in molteplici glomerulopatie mediate da immunocomplessi, in cui la sua attivazione è contestuale all’autoimmunità; alcune condizioni genetiche, infine, sono state associate all’iperattivazione del sistema del complemento (es. sindrome emolitico-uremica atipica e glomerulopatie da C3) [5, 51]. L’attivazione del complemento si traduce solitamente in un consumo dei livelli circolanti di C3 e, se coinvolta anche la via classica, di C4 (es. Lupus Eritematoso Sistemico); tuttavia, alcune patologie con coinvolgimento del complemento possono presentarsi con normocomplementemia a seguito dell’attivazione complementare esclusivamente in situ (es. nefropatia membranosa, Vasculiti ANCA associate).

L’utilizzo del sistema del complemento come target terapeutico di prima linea nasce dall’esperienza ematologica, ed è stato traslato alla nefrologia con l’utilizzo dell’inibitore del C5 eculizumab nella sindrome emolitico-uremica atipica [52]. Recentemente, la disregolazione della via alternativa del complemento è stata identificata come uno dei principali momenti patogenetici nelle Vasculiti ANCA associate, in cui la produzione delle anafilotossine (in particolare il C5a) parteciperebbe alla chemiotassi dei neutrofili attivati e, conseguentemente, all’infiammazione vascolare [53]. Tali evidenze hanno portato all’impiego dell’avacopan, farmaco orale con effetto inibitorio selettivo sul recettore del C5a, con risultati molto incoraggianti negli studi di fase II [54, 55]; il successivo trial clinico di fase III ADVOCATE (n=331) ha testato l’efficacia di avacopan in aggiunta alla terapia steroidea come terapia di induzione in pazienti con GPA e MPA, dimostrando una non-inferiorità nel mantenimento di una remissione clinica sostenuta a 26 settimane (72.3 versus 70.1%) e una superiorità a 52 settimane rispetto al braccio di controllo trattato con terapia di mantenimento standard (65.7% versus 54.9%). Riguardo il braccio di controllo, occorre sottolineare come il gruppo trattato con ciclofosfamide come induzione (36% circa) ricevesse come mantenimento azatioprina, mentre il gruppo trattato con rituximab come induzione (64% circa) non ricevesse altri immunosoppressori a scopo di mantenimento. Il trattamento con avacopan ha consentito una riduzione significativa della dose di glucocorticoidi necessaria, con conseguente riduzione degli effetti tossici legati a quest’ultimo e nei malati con coinvolgimento renale una più rapida riduzione della proteinuria e un maggior miglioramento della GFR soprattutto nel sottogruppo con filtrato di partenza inferiore ai 30 ml/min/1.73m2 [56].

I tre bracci del complemento sono stati estensivamente implicati nella patogenesi del Lupus Eritematoso Sistemico [57]. Nella nefropatia membranosa, la via alterna del complemento, attivata in situ, partecipa al danno glomerulare mediato dagli immunocomplessi [58]. Infine, il ruolo della via alternativa e lectinica del complemento sia in situ che in fase fluida è sempre più evidente nella nefropatia a depositi di IgA ed è parte integrante del modello patogenetico multi-hit [18, 59]; ciò determina un importante avanzamento nel paradigma di trattamento di questa glomerulopatia assai diffusa ma caratterizzata da scarse opzioni terapeutiche [59]. Lo studio dei farmaci anti-complemento in queste nefropatie è ancora in fase iniziale: sono attualmente in corso di reclutamento studi di fase II sia su farmaci anti-complemento biologici (NCT04564339) che su inibitori della via alterna orali (NCT05097989).

 

Il sistema immunitario influenza il rene: ruolo nella progressione del danno renale

Il sistema immunitario residente a livello renale, oltre a partecipare alla tolleranza immunologica e al mantenimento di una corretta omeostasi, regola gli insulti infiammatori a tutti i livelli del nefrone. Il ruolo dell’infiammazione e dell’attivazione disregolata del sistema immunitario in toto è noto nell’insufficienza renale acuta (AKI) nelle sue diverse manifestazioni (es. necrosi tubulare acuta, nefriti tubulointerstiziali acute e croniche): la morte delle cellule glomerulari e tubulari determina l’espressione di pattern molecolari associati al danno (DAMPs), che innescano le cellule dell’immunità innata residenti ad attivare la risposta infiammatoria (necroinfiammazione) stimolando la produzione di citochine pro-infiammatorie, il reclutamento dei leucociti circolanti, l’attivazione del sistema del complemento e di meccanismi di immunotrombosi [5, 6, 60]. Il pattern di infiammazione e i bracci del sistema immunitario coinvolti dipendono dal tipo di danno acuto [5]. Alla risoluzione dell’insulto, così come nell’AKI post-renale, il sistema immunitario viene invece attivato in senso anti-infiammatorio e profibrotico [6], partecipando alla rigenerazione, in caso di danno tubulare non particolarmente esteso, o alla riparazione del tessuto danneggiato con formazione di aree sclerotiche e fibrosi/atrofia tubulointerstiziale [1]. Quest’ultima, in particolare, è il momento ultimo comune riconoscibile in tutte le forme di danno renale ed è considerata uno stadio irreversibile. L’elemento principe nell’attivazione di un fenotipo infiammatorio pro-fibrotico è il fattore di crescita tumorale beta (TGF-β), in grado di agire sulle principali popolazioni renali e sulle cellule dell’immunità innata e adattativa attraverso vie canoniche (Smad-dipendenti) e non canoniche (via delle MAP-kinasi, etc.) [61, 62]: i principali effetti di un disregolato signalling del TGF-β includono il perpetuarsi di una risposta infiammatoria cronica, l’attivazione dei macrofagi in senso M2 e la loro differenziazione a miofibroblasti, in grado di produrre e accumulare matrice extracellulare [61]. La progressiva comprensione dei meccanismi alla base della fibrosi e delle popolazioni cellulari implicate ha portato allo sviluppo di interessanti target terapeutici che, differentemente dal mirare al trattamento di una specifica condizione primaria, mirano alla stimolazione di una corretta riparazione tissutale. L’inibitore della proteinchinasi MEK trametinib è infatti risultato in grado di ridurre l’accumulo di matrice extracellulare e l’espansione del pool di fibroblasti a livello renale in vivo su modello murino e in vitro in colture di fibroblasti umani [63]. In vivo, tuttavia, tali evidenze non sono state riproducibili, come dimostrato dal fallimento degli inibitori di TGF-β nel rallentare la progressione del danno renale sia nella nefropatia diabetica [64] che nella glomerulosclerosi focale segmentaria [65] per quanto nel contesto di studi clinici caratterizzati da un disegno sperimentale subottimale.

 

Il rene influenza il sistema immunitario: inflammaging e immunosenescenza nella mrc

L’invecchiamento fisiologico si associa ad una complessa modifica del funzionamento del sistema immunitario, sia innato che adattativo, portando a immunosenescenza e inflammaging. La prima altro non è che la riduzione della risposta immunitaria, più inefficace, con conseguente aumentato rischio di eventi infettivi e neoplasie, minor risposta alle vaccinazioni e incapacità di ottenere una riparazione tissutale efficace dopo un danno.  L’inflammaging è invece il perpetuarsi di una infiammazione cronica subclinica con aumentato rischio di autoimmunità e di eventi cardiovascolari e trombotici. Questo complesso disordine è legato all’involuzione degli organi linfoidi primari (fibrosi midollare, involuzione timica), all’incremento delle cellule senescenti circolanti, alla riduzione dell’organizzazione linfonodale con conseguente malfunzionamento dell’immunità adattativa umorale e cellulare, al contestuale aumento del numero di cellule mieloidi attivate ma dotate di attività fagocitaria deficitaria e di linfociti T proinfiammatori con rapporto CD4:CD8 ridotto [2, 66].

Nel paziente con MRC, tali processi risultano accelerati [66, 67]. La MRC, soprattutto in fase avanzata, è infatti in grado di modulare negativamente il sistema immunitario. La ritenzione di alcune tossine uremiche (es. acido fenilacetico e omocisteina) esercita infatti un ruolo inibitorio sulle cellule del sistema immune e ne stimola l’apoptosi. L’uremia determina inoltre un’alterazione della permeabilità di barriera a livello intestinale che, associata ad una proliferazione batterica incontrollata, porta alla circolazione di livelli elevati di pattern molecolari associati a patogeni (PAMPs) con il duplice effetto di stimolazione di un’infiammazione sistemica persistente subclinica e di una immunosoppressione mediata da una progressiva desensibilizzazione alle endotossine. Anche i prodotti del catabolismo proteico, che risulta aumentato nell’IRC, possiedono un effetto ambivalente sul sistema immunitario, determinandone l’attivazione cronica e, allo stesso tempo, alterandone la funzione effettrice. Questa attivazione cronica subclinica dell’infiammazione, in associazione all’effetto pro-ossidativo dell’uremia stessa, determina un eccessivo stress ossidativo a livello sistemico, che stimola il catabolismo proteico ed ha effetto pro-aterogeno e trombotico. Infine, l’aumento delle concentrazioni di renina tipico della MRC è in grado di attivare il compartimento T-helper 17, stimolando l’autoimmunità e l’infiammazione vascolare [2, 5, 66]. Alcune similitudini sono inoltre presenti nel soggetto immunosoppresso: a seguito di un trapianto renale, ad esempio, le sottopopolazioni T cellulari subiscono notevoli modificazioni e, in particolare, caduta dei livelli di linfociti CD4 che sembra correlare all’incidenza di infezioni opportunistiche [68]. Queste considerazioni diventano estremamente attuali nel periodo di pandemia da SARS-CoV-2: la presenza di un’alterata risposta immunitaria nel paziente emodializzato o trapiantato contribuisce infatti a giustificare l’elevata morbilità e mortalità dell’infezione da SARS-CoV-2 rispetto alla popolazione generale, nonché la scarsa risposta all’immunizzazione attiva tramite vaccino [6971]. È interessante notare come i livelli di linfociti T CD4+, CD8+, Natural Killer così come di linfociti B e cellule dendritiche plasmocitoidi siano di per sé ridotti nei malati dializzati e trapiantati rispetto a controlli sani e questo può avere un impatto sulla maggior severità di malattia osservata in questi contesti. Interessante è inoltre l’osservazione che la MRC causi una “cicatrice” immunologica irreversibile anche nel momento in cui la funzione renale viene ad essere reinstaurata, ad esempio con il trapianto renale: le alterazioni immunofenotipiche basali e durante infezione da SARS-CoV-2 sia nei malati trapiantati che dializzati sono infatti simili; si osserva tuttavia una maggior compromissione del sistema immunitario innato nei malati trapiantati, probabile effetto della terapia immunosoppressiva che potrebbe quindi costituire un fattore di rischio additivo [72].

L’identificazione di strategie volte a mitigare lo sviluppo e le conseguenze dell’immunosenescenza e dell’inflammaging avrebbe un enorme impatto sulla prognosi dei pazienti. Varie opzioni sono state considerate tra cui terapie ormonali, esercizio fisico, la possibilità di somministrare citochine e fattori di crescita [73], la somministrazione di probiotici [74] e il ricorso ad una dieta fortemente ipoproteica [75]. Anche la scelta della tecnica dialitica potrebbe avere un impatto su questo aspetto: l’utilizzo di membrane dall’elevata biocompatibilità (es. polimetilmetacrilato) si associa ad una ridotta attivazione della cascata coagulativa e all’adsorbimento di citochine, riducendo il grado di infiammazione cronica latente [76]; le membrane a medio cut-off hanno dimostrato un’ottima capacità di rimozione delle principali citochine proinfiammatorie  [77]; infine, le membrane ricoperte da vitamina E sembrano possedere un effetto antiossidante [78]. Nonostante il forte razionale teorico per tentare di agire su questi aspetti e l’identificazione di potenziali approcci di intervento di interesse, al momento non sono ancora state identificate strategie vincenti in questo contesto e la ricerca scientifica dovrà tentare di identificare nuovi potenziali approcci in grado di impattare sulla prognosi di malati con MRC avanzata.

 

Conclusioni

Le interazioni tra rene e sistema immunitario sono complesse e multidirezionali. Alcune di queste, soprattutto quelle riguardanti il ruolo del sistema immunitario nella patogenesi delle nefropatie immunomediate, sono state relativamente ben approfondite. Questo ha permesso l’identificazione di bersagli terapeutici di grande interesse con il conseguente sviluppo di farmaci che, o in quanto già a disposizione della normale pratica clinica o in quanto in fase avanzata di sperimentazione, stanno impattando significativamente sulla gestione clinica delle nefropatie immunomediate. Altri aspetti chiave della complessa interazione tra rene e sistema immunitario sono il ruolo del sistema immunitario nel favorire la progressione del danno parenchimale renale in corso di nefropatia acuta o cronica oltre che l’impatto della condizione di nefropatia (in particolare, di malattia renale cronica) sulla funzione del sistema immunitario stesso. Gli studi finora condotti e focalizzati su questi ultimi due aspetti non hanno ancora consentito l’identificazione di strategie terapeutiche in grado di impattare sulle conseguenze cliniche di questi complessi rapporti. Programmi di ricerca volti a chiarire ulteriormente le basi fisiopatologiche e molecolari di queste interazioni consentiranno, nel futuro, nuovi importanti avanzamenti con l’obiettivo di impattare significativamente sulla prognosi dei malati nefropatici.

 

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