Dialysis withdrawal and shared end-of-life management between nephrology and palliative care: our three-year experience

Abstract

Most dialysis patients with end-stage kidney disease (ESKD) lack access to palliative care services. According to the data of the Dialysis Outcomes and Practice Study (DOPPS), Italy when compared to other countries included in the study, had the lowest rates of dialysis discontinuation. Indeed, there is a growing interest in the implementation of international and national programs for the co-management between nephrology and palliative care in end-of-life decision-making for patients with ESKD. On behalf of this, since 2017, we started in the nephrology outpatient clinic and hemodialysis facilities of the Provincia Autonoma of Trento a shared program between Nephrology and Palliative Care Units to improve the end-of-life quality of care in ESKD patients in conservative and dialytic therapy.
Methods: A retrospective analysis, from the 1st of January 2019 to 31st December 2021, of dialysis withdrawal in a cohort of patients undergoing hemodialysis and peritoneal dialysis.
Results: Dialysis withdrawal and subsequent death, according to the integrated protocol with the Palliative Care resources, were 24 in 2019, 20 in 2020, and 28 in 2021. The mean age was 75 years in 2019, 78 years in 2020, and in 2021. Most of the patients were male. Dialysis discontinuation was higher in chronic dialysis patients (80% in 2019 and 2020, and 79% in 2021), and considering the annual rates of death of all the dialysis patients, those who died because of dialysis withdrawal were 38% in 2019, 31% in 2020 and 40% in 2021. Survival after dialysis withdrawal was in most of the cases less than 7 days; only few patients lived more than 30 days. Furthermore, the data, in the 3 years considered, showed a reduction of hospitalization and an increase of the rate of death at home.
Conclusions: As described in the present study, strategies to expand palliative care by a shared protocol among nephrology and palliative care staff improved the quality of care in the end of life and reduced the hospitalization rates of admission of patients after dialysis withdrawal.

Keywords: Dialysis withdrawal, shared end-of-life management, palliative care

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Premessa

Negli anni ‘60 del secolo scorso nasceva la terapia sostitutiva renale. A quel tempo la dialisi era un trattamento innovativo, costoso e poco diffuso, pertanto i pazienti che potevano sottoporvisi erano una minoranza, e venivano selezionati solo quelli di giovane età (inferiore ai 45 anni) e in buone condizioni generali [1]. Un’ulteriore selezione veniva poi fatta da un’apposita commissione (definita “Death and Life Committee”), che in base a criteri “sociali” (tipo di lavoro svolto, numero di figli, etc.), giudicava chi fosse meritevole di sopravvivere grazie all’avvio del trattamento dialitico [2]. In tale contesto storico il trattamento dialitico era considerato “prezioso” e i pazienti che decidevano di sospenderlo o di rinunciarvi venivano giudicati in modo negativo, fino ad essere persino etichettati come “suicidi” [3]. Anche i medici in tale contesto storico erano propensi a incoraggiare e tentare di convincere in ogni modo i pazienti a proseguire il trattamento dialitico [4].

In cinquant’anni la situazione è radicalmente cambiata; la terapia dialitica è ormai ampiamente disponibile almeno nei Paesi occidentali, e ogni paziente che si trovi in stato uremico, salvo rare eccezioni, può avvalersi di tale trattamento. In questo contesto anche l’atteggiamento verso la volontaria sospensione del trattamento dialitico è gradualmente cambiato, e le attuali indicazioni favoriscono un atteggiamento incentrato su un percorso di decisione condivisa e finalizzato a comprendere e per quanto possibile soddisfare i bisogni e la volontà del paziente [57].

Negli anni più recenti le caratteristiche cliniche e anagrafiche dei pazienti avviati alla dialisi sono altresì radicalmente cambiate. Vi è stato infatti un progressivo aumento della prevalenza di pazienti dializzati anziani e affetti da multiple comorbidità. Basti pensare che in Italia nel 2016 i soggetti in trattamento dialitico risultavano oltre 48 000, e tra questi gli ultrasettantenni e gli ultraottantenni rappresentano rispettivamente il 55% e il 22% dei pazienti dializzati [8].

Alcuni studi hanno sollevato il problema riguardo l’opportunità di avviare o meno il trattamento dialitico in alcune categorie di pazienti. Ad esempio negli ultraottantenni l’avvio della dialisi non pare conferire significativi vantaggi di sopravvivenza rispetto alla terapia conservativa. Allo stesso modo pazienti ultrasettantenni con elevato grado di comorbidità non sembrano beneficiare in termini di sopravvivenza dall’avvio del trattamento dialitico [911]. Inoltre, è ben noto che i pazienti avviati al trattamento sostitutivo renale in assenza di programma trapiantologico hanno un’aspettativa di vita estremamente ridotta in confronto alla popolazione generale [12], persino peggiore rispetto a molti pazienti affetti da patologia oncologica [13]. In pazienti anziani e con molte comorbidità l’avvio del trattamento dialitico potrebbe persino correlare con un peggioramento della qualità di vita, esponendoli a maggior rischio di frequenti ospedalizzazioni, ad un più rapido declino funzionale, ad una maggior probabilità di sviluppare ansia e depressione [14]. I pazienti dializzati inoltre, specie se anziani e affetti da comorbidità, soffrono di molti sintomi disturbanti, primi tra questi il dolore, che talvolta risulta essere di difficile controllo. La scarsa prognosi e il corteo sintomatologico di cui soffrono tali pazienti certamente li rende candidati ideali per beneficiare di un approccio di cure simultanee e palliative [15].

Emerge tuttavia che i pazienti dializzati hanno una scarsa conoscenza riguardo la loro traiettoria di malattia così come della possibilità di accedere alle cure palliative, e pochi di loro riferiscono di aver avuto una discussione riguardo al fine vita con il nefrologo nell’ultimo anno: inoltre la maggior parte di loro esprime la volontà di voler morire a casa o in Hospice piuttosto che in Ospedale, cosa che tuttavia avviene raramente [16].

Infatti, nonostante la loro scarsa prognosi, i pazienti con malattia renale cronica nell’ultimo mese di vita mostrano tassi di ospedalizzazione, di ricoveri in terapia intensiva e di altri trattamenti invasivi più elevati rispetto a pazienti affetti da altre patologie croniche [7].

Attualmente la presa in carico dei pazienti dializzati da parte delle cure palliative è assai scarsa, almeno secondo i dati americani, attestandosi intorno all’1% della popolazione in trattamento sostitutivo. Anche l’accesso all’Hospice da parte dei pazienti dializzati risulta poco frequente, rispetto ai pazienti affetti da altre patologie croniche [17].

La sospensione del trattamento dialitico può essere dettata da motivi clinici o per volontà del paziente. La frequenza di sospensione della dialisi come causa di mortalità è molto variabile a livello mondiale e si attesta su valori più alti in America e Canada (12-26%) e valori più contenuti in Europa (2-7%) [18]. Riguardo alla sospensione della dialisi come causa di morte, nei Paesi ad alto tasso di sospensione essa avviene prevalentemente nei pazienti che hanno iniziato dialisi da poco (meno di 4 mesi) [19].

L’Italia è tra i paesi dove, secondo i dati dello studio internazionale DOPPS (The Dialysis Outcomes and Practice Patterns Study), la sospensione avviene meno frequentemente [20].

È noto che i pazienti che sospendono, per loro volontà o per peggioramento delle condizioni cliniche, il trattamento dialitico, muoiono in media entro 7-9 giorni [19]: è pertanto importante che sia attivato in tale condizione un servizio di assistenza palliativa a domicilio per supportare nel fine vita sia il paziente che suoi famigliari.

Recentemente anche a livello nazionale sta maturando un interesse crescente per incrementare l’utilizzo delle cure palliative nel paziente nefropatico e dializzato, come si evince da diversi documenti condivisi inter-societari in merito a questo tema [2123].

Anche un recente editoriale apparso su NDT (Nephrology Dialysis Transplantation) sottolinea che in campo nefrologico, alla luce delle evidenze prognostiche dei pazienti nefropatici e del carico che la dialisi può comportare per il paziente e la famiglia, il modello di assistenza incentrato sulla malattia deve essere superato a favore di un modello di cura più incentrato sul paziente [24].  In tale contesto appare quanto mai utile e necessario per nefrologi e infermieri di area nefrologica migliorare le proprie competenze teoriche e pratiche sulle cure simultanee e di fine vita e avviare, ove possibile, la cooperazione con specialisti in cure palliative e cure territoriali, per offrire un approccio più individualizzato ai pazienti nefropatici fragili e con comorbidità.

 

La nostra realtà

La Provincia Autonoma di Trento è un’area montuosa di circa 530 000 abitanti in cui opera un’unica azienda sanitaria (APSS) organizzata con modello “Hub e Spoke”. L’Ospedale principale della provincia è il Santa Chiara di Trento, dove si trova il Reparto di Nefrologia, l’ambulatorio di dialisi peritoneale e un centro di emodialisi ad assistenza medica continua. Attorno a questo, nei sei ospedali di valle, vi sono altri centri di emodialisi ad assistenza medica limitata (Rovereto, Cavalese, Borgo Valsugana, Cles, Arco, Tione). I pazienti prevalenti in emodialisi sono circa 200, mentre quelli prevalenti in dialisi peritoneale circa 40.

L’Unità Operativa multizonale di Cure Palliative è composta da 14 medici che operano a domicilio, nelle RSA e negli ospedali di tutto il territorio provinciale in stretta integrazione con le equipe infermieristiche territoriali, i medici di medicina generale e delle RSA e gli specialisti ospedalieri. Gestiscono inoltre 3 Hospice extra ospedalieri per un totale di 29 posti letto.

Nel 2017 la nostra Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari (APSS) ha approvato un documento denominato “Percorsi integrati di cura per il paziente con malattia renale cronica avanzata in trattamento conservativo con: esclusione della terapia dialitica o sospensione della terapia dialitica”. Il documento è stato prodotto da un gruppo di lavoro multidisciplinare interaziendale che ha coinvolto le Unità Operative di Nefrologia e Cure Palliative con la finalità di creare un percorso integrato di cura (PIC), tra nefrologia e servizio di cure palliative, per il paziente nefropatico che non inizia la terapia dialitica o che la sospende.

 

Il protocollo

L’obiettivo principale è migliorare la gestione del fine vita dei pazienti nefropatici e sostenere le loro famiglie con un programma di cure integrate e simultanee.

Il protocollo individua due diverse situazioni:

  1. Paziente che non inizia il trattamento dialitico
  2. Paziente che interrompe il trattamento dialitico

Di seguito esporremo il percorso relativo alla sospensione del trattamento dialitico, essendo anche oggetto del nostro studio.

Paziente che interrompe il trattamento dialitico

L’indicazione a interrompere il trattamento dialitico può sorgere direttamente come richiesta del paziente capace di intendere e volere. In alternativa, può arrivare da un operatore sanitario (nefrologo, infermiere di dialisi o medico di medicina generale), quando egli ritenga che le condizioni cliniche del paziente siano peggiorate e la dialisi diventi un trattamento sproporzionato e difficilmente perseguibile.

Quando è il paziente che sceglie di ritirarsi dalla dialisi, il nefrologo deve rispettare l’autonomia decisionale del paziente, ma deve anche indagare la consapevolezza e le ragioni di questa scelta. A questo proposito, viene posta particolare attenzione nell’identificare ed eventualmente trattare ogni condizione reversibile (come dolore incontrollato o stato depressivo) alla base della decisione di interrompere la dialisi e utilizzare il supporto psicologico se necessario.

Una volta esclusa una siffatta condizione reversibile, il nefrologo con la collaborazione del medico di famiglia, delle cure palliative e dell’assistenza domiciliare, deve decidere con il paziente e i suoi familiari quale sia l’ambiente assistenziale più idoneo per il fine vita (domicilio, Hospice, o, in condizioni più rare, anche l’ospedale).

In alternativa, quando l’indicazione per la sospensione dalla dialisi arriva da un operatore sanitario, il nefrologo decide l’opportunità di questa scelta se sussistono entrambe le seguenti condizioni:

  • grave intolleranza alla dialisi (intesa come ripetuta impossibilità a completare il trattamento dialitico legata all’insorgenza di problematiche cliniche quali instabilità emodinamica, malessere generale, etc.)
  • prognosi sfavorevole: viene effettuata una valutazione prognostica utilizzando 2 criteri prognostici: Indice di Charlson > 8 ed elevato rischio di mortalità a 6 mesi calcolato con il modello di Cohen [25].

L’attivazione dell’assistenza condivisa con le cure palliative avviene soprattutto in relazione all’esistenza di bisogni palliativi (sintomi non controllati, aumento delle necessità assistenziali, rischio di morte a breve per sospensione della dialisi), e può in certi casi anticipare anche di mesi la sospensione della dialisi e il decesso del paziente. Inoltre la dialisi può essere sospesa in modo brusco (come è avvenuto nei pazienti che ne hanno richiesto la sospensione) o gradualmente, riducendo il tempo di dialisi e modulando il numero di dialisi a settimana in relazione alle condizioni cliniche: in questi casi la dialisi viene mantenuta al solo scopo di controllo dei sintomi (dialisi palliativa). Tale decisione viene esplicitata e condivisa tra nefrologo, palliativista, paziente e famigliari.

 

Materiali e metodi

Ci siamo concentrati nell’analisi dei dati relativi alla presa in carico per sospensione della dialisi, essendo questi più numerosi e completi. Abbiamo considerato i pazienti entrati nel percorso di gestione condivisa a partire dal 1° gennaio 2019 fino al 31 dicembre 2021, considerando per ogni anno i pazienti deceduti in tale percorso entro il 31 dicembre. In particolare sono stati raccolti i dati anagrafici (età e sesso), il valore dell’Indice di Charlson, la tipologia di dialisi pre-sospensione (emodialisi o dialisi peritoneale), la durata della dialisi, il motivo che ha portato alla sospensione della dialisi (scelta personale, motivi clinici), il tempo di presa in carica condiviso con i palliativisti, il tempo di sopravvivenza dopo la sospensione della dialisi, il luogo del decesso.  Le variabili quantitative sono state espresse in media ± deviazione standard (DS) per la distribuzione normale, e in mediana e range interquartile (IQR) per le altre.

 

Risultati

I pazienti dializzati che hanno avviato la sospensione della dialisi e sono stati assistiti in collaborazione con il servizio di cure palliative nel fine vita, deceduti entro fine anno sono stati 24 nel 2019, 20 nel 2020 e 28 nel 2021, per un totale di 72 pazienti nel triennio (Tabella 1); questi pazienti avevano età mediana rispettivamente di 78 anni [IQR (72;83)] nel 2019, 71 [IQR (72;83)] nel 2020 e 77 [IQR (74;81)] nel 2021, in tutti i casi maggiore rispetto all’età mediana della nostra popolazione dializzata. La popolazione coinvolta in questa gestione condivisa era formata per la maggior parte da uomini (71,75 e 60% nei diversi anni considerati), dato che rispecchia invece la situazione nella nostra popolazione dializzata.

  Pazienti inseriti nel percorso condiviso nel triennio 2019-2021
Numero pazienti 72
Età mediaNA 74 [IQR (73:83)]
Sesso maschile 48 (67%)
Età dialitica mediaNA (mesi) 41 [IQR (7;42)]
Trattamento dialitico (dialisi peritoneale) 10 (14%)
Diabetici 22 (30%)
Vasculopatici 37 (52%)
Cardiopatia ischemica 43 (60%)
Epatopatia 6 (8%)
BPCO 12 (17%)
Neoplasia maligna 14 (19%)
Tabella 1: caratteristiche demografiche e cliniche dei pazienti seguiti in condivisione con le cure palliative.

Tutti i pazienti avviati in tale percorso presentavano un indice di Charlson maggiore o uguale ad 8, con un valore medio di 9 ± 1 nel 2019, 9 ± 2 nel 2021, e di 10 ± 2 nel 2020.

Nei tre anni considerati è aumentata in maniera considerevole la percentuale di pazienti inseriti in questo percorso condiviso, provenienti dalla dialisi peritoneale (che rappresentavano l’8% nel 2019, il 10% nel 2020 e il 27% nel 2021).

L’età dialitica mediana dei pazienti inseriti in tale percorso era di 50 mesi [IQR (9;52)] nel 2019, di 12 mesi [IQR (10;37)] nel 2020 e di 8 mesi [IQR (4;42)] nel 2021.

La maggior parte dei pazienti che avviava tale percorso era composta da dializzati cronici (con età dialitica maggiore di 4 mesi) che rappresentavano l’80% nel 2019 e nel 2020 e il 79% nel 2021. Tra questi vi era una significativa percentuale di pazienti con età dialitica superiore ai 3 anni (38% nel 2019, 30% nel 2020 e 36% nel 2021) (Figura 1).

Figura 1: età dialitica dei pazienti arruolati nel protocollo condiviso.
Figura 1: età dialitica dei pazienti arruolati nel protocollo condiviso.

Nella maggior parte dei casi l’indicazione alla sospensione derivava da motivazioni cliniche, mentre solo una piccola percentuale di pazienti sospendeva il trattamento per scelta autonoma: 4% nel 2019, 15% nel 2020 e 11% nel 2021 (Figura 2). Coloro che sospendono la dialisi per scelta autonoma erano nel 70% dei casi dializzati cronici (cioè in dialisi da più di 4 mesi).

Figura 2: indicazione ad accedere al percorso di gestione condivisa nei diversi anni considerati.
Figura 2: indicazione ad accedere al percorso di gestione condivisa nei diversi anni considerati.

I pazienti dializzati cronici avviati a tale percorso rappresentavano rispettivamente il 38%, il 31% ed il 40% dei pazienti dializzati deceduti in quell’anno (Figura 3).  I pazienti dializzati cronici presi in cura in collaborazione con le cure palliative rappresentavano l’8% del totale dei pazienti dializzati cronici nel 2019, il 7% nel 2020 e l’8% nel 2021.

Figura 3: percentuale di pazienti dializzati cronici deceduti nel percorso di collaborazione con le cure palliative rispetto ai dializzati cronici deceduti totali.
Figura 3: percentuale di pazienti dializzati cronici deceduti nel percorso di collaborazione con le cure palliative rispetto ai dializzati cronici deceduti totali.

Il tempo di presa in carico da parte delle cure palliative prima del decesso risulta molto variabile, ma emerge in lieve incremento nei tre anni considerati: nel 2019 risultava una mediana di tempo di presa in carico di 5 giorni [IQR (5;20)], nel 2020 di 18 giorni [IQR (8;41)] e nel 2021 di 21 giorni [IQR (10;54)].

Dopo sospensione della dialisi i pazienti in gestione condivisa con le cure palliative, mostravano una mediana di sopravvivenza di 5 giorni [IQR (3;6)] nel 2019, di 6 giorni [IQR (3;9)] nel 2020 e di 6 giorni [IQR (3;7)] nel 2021.

Analizzando più in dettagli questo dato la sopravvivenza dopo sospensione della dialisi risultava nella maggior parte dei casi inferiore alla settimana (75% nel 2019, 60% nel 2020 e 67% nel 2021), ma una piccola percentuale di pazienti mostrava una sopravvivenza superiore al mese (8%, 5% e 8% nei tre anni considerati) (Figura 4). I pazienti con lunga sopravvivenza dopo la sospensione avevano iniziato da poco il trattamento dialitico e avevano tutti una diuresi residua.

Figura 4: sopravvivenza di pazienti dopo sospensione della dialisi.
Figura 4: sopravvivenza di pazienti dopo sospensione della dialisi.

Abbiamo osservato che la sede di decesso dei pazienti seguiti in condivisione con i palliativisti dal 2019 al 2021 si è significativamente spostata al di fuori dell’ospedale: infatti i decessi avvenuti in ospedale sono calati dal 42% al 28%, mentre sono aumentati significativamente i decessi avvenuti a domicilio (dal 29% al 50%) (Figura 5).

Figura 5: sede di decesso dei pazienti dializzati cronici seguiti in collaborazione con le cure palliative.
Figura 5: sede di decesso dei pazienti dializzati cronici seguiti in collaborazione con le cure palliative.

Per valutare l’efficacia di questo percorso nel ridurre la mortalità ospedaliera abbiamo valutato anche la sede di decesso dei pazienti dializzati cronici non seguiti in tale percorso. Nel 2019 i pazienti dializzati cronici deceduti senza l’attivazione delle cure palliative (32 pazienti) sono morti in ospedale nel 72% dei casi (e tra questi tre sono deceduti in rianimazione, due in pronto soccorso); nel 12% dei casi in RSA e nel 20% dei casi a domicilio. Nel 2020 i dializzati cronici deceduti al di fuori del percorso condiviso sono morti in ospedale nell’80% dei casi (di questi 3 pazienti deceduti in rianimazione e 3 pazienti deceduti in pronto soccorso); l’11% è morto in RSA e il 9% a domicilio. Nel 2021 i 30 pazienti deceduti senza cure palliative sono morti in ospedale nel 70% dei casi (quattro di questi in rianimazione, 4 in pronto soccorso e 2 in alta intensità), mentre nel 10% dei casi sono morti in RSA e nel 20% a domicilio (Figura 6).

Figura 6: sede di decesso dei pazienti dializzati cronici non seguiti in condivisione con le cure palliative.
Figura 6: sede di decesso dei pazienti dializzati cronici non seguiti in condivisione con le cure palliative.

 

Conclusioni

I pazienti dializzati non candidabili al trapianto renale per età e comorbidità hanno un’aspettativa di vita breve e sono spesso affetti da molti sintomi disturbanti e potrebbero pertanto giovarsi di un approccio terapeutico personalizzato che si focalizzi più sui bisogni rispetto che sulla patologia, evitando una futile intensificazione delle cure. La collaborazione con il servizio di cure palliative nel momento in cui i pazienti si aggravano può aiutare sia a migliorare la qualità del fine vita, sia a valutare la sospensione del trattamento dialitico nel momento in cui risulti non più tollerato clinicamente o psicologicamente, sia a ridurre la mortalità intraospedaliera di questi pazienti

Possiamo certamente affermare, dopo tre anni di osservazione, che la creazione di un percorso integrato per la gestione condivisa dei pazienti dializzati tra nefrologia e cure palliative nella nostra Provincia ha riscosso una notevole adesione. Infatti, più di un terzo dei pazienti dializzati cronici deceduti nella nostra Provincia è stato seguito in tale percorso nei tre anni seguenti l’applicazione del protocollo.

I pazienti inseriti in tale percorso risultano essere anziani e affetti da molte comorbidità. Nella maggior parte dei casi i pazienti risultano dializzati cronici (da più di 4 mesi), e un terzo di essi ha un’età dialitica maggiore di 3 anni.

Abbiamo osservato che nella maggior parte dei casi la sospensione avviene per ragioni cliniche: in questo caso il trattamento dialitico viene considerato futile, sproporzionato o persino dannoso per le condizioni del paziente, e pertanto si intraprende il percorso della sua graduale sospensione, in collaborazione con il servizio di cure palliative. Questo è in accordo con quanto affermato dalla legge 219 del 2017 (Legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento), dove appunto si afferma che “Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali” [26].

Anche il documento condiviso tra la Società Italiana di Nefrologia e La Società Italiana di Cure Palliative ribadisce che nelle condizioni in cui il trattamento dialitico venga considerato futile o sproporzionato, la sua sospensione non si configura né come abbandono terapeutico, né come atto eutanasico [20]. In una percentuale più esigua di pazienti invece abbiamo che la sospensione è richiesta dal paziente stesso; ci troviamo in questo caso nella condizione in cui il paziente rifiuta il trattamento perché lo ritiene sproporzionato e/o non coerente con la propria concezione di vita. Anche in questo caso la stessa legge 219 del 2017 orienta l’operato dei sanitari affermando che “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale” [26].

I pazienti dopo sospensione della dialisi muoiono più frequentemente entro la settimana, ma alcuni pazienti sopravvivono più a lungo, anche per mesi se vi è una diuresi residua. In alcuni pazienti la dialisi è stata sospesa pochi giorni prima del decesso, ma anche in questi casi la collaborazione con le cure palliative ha permesso di migliorare l’assistenza di pazienti e famigliari nel fine vita e programmare con consapevolezza la sede del decesso. In alcuni casi, soprattutto quando vi era presenza di sintomi disturbanti e di difficile controllo, la presa in carico da parte dei palliativisti è stata più precoce, anticipando anche di mesi il decesso del paziente. Sicuramente il paziente dializzato presenta un decorso clinico spesso poco prevedibile, con peggioramenti repentini ma anche riprese inaspettate, e questo rende difficile valutare il momento più appropriato di sospensione del trattamento dialitico. La difficoltà nel prevedere l’andamento clinico dei pazienti dializzati e le particolarità di tali pazienti (spesso anurici, con alterazioni elettrolitiche) rende la collaborazione tra palliativista e nefrologo particolarmente proficua e arricchente per entrambi i professionisti.

Abbiamo osservato uno spostamento della sede del decesso dall’ospedale al domicilio, che può riflettere sia una maggior fiducia e collaborazione tra gli operatori, sia una più tempestiva ed efficace comunicazione con il paziente e i famigliari, forse in parte correlata anche con una più precoce presa in carico da parte dei palliativisti che abbiamo visto incrementare negli anni considerati.

Tra i pazienti dializzati cronici quelli seguiti in tale percorso condiviso mostrano un ridotto rischio di mortalità intraospedaliera e in reparti ad alta intensità di cura rispetto ai dializzati non seguiti in tale percorso, per i quali emerge invece un’elevata mortalità in tali contesti. Nell’attuale scenario pandemico, nel quale l’ambiente ospedaliero risulta ancora più difficilmente accessibile ai famigliari per via del rischio infettivo, l’accompagnamento del fine vita a domicilio o in Hospice diventa ancora più rilevante.

I limiti del nostro lavoro riguardano la mancata valutazione dello stato emotivo (presenza di ansia o depressione) e cognitivo dei pazienti e la mancata valutazione sistematica dell’eventuale beneficio sui sintomi e sulla qualità di vita di pazienti e famigliari.

La nostra esperienza, seppur limitata, rappresenta un possibile esempio per integrare e potenziare l’approccio palliativo nel paziente dializzato, e permettere di migliorare la qualità del fine-vita riducendone la mortalità intraospedaliera.

 

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