Congenital Nephrotic Syndrome: Role of Podxl Gene

Abstract

In the last decades, our understanding of the genetic disorders of inherited podocytopathies has advanced immensely; this has been possible thanks to the development of next-generation sequencing technologies that offer the possibility to evaluate targeted genes at a lower cost than in the past. Identifying new genetic mutations has helped to recognize the key role of the podocyte in the health of the glomerular filter and to understand the mechanisms that regulate the cell biology and pathology of the podocyte. Here we describe a patient with congenital nephrotic syndrome due to a mutation in PODXL. This gene encodes podocalyxin, a podocyte-specific surface sialomucin known to maintain the characteristic architecture of the foot processes and the patency of the filtration slits.

Keywords: Proteinuria, Congenital nephrotic syndrome, Podocyte, PODXL, Podocalyxin

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Introduzione

La barriera di filtrazione glomerulare è un’unità altamente specializzata, costituta da tre strati: l’endotelio fenestrato, la membrana basale glomerulare (MBG) e le cellule epiteliali viscerali, i podociti. I podociti sono cellule altamente differenziate con un’architettura unica, costituita da un corpo principale, dei processi maggiori e dei prolungamenti basali chiamati processi pedicillari [1]. La loro particolare forma è dovuta ad un citoscheletro ricco in microfilamenti, la cui componente fondamentale è l’actina [1]. I processi pedicellari dei podociti si interdigitano con i processi pedicellari dei podociti confinanti attraverso proteine extracellulari organizzate in una giunzione cellulare specializzata detta “slit diaphragm” (SD) [2].

La funzione dello SD è quella di filtro molecolare, permettendo il passaggio di acqua e piccole molecole e trattenendo componenti del plasma e proteine di alto peso molecolare [2]. La MBG e i podociti essendo inoltre carichi negativamente sono in grado di respingere le proteine anioniche del siero, agendo come barriera di carica oltre che di dimensione [3]. Mutazioni nei geni codificanti per le proteine dello SD determinano un’alterazione di questo complesso network, conducendo al fenomeno morfologico della fusione dei pedicelli e allo sviluppo di proteinuria, configurando il quadro di sindrome nefrosica [3].

Per sindrome nefrosica congenita si intende un gruppo eterogeneo di malattie caratterizzate da proteinuria a intervallo nefrosico, ipoalbuminemia ed edema, che si manifestano in utero o durante i primi tre mesi di vita. La malattia è causata principalmente da difetti genetici nei podociti; circa due terzi dei casi di esordio di sindrome nefrosica congenita nel primo anno di vita sono legati a mutazioni in questi quattro geni: NPHS1, NPHS2, WT1 e LAMB2 [4]. In rari casi, tuttavia, è determinata da infezioni congenite o da malattie autoimmuni materne. La sindrome nefrosica congenita non risponde ad alcuna terapia con immunosoppressori e il trattamento è per lo più sintomatico [5]. La maggior parte dei bambini sviluppa una malattia renale terminale, che richiede una terapia renale sostitutiva entro i primi due-tre anni di vita. La sopravvivenza a cinque anni dei pazienti e dell’organo trapiantato è del 90% circa [6].

 

Caso clinico

Riportiamo il caso clinico di un paziente nato a 37+4 settimane gestazionali da gravidanza normodecorsa con controlli ecografici regolari. APGAR 1′ 9, 5′ 10. L’esame obiettivo e il monitoraggio glicemico alla nascita sono risultati nella norma. In seconda giornata di vita per comparsa di clonie agli arti superiori il paziente è stato trasferito in Terapia Intensiva Neonatale dove è stata eseguita un’ecografia transfontanellare cerebrale, con evidenza di emorragia cerebrale destra. Sono state eseguite una TC encefalo in urgenza e successiva RM encefalo di approfondimento, con riscontro di una vasta lesione ischemica a carico del territorio dell’arteria cerebrale media destra e dei suoi collaterali, focolai emorragici intraparenchimali bilaterali sovratentoriali, emorragia intraventricolare nel terzo ventricolo ed occlusione del seno trasverso di sinistra. È stata eseguita una registrazione EEG risultata compatibile con grave insulto ischemico emisferico destro.

Gli esami di laboratorio hanno mostrato una funzionalità renale nella norma, piastrinopenia, ipocalcemia, ipoalbuminemia refrattaria alle somministrazioni di albumina e alterazione della coagulazione, per cui sono state eseguite due supplementazioni di antitrombina III. Non sono mai stati riscontrati segni laboratoristici di infezione. Il successivo riscontro di proteinuria (0,67 g/24h, rapporto proteinuria/creatininuria 3512 mg/mmol) confermava la causa renale dell’ipoalbuminemia e poneva il sospetto di sindrome nefrosica congenita. Nel sospetto di sindrome nefrosica congenita, a completamento diagnostico, sono stati eseguiti ANA e ENA risultati negativi, C3 e C4 risultati nella norma. L’elettroforesi delle proteine sieriche (albumina 48,6 %, alfa1 10,1 %, alfa2 30,3%, beta 9,3%, gamma 1,7%) è risultata indicativa di perdita proteica e l’ecografia dell’addome mostrava reni aumentati di volume con diffusa accentuazione dell’ecogenicità parenchimale, segni compatibili con nefropatia acuta. Durante il ricovero è stata eseguita una valutazione multidisciplinare con coinvolgimento di neurologo, nefrologo, cardiologo e specialista di malattie trombotiche ed emorragiche al fine di comprendere la causa dell’evento vascolare cerebrale. Dal punto di vista cardiologico, alla revisione dei precedenti esami ecocardiografici, veniva escluso che ci fosse stata una lesione trombotica coinvolgente il forame ovale, che inoltre presentava e aveva sempre presentato shunt sinistro-destro. Dal punto di vista nefrologico il paziente presentava un quadro di proteinuria in range nefrosico ma non tale da determinare una perdita significativa di fattori della coagulazione in grado di spiegare, come unica causa, l’evento cerebrovascolare. Sono stati quindi soppesati rischi/benefici di un’eventuale profilassi eparinica ed il rischio di poter presentare nuovi eventi trombotici cerebrali. È stato eseguito nuovo dosaggio della proteina C e la proteina S risultate nella norma ed è stato collegialmente deciso di non avviare la terapia eparinica. L’anamnesi familiare è risulta silente per patologie nefro-urologiche, la madre e il fratello maggiore sono in buona salute, il padre è affetto da spondilite anchilosante.

Attualmente il paziente ha tre anni ed è in buone condizioni cliniche. Esegue un monitoraggio mensile della funzionalità renale che si mantiene nella norma con buon equilibrio elettrolitico e acido-base. In assenza di sintomi, presenta un quadro di nefrosi bioumorale con ipogammaglobulinemia e ipoalbuminemia che necessitano di frequenti supplementazioni endovenose di albumina e di immunoglobuline. È seguito da un punto di vista neuropsichiatrico ed esegue riabilitazioni fisioterapiche e logopedistiche una volta alla settimana. Il sequenziamento mirato di nuova generazione per l’analisi molecolare di geni associati a glomerulopatia ha portato all’identificazione di una variante troncante nel gene PODXL in eterozigosi: NM_001018111.2: c.480dupG p(Lys161Glufs*14).

 

Discussione

Il gene PODXL codifica per la podocalixina, una scialoglicoproteina transmembrana a singolo passaggio altamente espressa a livello di endotelio vascolare, cellule ematopoietiche e cellule del sistema nervoso [7]. La podocalixina è l’antigene di superficie cellulare più altamente glicosilato e carico negativamente espresso sul glicocalice dei podociti nei roditori e nell’uomo, e svolge un ruolo importante nella morfogenesi e nella differenziazione dei podociti [8]. Grazie alla carica negativa del dominio extracellulare funge da anti-adesina mantenendo separati i pedicelli adiacenti e facendo sì che le fessure di filtrazione rimangano pervie [7]. La porzione intracellulare della podocalixina si lega all’actina tramite due strutture specifiche: Ezrin, un membro della famiglia ERM, e il fattore di regolazione dello scambiatore Na+/H+ 1 e 2 (NHERF1 e NHERF2) [9]. Il complesso trimerico PODXL/NHERF2/Ezrin svolge un ruolo centrale nel mantenimento della struttura dei podociti glomerulari in quanto interagisce direttamente con il citoscheletro di actina [9]. L’interruzione patologica del citoscheletro di actina mediata da PODXL determina una disfunzione a livello della barriera di filtrazione, con conseguente perdita di permeabilità e lo sviluppo di proteinuria [9].

Il gene che codifica per la podocalixina è stato mappato a 7q32-q33 mediante ibridazione in situ fluorescente [10]; contiene 9 esoni e codifica per due isoforme [11]. Il gene PODXL è stato recentemente associato a forme recessive (varianti eterozigoti composte) e dominanti di nefropatie familiari (OMIM#602632).

Analizzando i casi ad oggi presenti in letteratura, nel 2014 Barua et al. attraverso il sequenziamento dell’esoma di due cugini appartamenti a una famiglia affetta da glomerulosclerosi focale-segmentale autosomica dominante hanno identificato una nuova variante in PODXL [12]. Questa variante cosegrega con la malattia, pur con penetranza incompleta [12]. Nel 2017 Kang et al. hanno riportato il caso di un neonato affetto da sindrome nefrosica congenita, onfalocele e microcoria dovuta a due mutazioni autosomiche recessive loss of function in PODXL, in particolare una variante missenso (p.M1I) e una variante nonsenso (p.W341*), ereditate rispettivamente dal padre e dalla madre [13]. In un recente articolo pubblicato nel 2018 Lin et al. hanno identificato delle mutazioni autosomiche dominanti con perdita di funzione nel gene PODXL in grado di determinare glomerulosclerosi focale-segmentale in età adulta in due differenti alberi genealogici: la mutazione in c.C976T (p. Arg326X) nell’albero genealogico cinese era associata a proteinuria e insufficienza renale; la mutazione in c.C1133G (p. Ser378X) nell’albero genealogico indiano era associata a glomerulosclerosi focale-segmentale [14]. Nello stesso lavoro è stato inoltre dimostrato tramite studi in vitro che mutazioni nonsenso in eterozigosi di PODXL possono causare glomerulosclerosi focale-segmentale [14]. Infine, nel 2021 Marx et al. hanno eseguito il sequenziamento dell’esoma in tre generazioni di una famiglia affetta da una nefropatia glomerulare atipica, in cui diversi membri mostravano nefropatia proteinurica e insufficienza renale cronica variabile, con manifestazioni che andavano dall’assenza di insufficienza renale all’insufficienza renale, allo stadio terminale e alla morte durante l’infanzia. Il sequenziamento dell’esoma ha rivelato una nuova variante nonsenso cosegregante con la malattia (c.1453C>T, NM_001018111 ) nel gene PODXL, che porta a un codone di stop prematuro (p.Q485*) e determina la perdita della coda intracitoplasmatica della proteina [15].

Nel tentativo di spiegare l’elevata eterogeneità fenotipica legata alle mutazioni in PODXL, nel 2020 Ido Refaeli et al. hanno ricercato, con studi condotti in vitro, una correlazione tra la tempistica della delezione di PODXL durante lo sviluppo dei podociti e il fenotipo di filtrazione glomerulare osservato [16]. È stato dimostrato che i topi null knockout per PODXL muoiono poco dopo la nascita per anuria e ipertensione. I topi in cui l’espressione di PODXL viene alterata durante le fasi di sviluppo nefrogenico sviluppano sindrome nefrosica congenita acuta caratterizzata da glomerulosclerosi focale segmentale (FSGS) e proteinuria [16]. Infine, i topi con mutazioni in eterozigosi per PODXL, hanno una durata di vita normale e non sviluppano malattie renali in condizioni normali [16]. A seguito di un secondo colpo ambientale, i podociti mutanti sono aploinsufficienti e questo determina lo sviluppo di FSGS e proteinuria [16]. Analizzando i dati presenti in letteratura, Ido Refaeli et al. nel 2019 hanno cercato di spiegare il ruolo delle mutazioni eterozigoti nonsenso del gene PODXL nell’eziopatogenesi della malattia [17]. L’ipotesi che il gene mutato sia causa di malattia è supportata dalla stretta segregazione osservata nelle famiglie affette e dai dati funzionali in vitro, in cui sono stati osservati livelli ridotti di podocalixina nei podociti alterati [14]. È anche possibile, tuttavia, che le mutazioni eterozigoti nonsenso aumentino la suscettibilità di un individuo alla podocitopatia senza causare spontaneamente la malattia. I topi con mutazioni in eterozigosi hanno infatti una durata di vita normale con un’architettura renale funzionale in grado di filtrare normalmente l’urina [16]. Si potrebbe prevedere, tuttavia, che quando sottoposti allo stress ambientale appropriato (dieta, nefrotossine, ecc.) questi topi possano mostrare una maggiore suscettibilità alle malattie renali [17].

L’unico caso clinico descritto in letteratura di sindrome nefrosica congenita associata a mutazione di PODXL è quello riportato da Kang et al. nel 2017 [13]; questo caso tuttavia è dovuto alla presenza di due mutazioni autosomiche recessive loss of function in PODXL che determinano una completa perdita di funziona del gene. Il paziente ha infatti mostrato una clinica molto simile a quella presentata da topi knockout per PODXL ed è deceduto a 130 giorni per sepsi; il giorno 48 il paziente ha mostrato delle convulsioni che sono state in prima ipotesi considerate sequele di sepsi, non si può tuttavia escludere un ruolo funzionale diretto di PODXL nel cervello dato che PODXL è ampiamente espresso nel cervello in via di sviluppo e nella barriera emato-encefalica [13]. In nessuno dei casi presenti in letteratura vengono riportate conseguenze cerebrovascolari.

In conclusione, abbiamo riportato il caso di un paziente affetto da una mutazione in eterozigosi a livello di PODXL, che ha manifestato un insulto cerebrovascolare poco dopo nascita, associato ad un quadro di nefrosi bioumorale.

Tale sintomatologia può essere in parte spiegata con la perdita di fattori della coagulazione relati alla sindrome nefrosica, in parte considerando l’importante ruolo svolto da PODXL nell’equilibrio endoteliale.

Si tratta di una variante non ancora descritta in letteratura come causativa di malattia, il cui significato non è ancora chiaro. Ad ogni modo, data anche l’espressione di tale gene anche a livello endoteliale e l’espressione clinica della patologia, appare verosimile come nel nostro paziente il gene PODXL sia stato sicuramente implicato nello sviluppo della patologia.

 

Conclusioni

I casi ad oggi riportati in letteratura, in particolar modo in ambito pediatrico, sono pochi e presentano una notevole eterogeneità nell’insorgenza della malattia, nell’intensità della proteinuria e nelle conseguenze in termini di insufficienza renale. Il caso descritto e la revisione dei casi presenti in letteratura consentono tuttavia di focalizzare l’attenzione sulla cellula podocitaria e sul gene PODXL che codifica per la podocalixina, la cui funzione è cruciale per la morfologia e la funzione del podocita nella barriera di filtrazione glomerulare. Sono necessari ulteriori studi per comprendere il significato delle mutazioni in eterozigosi nel gene PODXL, in particolare per quelle varianti alleliche per le quali non è confermato il loro contributo nello sviluppo della malattia e che rimangono tutt’oggi a significato sconosciuto.

 

Bibliografia

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  15. Marx D, Caillard S, Olagne J, Moulin B, Hannedouche T, Touchard G, Dupuis A, Gachet C, Molitor A, Bahram S, Carapito R. Atypical focal segmental glomerulosclerosis associated with a new PODXL nonsense variant. Mol Genet Genomic Med. 2021 May;9(5):e1658. https://doi.org/10.1002/mgg3.1658.
  16. Refaeli I, Hughes MR, Wong AK, Bissonnette MLZ, Roskelley CD, Wayne Vogl A, Barbour SJ, Freedman BS, McNagny KM. Distinct Functional Requirements for Podocalyxin in Immature and Mature Podocytes Reveal Mechanisms of Human Kidney Disease. Sci Rep. 2020 Jun 10;10(1):9419. https://doi.org/10.1038/s41598-020-64907-3.
  17. Refaeli I, Hughes MR, McNagny KM. The first identified heterozygous nonsense mutations in podocalyxin offer new perspectives on the biology of podocytopathies. Clin Sci (Lond). 2019 Feb 8;133(3):443-447. https://doi.org/10.1042/CS20181067.

Anti-angiogenic drugs and hypertension: from multidisciplinary collaboration to greater care

Abstract

Anti-angiogenic drugs are widely used in cancer therapy. Their main targets of action are the vascular endothelial growth factor (VEGF) and its receptors (VEGF-R). Anti-angiogenic drugs are used to reduce the growth of the tumor and its metastases by acting on the phenomenon of tumor neo-angiogenesis. However, they are known for their side effects such as hypertension, acute kidney injury (AKI), and congestive heart failure.
Methods: retrospective study conducted on 57 consecutive patients known for ovarian cancer. Patients treated with Bevacizumab, as first-line, relapse, or maintenance treatment (2015-2022).
Results: according to FIGO staging, 98.2% (56 out of 57) of the patients in the study had third degree disease (G3). 49% of patients developed hypertension after starting Bevacizumab therapy (82% grade 2 according to CTCAE v.5). 89% of hypertensive patients started treatment and its management was multidisciplinary with nephrological consultation in 68% of cases. Only 3 out of 57 women discontinued treatment due to hypertension, and in only one of them it was not possible to restart it.
Conclusions: the evaluation of the patient by a multidisciplinary team (gynecologist and nephrologist) is essential to minimize the morbidity and mortality of patients, and to avoid the interruption of antineoplastic treatment.

Keywords: anti-angiogenic drugs, kidney injury, proteinuria, hypertension, ovarian cancer, multidisciplinary team

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Introduzione

I farmaci anti-angiogenici hanno lo scopo di prevenire e/o rallentare la crescita tumorale. Questi possono causare diversi effetti collaterali, tra i quali emerge l’ipertensione, definita nella Common Terminology Criteria for Adverse Events (CTCAE) come pressione arteriosa (PA) >140/90 mmHg o un aumento della pressione arteriosa diastolica (PAD) >20 mmHg rispetto al basale.

In questo lavoro, che vuole essere un percorso in questo complesso ambito onconefrologico, presentiamo dapprima il caso di una donna di 74 anni affetta da tumore dell’ovaio trattata con Bevacizumab che, a causa dello sviluppo di ipertensione, ha dovuto interrompere il trattamento, ripreso poi grazie alla valutazione della paziente da parte di un’equipe multidisciplinare (ginecologo e nefrologo). Vengono quindi riportati i risultati di uno studio retrospettivo su 57 pazienti consecutive trattate con Bevacizumab con lo scopo di verificare se e come la collaborazione interdisciplinare tra nefrologo e ginecologo fosse efficacie e funzionale: è stata valutata l’incidenza di ipertensione e proteinuria, se fosse stato richiesto consulto specialistico nefrologico e se fosse stato completato il trattamento. 

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Immunosuppressive therapy reduction and early post-infection graft function in kidney transplant recipients with COVID-19

Abstract

Background: Kidney transplant (KT) recipients with COVID-19 are at high risk of poor outcomes due to the high burden of comorbidities and immunosuppression. The effects of immunosuppressive therapy (IST) reduction are unclear in patients with COVID-19.
Methods: A retrospective study on 45 KT recipients followed at the University Hospital of Modena (Italy) who tested positive for COVID-19 by RT-PCR analysis.
Results: The median age was 56.1 years (interquartile range,[IQR] 47.3-61.1), with a predominance of males (64.4%). Kidney transplantation vintage was 10.1 (2.7-16) years, and 55.6 % of patients were on triple IST before COVID-19. Early immunosuppression minimization occurred in 27 (60%) patients (reduced-dose IST group) and included antimetabolite (88.8%) and calcineurin inhibitor withdrawal (22.2%). After SARS-CoV-2 infection, 88.9% of patients became symptomatic and 42.2% required hospitalization. One patient experienced irreversible graft failure. There were no differences in serum creatinine level and proteinuria in non-hospitalized patients before and post-COVID-19, whereas hospitalized patients experienced better kidney function after hospital discharge (P=0.019). Overall mortality was 17.8%. without differences between full- and reduced-dose IST. Risk factors for death were age (odds ratio [OR]: 1.19; 95%CI: 1.01-1.39), and duration of kidney transplant (OR: 1.17; 95%CI: 1.01-1.35). One KT recipient developed IgA glomerulonephritis and two ones experienced symptomatic COVID-19 after primary infection and SARS-CoV-2 mRNA vaccine, respectively.
Conclusions: Despite the reduction of immunosuppression, COVID-19 affected the survival of KT recipients. Age of patients and time elapsed from kidney transplantation were independent predictors of death . Early kidney function was favorable in most survivors after COVID-19.

Keywords: COVID-19, kidney transplant, immunosuppressive therapy, graft function, proteinuria, mortality, transplant, SARS-COV-2, reinfection

Introduction

Since SARS CoV-2 infection was first identified in December 2019, the pandemic spread quickly around the world, with a disruptive impact on social and economic life. This virus yielded several new challenges to our healthcare systems that had to cope with an increased rate of morbidity and mortality among the most vulnerable populations [1]. Kidney transplant (KT) recipients are a subset of the population at high risk of severe COVID-19 due to the high burden of comorbidities and the cumulative side effects of immunosuppressive therapy (IST) [2]. Data collected so far show that transplant recipients are extremely susceptible to the SARS-CoV-2 infection, much more than the general population [3, 4]. The causes are multiple, but principally revolve around the use of long-term IST.

Despite the great emphasis on early IST reduction to face the potentially lethal consequences of COVID-19, no confirming data supports its beneficial effect in terms of survival or clinical manifestations. Additional uncertainty arises from the recent literature reporting that a tempered immune response is thought to prevent COVID‐19–induced systemic inflammatory syndrome. To date, data regarding early graft outcomes after COVID-19 are scarce [5]. It is worth noting that graft survival may be threatened by non-reversible episodes of kidney injury [6, 7]. Lastly, a concerning issue may be the hyporesponsiveness to anti-SARS-CoV-2 vaccination [8, 9]. Numerous studies have confirmed that KT recipients have a blunted immune response to mRNA vaccines [10]. Only 48% of patients were able to develop a protective serologic response to SARS-CoV-2 [11]. Caillard et al [12] reported that about one-third of kidney transplant patients had severe manifestations, including a fatal outcome, despite COVID-19 vaccination. This group of patients is therefore expected to remain vulnerable to the severe complications of COVID-19 until new strategies will be implemented to reduce the susceptibility of these subjects.

Considering all the uncertainties in the management of KT recipients and the high risk of severe COVID-19 manifestations within this cohort of patients, we report our experience in managing KT recipients with COVID-19. In particular, we focus on the impact of early IST reduction, and early graft function after the resolution of the infection.

 

Material and methods

Kidney transplant outpatient clinic

This kidney transplant outpatient clinic follows more than 500 KT recipients, including combined liver and pancreas-kidney transplantation. Outpatient service was delivered by a senior nephrologist with experience in kidney transplantation, one fellow and three nurses. A 24-h, 7/7 days per week service was available for KT recipients in case of kidney-related pathologic processes (anuria, fluid overload) or infections. This service was also offered to the subjects transplanted in our Center but living far away from it.

During COVID-19 all the patients were instructed to call the clinic in case of COVID-19 symptoms. Despite the reduction of non-essential healthcare services, our outpatient clinic continued to deliver care to KT recipients, adopting all the containment measures (triage at entry, masking, social distancing and hands hygiene) to prevent COVID-19 diffusion. A telephonic triage was performed for all patients before reaching the hospital to intercept paucisymptomatic patients.

Patients with symptoms were invited to perform nasal swabs using RT-PCR and were visited in a dedicated room to assess vital parameters and clinical conditions. According to the severity of the symptoms, patients were sent home or to the emergency room. To reduce the workload of the emergency room, patients were managed as outpatients unless they developed severe symptoms that required hospital admission. The monitoring of noncritical patients was mostly performed via phone calls and emails.

According to our internal protocol and taking into account the opinions of European experts [13, 14], immunosuppression was modulated as follow:

  • for asymptomatic or mild COVID-19 patients (i.e., mild upper respiratory and/or gastrointestinal symptoms, temperature <38°C without dyspnea) in triple therapy (calcineurin-inhibitors [CNI] + mycophenolate acid [MPA]/azathioprine [AZA] + steroids), MPA or AZA was withdrawn, and a dual therapy (CNI + steroid) was continued. If the patients were on dual therapy (CNI + mammalian target of rapamycin inhibitor [mTOR-i] or CNI + MPA), MPA/mTOR was withdrawn and replaced with a low dose of steroids (i.e., methylprednisolone 4 or 8 mg once-daily).
  • for moderate (signs and symptoms of lower respiratory disease or saturation of oxygen [SpO2] ≥94% on room air at sea level) and severe COVID-19 (SpO2 <94% on room air at sea level, a ratio of arterial partial pressure of oxygen to fraction of inspired oxygen [PaO2/FiO2] <300 mm Hg, respiratory frequency >30 breaths per minute, or lung infiltrates >50%) all immunosuppressors, but steroids, were stopped. The prescription of anti-inflammatory and immunomodulant steroid therapy for symptomatic COVID-19 patients (dexamethasone at a dose of 6 mg once daily for up to 10 days) was not part of the anti-rejection therapy and was administered by COVID-19 experts.

COVID-19 population

The study population was comprised of kidney transplant recipients with COVID-19 with a complete follow-up, including death or discharge from hospital.

We retrospectively reviewed the electronic charts of all KT recipients with COVID-19 from March 7, 2020, to June 25, 2021. During this period we performed 144 nasopharyngeal swabs. The diagnosis of COVID-19 was performed through reverse transcriptase-polymerase chain reaction (RT-PCR) assay on a nasopharyngeal swab. We excluded patients aged <18 years. Kidney function was estimated by glomerular fraction rate (eGFR) using the CKD-EPI equation. Occasionally, some data were missing for patients admitted to a hospital located far from our Center.

This study has been authorized by the local Ethical Committee of Emilia Romagna (n. 839/2020). The study protocol complies with the guidelines for human studies and includes evidence that the research was conducted ethically in accordance with the World Medical Association Declaration of Helsinki.

Statistical analysis

Baseline characteristics were described using median (interquartile range [IQR]) or frequencies, as appropriate. The chi-square or Fisher’s test, and student’s t-test were used to compare categorical and continuous variables between groups, respectively. Univariate and multivariate logistic regressions were performed to test the association between mortality and baseline patient characteristics. Variables that were significant on univariate analysis (P=<0.05) were entered into the multivariate model to identify independent predictors. Results were expressed as odds ratios (OR) and 95% confidence intervals (CI). Univariate and multivariate logistic regression analysis determined risk factors for death. A P value of <0.05 was considered statistically significant. All statistical analyses were performed using SPSS® statistical software.

 

Results

Characteristics of COVID-19 population

From the beginning of the COVID-19 pandemic in Italy, 45 KT recipients followed in our center contracted COVID-19. The demographic and clinical characteristics of these patients are detailed in Table I. This group of patients included two (4.4%) combined liver-kidney and one (2.2%) heart-kidney transplant recipient. Seven (15.5%) patients were hospitalized in another structure because they lived far from our Center.

Variable All patients
(n.=45)
Reduced-dose IST
(n.=27)
Full-dose IST
(n.=18)
p-value
Age, year 56.1 (47.3-61.1) 55.9 (47.6-61.2) 56.1 (44.4-62) 0.85
Range 19.2-83.5 19.2-79.8 28.1-83.5
Males, n. (%) 29 (64.4) 18 (66.7) 110 (61.1) 0.75
Race/ethnicity 0.61
White, n. (%) 41 (91.1) 26 (92.6) 16 (88.9
Black, n. (%) 4 (8.9) 2 (7.4) 2 (11.1)
Transplant vintage, year 10.1 (2.7-16.01) 7.8 (2.4-15.2) 11.1 (4.7-21.1) 0.29
sCr pre-COVID-19, mg/dl 1.45 (1.18-1.84) 1.44 (1.18-1.81) 1.28 (1.14-1.82) 0.68
eGFR pre-COVID-19, ml/min 48.4 (36-64) 47.7 (35-64) 49.5 (38.6-67.9) 0.83
24-h proteinuria, mg/dl 87.4 (0.52-188.5) 72 (0.25-183) 145.5 (6.2-205) 0.69
Immunosuppressive therapy, n. (%)
CNI 39 (86.7) 24 (88.9) 15 (83.3) 0.67
mTOR-i 8 (17.8) 4 (14.8) 4 (22.2) 0.69
MPA 31 (68.9) 24 (88.9) 7 (38.9) 0.01
Steroid 36 (80) 23 (85.2) 13 (72.2) 0.44
IS regimen 0.001
Triple therapy 25 (55.6) 21 (77) 4 (22.2)
Double therapy 19 (42.2) 6 (22.2) 13 (72.2)
Monotherapy 1 (2.2) 0 (0) 1 (5.6)
Reduction IS therapy, n. (%) 27 (60) 27 (100) 0 (0) N/A
MPA withdrawal 24 (53.3) 24 (88.9) 0 (0) N/A
CNI or mTOR-i withdrawal 6 (13.3) 6 (22.2) 0 (0) N/A
Increase steroid 9 (5,4) 8 (29.6) 1 (5.6) 0.064
Comorbidities, n. (%)
HIV, HCV or HBV 6 (13.3) 3 (11.1) 3 (16.7) 0.65
Diabetes 5 (11.1) 4 (14.8) 1 (5.6) 0.63
Neoplasia 10 (22.2) 7 (25.9) 3 (16.7) 0.71
Graft rejection 4 (8.9) 1 (3.7) 3 (16.7) 0.13
CVD 12 (26.7) 7 (25.9) 4 (22.2) 77
Autoimmune disease 4 (8.9) 1 (3.7) 3 (16.7) 0.13
Previous severe infection 13 (28.9) 8 (29.6) 5 (27.7) 1
Symptomatic COVID-19, n. (%) 40 (88.9) 27 (100) 13 (72.2) 0.45
Hospitalization, n. (%) 19 (42.2) 14 (51.9) 5 (27.8) 0.13
Graft failure, n. (%) 1 (2.2) 1 (3.7) 0 (0) 1
ICU admission, n. (%) 9 (20) 4 (14.8) 5 (27.8) 0.28
Mortality, n (%) 8 (17.8) 4 (14.8) 4 (22.2) 0.69
Post-COVID-19 follow-up, day 70.5 (51-109) 76  (50.5-116.5) 69 (66-76) 0.57
Notes: eGFR denotes estimated glomerular filtration rate; CNI, calcineurin inhibitor; CVD, cardiovascular disease; HCV, hepatitis C; HBV, hepatitis B; IST, immunosuppressive therapy; MPA, mycophenolate acid; mTOR-I, mammalian target of rapamycin inhibitor; sCr, serum creatinine.
Table I:Demographics and clinical characteristics of KT recipients

The age of patients ranged from 19.2 to 83.5 years and the median was 56.1 (IQR, 47.3-61.1) years. COVID-19 was more prevalent in males than in females (64.4% vs 35.6%) and occurred after a median of 10.1 (2.7-16.01) years from transplantation.

Before the COVID-19 infection, serum creatine (sCr) was 1.45 (IQR 1.1-1.8) mg/dl corresponding to a median eGFR of 48.4 (IQR 36-64) ml/min. At the time of the COVID-19 diagnosis, more than half of the patients were in triple standard IST. Forty patients (88.9%) developed symptoms of COVID-19 and 19 of them (42.2%) required hospitalization. One patient returned to dialysis following acute kidney injury. Overall, nine patients (20%) were admitted to ICU for severe manifestations of COVID-91 and eight (17.8%) died.

Reduced- vs full-dose IST group

The entire population was subdivided into two groups: reduced-dose (n.=27; 60%) and full-dose IST (n.=18; 40%). There were no significative statistical differences in terms of demographic and clinical characteristics between the two groups. Statistical analysis detected significant differences in the prescription of IST. Patients who underwent reduction of immunosuppression (reduced-dose IST) were treated with a higher dose of IST before COVID-19; indeed, the rate of prescribed triple-drug IST was higher in this group than in full-dose IST patients (77% vs. 22.2%; P=<0.001).

In the reduced-dose IST group, MPA (88.8%) and CNI or mTOR-i (22.2%) were the most frequent discontinued agents. Conversely, the dose of steroids was increased in a third of patients and, in all of them, the administration of steroids changed from alternate days (methylprednisolone 2/0 or 4/0) to a daily regimen.

Hospitalization, ICU admission and death rate in patients who underwent IST reduction were 51.8%, 14.8% and 14.8%, respectively. However, despite IST reduction, hospitalization (P=0.13), ICU admission (P=0.28) and death (P=0.69) rates were not different from those of the full-dose IST group.

Outcomes of KT recipients with COVID-19

Univariate and multivariate logistic regression was performed to detect predictors of mortality (Table II). Multivariate analysis found that age (OR=1.19 [95%CI 1.01-1.39]; P=0.034) and years spent on immunosuppressive therapy (OR=1.17 [95%CI 1.01-1.35]; P=0.040) were associated with mortality in this group of patients.

Univariate Multivariate
Variable OR CI (95%) p-value OR CI (95%) p-value
Sex
Male 4.40 0.78 24.81 0.09  
Age (1-yr increase) 1.11 1.02 1.22 0.016 1.19 1.01 1.39 0.034
KT vintage (1-yr increase) 1.10 1.00 1.21 0.053 1.17 1.01 1.35 0.040
Steroid-based IST 1.93 0.21 18.08 0.56
Reduction IST 1.33 0.26 6.869 0.74
Increase of steroid 0.52 0.06 4.85 0.56
Triple IST 0.51 0.10 2.620 0.42
Double IST 1.96 0.38 10.026 0.42
GFR 0.99 0.95 1.026 0.57
GFR< 45ml/min 1.47 0.32 6.80 0.62
GFR 45-59 ml/min 0.68 0.15 3.16 0.62
sCr 1,33 0,26 6.87 0.73
Graft rejection 1.52 0.14 16.91 0.73
Autoimmune disease 0.00 0.00 0.99
HIV/HCV/HBV 2.58 0.38 17.43 0.33
Previous sever infection 0,73 0.13 4.19 0.72
Diabetes 1.11 0.11 11.49 0.93
Neoplasm 1.12 0.19 6.70 0.89
Cardiovascular disease 1.73 0.34 8.76 0.50
Notes: eGFR denotes estimated glomerular filtration rate; HCV, hepatitis C; HBV, hepatitis B; IST, immunosuppressive therapy; MPA, mycophenolate acid; mTOR-I, mammalian target of rapamycin inhibitor; sCr, serum creatinine.
Table II: Univariate and multivariate predictors of mortality through logistic regression analysis

Among the survivors (82.2%), one patient with a CKD stage 4 (GFR=20 ml/min) before SARS-CoV-2 infection developed irreversible graft failure requiring HD. One patient (2.7%) manifested de-novo proteinuria (4100 mg/die) after the resolution of COVID-19 and graft biopsy revealed IgA glomerulonephritis (the lack of data on the cause of CKD did not allow us to classify these histological findings as either de-novo or recurrent IgA glomerulonephritis). Lastly, one patient experienced symptomatic COVID-19 reinfection after the primary infection and another one following the SARS-CoV-2 mRNA vaccine. Early post-COVID-19 follow-up of 25 out of the 37 survivors showed that pre- and post-COVID variations of sCr, eGFR and 24-hour proteinuria were not statistically significant in outpatients after the resolution of COVID-19. A significantly lower sCr level (P=0.019) and eGFR (P=0.028) were measured after hospital discharge in hospitalized patients. No differences were noted in the level of daily proteinuria (Table III). The early follow-up of KT recipients after COVID-19 resolution did not show any new episodes of graft rejection.

Non-hospitalized patients Hospitalized patients
Pre-COVID-19 Post-COVID-19 p-value Pre-COVID-19 Post-COVID-19 p-value
sCr, mg/dl 1.31 (1.2-1.76) 1.33 (1.08- 1.7) 0.85 1.49 (1.1-1.8) 1.21 (0.9-2.1) 0.019
eGFR, ml/min 48.8 (40.5-62.1) 56.7 (41.5-67) 0.25 46.7 (36-64) 56.7 (41.5-67) 0.028
24-h proteinuria, mg/die 102 (6.2-205) 89.4 (37.2-246.4) 0.08 13(2.5-183) 44.7 (10.8-1141) 0.29
Notes: eGFR, estimated glomerular filtration rate; sCr, serum creatinine.
Table III: Early graft function post-COVID-19 in hospitalized and non-hospitalized KT recipients

 

Discussion

Numerous reports have alerted the scientific community regarding the unfavorable outcome of COVID-19 in patients with a reduced immune response [1, 15]. The results of this study confirmed that COVID-19 poses KT recipients at high risk of severe consequences.

In our cohort of KT recipients, COVID-19 carried with it a higher rate of symptoms, hospitalization and mortality compared to the general population [16, 17]. We found that in this cohort (45 KT recipients with COVID-19, median age 56.1), 40% of patients developed severe symptoms requiring hospitalization. Overall mortality was 17.8%, higher than the mortality reported in the general population, which ranges between 0.1-19.2% around the world and accounts for about 2.02% globally [18].

In an attempt to reconstitute the immune system against SAR-CoV-2 infection, we minimized the burden of IST in these patients. All KT recipients who communicated their COVID-19 positivity to our center, were advised to discontinue the antimetabolite agents (i.e., MFA or AZA) (88.9%) and CNI or m-TOR-i (22.2%). In the hospitalized patients, IST was further reduced or suspended, according to the clinical conditions of the patient. Nevertheless, hospitalization and death rates in the reduced-dose IST group were not dissimilar from the full-dose IST group.

At first glance, these results show that the reduction of immunosuppression did not confer any advantage in terms of patient survival. However, some considerations should be considered before drawing firm conclusions. Most patients who underwent IST reduction carried a significantly higher burden of IST compared to KT recipients whose therapy was left unmodified. The higher prevalence of triple-drug immunosuppressive regimen in patients who underwent IST minimization (77% vs. 22.2%; P=<0.001) has probably increased the vulnerability to COVID-19. Conversely, patients with a full-dose IST spent more time (11.2 vs 7.8 years) on kidney transplantation compared to the reduced-dose IST group. Lastly, we believe that the slight increase of steroid therapy (from alternate days to a daily administration) in the reduced-dose IST group (P=0.064) was too small to mitigate the inflammatory response driven by COVID-19.

Although the reduction of IST did not lead to a favorable outcome, it is worth mentioning that the overall mortality in our cohort was tendentially lower than that reported in other studies, where this approached up to 32.5% [1926]. Our results are in line with the population-based data on 1013 KT recipients affected by COVID-19 collected by the French and Spanish national registries, which reported a 28-day mortality of 20% [27]. In Italy, Bossini et al. [24] reported a higher overall mortality rate (28%) during the first wave of COVID-19 in the city of Brescia. Similarly to our therapeutic strategy, they discontinued immunosuppression in all hospitalized patients and introduced or increased the dose of steroids. The causes underlying these different mortality rates are unknown. The different timing of enrollment made the two cohorts not perfectly comparable. All patients in the Brescia cohort were enrolled during the first wave of COVID-19 in Europe, in an overwhelmed and unprepared hospital setting, within a timespan characterized by a high rate of experimental regimens and relative side effects [28, 29]. Lastly, a lower median age (56.1 vs. 60 years) in our cohort of patients probably contributed to the better prognosis.

Multivariate analysis showed that the predictors of death were age and time elapsed on IST, in line with previous studies. Age is widely associated with COVID-19 severity and death in KT recipients [30, 31] as well as in the general population [32]. The Centers for Disease Control (CDC) claims that 8 out 10 COVID-19 deaths in the U.S. occurred in adults over 65 and that the risk of hospitalization and death increases enormously with age [33].

The effect of immunosuppression is still controversial in KT recipients [34]. Immunosuppression is known to dysregulate innate and adaptive immunity, exposing the patients to severe infections. On the other hand, severe COVID-19 infection has been associated with a dysregulated inflammatory response (IL-6, IL-1, and chemokines) leading to ARDS and sepsis. The new insights support a promising role of immunosuppressants (i.e., tocilizumab, steroid) in tempering the immune response of patients with severe manifestations of COVID-19 [35].

Lastly, we report a short-term good graft function in patients who survived COVID-19. These data indicate a stable early graft function (sCr and 24-hour proteinuria) in outpatients who were not hospitalized. Conversely, hospitalized KT recipients had a statistically significant improvement in renal function. As stated also by Dacina et al. [5], we speculate that lower sCr after SARS-CoV-2 is due to the minimization or withdrawn of CNI, a ‘drug holiday’ apparently without dire consequences in terms of graft rejection.

Finally, the limitations of the study should be enumerated. It is a retrospective study, with a small sample size and a short follow-up after COVID-19. The small number of patients and the short observation period may have reduced the probability to observe an underlying difference between these two groups. Long-term follow-up is required to verify if the early improvement of kidney function after COVID-19 is maintained in the survivors. Furthermore, we cannot exclude that, in some cases, the reduction of IST occurred with a short delay after the diagnosis of COVID-19; however, all patients with symptoms underwent nasopharyngeal swabs as fast as possible in an ambulatory setting.

 

Conclusion

In our cohort of patients, the reduction of immunosuppression did not decrease the risk of severe COVID-19 or death. COVID-19 was associated with hospitalization (42%), graft failure (2.2%), IgA glomerulonephritis (2.2%) and death (17.8%). Age and time elapsed from kidney transplantation were independent predictors of death in our patients. Short-term follow-up after COVID-19 showed an excellent graft function in most survivors. Primary infection or vaccination did not exclude the risk of SARS-CoV-2 infection in KT recipients.

 

Authorship credit

Conception: Gaetano Alfano and Francesca Damiano

Collection of data: Camilla Ferri, Francesco Giaroni, Andrea Melluso, Martina Montani, Niccolò Morisi, Lorenzo Tei, Jessica Plessi

Analysis and interpretation of data: Gaetano Alfano, Francesco Giaroni, Francesca Damiano

Drafting the article: Gaetano Alfano, Francesco Fontana, Silvia Giovanella, Giulia Ligabue, Giacomo Mori

Intellectual Contribution: Francesco Fontana Gianni Cappelli, Giovanni Guaraldi

Revising the article: Gianni Cappelli, Giovanni Guaraldi

Approval of the version to be published: all authors

 

Acknowledgments

Special thanks are due to Marco Ballestri, Elisabetta Ascione, Roberto Pulizzi and Francesca Facchini, skilled and experienced nephrologists involved in the “Kidney Transplant Program”, and to Laura Bonaretti and all nurses of the “Kidney Transplantation Outpatient Clinic” at the University Hospital of Modena for their precious support in managing KT recipients.

 

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Nutritional therapy in chronic proteinuric nephropathy

Abstract

Proteinuria is a well-known marker of renal damage and, at the same time, an important factor in the progression of chronic kidney disease itself. The scientific community has always sought to investigate and provide answers on how nutritional therapy can influence and modify proteinuria and therefore limit its impact on progression to end-stage renal disease. However, despite the importance of the topic, the studies rarely take the form of randomized and controlled trials; in any case, they are often limited to protein intake only, conducted on very heterogeneous populations and, finally, they rarely indicate the precise values of proteinuria. The aim of this work is to explore the different nutritional approaches and their implications in the pathological conditions associated with proteinuria.

Keywords: proteinuria, end stage renal disease, diet, low protein, chronic renal failure

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Introduzione

La proteinuria è un noto fattore di rischio indipendente per la progressione ad end-stage renal disease. È un fattore di rischio spesso modificabile e la riduzione della proteinuria è una importante strategia nell’ottica di ritardare e prevenire la perdita della funzione renale stessa [1]. Le cause fisiopatologiche che correlano la proteinuria alla progressione del danno renale sono molteplici e riguardano diversi meccanismi di azione, che spesso rimangono ancora sconosciuti. Tra questi meccanismi, uno dei più importanti è rappresentato dall’alterazione della permeabilità della barriera glomerulare, derivata dall’attività delle proteasi e dalla riduzione della sintesi di proteoglicani, necessarie per il corretto mantenimento e funzionamento della barriera [2]. Nell’ambito del sovvertimento della struttura glomerulare, anche il transforming growth factor-beta (TGF-b) svolge un ruolo fondamentale nel processo di fibrosi e sclerosi glomerulare, incrementando la sintesi di matrice extracellulare [3]. Altri meccanismi che svolgono un ruolo fondamentale nella patogenesi della proteinuria sono rappresentati dai radicali liberi e dalle specie reattive dell’ossigeno [4].

In questo variegato scenario eziopatogenetico, la comunità scientifica ha cercato ormai da molti anni di indagare e fornire risposte su come la terapia nutrizionale possa influenzare, modificare e bloccare questi processi patologici. Questi studi non risultavano esclusivamente orientati alla riduzione del processo patologico che porta alla comparsa ed all’aumento della proteinuria, ma anche alla preservazione della funzione renale, in quanto, nel corso degli anni, l’influenza della proteinuria nella velocità di progressione dell’insufficienza renale appariva sempre più netta. Alla luce di ciò, la terapia nutrizionale, che spesso si limitava alla progressione dell’insufficienza renale, si è ampliata verso approcci riguardanti l’insorgenza e la riduzione della proteinuria.

Nonostante l’importanza dell’argomento, però, gli studi sono stati spesso limitati all’apporto proteico; spesso sono stati valutati su popolazioni troppo eterogenee; raramente indicavano con precisione i valori di proteinuria; avevano spesso follow-up limitati; raramente riguardavano trials randomizzati. L’obiettivo di questo lavoro è quello di esplorare i differenti approcci nutrizionali e la loro influenza sui vari meccanismi eziopatogenetici conosciuti. Si andrà ad esplorare l’efficacia clinica di alcuni approcci dietetici, segnalandone i possibili effetti collaterali.

 

La low protein diet e very low protein diet

La riduzione dell’apporto proteico è l’approccio terapeutico-nutrizionale più utilizzato ed esaminato. Questa strategia è nota sin dagli anni ‘80, da quando i gruppi di Brenner ed El-Nahas mostrarono come la low protein diet (LPD) riducesse l’iperfiltrazione e la sclerosi glomerulare nei ratti [5,6]. Sfortunatamente, da allora, la maggior parte degli studi ha studiato popolazioni che già presentavano una insufficienza renale cronica e raramente pazienti che avevano una funzione renale normale.

 

LPD e VLPD nella patologia renale cronica

Gli studi riguardanti questo argomento sono diminuiti negli ultimi anni e spesso ci dobbiamo riferire ad analisi compiute più di 10 anni fa. Più recentemente, sono state presentate alcune metanalisi che, pur non rappresentando studi originali, hanno comunque cercato di compiere una revisione analitica e fare maggiore chiarezza sui benefici di queste terapie nelle diverse popolazioni studiate (Tabella I).

Chaveau et al. nel 2007 analizzarono le modifiche della proteinuria come risposta ad una “very low protein diet” (VLPD) con supplementazioni amminoacidiche o di ketoanaloghi (sVLPD) in 220 pazienti consecutivi con Chronic Kidney Disease (CKD). Il protocollo dietetico prevedeva una dieta con: 0.3 g/Kg peso ideale/die di proteine di origine vegetale più un 1 g di proteine per ogni grammo di proteinuria eccedente i 3 g/die. La supplementazione era rappresentata da 1 compressa di ketoanaloghi misti ed aminoacidi essenziali ogni 5 Kg di peso corporeo. Il fosforo inorganico era circa 5-7 mg/kg/die. L’energia totale era di 35 Kcal/Kg/die. Per esempio, un paziente di 70 Kg con 6 g/die di proteinuria riceveva 21 +3 g di proteine di origine vegetale e 14 compresse di ketoanaloghi. L’ammontare di fosforo inorganico era di circa 420 mg/die, con un apporto calorico medico di circa 2450 Kcal/die. La popolazione veniva divisa in 2 gruppi, a seconda della proteinuria basale: 1-3 g/die e >3 g/die. Entrambi i gruppi mostrarono una riduzione della proteinuria di circa il 50%, ma in misura maggiore quelli con proteinuria basale maggiore. La massima efficacia fu raggiunta ai 3 mesi di terapia. I pazienti con una maggiore riduzione della proteinuria evidenziavano anche una minore progressione del declino dell’eGFR. Inoltre, la riduzione delle proteine urinarie influenzava positivamente anche i valori di albumina plasmatica e l’assetto lipidico generale. Gli autori supposero che, probabilmente, i pazienti “responder” nel breve periodo erano quelli che avevano migliori outcome, nel lungo periodo, rispetto al declino dell’eGFR. Questa supposizione faceva propendere verso una continuazione, nel lungo periodo, della terapia nutrizionale nei pazienti “responder” [7]. Le limitazioni più importanti di questo studio erano il piccolo sample size e l’arruolamento dei soli pazienti in uno stadio avanzato della patologia renale, ossia con stadio CKD IV e V.

Un recente studio cross-sectional realizzato a Taipei valutava l’associazione tra la dieta vegetariana e la prevalenza di CKD in un sample di 55113 pazienti. La dieta vegetariana era significativamente associata ad una minore prevalenza di CKD. La popolazione analizzata era eterogenea, con una prevalenza di CKD del 16.8% ed un eGFR medio di 84 ml/min per 1.73 m2. Veniva inoltre segnalata una ridotta prevalenza di proteinuria nel gruppo “vegano”. Le limitazioni di questo studio erano riconducibili ad un possibile bias di selezione ed una mancanza delle informazioni riguardanti l’apporto energetico e la composizione nutrizionale delle diete [8].

 

LPD, VLPD e ketoanaloghi

Nel 2013 veniva condotto un interessante e peculiare piccolo trial monocentrico, open-label, randomizzato e controllato, riguardante 17 pazienti con virus da Epatite B e glomerulonefrite cronica. Veniva valutato in questi pazienti l’effetto di una dieta ipoproteica in termini di outcomes e di asset nutrizionale. Tutti i pazienti avevano uno stadio I e II CKD e una proteinuria >1 g/die. Nove pazienti ricevevano una dieta ipoproteica a 0.6-0.8 g/kg/die di peso corporeo ideale, senza supplementazione; 8 pazienti ricevevano la stessa dieta ipoproteica con supplementazione di ketoanaloghi, al dosaggio di 0.1 g/kg/die. Il dato significativo è rappresentato dal fatto che il gruppo con supplementazione aveva una riduzione significativa della proteinuria delle 24 ore, sia a 6 mesi che a 12 mesi. Inoltre, il valore assoluto di proteinuria era significativamente minore nel gruppo con ketoanaloghi rispetto al gruppo in sola LPD (2.0 ± 1.8 vs 4.4 ± 2.7 g/24h). Infine, nel gruppo con supplementazione, l’aspetto nutrizionale rimaneva invariato durante tutta la durata del follow-up [9]. Questo studio dimostra come la dieta a ridotto apporto proteico supplementata con ketoanaloghi possa migliorare la proteinuria ed evitare la malnutrizione, rispetto alla dieta non-supplementata. Supporta inoltre la teoria che i ketoanaloghi possano ridurre i valori dei fattori pro-fibrotici come il TGF-β che, come visto in precedenza, è fortemente implicato nel sovvertimento della struttura glomerulare renale. Ovviamente lo studio, seppur innovative e caratteristico, è limitato dal basso numero di pazienti e dalla specificità della loro patologia di base.

La più recente metanalisi di trial clinici randomizzati controllati veniva pubblicata da Yue et al. nel 2019 e analizzava gli effetti della dieta a basso apporto proteico sulla funzione renale. Questa metanalisi, rispetto a precedenti studi, evidenziava come il principale effetto della dieta ipoproteica non fosse il miglioramento dell’eGFR, ma la riduzione della proteinuria. Nel dettaglio della metanalisi, 19 studi confermavano la non influenza della LPD sull’eGFR. Per quanto riguarda la proteinuria, invece, la riduzione di 0,1 g/Kg/die die proteine era associata ad una riduzione della proteinuria di 0,0031 g/die. Effettivamente questa riduzione non appariva clinicamente significativa, ma quando la terapia era più lunga di 1 anno, la riduzione diventava più evidente, con una riduzione di 0.673 g/die. La riduzione era leggermente inferiore quando l’età dei soggetti era maggiore di 60 anni (-0.526 g/die). Nei pazienti in LPD si segnalava anche la riduzione del peso corporeo, del BMI, dell’urea e del BUN [10].

Oltre a diversi studi che analizzano l’efficacia della restrizione proteica nella riduzione della progressione dell’insufficienza renale e nella riduzione o comparsa della proteinuria, sono presenti anche diversi lavori che analizzano la sicurezza clinica e gli effetti collaterali delle diete ad apporto proteico basso e molto basso. In questo contesto, l’effetto collaterale più pericoloso, e di conseguenza più indagato, è rappresentato dall’insorgenza della malnutrizione proteico-calorica. Una metanalisi condotta nel 2018 evidenziava come la LPD non causasse malnutrizione [11] e permettesse di garantire un bilancio azotato anche nella sindrome nefrosica. Questo bilancio sembrava essere garantito anche dal fatto che, come conseguenza della perdita urinaria di proteine, si instaurava un meccanismo di “salvataggio aminoacidico” [12]. Diversi studi, però, rimarcano l’importanza di un corretto apporto energetico nei pazienti sottoposti a dieta ipocalorica. In particolare, un apporto calorico di 30-35 kcal/kg/die può permettere di prevenire stati di malnutrizione [13]. In molti studi, infatti, la “protein energy wasting” viene rilevata, nelle diete a bassissimo contenuto di proteine, solo se l’apporto calorico risulta insufficiente [14].

Nella metanalisi di studi clinici randomizzati controllati avviata da Yue nel 2019, precedentemente analizzata, veniva eseguita una buona analisi della sicurezza a lungo termine della restrizione proteica, esaminando le implicazioni della LPD quando la durata del trattamento era superiore ai 12 mesi. La restrizione proteica influenzava significativamente il BMI, con una riduzione di 0.907 kg/m2 (CI: -1.491 to -0.322 kg/m2) e dell’albumina (-1.586 g/l; CI: -5.258 to 2.086 g/l), evidenziando come un lungo periodo di restrizione potesse essere un fattore di rischio per la comparsa di malnutrizione. Inoltre, la riduzione dell’apporto proteico ridurrebbe la secrezione dell’ormone della crescita e del glucagone.

Per quanto riguarda la VLPD, nell’analisi post hoc dello studio Modification of Diet in Renal Disease (MDRD) si evidenziava quanto la prescrizione di una VLPD potesse aumentare il rischio di mortalità nei pazienti con insufficienza renale cronica [15]. D’altra parte, ci sono numerosi studi che al contrario non evidenziavano la comparsa di deficit nutrizionali [16] e che non confermavano l’aumento del rischio di malnutrizione in questi contesti [17]. A tal riguardo, l’utilizzo di ketoanaloghi potrebbe avere un impatto nella riduzione del rischio di insorgenza di malnutrizione. Tale supplementazione migliora il bilancio azotato e migliora l’asset proteico [18]. Nell’ambito dello stato nutrizionale complessivo, non è da sottovalutare l’influenza che ha la riduzione della proteinuria nell’aumento dei livelli di albumina sierici. Questo aumento, oltre ad essere associato alla riduzione della perdita urinaria, potrebbe essere associato anche ad ulteriori adattamenti fisiologici del metabolismo proteico, in una condizione di ridotto apporto ed aumentata perdita. In particolare, tra i meccanismi attivati si segnalano: la riduzione dei processi di proteolisi, la riduzione dell’ossidazione amminoacidica e la stimolazione di sintesi proteica post-prandiale [19].

In definitiva, non è possibile fornire una univoca conclusione sulla sicurezza della LPD e VLPD, in quanto gli studi presenti in letteratura forniscono dati discordanti e spesso presentano nelle loro analisi fattori confondenti, bias di selezione e dati non completi sulla quantità di apporto proteico e calorico.

 

Nefropatia diabetica

In letteratura sono presenti numerosi studi riguardanti la nutrizione nella nefropatia diabetica. Nell’ambito di competenza di questo lavoro, uno degli studi più rappresentativi risulta una metanalisi pubblicata nel 2019, dove veniva valutato l’impatto della LPD in questa tipologia di pazienti (Tabella I). I risultati, forse non scontati, evidenziavano una similitudine con quelli riguardanti i soggetti non-diabetici. Infatti, non si riscontravano significative differenze nei valori di creatinina sierica, di filtrato glomerulare ed emoglobina glicosilata, nel gruppo in trattamento. Di contro, i valori di albuminuria e proteinuria risultavano significativamente inferiori nel gruppo in LPD rispetto al gruppo di controllo (standard mean difference: 0.62, 95% CI: 0.06-1.19; 0.69, 95% CI: 0.22-1.16 rispettivamente) [20].

Un’altra review sistematica di Zhu et al. confermava questi risultati, riscontrando una significativa riduzione della proteinuria nel gruppo dei pazienti in LPD, nella sottopopolazione con Diabete Mellito tipo II (1.32, 95% CI: 0.17-2.47, p=0.02) [21]. Gli autori hanno provato a dare delle spiegazioni patogenetiche alla nefroprotezione dalla dieta a ridotto apporto proteico. Per prima cosa questa tipologia di dieta riduce il carico glomerulare proteico e questo determina: una inibizione del sistema renina-angiotensina renale; una riduzione della secrezione di glucagone con una minore dilatazione dell’arteriola afferente; una riduzione dell’insulin-like growth factor-1, con una conseguente potente azione vasodilatatoria [22]. Inoltre, la LPD attivava, nei modelli animali con Diabete di tipo II, i processi autofagici attraverso la soppressione di meccanismi che hanno come target la via del complesso 1 della Rapamicina [23]. In generale però, anche questi due studi riportavano una maggiore efficacia nella riduzione della proteinuria, ma una modesta efficacia a livello di nefroprotezione nei pazienti con nefropatia diabetica in restrizione proteica.

In un innovativo trial controllato crossover, eseguito in 17 pazienti con diabete mellito di tipo II, gli autori analizzavano la differenza di outcomes tra: una dieta libera, una dieta a base di pollo (senza altra tipologia di carne) e una dieta latto-ovo-vegetariana a ridotto contenuto proteico rispettivamente. Il tasso di escrezione urinaria di albumina risultava significativamente ridotto nei gruppi in “chicken-diet” e nei latto-ovo-vegetariani, comparati con quelli in dieta libera (20.6%, 95% CI: 4.8-36.4%; 31.4%, 95% CI: 12.7-50% rispettivamente). La riduzione dell’albuminuria tra la dieta a base di carne di pollo e quella latto-ovo-vegetariana non era statisticamente significativa (p=0.249) [24]. Probabilmente entrambe queste diete garantivano un alto contenuto sierico di acidi grassi polinsaturi (PUFAs), i quali influenzavano la riduzione della proteinuria [25]. Alti livelli di PUFAs potrebbero avere, inoltre, un effetto protettivo sulla funzione endoteliale e potrebbero migliorare l’insulino-resistenza, con un effetto sulla riduzione della proteinuria. Bisogna ovviamente tenere in conto che lo studio aveva un numero esiguo di partecipanti.

 

Nefropatia proteinurica in gravidanza

Un aspetto da non sottovalutare, poiché riguarda una popolazione molto particolare, è quello delle donne in gravidanza. In queste pazienti andrebbe evitata quanto più possibile l’insorgenza di proteinuria oppure la progressione di una proteinuria o una insufficienza renale cronica già esistenti. Questo per evitare l’insorgenza di gravi e note complicanze, che risultano pericolose ed a volte infauste e che riguardano sia la salute della madre, sia quella del nascituro. La terapia nutrizionale nelle donne in gravidanza è quindi un aspetto importante ed al tempo stesso complesso.

Gli studi presenti in letteratura non sono numerosi, ma i gruppi italiani di Torino e Cagliari hanno investigato, da diversi anni, la problematica. Il loro focus si concentrava sulla valutazione della efficacia e della sicurezza della LPD, basata su una dieta vegana-vegetariana, nel ridurre la proteinuria ed evitare la progressione dell’insufficienza renale. Il loro protocollo prevedeva la prescrizione di una dieta con un apporto proteico di 0.6 g/kg/die, supplementato da alfa-ketoanaloghi e amminoacidi (1 compressa ogni 10 kg di peso corporeo ideale) nei primi due trimestri. L’apporto proteico aumentava nel terzo trimestre, con 0.8 g/Kg/die di proteine + 1 compressa di ketoanaloghi ogni 8 Kg di peso corporeo ideale. La dieta era sostanzialmente vegana, con occasionale presenza di latte e yoghurt. Non vi era una restrizione di sale, ma venivano strettamente controllati, ed eventualmente supplementati, la Vitamina B12, il ferro e la 25-OH-Vitamina D. I risultati evidenziavano un incremento della proteinuria sia nel gruppo in LPD, sia nel gruppo di controllo, salvo poi ridursi a 3 e mesi dal parto, in seguito alla scomparsa della “fase iperfiltrativa”. La dieta non risultava efficace neanche sulla progressione dell’insufficienza renale. Nonostante questi dati, è importante sottolineare come l’incidenza di una età gestionale minore del decimo percentile, o la frequenza di neonati marcatamente prematuri, fosse significativamente inferiore nel gruppo vegetariano-vegano, rispetto alla popolazione di controllo. Le madri lamentavano però un significativo impatto della terapia nutrizionale nello stile di vita quotidiano [26] (Tabella I).

In un altro studio sperimentale veniva invece analizzato l’utilizzo di proteine derivate dalla soia durante la gravidanza e l’allattamento in ratti con patologie renali ereditarie. L’utilizzo esclusivo di proteine derivate dalla soia, comparate con una dieta contenente proteine derivate dal latte, determinava una riduzione della proteinuria del 33% (p=0.0013). Inoltre, la dieta a base di proteine della soia durante la gravidanza e l’allattamento riduceva lo stato infiammatorio (-24% di infiltrato macrofagico durante la gravidanza e -32% durante l’allattamento) e lo stress ossidativo (-28% e -56% di LDL-ossidate rispettivamente) [27]. Secondo gli autori, queste riduzioni potevano essere ricondotte ad un minor livello plasmatico di Valina e Lisina, che parrebbero ridurre la frazione di filtrazione glomerulare [28].

Una review di 22 lavori dimostra come la dieta vegana-vegetariana sia sicura in gravidanza. Nessuno degli studi analizzati riportava, infatti, aumento dei rischi correlati alla gravidanza o aumento di eventi legati alla nascita o alla salute del nascituro [29]; questo eccetto per un singolo studio, che riportava un aumento dell’incidenza di ipospadia nei bambini di madri vegetariane [30]. Ovviamente, tutti gli studi rimarcavano l’importanza di poter sviluppare carenze di Vitamina B12, ferro o Zinco, raccomandandone l’eventuale supplementazione [31].

Per concludere, la dieta vegetariana non fornisce significativi vantaggi nel preservare la funzione renale o nel ridurre la proteinuria ma sembrerebbe non avere effetti collaterali severi e potrebbe ridurre alcune complicanze gestazionali. Si potrebbe per esempio prescrivere una dieta vegetariana nelle pazienti che hanno già una sindrome nefrosica in corso, o una storia di proteinuria significativa; nelle pazienti che hanno una progressione della proteinuria durante la gravidanza; in quelle con uno stato di insufficienza renale già avanzato. Queste pazienti potrebbero beneficiare di questo approccio dietetico, soprattutto per ridurre le complicanze gestionali.

Studi Pazienti Funzione Renale Intake Proteico (g/kg/d) Info cliniche Risultati
Chaveau (2007)

[7]
220 CKD IV-V 0.3 (vegetariana) + 1 g per grammo di proteine >3 g/d + supplementazione nd Riduzione della proteinuria del 50%. Max efficacia dopo 3 mesi. Maggiore riduzione proteinuria = minore declino dell’eGFR
Mou (2013)

[9]
17 CKD I-II e proteinuria >1g/d

 

0.6-0.8 g/Kg/d su peso ideale con Ketoanaloghi (0.1 g/Kg/d) o senza HBV+ La proteinuria era significativamente minore nel gruppo con Ketoanaloghi rispetto al gruppo senza supplementazione (2.0 ±1.8 vs 4.4 ±2.7 g/24h)
Yue (2019) (metanalisi)

[10]
3566 nd 0.28-0.8 g/Kg/d nd Quando la dieta >12 mesi, ogni riduzione di 0.1 g/Kg/d di intake proteico era associato ad una riduzione di -0.673 g/24h di proteinuria
Li (2019) (metanalisi)

[20]
690 nd 0.6-1.0 g/Kg/d Diabetici La proteinuria diminuiva nel gruppo in LPD vs gruppo controllo (SMD rispettivamente: 0.62, CI: 0.06-1.19 e 0.69, CI: 0.22-1.16)
Attini (2019)

[26]
36 CKD III-V o proteinuria >1g/d 0.6 g/Kg/d + supplemento (0.8 g/Kg/d + supplemento III trimestre) Gravide La proteinuria aumentava nel gruppo LPD e nel gruppo controllo. L’incidenza di basso peso per età gestionale era significativamente inferiore nel gruppo LPD
Tabella I: Principali studi sull’intake proteico nella proteinuria

 

Altri aspetti nutrizionali e proteinuria

Sebbene la maggior parte degli studi in letteratura riguardanti la riduzione della proteinuria e la preservazione della funzione renale siano riconducibili alla restrizione proteica, e sebbene l’argomento di questa review sia diretto in questo ambito, non possiamo non trattare brevemente alcuni differenti aspetti nutrizionali fortemente implicati in questo ambito patologico/terapeutico e che possono interferire con l’efficacia delle diete a ridotto apporto proteico.

 

Fibre, alcali e Vitamina K

La proteinuria può essere gestita con diversi alimenti, tra cui la curcumina, oltre che con la restrizione proteica (Tabella II). Altri nutrienti che potrebbero essere utilizzati in questo ambito sono le fibre, gli alcali e la Vitamina K. Nella dieta Vegana e nella VLPD le fibre e la Vitamina K1 sono molto più presenti rispetto ad altre diete [32]; inoltre, vi sono alimenti che hanno un alto potere alcalinizzante e potrebbero migliorare l’efficienza delle varie diete e dei benefici derivanti dalla riduzione dell’apporto proteico. In alcuni studi la Vitamina K è stata associata ad una riduzione della mortalità in pazienti con malattia renale cronica [33]. L’intake di fibre diminuisce il pH intestinale e modula favorevolmente il microbiota. Inoltre, anche la riduzione dell’apporto di acidi con la dieta potrebbe ridurre la mortalità nei pazienti con insufficienza renale cronica e sicuramente favorisce l’omeostasi dell’equilibrio acido-base e migliora il controllo dell’iperkaliemia, specialmente quando è in corso un trattamento con ACE-inibitori o Sartanici [34].

 

Fosforo

Un ruolo importante nel management della proteinuria è svolto dal fosforo sierico e dall’intake di fosforo. Lee H et al. hanno dimostrato come un valore elevato di fosforo ematico, anche in range non patologico, era indipendentemente e positivamente correlato con albuminuria, seppur di basso grado, ed era un potente fattore predittore di aumento del rapporto albumina/creatinina (coefficiente di regressione = 0,610, p <0.001). Questo studio non includeva pazienti con eGFR <60 ml/min e con proteinuria e microematuria già presente [35]. L’intake dietetico di fosforo, in particolare derivante da proteine animali, aumentava i livelli di fosforo e diminuiva la dilatazione flusso-mediata, un marker sostitutivo della funzione endoteliale [36]. Un altro studio in pazienti con malattia renale cronica confermava inoltre che il fosforo attenua l’effetto anti-proteinurico della VLPD [37]. Infine, alti livelli di fosforo attenuano anche l’effetto nefroprotettore degli ACE-inibitori in pazienti con proteinuria e malattia renale cronica [38].

 

Intake di sodio

L’intake di sodio è un punto cruciale nell’approccio nutrizionale della proteinuria. Un interessante trial randomizzato evidenziava come l’aggiunta di una restrizione sodiemica in aggiunta alla terapia con ACE-inibitori fosse più effettiva nella riduzione della proteinuria rispetto al “doppio blocco”, consistente nell’aggiunta del Sartanico all’ACE-inibitore. Al basale, i pazienti in terapia con ACE-inibitori in dieta libera avevano una proteinuria di 1.68 g/d (1.31-2.14). Se si aggiungeva in terapia il Sartanico, la proteinuria scendeva a 1.44 g/d (1.07-1.93; p = 0.003). Molto più efficace risultava l’introduzione di una dieta a basso contenuto di sodio, che portava i valori di proteinuria a 0.85 g/d (0.66-1.10; p <0.001). Va segnalato che nessuno dei pazienti nello studio aveva una nefropatia diabetica [39].

Questo effetto cumulativo della restrizione sodiemica è stato riscontrato in altri studi. Diversi lavori riportano inoltre lo stesso effetto cumulativo della restrizione sodiemica in pazienti in terapia con ACE-inibitori e LPD o VLPD. L’effetto cumulativo sembrerebbe riconducibile a due differenti meccanismi: la riduzione del “precarico” e del “postcarico” glomerulare [40]. In generale, la LPD ha un basso apporto di sodio, tuttavia una indicazione di una dieta iposodiemica ed ipoproteica in pazienti in terapia con inibitori del RAS può essere una strategia efficace nella riduzione della proteinuria.

Alimenti Meccanismo di azione Risultati
Curcumina (animali) Nrf2-attivatore; previene apoptosi della β-cell; attenua l’insulino-resistenza; riduce l’infiammazione Attenua l’escrezione urinaria di albumina nei pazienti con diabete mellito di tipo II
Lactobacillus (ratti) Rigenera l’espressione delle proteine della barriera intestinale; riduce l’infiammazione sistemica Diminuisce la proteinuria in ratti con CKD
Fibre, Alkali and Vitamina K Diminuisce il pH intestinale e modula favorevolmente il microbiota Riduce l’apporto dietetico di acidi; riduce la mortalità in persone con CKD; migliora l’equilibrio acido-base; migliora il controllo dell’iperkaliemia
Fosforo Diminuisce la dilatazione endoteliale flusso-mediata; attenua l’effetto antiproteinurico della VLPD e degli ACE-inibitori indipendentemente e positivamente correlata con la presenza di albuminuria; aumenta il rapporto urinario albuminuria/creatininuria
Riduzione intake di Sodio Riduce il precarico glomerulare; inibisce il sistema renina-angiotensina Riduzione della proteinuria; effetto cumulativo quando associato agli ACE-inibitori o ai Sartanici
Tabella II: Meccanismo di azione e risultati di differenti alimenti nel management della proteinuria

 

Conclusioni

La proteinuria ha un ruolo fondamentale nella diagnosi, nella gestione e nel trattamento dell’insufficienza renale cronica ma non esistono numerosi studi focalizzati sugli effetti della dieta sulla proteinuria. La restrizione proteica è l’approccio dietetico più studiato nella gestione della proteinuria e dell’insufficienza renale. Tale dieta non sembra agire direttamente sui valori del GFR, ma è spesso efficace nel ridurre la proteinuria, considerata come il principale fattore di rischio di progressione dell’insufficienza renale. Questo dato rimarca come i benefici della terapia nutrizionale sulle perdite urinarie di proteine possano influenzare la progressione della patologia renale, soprattutto a lungo termine, determinando un forte impatto sui fattori di rischio cardiovascolari e sulla mortalità in generale.

Una sana alimentazione, inoltre, tende al miglioramento del microbiota intestinale, che sembrerebbe uno meccanismo fisiopatologico di rilievo nella riduzione della proteinuria. Nei soggetti con proteinuria è fondamentale un continuo monitoraggio dello status nutrizionale, specialmente nei soggetti in dieta ipoproteica, per evitare l’insorgenza di malnutrizione.

Non esistono protocolli dietetici universali nel management della proteinuria. Ogni paziente dovrebbe avere una terapia nutrizionale personalizzata, basata sulle cause eziopatogenetiche e sui valori della proteinuria, sulle comorbidità esistenti e sulla valutazione nutrizionale di base.

Ulteriori trials clinici randomizzati focalizzati sulla proteinuria, possibilmente divisi per cause eziopatogenetiche e livelli di proteinuria, sono necessari e andrebbero incentivati.

 

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The definition of chronic kidney disease in a context of aging population

Abstract

Chronic kidney disease (CKD) is a progressively chronic disease that carries a high burden of morbidity and mortality and is associated with significant healthcare utilization and costs. Recent trends shown that the prevalence of CKD is stable in Europe and USA, whereas tends to decline in some countries with a high standard of care.

According to international guidelines, chronic kidney disease (CKD) is defined as the presence of kidney damage or a glomerular filtration rate (eGFR) less than 60 ml/min. This staging method has a main drawback, its imprecise assessment of renal function at the extremes of the age bracket: the use of a fixed threshold value (glomerular filtration rate [GFR <60 ml /min]) to define chronic renal failure appears an imprecise measure in the young and in the elderly. In these two groups, in fact, the measurement of GFR is difficult to categorize in a "rigid" system of classification. The reduction of the GFR with aging is due to a complex process that leads to a steady reduction of the functioning nephrons over 40 years of age. Taken together, these findings should spur us to adopt a new definition of CKD. An age-adapted definition of CKD could be a good solution to avoid a diagnosis of CKD in elderly patients (GFR >45 ml/min) when there are no prognostic implications on survival. The adoption of this new definition would also reduce the high prevalence of the disease in the general population, with a beneficial reduction of the costs associated with monitoring a mildly decreased eGFR.

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Introduzione

Dal 2013 la World Health Organization (WHO) sostiene un progetto denominato “global action plan” che promuovere la salute e il benessere psico-fisico della popolazione mondiale. Il progetto, basato sulla prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili, ha l’obiettivo di ridurre la mortalità dovuta a cancro, malattia cardiovascolare, malattia respiratoria cronica e diabete del 25% nel 2025 [1]. Sebbene la malattia renale cronica (MRC) non sia elencata tra le patologie croniche, è opinione comune che questa impatti profondamente sullo stato di salute dei pazienti affetti. A tal proposito il Ministero della Salute inserisce la MRC nel piano nazionale della cronicità del 2016. 

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Challenges and results of the PIRP project (Prevenzione della Insufficienza Renale Progressiva) of the Emilia-Romagna Region

Abstract

The PIRP project was conceived in 2004; with the aim to face the increased prevalence of chronic kidney disease (CKD) associated with the aging and increased survival of the population. The first phase of the project consisted of training primary care physicians to identify people at risk of CKD and to implement intervention strategies that proved to be effective in preventing CKD it or delaying its progression once it is established. In the second phase of the project, dedicated ambulatories were opened in the nephrology units of Emilia-Romagna hospitals to provide an in-depth assessment and personalized care to CKD patients, following them up until renal failure or death or referring them back to general practitioners, according to the study protocol. A web-based registry was implemented to collect demographic and clinical data on PIRP patients. As of 30 June 2018, the registry included 26.211 CKD patients, with a median follow-up of 24.5 months. Over the 14 years of the PIRP the mean age of incident patients increased from 71.0 years to 74.2 years and the mean eGFR increased from 30.56 to 36.52 mL/min/1.73 m2, proving that the project was successful in recruiting older patients with a better renal function. At 5 years, the percentage of patients still active in the project was >45%.The implementation of the project has seen a reduction in the number of patients arriving every year to the dialysis treatment in E-R (about 100 units less from 2006 to 2016). The PIRP cohort is the largest in Italy and in Europe, which makes it ideal for research based on international comparisons and as a model for national registries.

Keywords: Renal insufficiency, CKD, GP, GFR, Proteinuria, Public Health Intervention

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INTRODUZIONE

La Malattia Renale Cronica (MRC) è, nell’ambito delle patologie croniche, una condizione molto diffusa, con una prevalenza crescente nella popolazione generale e con una stima a livello mondiale di circa il 10-15% (1). In Italia la prevalenza della MRC è stimata sull’ordine del 7,5% negli uomini e del 6,5% nelle donne sulla base dello studio CARHES (2). Questi dati di prevalenza italiana, sotto certi aspetti consolanti, sono però destinati ad aumentare per diversi ordini di fattori: i) invecchiamento della popolazione; ii) aumentata prevalenza nella popolazione generale di condizioni cliniche ad elevato rischio di danno renale (diabete mellito, sindrome metabolica, ipertensione arteriosa) (3), iii) aumentata sopravvivenza dei pazienti co-morbidi e complessi.

 

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