Hyposodiemia and Electrolyte Disorders in Cancer Patients

Abstract

Onconephrology is a rising and rapidly expanding field of medicine in which nephrology and oncology meet each other. Besides multidisciplinary meetings, oncologists and nephrologists often discuss on timing of the treatment, dosage, and side effects management. Cancer patients often encounter different electrolyte disorders. They are mostly secondary to the tumor itself or consequences of its treatment. In the last years, the great efforts to find new therapies like targeted, immune, and cell-based led us to many new side effects. Hyponatremia, hypokalemia, hyperkalemia, hypercalcemia, and hypomagnesemia are among the most common electrolyte disorders. Data have shown a worse prognosis in patients with electrolytic imbalances. Additionally, they cause a delay in chemotherapy or even an interruption. It is important to diagnose promptly these complications and treat them. In this review, we provide a special focus on hyponatremia and its treatment as the most common electrolytes disorder in cancer patients, but also on newly described cases of hypo- and hyperkalemia and metabolic acidosis.

Keywords: hyposodiemia, cancer patients, electrolyte disorders, hyperkalemia

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Introduzione

I pazienti oncologici costituiscono una popolazione fragile e la sovrapposizione con patologie renali pre-esistenti o subentranti peggiora notevolmente la prognosi. Oltre ad AKI, proteinuria e ipertensione, spesso i pazienti oncologici presentano disturbi idroelettrolitici. Tra i più comuni sono l’iposodiemia, l’ipopotassiemia, l’iperpotassiemia, l’ipercalcemia e l’ipomagnesemia. Questi possono essere causati direttamente dal tumore, come nelle sindromi paraneoplastiche, o essere secondari a terapia. Tra le sindromi paraneoplastiche più comuni abbiamo la SIAD, sindrome da inappropriata antidiuresi, che porta a iposodiemia. Negli ultimi anni, lo sviluppo di nuovi farmaci ha portato a nuovi effetti collaterali, come l’ipomagnesemia indotta da anticorpi monoclonali anti EGFR o l’iposodiemia da agenti alchilanti e alcaloidi della vinca e le più recenti targeted therapies.

Questa review intende fornire gli elementi clinici più recenti per l’identificazione e il trattamento dei disturbi elettrolitici nei pazienti oncologici, focalizzandosi prevalentemente sulla iposodiemia.

 

Iposodiemia

L’iposodiemia è definita da una concentrazione sierica di sodio inferiore a 135 mmol/L. Si distinguono tre gradi in funzione della concentrazione di sodio: lieve (130-134 mmol/L), moderata (125-129 mmol/L) e severa (<125 mmol/L). In base alla modalità di insorgenza, distinguiamo l’iposodiemia in acuta (insorta da meno di 48 h) o cronica (> di 48h). I disordini della sodiemia sono da considerarsi disordini dell’omeostasi dell’acqua. Proprio la quantità di acqua corporea (TBW, total body water), è un indicatore clinico molto importante che ci permette di classificare l’iposodiemia in ipovolemica, euvolemica e ipervolemica. 

Il 14% di tutti i casi di iposodiemia in setting ospedaliero sono da riferire a pazienti oncologici [1].  Inoltre, il 47% dei pazienti oncologici alla prima ospedalizzazione presenta iposodiemia, di cui il 23% già al ricovero e il 24% la sviluppa durante la degenza [2]. 

In generale, l’iposodiemia aumenta il rischio di mortalità [3] e la sua correzione migliora la sopravvivenza, come dimostrato negli studi SALT-1, SALT-2 e EVEREST. Questo è particolarmente vero nei pazienti con cancro, dove l’iposodiemia severa e/o moderata raddoppia quasi la durata della degenza [2]. Il rischio di morte a 90 giorni dalla diagnosi di iposodiemia è di 4,74 nei pazienti con forme moderate e di 3,46 nei pazienti con forme severe [2]. Questi numeri presentano il peso dell’iposodiemia sui pazienti oncologici sia in termini di qualità di vita che di durata. 

I sintomi dell’iposodiemia sono variabili e spesso sfumati e dipendono dalla velocità e dall’entità con cui essa si instaura. Riguardano soprattutto la sfera neurologica, comprendendo confusione, alterato stato di coscienza, irritabilità, aumentato rischio di cadute e andatura instabile [4] e quindi un maggior rischio di fratture [5], fino ad arrivare al coma e alle convulsioni negli esordi acuti. 

L’iposodiemia nei pazienti oncologici può essere dovuta direttamente al tumore primitivo, può essere secondaria alla sua terapia o a comorbidità che spesso ne costituiscono la complessità di gestione. La causa principale di iposodiemia in questa popolazione è la SIAD (Sindrome da inappropriata antidiuresi), la più comune forma di iposodiemia euvolemica. Rappresenta più del 30% dei casi di iposodiemia nei pazienti con cancro [6]. Altre cause di SIAD includono l’insufficienza cardiaca, altre patologie polmonari e farmaci. In generale, circa l’1-2% dei pazienti oncologici presenta SIAD [7]. La SIADH, o Sindrome da inappropriata secrezione di ADH (ormone antidiuretico), è un termine coniato nel 1957 da Bartter & Schwartz [8] per descrivere quelle situazioni in cui, nonostante i livelli di osmolarità sierica siano < 275 mOsm/kg, ADH è inappropriatamente secreto dalla neuroipofisi o altri siti. Infatti, per valori di osmolalità sierica < 275 mOsm/kg la secrezione di questo ormone è annullata, quando questa situazione non si rileva si parla di inappropriato rilascio di ADH. Poiché il dosaggio sierico di ADH è spesso poco accurato per la labilità di questo peptide, sono necessari altri parametri per identificarne la sua presenza in circolo. Quello più economico e storicamente in uso è la osmolalità urinaria. Valori > 100 – 200 mOsm/kg H2O indicano la presenza in circolo di ADH (Tabella I). Dosaggi alternativi ematici sono rappresentati dalla copeptina, un peptide di rilascio equimolare con ADH, ma molto più stabile in circolo.

Criteri essenziali

Osmolalità sierica effettiva <275 mOsm/kg
Osmolalità urinaria >100 mOsm/kg
Euvolemia clinica
Concentrazione di sodio urinario >30 mmol/L con normale apporto di sale e acqua dalla dieta
Assenza di insufficienza surrenalica, tiroidea, ipofisaria o renale
Non uso recente di diuretici

Criteri supplementari

Acido urico sierico < 4 mg/dL

Azotemia < 21,6 mg/dL
Fallimento della correzione dell’iposodiemia con infusione salina 0,9%
FE Na >0,5%

FE Urea  >55%

FE Acido urico >12%
Correzione dell’iposodiemia con la restrizione dei fluidi

Tabella I. Criteri diagnostici della SIADH. Adattata da [8].

Il tumore solido più frequentemente associato a SIADH è il microcitoma polmonare, seguito poi da tumori del tratto gastrointestinale, tumori ematologici e carcinoma della mammella [9]. 

Tra i farmaci che più frequentemente si associano a SIADH, abbiamo i derivati del platino, gli agenti alchilanti (soprattutto ciclofosfamide), target therapy, immunoterapia e gli alcaloidi della vinca. L’eziologia del disturbo è multifattoriale e i meccanismi sono molteplici (Tabella II). Questi farmaci non agiscono solo tramite la secrezione di ADH: alcuni dei loro metaboliti hanno un’attività simil ADH (come nel caso della ciclofosfamide [10]), alcuni portano ad up-regulation dei recettori V2R e delle acquaporine-2 [11]. L’ipilimumab provoca insufficienza surrenalica che porta al mancato feedback negativo del cortisolo sull’ADH [12]. La vincristina, un alcaloide della vinca, ha un effetto diretto neurotossico a livello ipotalamico [13]. Inoltre, i derivati del platino spesso inducono nausea e vomito, i quali costituiscono di per sé un importante stimolo alla secrezione di ADH. I protocolli di idratazione aggressiva per prevenire la cistite emorragica nella terapia a base di ciclofosfamide peggiorano l’iposodiemia. Inoltre, insieme ai chemioterapici, spesso i pazienti oncologici sono trattati con oppioidi, antidepressivi come SSRI e triciclici, antiemetici come le fenotiazine [14] che aggravano lo squilibrio idroelettrolitico. Tutti questi fattori contribuiscono ad aumentare la complessità dell’eziologia dell’iposodiemia nei pazienti oncologici.

Chemioterapici             Meccanismo fisiopatologico
Alcaloidi della vinca

vincristina, vinblastina

SIADH (tossicità diretta ipotalamica)
Derivati del platino

Cisplatino, carboplatino

Aumentata secrezione ADH, Renal salt wasting, danno al DNA di NCC
Agenti alchilanti
ev cyclophosphamide, melphalan, ifosfamide
SIADH, infusione preventiva di sol. ipotoniche, upregulation di V2R
Target therapies

Bevacizumab, Ado-trastuzumab

SIADH, sindrome nefrosica, Cerebral Salt Wasting Syndrome

Ipilimumab, Nivolumab

Icrucumab, Etaracizumab, Volociximab

Insufficienza surrenalica da ipofisite autoimmune, nefrite interstiziale

Brivanib, Imatinib, Dasatinib,Cediranib Nilotinib,Sorafenib,
Sunitinib, Gefinitib, Pazopanib, Afatinib, Bosutinib

SIADH

Bortezomib TLS
Antimetaboliti

Metotrexate

SIADH, secrezione di peptride natriuretico
Inibitori topoisomerasi tipo I

Irinotecano

SIADH
 Tabella II. Principali meccanismi fisiopatologici dell’iposodiemia da agenti chemioterapici. Adattata da [15].

Terapia infusionale

La gestione dell’iposodiemia avviene su due fronti: il ripristiono dei livelli di sodiemia e il trattamento della causa scatenante. Essa prevede un diverso approccio a seconda della durata e severità dei sintomi. Nell’iposodiemia secondaria a SIAD acuta, severamente sintomatica, il trattamento consigliato è la soluzione ipertonica NaCl al 3% in bolo di 150 mL in 20 minuti, ripetibili fino ad un massimo di 3 volte, monitorando strettamente i livelli di sodiemia (ogni 2 ore e al limite ogni 4). L’obiettivo è correggere la sodiemia di 4-6 mEq/L nelle prime 6/8 ore [16]. Quando invece l’iposodiemia è moderata e i sintomi non sono severi, la correzione può essere più graduale (per evitare la sindrome da mielinolisi pontina) con obiettivo di correzione limite di 8-10 mEq/L nelle prime 24 ore e massimo 18 nelle 48 ore soprattutto nei pazienti anziani e fragili.

Approccio dietetico

Nel caso dell’iposodiemia cronica, è utile identificare il/i fattore/i scatenante/i. Tra questi, l’apporto idrico non è un fattore secondario. Il paziente oncologico è sottoposto a continue consulenze specialistiche ed assume diversi farmaci: è educato insomma ad associare l’introito idrico col benessere renale. Questo assioma è vero, finchè è conservata la capacità di diluizione delle urine. Purtroppo la perdita della massa nefronica con l’età e il decrescere del GFR anche negli stadi iniziali minano la capacità di diluire prontamente le urine, ovvero di ridurre in tempi rapidi l’osmolalità urinaria quando si introduce acqua.

Questo espone al rischio di sviluppare iposodiemie sostenute da comportamenti, almeno nelle intenzioni, benevoli. Pertanto bisogna educare il paziente a bere il giusto per soddisfare la sua sete e scegliere cibi ricchi in acqua in modo da ridurre l’acqua libera da soluti introdotta.

Questo punto diventa ancora più importante per quei pazienti oncologici che mangiano poco. Lo scarso introito di proteine e sale (le principali fonti di osmoli attive: Na, Cl e Urea) determina un carico osmolare renale quotidiano molto basso. Quando questi pazienti aumentano il loro introito idrico ai famosi 2 litri al giorno, diluiscono il loro carico di osmoli ed è come se si sottoponessero ad infusioni quotidiane di soluzioni ipotoniche e iposmotiche. Questo accelera lo sviluppo di iposodiemia laddove ci sono le condizionizioni fisiopatologiche di una SIADH.

Per il calcolo facilitato del carico osmotico con la dieta, noto anche come carico di soluti renale, si puo fare riferimento alla seguente formula derivata dagli studi di Ziegler e Fomon [17]:

Carico osmotico del cibo: mOsmoli = contenuto proteico totale (g) × 5,8 (× 4 se bambini)  + Na+ × 2 + K+ (mmoli)

Sebbene questa formula sia stata derivata per la nutrizione dei neonati e poi per la nutrizione parenterale o enterale, può essere estesa al cibo ingerito.

Per un paziente oncologico tipo di 50 kg (Figura 1) che assume 40 gr di proteine/die e segue una dieta di circa 3 gr di sale al giorno con limitazione dell’apporto di potassio a 50 mmol/die, il carico osmotico giornaliero calcolato è di circa 385 mOsm. Se questo carico osmotico è diluito in 2 L di acqua al die, il paziente assume un carico osmotico di circa 193 mOsm/L pari a meno della metà di quello previsto quotidianamente. Fatto 500 il set point osmolare del rene di un paziente oncologico anziano con SIADH, il nostro paziente tratterrà ben circa 620 mL di acqua per ogni litro di acqua bevuto (1 – (193/500)).

Pertanto, ridurre l’apporto idrico a 500 mL/die in questo esempio può essere molto efficace nell’incrementare di 4 volte l’osmolalità della soluzione in cui il carico osmotico effettivo è contenuta (385 mOsm / 0,5 litri = 770 mOsm/L). Una simile soluzione consentirebbe la perdita di 1,54 L di acqua per ogni litro di soluzione 770 mOsm, consentendo così di eliminare circa 540 ml di acqua libera da soluti per ogni litro di soluzione prevenendo così il rischio di iposodiemia.

Figura 1. Esempio di carico osmotico. Creato con BioRender.com.
Figura 1. Esempio di carico osmotico. Creato con BioRender.com.

Pertanto, è indispensabile nell’approccio al paziente oncologico con iposodiemia cronica valutare l’assetto nutrizionale ed idrico ancor prima di decidere ogni terapia.

Individuazione dei farmaci induttori di SIADH

La lista di farmaci che causano SIADH è in costante aggiornamento. Cinque classi di farmaci (antidepressivi, anticonvulsivanti, antipsicotici, farmaci citotossici e antidolorifici) sono la causa dell’82,3% di pazienti diagnosticati con SIADH indotta da farmaci [18]. I più frequentemente coinvolti sono gli inibitori del reuptake della serotonina e la carbamazepina. In ambito oncologico, la Tabella 2 riporta i farmaci per il trattamento delle neoplasie associati a SIADH. In generale, bisogna notare come farmaci di ampio utilizzo come gli inibitori di pompa protonica e gli ACE-inibitori possano associarsi a SIADH [19, 20].

Terapia orale

Al fine di aumentare il carico osmotico in alcuni paesi è approvata ed in uso corrente la terapia con cialde di urea. Questa terapia associata a restrizione idrica è efficace nell’incrementare la sodiemia, ma si associa ad alitosi e scarsa compliance dei pazienti [21].

Laddove consentito, per la presenza di eventuali altre comorbilità incluso ipertensione arteriosa, sindrome edemigene, etc., aumentare la quota di sale nella dieta è tra gli interventi più praticati per aumentare il carico osmolare in questi pazienti, tuttavia ci sono evidenze contrastanti a riguardo il beneficio rispetto alla sola restrizione idrica. Un recente studio randomizato controllato (EFFUSE-FLUID trial) ha dimostrato che l’aggiunta di supplementi di sale e/o furosemide non rappresenta un beneficio in termini di incremento della sodiemia rispetto alla sola restrizione idrica. Inoltre i pazienti che assumevano furosemide presentavano una più alta frequenza di Acute Kidney Injury (AKI) e ipopotassiemia [22].

Per le forme in cui le misure indicate sopra sono inefficaci, i vaptani devono essere considerati come ulteriore opzione terapeutica. I vaptani sono antagonisti del recettore V2R ed agiscono come acquaretici, cioè promuovendo la perdita di acqua libera da soluti. I vaptani permettono direttamente di diminuire il setpoint renale osmotico a valori appropriati per iposodiemia. Infatti, in corso di iposodiemia la secrezione di ADH dovrebbe essere completamente soppressa e quindi il set point osmolare renale molto basso (< 100 mOsm). Questo non è il caso in corso di SIADH, in cui nonostante l’iposodiemia il set point renale osmolare resta inappropriatamente alto. I vaptani ripristinano questa situazione riducendo il set point osmolare renale a circa 100 mOsm/kg H2O e favorendo così la clearance dell’acqua libera. Il tolvaptan, in uso in Italia, è molto efficace in questo senso già per dosaggi molto bassi, da 7,5 mg/die. Il tolvaptan ha dimostrato di indurre una rapida correzione dei livelli di sodio sierico e della sintomatologia nei pazienti con microcitoma polmonare [1]. L’efficacia e la rapidità d’azione permettono di non ritardare trattamenti chemioterapici.

 

Ipopotassiemia

L’ipopotassiemia è definita da livelli di potassio sierico inferiori a 3,5 mEq/L. È il secondo disordine elettrolitico per frequenza nella popolazione oncologica [23]. Spesso si accompagna ad altri disordini elettrolitici, come l’ipomagnesemia e l’iposodiemia. In base alla causa, possiamo dividere l’ipopotassiemia in 3 categorie: da ridotto apporto (malnutrizione, anoressia), aumentata perdita (renale e non) o redistribuzione all’interno delle cellule (farmaci, alcalosi). I principali chemioterapici che provocano ipopotassiemia sono indicati nella Tabella III.

Tra le cause meno comuni, ma di cui ci sono report sempre più frequenti, abbiamo la sindrome da secrezione ectopica di ACTH. L’EAS (Ectopic ACTH Syndrome) rappresenta il 5-10% dei casi di sindrome di Cushing e si associa maggiormente a tumori neuroendocrini, soprattutto con sede toracica come il microcitoma polmonare, il carcinoide bronchiale, il carcinoma midollare tiroideo e il carcinoma timico [24].

I sintomi comprendono habitus Cushingoide con ipertensione, alcalosi metabolica ipopotassiemica, ipercalciuria e poliuria per via dei bassi livelli di aldosterone. In questa condizione riscontriamo una secrezione di ACTH da parte del tumore che porta a eccesso di cortisolo secreto dalle ghiandole surrenali. Il cortisolo viene fisiologicamente metabolizzato in cortisone (biologicamente inattivo) grazie all’enzima 11-β-idrossisteroido-deidrogenasi tipo 2 nelle cellule principali a livello dei dotti collettori corticali e midollari [25]. Quando vi è un eccesso di cortisolo, l’enzima 11βHSD2 viene saturato e il cortisolo si lega al recettore dei mineralcorticoidi, per cui ha affinità. Questo quadro presenta similitudini con la sindrome AME (Apparent Mineralcorticoid Excess), condizione che si configura nell’ingestione cronica di liquirizia o geneticamente determinata da mutazioni a perdita di funzione della 11βHSD2. Ciò spiega perché viene trattato con successo grazie agli antagonisti del recettore dei mineralcorticoidi, come spironolattone ed eplerenone [26].

Altro caso degno di nota è la frequente associazione tra la leucemia mieloide acuta (soprattutto i sottotipi M4 e M5) e l’ipopotassiemia. Dal 40% al 60% di questi pazienti sviluppano ipopotassiemia nel decorso della patologia [23], associata spesso ad altri disordini come ipomagnesemia, iposodiemia, ipocalcemia, ipofosfatemia e acidosi metabolica. Questa condizione è stata associata a un danno tubulare provocato dal lisozima [27, 28], un enzima litico prodotto dai monociti e dalle loro varianti neoplastiche.

Chemioterapici              Meccanismo fisiopatologico
Derivati del platino

(Cisplatino, Carboplatino)

Perdita di potassio renale associato a ipomagnesemia, ridotto assorbimento per citotossicità intestinale
Agenti alchilanti

 Ifosfamide,

 bendamustina

Danno al tubulo prossimale (RTA, sindrome di Fanconi) per via del metabolita cloroacetaldeide

Tubulopatia distale (sindrome di Gitelman)

Target Therapies

Cetuximab, Panitumumab

Perdita di potassio renale associato a ipomagnesemia

Lumretuzumab, Pertuzumab (associati a paclitaxel)

Diarrea secretoria da farmaci

Bevacizumab
Temsirolimus, Everolimus
Danno al tubulo prossimale (sindrome di Fanconi)
Tabella III. Chemioterapici associati a ipopotassiemia. Adattata da [15].

 

Iperpotassiemia

L’iperpotassiemia è definita da livelli di potassio sierico superiori a 5,5 mEq/L. Si riscontra nella popolazione oncologica associata a AKI, CKD, rabdomiolisi, sindrome da lisi tumorale, insufficienza surrenalica (da metastasi), farmaci. Importante è fare la distinzione con la pseudoiperpotassiemia, una condizione nella quale si riscontra un aumentato livello di potassio nel sangue in seguito alla formazione di trombi o a centrifugazione (le cellule leucemiche sono particolarmente fragili e vanno più spesso incontro a lisi). Condizioni di trombocitosi, leucocitosi ed eritrocitosi possono portare ad iperpotassiemia.

La sindrome da lisi tumorale è un’emergenza medica in cui vi è distruzione delle cellule tumorali con rilascio in circolo delle componenti intracellulari.

La sindrome da lisi tumorale è definita dai criteri di Cairo-Bishop [29], distinti in laboratoristici e clinici. In breve, essa è caratterizzata da iperpotassiemia, ipocalcemia, iperuricemia, iperfosfatemia, acidosi metabolica e AKI. Può complicarsi con aritmie cardiache e convulsioni.
Il trattamento dell’iperpotassiemia nel paziente oncologico non prevede divergenze da quanto consigliato dalle linee guida nel trattamento dell’iperpotassiemia negli altri pazienti [30].

 

Ipomagnesemia

L’ipomagnesemia è definita da livelli di magnesio sierico inferiori a 1,5 mg/dL (o 1,2 mEq/L). Si può riscontrare come disordine isolato o più spesso associato a ipopotassiemia o ipocalcemia. Nei pazienti oncologici, l’ipomagnesemia è frequentemente secondaria all’utilizzo di farmaci e più raramente conseguenza del tumore. I derivati del platino, in particolare il cisplatino, sono fortemente associati a perdita di magnesio per danno diretto tubulare [31]. Il 90% dei pazienti dopo 3 cicli di cisplatino sviluppano ipomagnesemia [32] e necessitano di terapia suppletiva, spesso già prevista nei protocolli di infusione.

Il 34% dei pazienti in terapia con anticorpi monoclonali anti-EGFR sviluppa ipomagnesemia [33]. Il Panitumumab è associato a un’incidenza maggiore rispetto al Cetuximab. Gli anticorpi monoclonali anti-EGFR causano ipomagnesemia inibendo TRPM6 sul versante luminale delle cellule del tubulo contorto distale.

 

Ipofosfatemia

L’ipofosfatemia è definita da livelli di fosfato sierico inferiori a 2,5 mg/dL. Può avere diverse cause nella popolazione oncologica: malnutrizione, presenza di stomie intestinali, chemioterapici (TKI inibitori, ifosfamide [34]). I chemioterapici agiscono provocando danno diretto al tubulo prossimale, configurando spesso un quadro di sindrome di Fanconi acquisita.

Una causa rara di ipofosfatemia nei pazienti con cancro è la TIO (Tumor Induced Osteomalacia), anche conosciuta come osteomalacia oncogenica, una sindrome paraneoplastica riscontrabile in condrosarcomi, osteoblastomi e tumori di origine mesenchimale. Si caratterizza per ridotto riassorbimento di fosfato a livello tubulare, con bassi o normali livelli di vitamina D [35], causato da una ipersecrezione di FGF-23, un importante fattore fosfaturico che riduce l’assorbimento intestinale di fosfato tramite inibizione dell’attivazione della vitamina D. La terapia consiste nella resezione chirurgica del tumore quando possibile, in alternativa l’utilizzo di burosumab, anticorpo monoclonale contro l’FGF-23 [36].

 

Ipercalcemia

L’ipercalcemia è definita da livelli sierici di calcio superiori a 10,5 mg/dL o 2.5 mmol/L. In base al livello, l’ipercalcemia può essere classificata in lieve (10.5-11.9 mg/dL), moderata (12-13.9 mg/dL) o severa (14-16 mg/dL). A seconda della severità, i sintomi variano da astenia, malessere, anoressia, poliuria, dolori ossei a confusione e coma. Le cause dell’ipercalcemia nella popolazione oncologica possono essere divise in tre categorie. La più frequente è da produzione di sostanze con azione simile al PTH, come il PTHrp, che promuove il turnover osseo e aumenta il rilascio di calcio dalle ossa. Questo quadro si riscontra nel carcinoma squamoso polmonare, carcinoma della cervice uterina, carcinoma esofageo, linfomi [37]. La seconda categoria comprende tumori associati o a importanti metastasi osteolitiche, come il carcinoma della mammella, del polmone o il mieloma multiplo. Alla terza categoria appartengono quei tumori capaci di attivare la vitamina D, come il mieloma multiplo, il linfoma di Hodgkin e non Hodgkin [38].

Di recente si è identificata una forma di ipercalcemia secondaria all’uso degli inibitori del checkpoint immunitario [39]. Questi farmaci hanno l’abilità di riattivare il sistema immunitario e scatenare diverse risposte immuno-mediate che vanno sotto il nome di irAEs (immune related adverse events). Tra queste, i granulomi sarcoid-like, in cui i macrofagi contengono 1-alfa-idrossilasi, attivano la vitamina D a 1-25-diidrossicolecalciferolo e aumentano i livelli di calcio sierico.

Il trattamento, a seconda della causa, prevede un duplice obiettivo: ridurre il riassorbimento osseo e promuovere l’escrezione di calcio. In generale, prevede idratazione, utilizzo di bifosfonati (zoledronato e pamidronato) o denosumab ed eventualmente steroidi.

 

Acidosi metabolica

Diversi chemioterapici, in particolare gli inibitori del checkpoint (CPI) sono stati associati ad acidosi metabolica [40]. L’utilizzo di anti-PD1, in particolare il pembrolizumab, è stato associato allo sviluppo di acidosi tubulare renale (RTA) con ipopotassiemia. Il caso indice presentava incapacità di acidificare le urine (UpH > 5,3) nonostante una severa acidosi metabolica e di eliminare ammonio nelle urine. Conservata era la ipocitraturia. Tuttavia, il quadro bioptico renale eseguito per la persistenza della sintomatologia ancora a 3 mesi dalla sospensione del farmaco, non rivelava alterazioni istologiche ai danni del nefrone distale, ma una intensa vacuolizzazione del tubulo prossimale. La sintomatologia regrediva dopo 6 mesi dalla sospensione della terapia con anti-PD1 [41].

Una rara causa di acidosi metabolica a gap anionico aumentato nei pazienti con cancro è l’acidosi lattica tipo B, un’acidosi nella quale vi è un aumento dei livelli di lattato senza evidenza di ipoperfusione sistemica, quindi in condizione normossiemiche. Si osserva maggiormente in neoplasie ematologiche quali leucemie e linfomi, ma non mancano report in tumori solidi. La patogenesi non è chiara, anche se diverse ipotesi sono state proposte. Uno dei possibili meccanismi è l’effetto Warburg, in cui le cellule tumorali preferiscono le vie anaerobie di produzione del lattato, probabilmente indotte dal rilascio di HIF1alfa (hypoxia inducible factor 1alfa) da parte delle cellule tumorali [42], nonostante i normali livelli di ossiemia.

 

Conclusioni

I disordini elettrolitici sono spesso misconosciuti. Ciò è da ricondurre alla loro sintomatologia, spesso sfumata, alla loro ampia diffusione in ambiti diversi della medicina e alla scarsa prioritizzazione rispetto alla condizione di base. In una popolazione fragile come quella oncologica, diagnosticare tempestivamente e trattare uno squilibrio elettrolitico significa migliorare la prognosi del paziente ed evitare interruzioni e/o ritardi nelle cure chemioterapeutiche oltre che migliorare la qualità della vita migliorando alcuni sintomi. I disordini idroelettrolitici sono spesso associati tra loro come le tessere di un puzzle e come un puzzle non sempre la terapia è immediata e risolutrice senza l’ospedalizzazione. Gli avanzamenti terapeutici in oncologia hanno rivelato nuovi aspetti della regolazione dell’omeostasi renale idroelettrolitica come emerge ad esempio dal ruolo della modulazione del sistema immunitario.

Diventa essenziale per il clinico riconoscere questi disturbi e comprenderne la fisiopatologia che molto spesso è alla base della terapia. Anche in questo ambito l’interazione nefrologo ed oncologo è essenziale per il più opportuno management dei pazienti oncologici che manifestano disordini idrolelettrolitici.

 

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