Management of Cast Nephropathy

Abstract

Myeloma cast nephropathy is the most common cause of acute kidney injury in patients affected by multiple myeloma. The mainstay of management of cast nephropathy is the clone-based therapy by reducing production and thereby precipitation of light chains. Adjuvant therapy consists of inducing high urine volume flow and alkalinisation, where possible. Extracorporeal removal of light chains is still debated and the advantages of these procedures are not established. The use of safe and low expensive membranes may encourage their use and address their utility.

Keywords: multiple myeloma, cast nephropathy, dialysis

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In corso di mieloma multiplo (MM) la probabilità di sviluppare un danno renale acuto è piuttosto elevata. Si stima infatti che l’incidenza di acute kidney injury (AKI) sia intorno al 35%, anche se in letteratura esistono dati discordanti perché in passato nelle casistiche ematologiche l’AKI veniva stimato attraverso il GFR e solo più di recente attraverso le classificazioni idonee [1]. Quando presente, l’AKI è spesso severa [1] e la sua presenza influisce negativamente sulla prognosi dei pazienti con MM [2].

Da un punto di vista eziologico l’AKI in corso di MM può essere schematicamente ricondotto a due gruppi di cause. Il primo gruppo è rappresentato dalle AKI secondarie a un danno provocato dall’immunoglobulina patologica o da una sua frazione. Tra queste la cosiddetta “myeloma cast nephropathy” (MCN) è la causa di gran lunga più frequente (oltre la metà dei casi). Altri quadri possibili sono l’amiloidosi, la light or heavy chain deposition disease, la sindrome di Fanconi, etc. Il secondo gruppo di cause di AKI in corso di MM è quello da eziologie indipendenti dalla proteina M, come l’ipercalcemia, la disidratazione, la lisi tumorale e soprattutto i danni iatrogeni (per es. da FANS, da inibitori del proteasoma, da bifosfonati, etc.).

La MCN è il quadro più tipico e frequente di AKI in corso di MM perché è l’espressione della massiva produzione di catene leggere (CL) che si depositano nei tubuli renali. È stato dimostrato che la MCN di fatto non si realizza se il paziente non presenta un livello sierico di CL di almeno 500 mg/L e di solito sono necessari valori sierici ben più alti [3]. Questo spiega come mai la MCN sia descritta sostanzialmente solo in caso di MM (o raramente in corso di altre patologie neoplastiche ematologiche come il linfoma linfoplasmocitico e la leucemia linfatica cronica) ma non nelle condizioni precancerose, come la cosiddetta monoclonal gammopathy of renal significance.

La presenza di alti livelli di CL è un requisito indispensabile ma non sufficiente allo sviluppo della MCN. È noto infatti come non tutti i pazienti con MM e alti livelli di CL sviluppino MCN. Inoltre i livelli di CL non correlano con la gravità dell’interessamento renale [3]. Il motivo è da ricercarsi nell’interazione tra le CL e l’uromodulina, elemento chiave per la deposizione dei cilindri di CL all’interno dei tubuli renali. L’interazione delle CL con l’uromodulina avviene attraverso il legame della regione ipervariabile cdr3 delle CL con una specifica sequenza di 9 aminoacidi dell’uromodulina [4]. Ne consegue che ogni singolo clone di CL abbia una sua specifica affinità per l’uromodulina e ciò giustifica la precipitazione per concentrazioni diverse. Inoltre è stato anche dimostrato come altri fattori quali il pH possano influire sulla precipitazione delle CL [5].

Da un punto di vista istologico il quadro della MCN è caratterizzato da cilindri con struttura lamellare e aspetto fratturato, spesso intensamente eosinofili. Questi cilindri determinano una reazione infiammatoria con cellule giganti nell’interstizio che può esitare nella rottura della membrana basale tubulare e quindi in fibrosi e atrofia tubulo-interstiziale [6]. È stato dimostrato che il numero di cilindri per mm2 di corticale renale correla con il danno renale a lungo termine e che tale informazione istologica non può essere desunta dai dati di laboratorio al momento della biopsia [7]. I dati ottenuti dalla biopsia renale ci consentono quindi non solo di chiarire quale sia l’eziologia dell’AKI in corso di MM, che come abbiamo visto non è sempre imputabile alla MCN [8], ma forniscono anche insostituibili informazioni di carattere prognostico.

Il trattamento più importante della MCN è costituito dalla terapia clone based. Tanto più rapidamente ed efficacemente questa terapia riesce ad abbattere la produzione di CL, portandone i valori sierici al di sotto della soglia di precipitazione, tanto più è probabile un recupero della funzione renale. Come misure adiuvanti si può tentare di ridurre il rischio di ulteriore precipitazione delle CL attraverso la diluizione in volumi urinari elevati, maggiori di 3 L, e possibilmente in urine alcaline [9]. Vanno evitati però i diuretici dell’ansa che favoriscono la precipitazione delle CL [5]. Inoltre è necessario correggere l’ipercalcemia laddove presente ed evitare l’utilizzo di farmaci nefrotossici. È evidente che in pratica clinica possa risultare in certi casi complesso ottenere volumi urinari elevati in pazienti con AKI severa senza utilizzare diuretici dell’ansa, così come indurre una diuresi alcalina evitando però di peggiorare l’ipercalcemia attraverso l’alcalosi metabolica.

Un altro aspetto da considerare è che l’emivita delle CL, normalmente piuttosto breve, è molto allungata in caso di AKI severa e quindi, anche in presenza di una chemioterapia tempestiva ed efficace, queste restano in circolo per diversi giorni a livelli sierici elevati potendo potenzialmente continuare a precipitare e aggravare il danno renale. Pertanto nei pazienti con AKI severa che richiedono emodialisi, il trattamento extracorporeo può essere sfruttato anche per rimuovere efficacemente le catene leggere.

Le prime esperienze pioneristiche in questo ambito sono state effettuate con la plasmaferesi [10], tecnica che tuttavia non abbina la depurazione renale e che è limitata nella rimozione delle CL dai bassi volumi di liquido trattati. Le CL infatti hanno un volume di distribuzione maggiore delle Ig intatte, ma dato il loro peso molecolare contenuto possono essere efficientemente rimosse anche da filtri con cut-off minore rispetto ai plasmafiltri. Per questo motivo sono stati impiegati in questo ambito i filtri cosiddetti high cut-off (HCO) [11]. Questi filtri sono in grado di rimuovere efficacemente le CL, sia kappa che lambda (quest’ultima normalmente dimerica e quindi di peso molecolare doppio, 45 KDa circa, rispetto alla monomerica kappa). L’impiego di questi filtri si è dimostrato efficace nei primi lavori sperimentali, consentendo una buona rimozione delle CL e anche un miglioramento sugli end-point clinici [12]. Tuttavia questi filtri sono gravati da una perdita di albumina abbastanza marcata, che ne richiede la supplementazione al termine di trattamenti intensivi come quelli previsti per la rimozione delle CL (di norma quotidiani e prolungati).

Sono stati quindi disegnati due grandi trial randomizzati e controllati, il MYRE [13] e l’EuLite [14], per validare l’impiego dei filtri HCO nel contesto di pazienti con MCN. Questi studi hanno reclutato solo pazienti con MCN istologicamente documentata, che sono stati randomizzati a ricevere dialisi tradizionale o con HCO in aggiunta alla terapia standard of care. Entrambi i trial hanno fallito nel loro end point primario, ovvero dimostrare un miglioramento della prognosi renale dei pazienti dopo 3 mesi. Nonostante questo era evidenziabile un trend favorevole nel braccio di trattamento, così come il raggiungimento di alcuni end points secondari. Si è quindi ipotizzato che i trial non fossero sufficientemente potenti per dimostrare il vantaggio fornito dai filtri HCO rispetto alle metodiche convenzionali. La mancanza di potenza è stata attribuita al fatto che tra i primi lavori con filtri HCO ai due trial menzionati prima, si è verificato un grande avanzamento nel trattamento del MM con l’introduzione in terapia degli inibitori del proteasoma. La disponibilità di terapie più efficaci e rapide nel contrastare il MM potrebbe aver reso meno rilevante il lavoro effettuato sulla clearance delle CL dai trattamenti extra-corporei. Di conseguenza per evidenziare un vantaggio clinico minore sarebbe stato necessario calibrare diversamente i trial rispetto a quanto fatto sulla base dei primi dati disponibili (i vantaggi sulla prognosi renale erano stimati intorno al 30%). Tuttavia dal trial EuLITE è emerso anche un aumentato rischio infettivo nel braccio di trattamento. Questo allarme, insieme alla mancanza di una chiara efficacia dei trattamenti, alla complessità di gestione e ai costi degli stessi ha limitato la diffusione dei filtri HCO per questa indicazione.

Nel frattempo ulteriori lavori hanno dimostrato che anche altre metodiche emodialitiche, sfruttando soprattutto il principio dell’adsorbimento e non solo della filtrazione, possono essere in grado di fornire una certa rimozione delle CL nei pazienti con MCN. Sono stati pubblicati diversi lavori, in particolare circa l’impiego di filtri a base di PMMA [15, 16] e delle resine di stirene [17], tutte metodiche in grado di adsorbire le CL. Nonostante i tassi di rimozione non siano allo stesso livello dei filtri HCO, queste metodiche presentano dei vantaggi relativi alla semplicità di gestione, alla sicurezza e ai costi. Nel nostro centro abbiamo utilizzato la metodica HFR-SUPRA col raggiungimento di buoni risultati sia in termini di riduzione delle CL che prognostici [18]. Un’altra alternativa potrà essere rappresentata dai filtri a medium cut off, introdotti nella pratica clinica più di recente e che non sono gravati da sostanziali perdite di albumina [19].

Se da un lato quindi non abbiamo dati conclusivi sull’opportunità di impiegare trattamenti specifici per la rimozione extra-corporea delle CL nei pazienti con MCN, dall’altro la possibilità di impiegare metodiche semplici e a basso costo, in pazienti comunque destinati al trattamento emodialitico, sembra una scelta logica e supportata da un razionale fisiopatologico chiaro. Inoltre, con il cronicizzarsi delle patologie oncologiche è sempre più frequente imbattersi in pazienti che presentano recidive e che impiegano seconde e terze linee di trattamento, a volte con tempi di azione più lunghi. La possibilità di impiegare in questi casi dei trattamenti efficienti e sicuri rappresenta una possibilità da non trascurare per limitare l’impatto del danno renale e quindi le sue conseguenze.

 

Bibliografia

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