Left atrial appendage occlusion as replacement of coumarin anticoagulants in calciphylaxis

Abstract

Calcific uremic arteriolopathy (CUA), often referred to as calciphylaxis, is a rare condition potentially life-threatening seen in 1-4% of patients with kidney failure on chronic dialysis. Pathogenesis is not clear, but several risk factors have been identified, one of the most known among them is coumarin anticoagulants therapy (tAC). When CUA occurs, tAC is contraindicated: the left atrial appendage occlusion, in dialysed patients affected by non-valvular atrial fibrillation, could be contemplated in replacement of tAC, that should be considered by nephrologist and discussed by a multidisciplinary team including cardiologists.

Keywords : Calciphylaxis, Warfarin, anticoagulant therapy, left atrial appendage occlusion, chronic kidney disease

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Introduzione

L’arteriolopatia uremica calcifica, nota anche come calcifilassi, è una patologia calcifica vascolare caratterizzata da occlusione dei piccoli vasi del tessuto adiposo sottocutaneo e del derma, e si accompagna ad un elevato tasso di mortalità. Colpisce prevalentemente i pazienti affetti da malattia renale cronica (MRC) terminale in trattamento renale sostitutivo, popolazione già di per sé predisposta all’insorgenza di calcificazioni extra scheletriche.

La CUA si manifesta con ischemia e necrosi cutanea secondaria alla deposizione di calcio nella tonaca media delle arteriole con conseguente fibrosi dell’intima, riduzione del lume vascolare e trombosi del vaso. Il decorso è  caratterizzato da due fasi della malattia, spesso coesistenti: la fase d’esordio, insidiosa, è distinta dalla comparsa di semplice eritema laminare; la seconda fase invece è rapidamente progressiva, con evoluzione ischemica e conseguente necrosi tessutale. Nella maggior parte dei casi, il pattern di distribuzione delle lesioni è di tipo “centrale” (addome e glutei) dove si dispone la maggior parte del tessuto adiposo, alternativamente può avere un pattern “distale” (arti), anche se la malattia teoricamente può colpire qualsiasi distretto corporeo [1, 2, 3].

I principali fattori di rischio noti comprendono: alterazione del prodotto calcio-fosforo, l’iper- e l’ipoparatiroidismo, la terapia con anticoagulanti cumarinici, gli stati di ipercoagulabilità, la malnutrizione o l’obesità.

La diagnosi si basa clinicamente sulla triade data da malattia renale avanzata/trattamento dialitico, due o più ulcere necrotiche dolenti e pattern di presentazione tipico; per la conferma diagnostica ci si avvale di imaging radiografico, che documenta le calcificazioni dei piccoli vasi, e dell’accertamento bioptico quando possibile.

La diagnosi differenziale si pone con numerose altre patologie, tra cui: necrosi da warfarin, vasculiti, embolizzazione colesterinica, porpora fulminante, vasculite da ossalati, crioglobulinemie.

Il trattamento si fonda su tre cardini:

  • gestione delle lesioni cutanee: antidolorifici, curettage chirurgico, terapia iperbarica, gestione del rischio infettivo;
  • modificazione dei fattori di rischio, ove possibile: sospensione della tAC, ottimizzazione del metabolismo calcio-fosforo, sospensione della vitamina D e dei suoi metaboliti, sospensione dei chelanti del fosforo a base di calcio;
  • inibizione/chelazione del processo di calcificazione: utilizzo off label del sodio tiosolfato (STS) [1, 2, 3]; attualmente in fase di studio il SNF472 [4].

 

Caso clinico

Riportiamo il caso di una donna caucasica di anni 60, affetta da malattia renale cronica di causa misconosciuta, in trattamento dialitico peritoneale per 6 anni e successivamente passata a trattamento emodialitico (dapprima con ritmo trisettimanale, quindi quadri-settimanale per elevati incrementi ponderali interdialitici) da fistola artero-venosa nativa a maggio 2020. In anamnesi si segnala: ipertensione arteriosa di lunga data, cardiopatia ipertensiva ad evoluzione ipocinetica (potatrice di ICD), stenosi aortica moderato-severa, FANV parossistica in tAC da maggio 2020, obesità. La terapia domiciliare della paziente era costituita da: Amiodarone 200mg, Amlodipina 10mg, Atorvastatina 40mg, Calcio carbonato 500mg 2cpx2, Doxazosina 4mgx2, Carvedilolo 25mgx2, Colecalciferolo 30gocce/settimana, Enalapril 10mg, Furosemide 250mgx2, Cinacalcet 60mg, Omeprazolo 20mgx2, Pregabalin 25mg, Warfarin 5mg secondo INR; la terapia intradialitica prevedeva somministrazione della regolare eparina ed Epoetina-zeta 6000UI tutte le dialisi.

Nel mese di gennaio 2021, ai regolari esami eseguiti in regime di dialisi, veniva registrato uno spiccato iperparatiroidismo accompagnato da grave iperfosforemia; inoltre la paziente lamentava agli arti inferiori intenso dolore, insorto da qualche tempo, e per il quale era stata valutata dal chirurgo vascolare, che consigliava utilizzo di calze elastiche (presidio che la paziente ha adottato senza benefici). All’osservazione del medico dializzatore gli arti inferiori della paziente presentavano lesioni cutanee necrotiche e circostante livedo reticularis ai polpacci bilateralmente; nel sospetto di CUA, la paziente veniva ricoverata. All’ingresso in reparto si prendeva atto della recente autosospensione da parte della paziente della terapia con calcio-mimetici, e dai recenti esami ematochimici si evidenziava una marcata alterazione del metabolismo calcio-fosforo (calcemia totale pari a 11.2 mg/dL – v.n. 8.8-10.2 mg/dL, fosforemia 7.8mg/dL – v.n. 2.5-4.5 mg/dL, e di paratormone 1660ng/L – v.n. 15-65ng/L). Ai restanti dati di laboratorio si segnala: quadro di anemia normocitica normocromica (Hb 9.8mg/dL – v.n. 11.8-17.5g/dL), conta e formula leucocitaria nella norma, lieve rialzo della PCR (1.89 mg/dL – v.n. 0.03-0.5 mg/dL), elettroforesi proteica nei limiti. I parametri di efficienza dialitica al momento del ricovero erano discreti con un valore Kt/V pari a 1.43 (Formula logaritmica di Daugirdas per la misurazione del Kt/V(urea)). All’esame obiettivo si confermava la presenza di ulcere dolenti ad entrambi i polpacci, di dimensioni variabili (max 5 x 3cm), con fondo necrotico ed eritema laminare circostante e con tendenza alla confluenza, già in progressione rispetto all’osservazione medica precedente. Veniva eseguito ecocolor-doppler degli arti inferiori che descriveva un asse vascolare, seppur calcifico, pervio, escludendo così ischemie dei vasi maggiori.

Nell’ipotesi di CUA venivano prontamente sospesi la tAC (sostituita dalla calciparina sottocute), i farmaci contenenti metaboliti attivi della vit-D ed i chelanti del fosforo a base di calcio; venivano reintrodotti calcio-mimetico orale (cinacalcet 60mg/die) e chelanti del fosforo privi di calcio. Successivamente si sostituiva calcio-mimetico orale con farmaco endovena (etelcalcetide cloridrato 2,5mg) nei giorni di dialisi; si avviava inoltre trattamento antalgico con bruprenorfina transdermica (20mcg/h) e morfina orale al bisogno. Sulla base del quadro clinico, la paziente iniziava trattamento con sodio tiosolfato endovena trisettimanale in infusione lenta durante l’ultima ora di dialisi con graduale titolazione del farmaco a partire da 12,5 g fino a un massimo di 25 g, quest’ultimo dosaggio mal tollerato per insorgenza di nausea e vomito, per cui proseguiva la terapia alla posologia di 18 g. Non è stato necessario aumentare la frequenza delle sedute emodialitiche in quanto la paziente era già sottoposta a un programma di quattro trattamenti settimanali (per il compromesso quadro cardiovascolare), ritenuti sufficienti, ponendo attenzione al bagno dei bicarbonati per il possibile quadro di acidosi metabolica che il sodio tiosolfato può indurre, monitorandone l’andamento con emogasanalisi venose pre- e post-dialisi.

Nelle settimane successive, malgrado il rapido intervento medico, la malattia presentava un’evoluzione rapidamente progressiva con l’estensione delle lesioni ischemiche di entrambi i polpacci fino ad impossibilità di deambulazione autonoma; si predisponeva così il trasferimento dal reparto di nefrologia a un centro riabilitativo specializzato, presso il quale venivano eseguite biopsie cutanee incisionali a cuneo, di 6 differenti siti, il cui referto risultava compatibile con il quadro di calcifilassi in 5 delle lesioni biopsiate (Fig. 1).

Fig. 1: Biopsia cutanea:
Fig. 1: Biopsia cutanea: Campioni di cute con necrosi tessutale ed ulcerazione, associata a calcificazioni dermo-ipodermiche, a sede prevalentemente vascolare, con liponecrosi del tessuto adiposo ipodermico e abbondante infiltrato infiammatorio misto subacuto, con ricca componente istiocitaria e granulocitaria neutrofila, tessuto di granulazione e fibrosi riparativa. Non evidenza di microrganismi PAS+. Reperti istologici coerenti con calcifilassi.

In aggiunta alla terapia medica, sempre presso lo stesso centro, veniva effettuato curettage chirurgico delle lesioni ed innesti cutanei sintetici bioinduttivi HMPA (esametilfosforammide) con successive periodiche medicazioni. Dopo circa due mesi di terapia combinata medica e chirurgica, si assisteva ad un progressivo miglioramento delle lesioni (Fig. 2), sino a sospensione di terapia antalgica ed a ripresa dell’autonoma deambulazione.

Fig. 2: Evoluzione delle lesioni dall’inizio del trattamento:
Fig. 2: Evoluzione delle lesioni dall’inizio del trattamento: A) Tempo 0, alcune iniziali lesioni necrotiche circoscritte con eritema laminare circostante; B) dopo 6 settimane, nonostante la tempestiva terapia, i piccoli vasi del sottocutaneo ormai trombizzati hanno causato l’espansione delle lesioni necrotiche ai polpacci con progressiva tendenza alla confluenza; C) dopo 30 settimane, grazie a curettage chirugico, innesti cutanei sintetici bioinduttivi e rimozione delle graft metalliche chirurgiche (in quasta fase grafts già assorbiti e cicatrizzati), possiamo parlare di risoluzione di malattia acuta; si possono tuttora apprezzare queste estese cicatrici bilateralmente.

In corso di ricovero e nel post degenza si assisteva a una rapida normalizzazione dei valori di paratormone, calcio e fosforo (Tabella 1). Nel mese di marzo, in concomitanza all’intervento di curettage chirurgico, si registrava rialzo degli indici di flogosi (PCR 10.63mg/dL) per sovrainfezione batterica (frequente complicanza e causa di decesso nella CUA) da E. Cloacae e S. Aureus, trattata efficacemente con terapia antibiotica secondo antibiogramma. I parametri di efficienza dialitica post ricovero erano Kt/V 1.88 (Formula logaritmica di Daugirdas per la misurazione del Kt/V(urea)).

  11/01/2021 01/02/2021 15/02/2021 01/03/2021 15/03/2021 12/04/2021
Calcio (v.n. 8.8- 10.2mg/dL) 11.2 8.75 9.63 9.63 9.28 9.53
Fosforo (v.n. 2.5 4.5 mg/dL) 7.8 5.4 1.9 4 3.1 1.8
PTH (v.n. 15-65 ng/L) 1661 880 238 320 398
PCR (v.n. 0.03-0.5 mg/dL) 1.89 1.96 4.71 10.63 1.74

RICOVERO OSPEDALIERO

Tabella 1: Andamento degli esami ematochimici nel tempo.

Superata la fase acuta della malattia si discuteva collegialmente il caso clinico con gli specialisti cardiologi per stabilire se ci fosse o meno la necessità di proseguire la terapia anticoagulante. Alla luce della rivalutazione strumentale attraverso l’esame ecocardiografico ed il monitoraggio elettrocardiografico continuo, un CHA(2)DS(2)-VASc score =7 (se ≥2 nelle donne rischio moderato-alto di stroke/TIA/embolismo sistemico), si confermava l’indicazione al trattamento anticoagulante per l’elevato rischio di recidiva aritmica.

Vista l’associazione della tAC alla CUA e l’elevato rischio emorragico della paziente che presentava un HAS-BLED score pari a 4 (se ≥3 rischio elevato di sanguinamenti maggiori, per cui è consigliato valutare alternative alla terapia anticoagulante), per ovviare ad una terapia anticoagulante orale sine die, si optava per l’intervento di LAAO (Fig. 3), che la paziente accettava; la procedura veniva eseguita senza complicanze successive ed in questo modo si poneva definitivamente fine alla tAC, con indicazione ad avvio di temporanea doppia antiaggregazione post procedurale (cardioaspirina e clopidogrel).

Fig. 3: Intervento di LAAO effettuato sulla paziente.
Fig. 3: Intervento di LAAO effettuato sulla paziente.

 

Discussione

La FANV è l’aritmia cardiaca più comune nella popolazione generale, le cui principali complicanze sono l’ictus e l’aumentata mortalità generale; la terapia con anticoagulanti cumarinici o anticoagulanti orali diretti (DOACs) è il cardine del trattamento della FANV nei pazienti con elevato rischio cardio embolico (CHA2DS2VASc >1 negli uomini e >2 nelle donne) [5].

I pazienti con malattia renale avanzata sottoposti a dialisi hanno un’elevata prevalenza ed incidenza di fibrillazione atriale, associata a sua volta ad elevata mortalità. Sappiamo inoltre che questa popolazione ha di per sé un elevato rischio di sanguinamento legato allo stato uremico. Nei pazienti affetti da malattia renale cronica avanzata, ed in trattamento emodialitico, attualmente la tAC rimane ancora la terapia di prima scelta in quanto i DOACs si associano ad un’aumentata mortalità e ad eventi emorragici e, per tale motivo, ne è sconsigliato l’utilizzo [5]. Alcuni studi però hanno sollevato dubbi in merito al reale vantaggio dell’utilizzo della tAC per la popolazione dializzata nella prevenzione dell’evento cardioembolico, e di come questa possa essere addirittura più dannosa che di reale beneficio [6]; allo stato attuale tuttavia non esistono trial randomizzati controllati in dialisi che valutino rischi e benefici della tAC rispetto alla no-therapy. Le stesse linee guida non forniscono precise indicazioni sulla terapia per la FAVN nei pazienti in trattamento emodialitico, lasciando spesso alla valutazione del nefrologo e/o cardiologo la decisione di intraprendere l’anticoagulazione sul singolo caso. Nel 2021 è stato pubblicato un’interessante studio randomizzato controllato multicentrico che ha comparato gruppi di pazienti emodializzati terapia con tAC vs Rivaroxaban 10mg, in una mediana temporale di 1.88 anni, con risultato di un rischio di stroke similare per i due gruppi ma un aumentato rischio di mortalità, eventi non cardiovascolari e di eventi emorragici maggiore per i pazienti in tAC, a supporto dell’ipotesi di come la tAC possa essere di maggior danno che beneficio nell’emodialisi e addirittura debba essere evitata, aprendo forse così la strada per il trattamento con DOACs nei pazienti emodializzati cronici [7].

Inoltre, come osservato nel nostro caso clinico, la tAC è anche uno dei principali fattori di rischio per l’insorgenza di calcifilassi a causa della down regolazione della Gla-protein matrix (MPG), una proteina prodotta dalla cellula muscolare liscia nella tonaca media della parete vascolare, la quale previene la trans differenziazione della stessa cellula muscolare in cellula osteoblastica, ed inoltre interagisce con i cristalli di idrossiapatite prevenendo così le calcificazioni. La MPG è attivata da un meccanismo di carbossilazione mediante la gamma-glutamil carbossilasi, un enzima vitamina K dipendente; la vitamina K quindi previene le calcificazioni vascolari fungendo da cofattore alla carbossilazione di MPG. Bassi livelli di MPG, inoltre, si sono visti associati ad aumentati livelli di Bone Morphogenetic Protein-2 (BMP2), la quale appartiene alla superfamiglia dei fattori di crescita, ed è coinvolta nell’induzione della differenziazione osteoclastica delle cellule muscolari, creazione ex novo di calcificazioni e calcificazioni extra vascolari. Gli antagonisti della vitamina K, quali il warfarin, interferendo con questi meccanismi, sono così promotori del processo di calcificazione extra scheletrica, in sinergia con altri fattori di rischio già di per sé presenti nel paziente con insufficienza renale cronica avanzata (come la flogosi cronica e il rialzo delle citochine infiammatorie, il calo della fetuin-alpha in quanto inibitore delle calcificazioni extra vascolari) [1, 2, 8, 9].

Secondo le recenti linee guida cardiologiche, la LAAO può rappresentare un’alternativa sicura e di efficacia non inferiore all’anticoagulazione orale nei pazienti affetti da FANV con elevato rischio cardioembolico e controindicazione assoluta alla terapia anticoagulante orale a lungo termine [10].

L’auricola sinistra è un reliquato embrionale che, grazie alla sua ottima capacità di adattarsi ai sovraccarichi pressori o di volume, contribuisce al riempimento diastolico ventricolare grazie alla sua funzione di reservoir; inoltre ha anche un’importante funzione endocrina, contribuendo alla produzione di peptidi natriuretici atriali (ANP) e cerebrali (“brain”, BNP). Il remodeling dell’auricola promuove la stasi ematica e, in sinergia ad altri pathways molecolari favorevoli allo stato pro-trombotico (infiammazione, fattori di crescita, ossido nitrico, asse renina-angiotensina-aldosterone), aumenta così il rischio di eventi tromboembolici [11]. La LAAO, oltre al vantaggio della sospensione dell’anticoagulazione, si è vista associata ad una riduzione dei valori di ANP e di BNP  [12, 13].

La LAAO si esegue per via percutanea con accesso venoso femorale in anestesia generale (più raramente può essere utilizzato un approccio ibrido epicardico/endocardico); mediante puntura transettale e guida ecocardiografica transesofagea si accede all’atrio sinistro e si posiziona il device, una struttura tubulare trabecolata, variabile di dimensione e forma [5].

I pazienti candidabili alla LAAO sono: coloro con controindicazione alla terapia anticoagulante cronica per aumentato rischio emorragico (HAS-BLED ≥3); con rischio di sanguinamento sottostimato dall’HAS-BLED (es. tumori, trombocitopenia); prolungata tripla terapia antiaggregante; che hanno avuto precedenti sanguinamenti maggiori gastrointestinali con fonte non passibile di risoluzione (es. diffuse angiodisplasie intestinali); nella malattia renale avanzata o in trattamento emodialitico; che non possono adempiere la compliance al trattamento medico anticoagulante prolungato (demenza, patologia psichiatrica, continue interruzioni di terapia per eventi emorragici); nei pazienti che hanno sviluppato un evento ictale nonostante la terapia orale. Ancora in fase di valutazione sono altre indicazioni cardiologiche come la compresente indicazione ad ablazione cardiaca o in prevenzione primaria per chi presenta elevato rischio di insorgenza di fibrillazione atriale [14, 15, 16, 17].

Un imaging pre-procedurale ottimale è necessario per analizzare l’anatomia e le dimensioni dell’auricola ed eventuali trombi al suo interno, così da permettere di scegliere il miglior accesso per la puntura transettale ed il device migliore per il singolo paziente. I gold standard per l’imaging pre-procedurale sono l’ecocardiografia transesofagea (TEE) per lo studio della presenza di eventuali trombi presenti, e l’angiografia coronarica con tomografia (CCTA), che permette una ricostruzione fedele in 3D dell’anatomia dell’auricola [5].

Per quanto riguarda i rischi peri-procedurali, recenti metanalisi hanno riportato le seguenti complicanze: un 2% di fallimento della procedura, 1% di ictus, 2% di tamponamento cardiaco, un tasso di mortalità del 0.28%, ed un’incidenza di sanguinamento severo ed effusione pericardica rispettivamente dell’1.71% e del 3,25%. Sono raccomandati nel post-operatorio controlli imaging con TEE o CCTA a 6-24 settimane per valutare la presenza di eventuali trombi relati al device e leak peri-device [18].

La doppia terapia farmacologica antiaggregante post impianto riduce il rischio di trombogenesi device-relato e deve essere proseguita da 1 a 6 mesi. I leak peri-device invece aumentano il rischio di immissione in circolo di eventuali trombi: leak <5mm sono irrilevanti, leak di dimensioni maggiori invece richiedono terapia anticoagulante orale o un reintervento di chiusura (anche se non pare avere un chiaro vantaggio questa seconda opzione) [19]; l’incidenza di leak patologici varia dagli studi, dall’1% dei casi a tre mesi [20], al 32% a un anno [18].

Una recente metanalisi dei pazienti affetti da FANV ha combinato i dati dei due maggiori studi clinici randomizzati (PROTECT-AF [18] e PREVAIL [21]) che comparavano la non inferiorità della sicurezza e dell’efficacia della LAAO rispetto alla tAC in termini di evento ictale, embolismo sistemico e morte cardiaca; è stata dimostrata una minor incidenza nella LAAO di stroke emorragico (HR: 0.20), ictus con disabilità severa (HR: 0.45), e mortalità cardiovascolare/morte inspiegata (HR: 0.59).

Nell’ambito dell’utilizzo della terapia anticoagulante nei pazienti affetti da malattia renale cronica, occorre fare una precisazione tra la popolazione in trattamento conservativo e in trattamento renale sostitutivo.

Nella popolazione generale e nell’MRC fino al III stadio con FANV, i DOACs sono attualmente riconosciuti dalle linee guida come terapia di prima linea per maggior sicurezza ed efficacia; le metanalisi [21, 22] descrivono la LAAO inferiore nella prevenzione dell’ictus ischemico rispetto ai DOACs, anche se la LAAO pare per alcuni essere più efficace nella prevenzione degli eventi emorragici rispetto sia ai DOACs che al trattamento antiaggregante [23].

Nella popolazione emodializzata attualmente non disponiamo ancora di studi multicentrici randomizzati, ma la procedura di LAAO si sta facendo sempre più spazio e sta guadagnando interesse, in considerazione delle molteplici comorbidità e degli effetti collaterali della tAC nella popolazione dializzata. Uno studio prospettico italiano multicentrico [24] ha messo a confronto tre coorti di pazienti emodializzati con fibrillazione atriale: il primo gruppo sottoposto a LAAO per elevato rischio emorragico o controindicazione alla tAC (n=92); il secondo gruppo in terapia con tAC (n=114); il terzo costituito da pazienti che non assumevano nessun tipo di terapia (n=148). Gli endpoint primari considerati sono stati l’incidenza di complicanze peri-procedurali, l’incidenza di eventi tromboembolici o emorragici a 2 anni, e la mortalità a 2 anni. Nel gruppo sottoposto a LAAO sono state riportate 2 complicanze maggiori peri procedurali e nessun evento tromboembolico nei 2 anni di follow-up, invece, per quanto riguarda il rischio di sanguinamento (considerando che i pazienti dopo l’impianto assumono doppia terapia antiaggregante), non ci sono state differenze statisticamente significative rispetto al gruppo in tAC nei primi 3 mesi; diversamente, nei successivi 21 mesi si è vista una maggior incidenza di sanguinamenti i coloro che assumevano tAC (HR 6.48). La mortalità generale è stata maggiore nei pazienti in tAC (HR 2.76) e nei no-therapy (HR 3.09) rispetto alla coorte LAAO, con un’incidenza di eventi cardiovascolari non fatali significativamente inferiore per quest’ultimo gruppo rispetto alle altre coorti. Dato l’elevato rischio di eventi emorragici post-procedura di LAAO, è in fasi di discussione la reale necessità di una doppia terapia antiaggregante e di come la monoterapia possa essere già di per sé sufficiente non solo nella LAAO, ma anche nell’evento ischemico miocardico [25, 26, 27, 28, 29].

Anche in termini di farmaco-economia, un recente studio ha mostrato come l’intervento di chiusura dell’auricola sinistra sia vantaggioso nel lungo tempo in termini di spesa sanitaria rispetto alla tAC ed i DOACs [30].

 

Conclusioni

Nei pazienti con FANV e malattia renale terminale, sottoposti a dialisi cronica, i DOACs attualmente rimangono ancora controindicati e la tAC non previene completamente gli eventi embolici, procurando al contempo un elevato rischio di sanguinamento. Pertanto, la LAAO pare essere un’alternativa sicura ed efficace per quei pazienti con elevato rischio di sanguinamento o controindicazione alla terapia anticoagulante cronica, come nei casi di calcifilassi. La procedura di chiusura dell’auricola sinistra ha dei limiti, quali l’attuale ridotta diffusione nei centri cardiovascolari, la necessità di un buon expertise da parte dei cardiologi interventisti, ed il suo costo relativamente elevato. Il nefrologo dovrebbe tenere in considerazione questa possibilità terapeutica, soprattutto nei pazienti in terapia cronica con anticoagulanti cumarinici, valutando gli opportuni rischi e benefici in collaborazione con l’equipe cardiologica di riferimento. Attualmente persiste la necessità di maggiori dati in merito alla sicurezza a lungo termine della procedura di chiusura dell’auricola sinistra, e di nuove analisi sulla popolazione emodializzata.

 

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Multifaceted approach to a rare clinical case of calciphylaxis in a renal transplant recipient

Abstract

Calcific uremic arteriolopathy (CUA) is a highly morbid condition usually found in ESRD patients that has rarely been reported after renal transplantation and renal function restoration. Furthermore, little is known about the optimal management of CUA in this setting. Herein, we report on the clinical case of AB, a 70-year-old woman who developed CUA after renal transplantation and renal function restoration. However, other risk factors for CUA such as diabetes and warfarin treatment, due to mechanical aortic valve implantation, were present. Thirty-eight months after renal transplantation she developed erythema and livedo reticularis in both legs and a gradually enlarging skin ulcer in the right leg. A skin biopsy of the ulcer showed features compatible with the CUA, such as sub-intimal calcification and luminal obstruction of the small dermal arterioles, tissue ischemia and signs of adipocytes degeneration. A multidisciplinary approach was adopted, including medical and non-medical treatments such as surgical debridement and vacuum-assisted closure therapy. Medical treatments included a five weeks course of once a week intravenous infusion of pamidronate and intravenous sodium thiosulfate (STS) at increasing doses. Four months after beginning the therapy with STS, a complete healing of the ulcer on the right leg and the disappearance of the livedo reticularis on the left leg was noted. In conclusion, although rare CUA may develop also in renal transplanted patients, a timely and combined therapeutic approach is essential for its resolutive treatment. Sodium thiosulfate therapy has proven to be effective and tolerated.

Key words: calcific uremic arteriolopathy, calciphylaxis, renal transplantation, sodium thiosulfate

Introduction

Calcific uremic arteriolopathy (CUA) or calciphylaxis is a rare and highly morbid condition that is found mainly in patients whit end-stage renal disease (ESRD) [1] and it has been reported only in a few clinical cases of renal transplant patients. Though largely unknown, CUA etiology is multifactorial and several elements such as hyperphosphatemia, secondary hyperparathyroidism (SHPT), use of vitamin K antagonists, diabetes mellitus, chronic inflammatory states, and female gender are thought to portend high risk of CUA [13]. The clinical presentation of CUA is usually characterized by skin lesions, preceded by intense pain and livedo reticularis that tend to progress to ischemic/necrotic ulcers [2]. Some histological features can be identified at skin biopsy, such as dermal arteriolar calcification, intimal hyperplasia, thrombotic occlusion and tissue necrosis [2]. At present, there is no established care of CUA aside of risk management and a multifaceted approach, rather than a single agent or treatment, is usually advocated [1, 2]. Many treatments for CUA have been proposed and, while no blinded randomized studies have taken place for any of these treatments, sodium thiosulfate (STS), either by injection or intravenous administration, is one of the most commonly utilized treatments, along with stringent wound care regimens.

In the last ten years, STS has received considerable attention and it is currently the most commonly used therapy for CUA. The beneficial effects of STS are thought to be due to its ability to promote the solubility and mobilization of calcium crystals from soft tissue calcifications [4, 5]. Furthermore, STS is known to be a powerful antioxidant agent [5]. Other lines of evidence suggest that STS may improve vascular endothelial function and promote vasodilation, reduce vascular smooth muscle cells proliferation and restore proper hepatic synthesis of albumin and fetuin-A; all these factors can contribute to reduce vascular calcification [3, 5] and may also explain the rapid improvement of pain, commonly reported by patients after initiation of STS infusion [3, 5]. Other drugs that have been used in CUA are bisphosphonate and cinacalcet, while a novel compound SNF-472 is currently under investigation [6, 7]. Although some promising results have been reported, the use of these compounds in CUA is based on case reports or case series and no randomized clinical trial (RCT) has been conducted in this domain. Several questions about the use, schedule, dosage and administration of these drugs in different patients remain unresolved, especially in renal transplant patients, in which CUA is an extremely rare condition.

 

Case report

In March 2012, a 70-year-old woman received renal transplantation and started taking prednisone, everolimus, and cyclosporine as immunosuppressive regimen. Nine months after renal transplantation, she underwent percutaneous mechanical aortic valve implantation and was started on warfarin. In June 2014 she developed diabetes mellitus. In January 2016, she developed extensive erythema and livedo reticularis with palpable subcutaneous painful nodules in both legs and, few weeks later, she also developed a skin ulcer in her right leg that gradually expanded (Figure 1). The ulcer was initially treated with surgical debridement and vacuum-assisted closure (VAC) therapy. At this time, the main laboratory tests showed an estimated glomerular filtration rate (eGFR; CKD-EPI) of 28 mL/min per 1.73 m2, serum PTH levels 329 pg/mL, corrected serum calcium levels 10.4 mg/dL, serum phosphate 3.8 mg/dL, and C-reactive protein levels 110.6 mg/L (reference range, <5 mg/L). To shed light on the nature of the skin lesion, a skin biopsy was performed in March 2016, showing features compatible with CUA, such as sub-intimal calcification and luminal obstruction of the small dermal arterioles, tissue ischemia and signs of adipocytes degeneration (Figure 2). Because anti-vitamin K agents, such as warfarin, have been associated with CUA [3], the case was discussed with the cardiac surgeon and the hypothesis to replace warfarin with direct oral anticoagulants, such as dabigatran or low-molecular weight heparin (LMWH), was evaluated. However, she was continued on warfarin because of a study conducted on patients carrying mechanical valves, showing that patients treated with dabigatran have an excess of thromboembolic and bleeding events, compared with the warfarin group [8]. Another reason was the lack of data on the chronic use of LMWH in patients with prosthetic valves, with indications for short-term anticoagulation therapy only (generally for bridging while vitamin K antagonists therapy is being initiated or temporarily discontinued) [9].

Because of the unavailability of STS at that time (off-label indication) and in consideration of the secondary hyperparathyroidism (SHPT), it was decided to start treatment with oral cinacalcet (30 mg/day) and intravenous pamidronate (Aredia® 30 mg a week for five weeks), according to what reported by the scheme of Monney et al. [10] and Floege et al. [11]. However, cinacalcet was soon discontinued due to the appearance of nausea and vomiting (common side effects of cinacalcet therapy), while treatment with pamidronate only partially reduced the pain and the extent of the ulcer. Then, in July 2016, intravenous STS treatment was started at a dose of 12.5 g two times a week, monitoring arterial blood gas and blood pressure [3]. One month after starting therapy with STS a significant reduction in pain was subjectively reported by the patient. Hence, the administration of STS was increased from two to three times a week. Four months after the beginning of the therapy with STS, a complete healing of the ulcer was documented (Figure 3). Notable side effects of STS were nausea, vomiting, metabolic acidosis, hypotension, hypocalcaemia, QT prolongation, and volume overload [3]. During STS treatment the main clinical and biochemical parameters did not change; in particular, the acid-base balance remained unchanged, while there was a significant reduction in both C-reactive protein levels (from 110.6 to 3.5 mg/L) and white blood cell count (from 13,600 to 7,530 per mm3) (Table 1). During treatment with STS, blood glucose and glycated hemoglobin levels did not require special changes in the diabetes mellitus therapy. In fact, fasting plasma glucose levels were always <130 mg/dl (v. n. 60-110 mg/dl) and those of glycated hemoglobin ranged from 38-57 mmol/mol (v. n. 20-42 mmol/mol). The treatment for diabetes mellitus was based on the use of a mixture of insulin lispro solution, a rapid-acting blood glucose-lowering agent, and insulin lispro protamine suspension, an intermediate-acting blood glucose-lowering agent (Humalog® Mix 50/50™). Also, no significant electrocardiographic changes were noticed during STS therapy. Although the patient reported nausea and vomiting during the first two months of therapy, these side effects were never considered by her or by the attending physicians so severe to require STS suspension and were easily controlled with the use of antiemetics. Currently, the patient has no clinical signs of disease activity.

 

Discussion

Although typically associated with ESRD, the diagnosis of calciphylaxis must be considered even when treating renal transplant recipient. The early detection of CUA enabled us to treat the problem in the best possible way, including the removal of risk factors for the CUA, multimodal treatment with wound care, VAC therapy, pamidronate, and STS. In the treatment of CUA, one of the main steps is to try to correct its potential risk factors.

In our clinical case, SHPT and warfarin therapy were the 2 identified modifiable risk factor associated with CUA [3, 5]. In order to correct the SHPT without increasing the calcium and phosphate balance, we tried administering cinacalcet, that in Italy can be prescribed in renal transplanted patients with SHPT and hypercalcemia. Although CUA has been more commonly associated adynamic rather than high bone turnover disease [12], we decided to start cinacalcet therapy because, according to K/DOQI guidelines [13], our patient had markedly elevated serum parathyroid hormone and calcium, a condition that contraindicated the use of vitamin D or vitamin D analogues (which increase the risk of hypercalcemia), and because their use has been associated by some authors with CUA [3, 5]. In contrast, in a recently published post hoc analysis of the EVOLVE trial, treatment of SHPT with cinacalcet was associated with a 69-75% reduction in the risk of CUA [11]. Unfortunately, cinacalcet was stopped after a few days of treatment due to the onset of nausea and vomiting. The other modifiable factor in our patient was represented by warfarin therapy [3]. Knowing the strong association between warfarin and CUA, we investigated the hypothesis of replacing warfarin with a new oral anticoagulant such as dabigatran or low-molecular weight heparin (LMWH). However, the cardiac surgeon advised against its use because a study conducted on patients carrying mechanical valves showed that patients treated with dabigatran have an excess of thromboembolic and bleeding events as compared with the warfarin group [8]. Similarly, the replacement of warfarin with LMWH was excluded as these are only indicated in patients with prosthetic valves for short-term therapy, generally for bridging while vitamin K antagonists therapy is being initiated or temporarily discontinued [9].

Medical treatment that can be administered in cases of CUA are biphosphates and sodium thiosulphate (STS) [3, 5]. We used pamidronate as first line agent because STS was not available when the diagnosis was made. Pamidronate seems to inhibit some factors involved in vascular calcifications deposition, osteoclast activity as well as the secretion of proinflammatory cytokines by macrophages [14]. Although pamidronate has been shown to be effective in the treatment of CUA, data in the literature are scanty [10]. To date, the use of STS represents the most important advance in the treatment of CUA and its he beneficial effects are thought to be due in part to its ability to enhance solubility and mobilization of calcium crystals from the soft tissue calcifications [1, 5]. Furthermore, STS is also a powerful antioxidant agent, further corroborating the hypothesis that may exert a positive effect on vasculature [5]. Although based on case reports, data suggest that STS has a number of positive effects including improvement of vascular endothelial function and vasodilation, reduction of vascular smooth muscle cells proliferation as well as restoration of hepatic synthesis of albumin and fetuin-A [5]. Although some authors suggest a therapeutic algorithm for CUA treatment, it is still not clear what is the optimal dose of STS [3]. The dosage regimens most widely adopted in dialysis patients ranges from 20 to 25 grams three to five times per week [3] but almost no data exists on the use of STS in patients with eGFR <60 mL/min/1.73 m2. However, as 20 to 50% of the administered dose of STS is eliminated unchanged in the urine, it seems reasonable to start therapy with a lower dose compared to dialysis patients. Hence, a reasonable approach is to start with a dose of 12.5 grams twice a week and titrate the dosage according to side effects and CUA evolution. In any case, it is preferable not to exceed 25 grams of STS three times per week in patients with eGFR <60mL/min/1.73 m2 [3, 5]. While there is some consensus on the need to start STS as early as possible, normally at the appearance of skin ulceration [5], the optimal duration of treatment with STS is currently unknown and it seems reasonable to continue the treatment until the complete resolution of ulcerative lesions, which can take up to several months [5].

Finally, Non-medical therapy is also part of CUA management: surgical or non-surgical debridement, VAC therapy, antibiotic treatment guided by microbiological results of wound swabs, as well as pain treatment with oral opioid, are commonly employed and should be considered on case by case.

 

Conclusions

This clinical case demonstrates that a diagnosis of calcific uremic arteriolopathy must be considered even in renal transplant patients presenting an ulcer of unknown etiology; early diagnosis and a prompt multimodal treatment approach, in fact, may allow for the complete healing of this rare disease.

Although STS is now the most common agent used to treat CUA, there is a great need for randomized controlled trials that help determine the optimum dosage of STS and the duration of treatment. Similarly, in light of the poor prognosis of CUA, data on the safety and efficacy of novel compound currently being tested, such as SNF-472 [6], are much awaited.

 

 

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POEMS Syndrome: Nosographic classification and considerations on a clinical case

Abstract

POEMS syndrome is a rare multisystemic disease characterised by the coexistence of two main symptoms, polyneuropathy and monoclonal gammopathy, associated with minor symptoms such as organomegaly, endocrinopathy, and skin changes. We describe a patient who presented with symptoms and signs fulfilling the criteria of POEMS. We have carried out a literature review with particular emphasis on its demographic and polymorphic clinical features.

 

Keywords: POEMS, monoclonal gammopathy, calciphylaxis, Castleman’s disease, VEGF

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Introduzione

POEMS è l’acronimo utilizzato per indicare una sindrome rara, polimorfa nelle sue manifestazioni cliniche, a etiologia sconosciuta probabilmente univoca. Tale condizione è relativamente frequente in Giappone, ma si riscontra raramente nei paesi occidentali. Descritta nel 1956 da Crow e ripresa da Fukase nel 1968, fu prima definita come Crow-Fukase Syndrome da Nakanishi, in uno studio del 1984 su 102 casi osservati in Giappone [1]. Nel 1980 Bardwick coniò tuttavia l’acronimo POEMS, per dare risalto alle cinque affezioni che la caratterizzano: Polineuropatia, Organomegalia, Endocrinopatia, gammopatia Monoclonale, modificazioni cutanee (Sk). 

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