Settembre Ottobre 2017 - In depth review

Neprilysin inhibition and chronic kidney disease

Abstract

Patients with chronic kidney disease (CKD) have a higher incidence of cardiovascular (acute and chronic) events, which in turn have an increased risk of progression to end-stage renal disease (ESRD)

Inhibition of neprilysin, in addition to offering a new therapeutic target in patients with heart failure, could represent a potential improvement strategy in cardiovascular and renal outcome of patients with CKD.

Inhibition of neprilysin by inhibiting the breakdown of natriuretic peptides, increases their bioavailability resulting in an increase in diuresis and sodium excretion and, in addition to exerting an inhibition of the renin – angiotensin – aldosterone (RAAS) system.

Inhibition of RAAS, in turn, generates a series of counter-regulations that can balance the adverse effects present in CKD and heart failure (HF).

The idea of ​​blocking neprilysin is not very recent, but the first drugs used as inhibitors had an inadmissible incidence of angioedema.

Among the latest generation molecules that can perform a specific inhibitory action on the neprilysin receptor and, at the same time, on the angiotensin II receptor thanks to the association with valsartan there is the LCZ696 (sacubitril / valsartan). This drug has shown promising benefits both in the treatment arterial hypertension and heart failure. It is hoped that equally positive effects may occur in CKD patients, particularly those with macroproteinuria.

Key words: neprilysin, natriuretic peptides, sacubitril/valsartan, hypertension, heart failure, CKD

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INTRODUZIONE

I pazienti affetti da CKD presentano un rischio più elevato, rispetto alla popolazione generale, di progressione verso l’ESRD (1, 2), nonché un’incidenza particolarmente elevata di morbidità e mortalità cardiovascolare. Diversi fattori di rischio cardiovascolare, tradizionali e non, concorrono alla maggiore incidenza di eventi cardiovascolari nella popolazione affetta da CKD: aterosclerosi, infiammazione cronica, ipertensione arteriosa, iperattività del sistema nervoso simpatico ed un rimodellamento strutturale cardiaco (ad es. ipertrofia ventricolare sinistra) fattore quest’ultimo che può condurre ad una situazione di scompenso cardiaco (2).

Nella naturale evoluzione della CKD e delle sue complicanze, l’aterosclerosi, che rappresenta il primum movens nelle alterazioni a carico del sistema cardio-vascolare, perde man mano importanza nella genesi della mortalità cardio-vascolare. Allo stato attuale, le alterazioni strutturali presenti a livello cardiaco sono considerate le principali responsabili della maggiore incidenza di aritmie cardiache, quali la fibrillazione atriale e gli episodi di morte cardiaca improvvisa (3).

La similitudine delle basi fisio-patologiche nei pazienti affetti da CKD e da scompenso cardiaco ha suggerito che i trattamenti impiegati con successo nella gestione del paziente scompensato potessero dar luogo ad evidenti miglioramenti clinici anche nella evoluzione delle nefropatie croniche.

Diversi trials clinici randomizzati hanno dimostrato come l’impiego di antagonisti recettoriali dell’angiotensina II (ARBs) e di inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina I (ACEi) siano in grado di ridurre oltre che situazioni di scompenso cardiaco la progressione verso l’ESRD di pazienti proteinurici (diabetici e non diabetici).

Tuttavia nonostante l’impiego simultaneo di ARBs e ACEi comporti una maggiore riduzione della proteinuria rispetto all’impiego degli stessi in monoterapia, questo non si traduce, automaticamente, in un maggiore guadagno in termini di outcome renale ovvero di protezione cardiovascolare (4 – 7).

Alla luce del fatto che, il cosiddetto “doppio blocco” non sempre si associa ad una migliore prognosi renale e cardio-vascolare, si è cercato di battere strade alternative ricercando nuove strategie terapeutiche nei pazienti affetti da CKD (4 – 7).

Il sistema dei peptidi natriuretici si pone come un vero e proprio sistema di contro – regolazione nei confronti del RAAS e, di conseguenza, potrebbe comportare evidenti benefici clinici in tutte quelle condizioni nelle quali vi è una iper-attivazione del RAAS, come nel caso delle patologie cardiovascolari e renali (4 – 7).

 

IL SISTEMA DEI PEPTIDI NATRURETICI (NPs) E LA NEPRILISINA (NEP)

La famiglia dei peptidi natriuretici (NPs) comprende essenzialmente tre molecole, tutte sintetizzate a partire da precursori solo in parte attivi come tali: il peptide atriale (ANP), quello cerebrale (BNP) ed il tipo C (CNP) (8).

I primi due peptidi sono in gran parte sintetizzati e secreti a livello dei miocardiociti in risposta alla distensione atriale provocata da un aumento della pressione venosa, mentre il CNP è prodotto essenzialmente a livello delle cellule endoteliali (8, 9).

Tutte e tre le molecole si legano a recettori specifici ed esercitano la loro azione mediante cascate enzimatiche mediate dalla guanilato – ciclasi – A (ANP e BNP) e dalla guanilato – ciclasi – B (CNP) (Figura 1) (8 – 10).

ANP e BNP esercitano i loro effetti in maniera prevalente a livello dell’apparato cardiovascolare contribuendo a determinare diuresi, natriuresi, nonché a modulare i livelli di pressione arteriosa (9, 10). Il CNP è prevalentemente un peptide vasoattivo e, pur agendo a livello cardiovascolare, presenta degli scarsi effetti a livello renale (9, 10).

La natriuresi generata dai peptidi natriuretici, è principalmente legata alla vasodilatazione esercitata a livello dell’arteriola afferente ed alla vasocostrizione dell’arteriola efferente: la conseguenza è un incremento della filtrazione glomerulare.

L’ANP, inoltre, esercita un’azione rilassante a livello delle cellule mesangiali, rendendo così disponibile una superficie maggiore per la filtrazione glomerulare con conseguente ulteriore aumento della diuresi (11).

Infine, sempre l’ANP è in grado di inibire la produzione di endotelina e la proliferazione delle cellule muscolari lisce e di indurre una riduzione del grado di ipertrofia ventricolare sinistra (10, 11)

La neprilisina, presente a livello di tessuto cerebrale, cellule endoteliali, cellule muscolari lisce, cardiomiociti e, soprattutto, cellule epiteliali del tubulo renale prossimale, risulta essere un enzima chiave nella degradazione dei peptidi natriuretici (11).

L’ampio spettro delle potenziali proprietà farmacologiche dei NPs ha, quindi, portato, nel tempo, alla sintesi di molecole in grado di inibire il principale responsabile della degradazione degli stessi, cioè la neprilisina (NEP).

L’inibizione della NEP determina un potenziamento della natriuresi e della vasodilatazione a livello renale con riduzione della pressione arteriosa intraglomerulare e della proteinuria (12, 13).

Andando a considerare la sola inibizione della NEP, questa non si traduce in una significativa riduzione della pressione arteriosa, in quanto non riesce a contrastare in modo particolare né l’iper-attivazione del RAAS, né tantomeno quella del sistema nervoso simpatico (SNS).

Di conseguenza, gli effetti favorevoli (renali e cardiovascolari) esercitati dall’inibizione della NEP diventano massimali se accoppiati ad un’inibizione specifica del RAAS. Di qui lo sviluppo di molecole in grado di determinare l’inibizione complementare di RAS e NEP (NEPi/RAASi) (9).

 

INIBIZIONE NEPRILISINA – RAAS: LZC686 (sacubitril/valsartan)

Come accennato al termine del capoverso precedente, gli effetti farmacologici relativi all’inibizione della NEP, possono essere massimizzati se accoppiati all’inibizione del RAAS. Diverse molecole singole o in associazione sono state studiate e testate (vedi tabella 1) ma solo l’omapatrilat ha evidenziato la capacità di ridurre la pressione arteriosa ed indurre un marcato incremento del flusso plasmatico renale senza inficiare negativamente la frazione di filtrazione glomerulare. Purtroppo questo farmaco causava con lata frequenza episodi di angioedema, probabilmente legati allo effetto di ACE inibilizione presente nella molecola, che favoriva una iper-espressione di bradichinina (12, 13).

L’ultima delle molecole che sono state sviluppate seguendo il filone della doppia inibizione è l’ LZC696, un’associazione di sacubitril (inibitore della NEP) ed ilvalsartan (un inibitore recettoriale dell’angiotensina II).

Dal punto di vista farmacologico, LZC696 si presenta come complesso formato da 6 molecole di valsartan e 6 di sacubitril per un peso molecolare totale pari a 5748 Da. Una volta effettuata la somministrazione di una singola dose orale di farmaco, le concentrazione plasmatica massima di sacubitril si ottiene in tempo variabile tra 1.9 e 3.5 ore, mentre quella di valsartan tra 1.7 e 2.2 ore con tempi di emivita, rispettivamente, pari a 8.9 – 11.1 e 8.9 – 16.6 ore; questi dati di farmacocinetica giustificano sia la monosomministrazione, sia la doppia somministrazione giornaliera (2).

L’associazione tra ARB e NEPi riduce l’incidenza di angioedema in quanto, pur essendo presente l’inibitore della NEP (che agisce incrementa i livelli di bradichinina in quanto ne inibisce la degradazione), la presenza di ARB ne contrasta l’azione riducendo l’incidenza di effetti collaterali (Figura 2, Figura 3) (14, 15).

 

INIBIZIONE DELLA NEPRILISINA ED IPERTENSIONE ARTERIOSA

L’ipertensione arteriosa ha rappresentato, già nel 2010, la prima indicazione per il trattamento con l’associazione sacubitril/valsartan.

Ruilope e coll. hanno, infatti, studiato 1328 pazienti con ipertensione lieve – moderata in terapia con LCZ696 ovvero dose equivalente di valsartan; i risultati hanno evidenziato un significativo vantaggio dell’associazione sacubitril/valsartan rispetto alla monoterapia con antagonista recettoriale dell’angiotensina II (16).

Tali evidenze sono state successivamente confermate, nel 2014, da Kario e coll. i quali hanno valutato circa 400 pazienti adulti asiatici con ipertensione arteriosa di grado moderato, confermando l’effetto dell’associazione farmacologica sui livello di PAS e PAD (17).

In entrambi i trials clinici citati in precedenza, non vi sono stati casi di intolleranza e/o episodi di angioedema.

Con l’avanzare dell’età biologica, una delle complicanze cardiovascolari correlate all’ipertensione arteriosa è quella relativa all’aumento della cosiddetta “stiffness” arteriosa, ossia della rigidità della parete dei vasi arteriosi che rappresenta il progressivo rimodellamento vascolare legato ai processi di invecchiamento (18).

L’aumento della stiffness arteriosa comporta anche un peggioramento della performance cardiovascolare con una maggiore incidenza di infarto del miocardio, stroke, malattia renale cronica ed alterazioni delle funzioni cognitive (18  22).

Un trial recente presentato in occasione del Congresso Europeo di Cardiologia del 2015 ha evidenziato una maggiore efficacia di LCZ696 rispetto ad olmesartan sul pattern emodinamico aortico e sul profilo pressorio del paziente anziano (23).

In tutti i trials clinici finora eseguiti si è documentata una riduzione dei livelli di ANP e di cGMP, così come di quelli di albuminuria, in misura maggiore rispetto alla monoterapia con valsartan (24).

 

L’INIBIZIONE DELLA NEPRILISINA NEL PAZIENTE CON SCOMPENSO CARDIACO

Lo stadio di insufficienza cardiaca rappresenta lo step finale di diverse cardiomiopatie, primitive ovvero secondarie, e colpisce diversi milioni di soggetti in tutto il mondo (25).

In base al valore della frazione d’eiezione del ventricolo sinistro (left ventricular ejection fraction – LVEF), i pazienti affetti da scompenso cardiaco possono essere inquadrati in una delle seguenti due categorie:

  1. Scompenso cardiaco con LVEF ridotta (heart failure with reduced ejection fraction, HFrHF)
  2. Scompenso cardiaco con LVEF conservata (heart failure with preserved ejection fraction, HFpEF)

Parlando dei pazienti affetti da scompenso cardiaco con frazione d’eiezione ridotta, nonostante notevoli progressi in ambito terapeutico, il tasso di mortalità rimane molto alto con valori intorno al 50% a 5 anni (26).

Per tale motivo, le più recenti Linee Guida della Società ESC (European Society of Cardiology), dello ACC (American College of Cardiology) e della AHA (American Heart Association) raccomandano la sostituzione della terapia con ACEi ovvero ARBs con LCZ696 nei pazienti che rimangono sintomatici anche se l’inibizione del SRA è fatta in associazione a β – bloccante ed antagonisti del recettore per i mineralcorticoidi (MRA). La sostituzione ha lo scopo di ridurre morbidità e mortalità nei pazienti affetti da HFrEF (27, 28).

Tali raccomandazioni sono dedotte dai risultati dello studio PARADIGM – HF, trial clinico randomizzato che ha arruolato 8400 pazienti di età compresa tra 18 e 96 anni in classe NYHA II – IV ed LVEF ≤ 40% e randomizzati a ricevere LCZ696 al dosaggio di 200 mg/die ovvero enalapril 10 mg x 2/die in aggiunta alla terapia di base prescritta (β – bloccanti ovvero antagonisti del recettore dei mineralcorticoidi) (29).

L’endpoint primario era di tipo composito e riguardava morte cardiovascolare e numero di ricoveri per scompenso cardiaco. Il trial è stato interrotto dopo 27 mesi per manifesta superiorità di LCZ696 nei confronti di enalapril.

Analisi post – hoc dello studio PARADIGM – HF hanno, inoltre, dimostrato che LCZ696 ha rallentato la progressione dello scompenso cardiaco in maniera più efficace rispetto all’enalapril, ivi incluso il bisogno di una terapia farmacologica più aggressiva, il ricovero in reparto di terapia intensiva, l’aggiunta di farmaci inotropi positivi ovvero il trapianto cardiaco (29).

In più, i pazienti sottoposti a terapia con LCZ696 hanno evidenziato un miglioramento della loro qualità di vita, una riduzione dei sintomi correlabili ad insufficienza cardiaca ed una riduzione dei livelli di biomarcatori di danno tessutale miocardico (si vedano i livelli di NT – proBNP e di troponina T) in confronto al gruppo di pazienti trattato con enalapril (29).

I pazienti che maggiormente beneficiavano degli effetti positivi dell’LCZ696 avevano alcune e ben definite caratteristiche:

– HFrEF sintomatico ambulatoriale;
– FE ≤35%;
– Elevati livelli plasmatici di peptide natriuretici (BNP ≥150 pg/mL o NT-proBNP ≥600 pg/mL);
– GFR (eGFR) ≥30 mL/min/1.73 m2;
– In grado di tollerare terapia con Enalapril (almeno 10 mg b.i.d.) o un altro ACE-I o sartanico a dosaggio equivalente.

Desai e coll. hanno anche dimostrato come i pazienti trattati con LCZ696 abbiano evidenziato una riduzione del tasso di mortalità dovuto ad episodi di morte cardiaca improvvisa, nonché della mortalità collegata ad un peggioramento dello scompenso cardiaco stesso (30).

Analizzando i dati del PARADIGM – HF, Claggett e coll. hanno riportato come il trattamento con LCZ696 comporti un aumento dell’aspettativa di vita pari a 1 – 2 anni in più rispetto al trattamento con enalapril (31).

Nei pazienti affetti da scompenso cardiaco ma con frazione d’eiezione del ventricolo sinistro preservata, non esistono, allo stato attuale, protocolli di trattamento ben codificati (32).

Il trial PARAMOUNT ha fornito ulteriori spunti interessanti per i pazienti affetti da HFpEF. Nel PARAMOUNT, 300 pazienti in classe NYHA II – III, LVEF ≥ 45% ed NT-proBNP > 400 pg/ml sono stati arruolati e randomizzati (1:1) a ricevere LCZ696 (fino ad un dosaggio massimo di 200 mg) ovvero valsartan in monoterapia al dosaggio di 160 mg due volte al giorno per 36 settimane; l’end-point primario era rappresentato dalle eventuali modificazioni dei livelli di NT-proBNP dal basale fino alle 12 settimane. I risultati hanno documentato, nel gruppo di pazienti trattati con LCZ696, una evidente riduzione dei livelli di NT-proBNP rispetto al gruppo dei pazienti trattati con solo valsartan. Sempre nel gruppo trattato con LCZ696 si è assistito, inoltre, ad una riduzione delle dimensioni atriali sinistre ed un aumento medio del punteggio in termini di classe NYHA (33, 34).

Ulteriori analisi dei risultati del trial PARAMOUNT hanno anche evidenziato un effetto positivo del trattamento con LCZ696 sui livelli di troponina T ad alta sensibilità (hs-TnT) (35).

 

INIBIZIONE DELLA NEPRILISINA NEI PAZIENTI CON CKD

Le principali evidenze per quanto concerne il potenziale ruolo dell’inibizione della neprisilina nei pazienti affetti da CKD derivano su studi effettuati su modelli animali di malattia renale.

In modelli animali di ipertensione arteriosa, la somministrazione per lunghi periodi di omapatrilat ha permesso di ottenere riduzione della pressione arteriosa e della proteinuria in maniera dose – dipendente con relativo arresto della progressione di evidente danno renale quale quello caratterizzato da glomerulosclerosi e fibrosi tubulo-interstiziale (12).

In un modello di nefrectomia 5/6, gli effetti anti-ipertensivi e reno-protettivi di omapatrilat sono stati messi a confronti con gli effetti provocati dalla somministrazione di enalapril. Omapatrilat ha evidenziato evidenti azioni nefro-protettive grazie alla riduzione della proteinuria e del grado di fibrosi tubulo – interstiziale/glomerulosclerosi come documentato alla biopsia renale (36).

Riscontri simili si sono avuti in modelli sperimentali di nefropatia diabetica (37) nei quali è stato documentato un incremento della sintesi di ossido nitrico ed una diminuzione della produzione di endotelina alla quale è seguito una riduzione del grado di vasocostrizione renale ed un incremento della produzione di ANP a livello tubulare (36).

In un altro modello di nefrectomia 5/6, omapatrilat è stato somministrato in diversi momenti dall’intervento chirurgico di nefrectomia, evidenziando un ruolo di primo piano da parte dell’omapatrilat nel ridurre la pressione arteriosa sistolica e la pressione intraglomerulare (13). Lo studio, inoltre, ha ribadito gli effetti favorevoli in termini di riduzione della proteinuria e di progressione del quadro di nefroangiosclerosi e di malattia renale cronica, rispetto alla monterapia con ACE – inibitore (13).

Nel trial IMPRESS (Inhibition of Metallo Protease by Omapatrilat in a Randomized Exercise and Symptoms Study of Heart Failure), che ha messo a confronto il trattamento con omapatrilat vs lisinopril), si è osservato un incremento dei livelli sierici di creatinina in maggior misura nei pazienti trattati con lisinopril rispetto al gruppo di pazienti trattati con omapatrilat (38).

Allo stesso modo, nel trial OVERTURE, il peggioramento della funzione renale è stato osservato con minore frequenza nei pazienti trattati con omapatrilat rispetto al gruppo trattato con enalapril.

Ritornando invece all’LCZ606, quanto visto negli studi con l’omapatrilap, è stato anche osservato nelle 36 settimane di follow up dello studio PARAMOUNT (LCZ696 vs valsartan): anche in questo caso, i valori di eGFR sono diminuiti in maniera più evidente nel gruppo tratto con valsartan (-5.2 ml/min/1.73 m2) rispetto al gruppo trattato con l’associazione sacubitril/valsartan (-1.6 ml/min/1.73 m2) (33).

Tutti gli studi menzionati sottolineano i potenziali benefici della terapia combinata NEPi/RAASi nel rallentare la progressione della malattia renale cronica ma, al contempo, si tratta di dati indiretti e basati su popolazioni di pazienti affetti da scompenso cardiaco (33).

Dati significativi potrebbero arrivare da un trial tuttora in corso, UK HARP-III (UK Heart and Renal Protection III, che metterà a confronto LCZ696 ed irbesartan in 360 pazienti affetti da CKD (eGFR compreso tra 20 e 60 ml/min/1.73 m2) e proteinuria. Si tratta del primo trial in grado di testare la validità del blocco recettoriale della neprilisina in una popolazione affetta da nefropatia proteinurica. Inoltre, il trial si propone di verificare l’efficacia e la sicurezza dell’impiego di LCZ696 nei pazienti affetti da CKD con l’end-point primario rappresentato dalla variazione del livello di GFR dal tempo zero a 6 mesi nei due bracci di trattamento (LCZ696 ed irbesartan) (trial ISRCTN11958993).

 

CONCLUSIONI

Con la scoperta della neprilisina e dei suoi inibitori si è aperta una nuova frontiera nella terapia delle patologie caratterizzate da una iper-attivazione del RAAS (ipertensione arteriosa, scompenso cardiaco e malattia renale cronica, ecc). Nei pazienti affetti da ipertensione arteriosa e da scompenso cardiaco, l’inibizione della neprilisina con LCZ696 ha dato risultati incoraggianti in termini di benefici clinici.

Nei pazienti affetti da CKD, l’inibizione della neprilisina potrebbe agire a due livelli, riducendo il rischio cardiovascolare e rallentando la progressione della malattia renale cronica, con il risultato di procrastinare l’inizio del trattamento sostitutivo della funzione renale.

Allo stesso tempo, però, soprattutto nella popolazione affetta da CKD, sono necessari ulteriori trials clinici randomizzati per valutare eventuali effetti collaterali negativi e per confermare il ruolo potenziale dell’inibizione della neprilisina nel rallentamento della progressione del danno renale ed il relativo impatto nella pratica clinica quotidiana.

 

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