Novembre Dicembre 2023 - Editorial

Esiste una scuola Italiana di nefrologia? Considerazioni di un nefrologo italiano in Francia

Sorry, this entry is only available in Italian.

Quando eravamo ragazzini non c’era nulla di meglio che partire per apprezzare la nostra famiglia. Essere un medico italiano all’estero me lo ricorda: è nella distanza che ci si rende conto di quegli aspetti positivi che sono così insiti nel “modo di fare” da essere scontati, almeno fino al momento in cui ci mancano.

Per festeggiare il numero del GIN a cavallo tra 2023 e 2024, una lista delle “cose belle” che caratterizzano la nefrologia italiana può fare riflettere su quelli che sono i nostri punti forti, su cui fare leva o da cui ripartire anche quando, nel nostro meraviglioso e difficile Paese, tutto sembra difficile, e soprattutto da non dimenticare in un nichilismo stanco al quale l’inerzia delle istituzioni talora ci trascina.

La nostra non è una scuola con muri ben definiti. Non siamo Columbia University o Mayo Clinic o Harward. La nostra appartenenza è più profondamente culturale, un’italianitudine a volte elusiva, spesso indefinita come una nebulosa, fluida come una medusa. La struttura sociale, quella che ancora, più che in altri Paesi europei, è legata alla famiglia, della quale entrano a fare parte gli amici, e non solo i parenti di sangue, si rispecchia anche nel rapporto medico paziente e, in  definitiva, nel nostro lavoro quotidiano.

Quando, a Natale, i reparti si riempiono di doni, ed i pazienti portano cibo cucinato con un amore direttamente proporzionale alle calorie, attentato ai goffi tentativi di mantenere un ragionevole peso nel periodo delle “feste”, il significato è quello di mangiare lo stesso cibo, di diventare famiglia. Questo calore, questa capacità di trascendere i ruoli, questo desiderio di comunicazione si riflette anche nella ricerca.

Noi italiani siamo forti nella ricerca clinica. E lo siamo in libertà: non avere fondi è una iattura, ma non dipendere da un finanziamento è una ricchezza. Prendendo alcuni esempi personali, lo studio TOPI, che nel suo iniziale acronimo (TOPI per CASA) raccoglieva Torino, Pisa, Cagliari e Solofra, uno dei più ampi studi sulla qualità di vita dei pazienti a dieta, non ha mai ricevuto un euro di finanziamento, ma si è basato sulla capacità di coinvolgere i pazienti, i colleghi, i dietisti nel raccogliere una serie di questionari sulla qualità di vita. Avere un’idea, poterla inseguire in fretta, senza bisogno di una strutturazione rigida, sarà pure nei momenti liberi, sarà certo fermandosi la sera, sarà anche ogni tanto stramaledicendo il “chi me l’ha fatto fare”, permette alla nostra società di arrivare in fondo a un progetto nel tempo in cui in altri Paesi, sicuramente più ricchi, come la Francia, si arriva appena a definire la richiesta di fondi. È stato il caso del nostro studio sulle gravidanze in trapianto: grazie alla caparbia determinazione di Gianfranca Cabiddu, il lavoro è uscito mentre un simile database francese è da 8 anni in attesa di approvazioni e fondi.

Nominare la mia amica-sorella, con cui dividiamo la passione per nuovi progetti, la frustrazione dei revise e reject, e l’entusiasmo per una gravidanza difficile che finisce bene porta al secondo punto di forza della scuola Italiana: siamo capaci di collaborare. Non è che ci amiamo tutti, non è un asilo infantile, non è un mondo di Barbie colorate di rosa; ma siamo capaci di lavorare insieme, e non solo scegliendo il collega più forte. Anzi, d’abitudine, si sceglie più volentieri il più amico.  Si lavora la sera per amicizia, per un “divertimento” che è il piacere di credere di essere in grado di cambiare il mondo, almeno un pochino, almeno una virgola, almeno ogni tanto.

È la lezione dei nostri Maestri.

Quando il professor Maggiore raccontava della prima spaghettata ipoproteica della storia, preparata dalla sua mamma, con la farina per celiaci portata da un amico che lavorava in gatroenterologia a Londra e ritornava a casa per Natale, non c’era altro che l’orgoglio di avere reso felici i suoi pazienti. Nessun rimpianto per il tempo rubato alla famiglia, il 24 dicembre.

Quando il professor Buoncristiani aveva costruito il primo rene artificiale per dialisi quotidiana, per permettere a un giovane paziente di andare in vacanza con i bambini in camper, aveva coinvolto amici con diversi “mestieri”, e non lo aveva fatto nel canonico orario di lavoro. Il concetto dei nuovi monitor per dialisi quotidiana nasce per simpatia, per amicizia.

Molti dei nostri campi di eccellenza clinica, la dialisi, la terapia nutrizionale, la gravidanza, sono campi dove l’interesse per il paziente, la curiosità clinica e umana rendono vario quello che potrebbe apparire ripetitivo, e questa curiosità si ritrova nei nostri lavori.

Certo, siamo casinisti, disorganizzati, lavoriamo in strutture troppo spesso obsolete, siamo le nostre segretarie, i nostri “attachés de recherche”, a volte anche le signore delle pulizie. Certo, a volte perdiamo delle occasioni per mancanza di tempo, per sfiducia, perché non sappiamo abbastanza bene l’inglese, ma anche perché la sera abbiamo voglia di pensare ad altro e divertirci.

Ma, guardando le cose da otto anni di distanza, otto anni nei quali rifondare un grosso reparto è stato possibile grazie a tutti i ragazzi, tesisti, specializzandi, colleghi italiani che sono venuti o rimangono a lavorare con noi in Francia, e visto da tre anni di gestione di Journal of Nephrology dove sono spesso i gruppi piccoli a fare gli sforzi più esemplari per pubblicare un lavoro, ebbene, è un orgoglio appartenere alla scuola Italiana.

Gli ottimisti sono spesso visti come sciocchi, gli entusiasti come pazzi, gli allegri come leggeri.

Che questa leggera, sorprendente pazzia ci accompagni per il nuovo anno. I nostri pazienti ne hanno bisogno, e di allegria abbiamo bisogno tutti.