Marzo Aprile 2018 - In depth review

Renal manifestation of Autosomal Dominant Polycystic Kidney Disease

Abstract

Autosomal dominant polycystic kidney disease affects over 12 million people in the world and is the fourth cause of ESRD. It is the main monogenic kidney disease and causes the progressive formation of cysts leading to renal failure after a few decades. The main manifestations of the disease are observed even at a young age.
The early sign of ADPKD is impaired urinary concentrating capacity, due to medullary alteration by cysts, and resistance to vasopressin.
These anatomical alterations determine hyperfiltration, altered ammonium transport, nephrolithiasis, and, above all, hypertension even in pediatric age. Activation of the renin-angiotensin-aldosterone system has been shown responsible for the maintenance of high pressure values as well as the growth of cysts and renal fibrosis. Arterial hypertension would be responsible for ventricular hypertrophy.
Many recent studies have confirmed the role of pressure control, especially if rigorous, in decreasing the progression of renal disease, and the use of ACE inhibitors seems to have higher efficacy than other antihypertensive drugs.
The progression of renal disease is evidenced by the reduction of glomerular filtration which may be minimal in the early years, due to hyperfiltration, but, then, may even exceed 5 ml / min per year, especially when the total kidney volume (TKV) exceeds 1500 ml.
In more rapid progression forms, ESRD may appear at about 55 years of age. The main risk factors are age, genetic mutation, familiarity with ESRD, macrohematuria episodes, and early onset hypertension. Some authors have proposed both genetic and clinical scores that can provide guidance on the probability of rapid progression.
Other renal manifestations include kidney pain, nephrolithiasis, urinary tract infections and cyst hemorrhage. Renal cell carcinoma is a very rare event.

 

Keywords: Autosomal dominant polycystic kidney disease, hypertension, renin-angiotensin-aldosterone system, compensatory hyperfiltration, renal volume, ESRD.

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Introduzione

Il rene policistico rappresenta la malattia ereditaria monogenica più frequente in ambito nefrologico. Ne sono affetti circa 12,5 milioni di individui nel mondo ed è la quarta causa di insufficienza renale terminale dopo il diabete, l’ipertensione e le glomerulonefriti (1).

La malattia è caratterizzata dalla progressiva crescita delle cisti con una conservazione della funzione renale, probabilmente dovuta all’iperfiltrazione dei nefroni sani per molti anni, a cui fa seguito un rapido declino della funzione renale (circa 5,9 ml/min/anno di perdita del GFR), forse il più rapido tra tutte le malattie renali croniche, portando il paziente all’ESRD all’età media di 50 anni (2).

Durante questo periodo i pazienti sperimentano le più disparate manifestazioni cliniche della malattia in grado di ridurre la qualità di vita come l’ipertensione arteriosa, il dolore cronico, l’ingombro addominale, ematuria, infezioni e calcolosi renale (3).

Attualmente circa il 3% di tutti i pazienti che nel mondo sopravvivono grazie al trattamento dialitico sono affetti da rene policistico. L’incidence rate del RRT negli USA è circa 8,7 pmp negli uomini e 6,9 pmp nelle donne con un rapporto M/F pari a 1,2-1,3 che suggerisce una malattia più aggressiva nel sesso maschile. La prevalenza dell’ESRD è passata da 56,8 pmp nel periodo 1991-1995 a 91,1 pmp nel periodo 2006-2010 (1) probabilmente legata alla maggiore sopravvivenza dei pazienti in trattamento emodialitico (4).

 

Genetica

La malattia è dovuta alle mutazioni di due geni PKD1 e PKD2 (localizzati rispettivamente sul cromosoma 16 e sul cromosoma 4) che codificano due proteine, le policistine 1 e 2 che sono implicate nelle regolazioni delle funzioni del cilio primario (da cui l’attuale definizione della malattia come ciliopatia) presente sulle cellule del tubulo. Tali modificazioni determinano un’alterazione della normale polarità della cellula tubulare con conseguente variazione della normale direzione di crescita e sviluppo di cisti ed una variazione fenotipica con aumentata secrezione di cloro e acqua all’interno di esse. La trasmissione è autosomica dominante a penetranza completa ma con espressività variabile. Le mutazioni del PKD1 sono responsabili di circa l’85% dei casi di rene policistico mentre il rimanente 15% dei casi è dovuto a mutazioni del gene PKD2 (5).

 

Anatomia patologica

L’aspetto macroscopico del rene policistico dell’adulto ha rappresentato nella storia dell’anatomia patologica un reperto caratteristico della morbid anatomy.

E’ riportato in testi classici di anatomia patologica macroscopica l’aspetto tipico di reni molto grandi che possono raggiungere i 4-5 kg di peso con superficie alterata dalla presenza di numerose cisti translucide con diametro che può raggiungere i 4 cm. Il profilo dell’organo pertanto è modificato e questo reperto ha rappresentato per anni la differenza fondamentale con il rene policistico infantile che notoriamente lascia il profilo dell’organo normale. Il colore delle cisti dipende dal loro contenuto che può essere sieroso, ematico oppure torbido a seconda delle complicanze emorragiche o infettive che possono presentarsi in corso di malattia.

Al taglio la superficie di sezione evidenzia la caratteristica distribuzione delle cisti sferiche sia in zona corticale che in zona midollare dell’organo a differenza del rene policistico infantile in cui le dilatazioni cistiche hanno aspetto fusiforme e sono presenti prevalentemente nella midollare (6).

Le scoperte genetiche e molecolari dagli anni ‘90 in poi hanno contribuito all’interpretazione del quadro istologico del rene policistico. La scoperta della struttura del cilium primario e delle policistine come suoi componenti fondamentali ha aiutato a comprendere il fatto che le formazioni cistiche nascono da tutti i tratti del nefrone a differenza del rene policistico infantile in cui tutto è limitato ai dotti collettori (7). Tale quadro è stato anche dimostrato con l’utilizzo istologico delle lectine per il riconoscimento della natura delle cellule che compongono le cisti (8). Pertanto al microscopio ottico la parete cistica è costituita da cellule epiteliali provenienti da qualsiasi tratto del nefrone con modificazioni dovute alla compressione da parte del liquido contenuto nella cisti. A volte si possono trovare anche formazioni papillari che devono essere valutate attentamente per l’eventualità di una probabile degenerazione neoplastica (6).

Si deve assolutamente aggiungere che le cisti possono nascere anche in prossimità del glomerulo da una dilatazione cistica dello spazio di Bowman che ovviamente pone serie difficoltà alla diagnosi differenziale con un’eventuale patologia glomerulocistica come spesso raccomandava Jay Bernstein (9).

Il secondo reperto istologico fondamentale della parete cistica è la presenza di gradi variabili di infiammazione e fibrosi che contribuiscono alla nota prognosi della malattia con progressiva insufficienza renale a differenza del rene a spugna midollare.

Ormai è constatato che il problema genetico delle policistine, con conseguente malfunzionamento del cilium primario, provoca un alterato flusso di ioni calcio all’interno della cellula tubulare che a sua volta mediante molteplici segnali porta ad una risposta abnormale all’AMP ciclico che a sua volta insieme all’attivazione di numerosi recettori attiva la proliferazione dell’epitelio. Così si ha la formazione delle cisti che ovviamente da sola non può spiegare il percorso clinico della malattia (7).

Negli ultimi anni la ricerca sulle cause della fibrosi presente nella parete delle cisti e nel parenchima residuo del rene policistico dell’adulto ha dimostrato il ruolo fondamentale dei macrofagi presenti nell’infiltrato infiammatorio e ovviamente delle molecole proinfiammatorie coinvolte nel loro richiamo e attivazione.

Pertanto molecole come MCP-1 (monocyte chemoattractant molecule-1) che richiama i macrofagi nella parete cistica ma anche TNF-a (Tumor Necrosis Factor) e interleuchina-1 e 6 sono presenti in quantità aumentata nel liquido cistico a dimostrazione del loro fondamentale ruolo proinfiammatorio e soprattutto nell’instaurazione della fibrosi che determina la progressiva perdita della funzionalità renale (7).

E’ ormai constatato che in tutte le patologie renali la fibrosi rappresenta il parametro istologico classico che correla con la progressione di malattia e la perdita della funzionalità dell’organo.

Anche nella malattia policistica la fibrosi della parete cistica e del parenchima residuo spiega l’andamento clinico in analogia a patologie cistiche come la nefronoftisi e a differenza di situazioni come il rene a spugna midollare con prognosi completamente diversa.

Lo studio istopatologico del rene policistico ha storicamente contribuito alla spiegazione dell’affascinante patogenesi di questa malattia e rimane un potenziale metodo di indagine per la valutazione futura delle recenti terapie proposte.

 

Epidemiologia

La conoscenza della malattia nella comunità scientifica è abbastanza recente, le prime segnalazioni della malattia risalgono al 1500 (epoca in cui fu imbalsamato il re di Polonia Bathory e riscontrata la presenza di reni “grandi come quelli di un bue”) (10) fino allo studio di Dalgaard del 1957 (11) ed a quello della Mayo Clinic in Olmsted County del 1983 (12). Ambedue questi studi riportano una prevalenza della malattia nella popolazione generale di 1 a 1000 che rappresenta il dato più riportato in letteratura fino ad oggi. Negli anni successivi altri studi hanno riscontrato diversi tassi di prevalenza, probabilmente dovuti alle differenze nelle tipologie degli studi e delle popolazioni prese in considerazione (Tabella 1). Una recente review epidemiologica condotta in Europa (13) riporta una prevalenza di 3,96 casi ogni 10.000 abitanti, quindi in Italia circa 25.000 soggetti sono affetti da ADPKD.

Meno conosciute sono le manifestazioni iniziali della malattia che portano il paziente all’osservazione del medico e la presa in carico dei pazienti (referral). I dati dell’USRDS indicano come negli ultimi anni sia progressivamente aumentata la durata della presa in carico da parte del nefrologo del paziente con ADPKD (57,9% superiore a 12 mesi prima dell’ESRD rispetto al 48,1% del 2010) con conseguente miglioramento della gestione predialitica del paziente. Analogamente lo studio di Helal et al. (14) aveva dimostrato come la diagnosi precoce migliorava la sopravvivenza e ritardava l’inizio del trattamento sostitutivo.

Pochi studi hanno indagato il referral dei pazienti con ADPKD. Thong e coll. (15) in uno studio retrospettivo condotto su 210 pazienti afferenti al PKD center di Sheffield (follow-up medio di 14 anni) hanno indagato le principali manifestazioni cliniche che hanno determinato la diagnosi di malattia. Il 37% dei pazienti giungeva alla diagnosi per familiarità mentre il 31% per sintomi clinici come l’ematuria e le infezioni urinarie. Il 19% a seguito di dolore cronico ed il 13% durante accertamenti per l’ipertensione arteriosa. Recentemente sono stati presentati i dati risultanti da una survey condotta su 730 pazienti (16), di età media 53 anni, in cui i principali sintomi che portavano alla diagnosi erano rappresentati dall’ipertensione, dall’ematuria, dalle infezioni delle vie urinarie e dalla familiarità. Altro importante sintomo era il dolore cronico (prevalentemente addominale). Un’altra survey (17) ha identificato le principali carenze conoscitive nell’ADPKD sulla base di un’intervista condotta su 74 nefrologi distribuiti sul territorio nazionale. I risultati dello studio hanno evidenziato importanti differenze di approccio alla malattia da parte dei diversi centri contattati.

 

Manifestazioni renali iniziali

La prima manifestazione renale che si riscontra nella malattia policistica è rappresentata dal difetto di concentrazione urinaria. Gabow (18) aveva dimostrato l’incapacità a concentrare le urine in un gruppo di pazienti con ADPKD rispetto a familiari non affetti. Tutti i pazienti presentavano una funzione renale nei limiti e tutti erano sottoposti ad ecografia renale per valutarne le dimensioni. I risultati confermavano una significativa correlazione inversa tra volume renale e osmolarità urinaria. Gli autori ipotizzavano un’alterazione della normale architettura anatomica dovuta alla formazione delle cisti nella midollare con conseguente difetto del meccanismo controcorrente (ridotto gradiente osmotico) e incapacità a concentrare le urine. Data la precocità di insorgenza del difetto, ancor prima che si sviluppi una grossolana alterazione strutturale, gli autori non escludono una concomitante resistenza alla vasopressina.

Boertien (19) ha ipotizzato che la ridotta capacità di concentrazione delle urine comporterebbe un incremento della secrezione di vasopressina per mantenere il bilancio dei liquidi e l’osmolalità plasmatica entro i livelli normali. A sua volta la vasopressina interagendo con i recettori V2 delle cellule del dotto collettore, provocherebbe un aumento dell’AMP ciclico intracellulare che porterebbe alla proliferazione cellulare e all’aumentata secrezione intracistica di cloro e sodio. Come risultato, si instaurerebbe un circolo vizioso che predisporrebbe alla formazione delle cisti, alla loro crescita e alla perdita della funzione renale.

Meijer et al (20) in uno studio condotto su 103 pazienti, età media 27±5 anni, GFR 117±32 ml/min (misurato con iotalamato) hanno riscontrato, oltre a una ridotta osmolarità delle urine, una riduzione del flusso plasmatico effettivo con un’aumentata frazione di filtrazione. Gli autori hanno ipotizzato che questi parametri potevano essere il risultato di un’alterata emodinamica legata alla vasocostrizione dell’arteriola efferente. Queste alterazioni sarebbero responsabili dell’iperfiltrazione, in grado di mantenere il filtrato glomerulare inalterato per molto tempo anche a fronte della progressiva riduzione del parenchima renale funzionante.

L’escrezione di ammonio nelle urine è un processo complesso che richiede dapprima una secrezione apicale nel tubulo prossimale, un riassorbimento attivo nel tratto spesso ascendente dell’ansa di Henle (Na/K/2 Cl cotrasportatore), la concentrazione controcorrente nella midollare renale e la secrezione nel tubulo collettore. Torres (21) ha dimostrato che l’escrezione di ammonio dopo un carico di NH4Cl è minore nei pazienti con ADPKD e funzione renale normale. Gli autori non escludono la presenza di un’alterata polarità delle cellule tubulari, di una secrezione basolaterale stimolata dall’angiotensina II, di una polarità inversa del cotrasportatore e di un’alterata architettura della midollare renale con alterazione del meccanismo controcorrente. Le ripercussioni della ridotta escrezione sono l’accumulo di ammonio nell’interstizio (l’ammonio è in grado di reagire con il complemento e determinare un danno interstiziale), la progressione della crescita delle cisti, la formazione di calcoli (basso pH urinario e ridotta escrezione di citrato).

 

Ipertensione arteriosa

Già nelle manifestazioni iniziali della malattia diversi autori (22, 23) avevano osservato un’elevata percentuale di pazienti ipertesi, anche in età pediatrica. Torres aveva riscontrato come la curva pressione-natriuresi nei pazienti con ADPKD e GFR normale fosse spostata a destra rispetto ai controlli sani. Successivamente Chapman ha dimostrato che l’attività reninica plasmatica è maggiore nei pazienti ADPKD ipertesi rispetto ai pazienti con ipertensione essenziale. Un interessante studio pubblicato nel 1988 (24) da Graham ha dimostrato, mediante studi di immunoistochimica effettuati su reni policistici, un’iperplasia dell’apparato iuxtaglomerulare con un aumento significativo delle cellule contenenti renina, fino a 20 cellule per sezione (mentre nel rene normale si riscontrano mediamente circa 6 cellule per singola sezione). Queste osservazioni hanno portato alla conclusione che il meccanismo principale in grado di provocare l’instaurarsi dell’ipertensione arteriosa nei pazienti con ADPKD fosse l’attivazione del sistema Renina-Angiotensina intrarenale, probabilmente secondario alla compressione dei vasi renali da parte delle cisti renali, che provocherebbe un’ischemia renale in grado di stimolare le cellule dell’apparato iuxtaglomerulare a produrre renina. Gabow (25) ha riscontrato che i soggetti ipertesi presentavano un volume renale maggiore rispetto ai normotesi. I due gruppi erano sovrapponibili per età (media 32 anni) e GFR (100 ml/min/ 1.73m2). Erano definiti ipertesi pz con PA > 150/90 mmHg o storia di terapia antiipertensiva. Il volume renale era 624±47 cm3 negli ipertesi vs 390±43 cm3 dei normotesi (maschi), 466 ±32 cm3 vs 338±24 cm3 nelle femmine.

Schrier (26) ha suggerito che la patogenesi dell’ipertensione arteriosa nei pazienti ADPKD sia multifattoriale. Oltre ai già identificati fattori legati all’attivazione del SRA, si instaurerebbe anche uno sbilanciamento dei fattori vasoattivi (endotelina e ossido-nitrico). Inoltre l’angiotensina contribuisce alla crescita delle cisti e stimolando il TGF-beta favorisce la fibrosi renale. E’ stata dimostrata la stretta correlazione tra ipertensione arteriosa e aumento della massa cardiaca (27). I principali fattori sarebbero l’azione proliferativa dell’Angio II, l’insulino resistenza (l’insulina è un mitogeno), l’assenza del calo pressorio notturno (non dipper). Nel 2002 Schrier ha pubblicato i risultati di uno studio prospettico e randomizzato in cui i pazienti, seguiti per 7 anni, erano assegnati a terapia con ACE-inibitori o calcio antagonisti per ottenere valori pressori intorno a 135-140/85-90 mmHg nel primo gruppo e 120/80 mmHg nel secondo. Entrambi i farmaci erano in grado di far regredire l’ipertrofia cardiaca ma per gli stessi valori pressori i risultati erano superiori nei pazienti che assumevano ACE-inibitori (28).

Una conferma del ruolo dell’ipertensione nell’aumentare la massa cardiaca è fornita anche dal trial prospettico (29), che ha osservato 85 soggetti bambini e giovani (dai 4 ai 21 anni) per un periodo di 5 anni. I risultati evidenziano un sensibile incremento del LVMI e del volume renale nei soggetti ipertesi rispetto ai normotesi. Le stesse conclusioni erano riportate dallo studio CRISP (30), 241 pz seguiti per 3 anni, funzione renale basale valutata con iotalamato, creatinina <1,6 mg/dl nei M, <1,4 mg/dl nelle F, età media 15-46 aa, F-up 3 anni. Le dimensioni renali ed il flusso ematico renale sono state misurate con RMN e gadolinio. Sia il volume renale totale che il volume delle cisti e quello non cistico risultavano aumentati nei soggetti ipertesi.

Nel 2011 Patch C et al. (31), ha pubblicato i risultati di uno studio effettuato su 1887 pazienti affetti da ADPKD e registrati sul General Practice Research Database (United Kingdom) dal 1991 al 2008. I risultati dello studio hanno dimostrato che un miglior controllo pressorio, ottenuto nel corso degli anni utilizzando un maggior numero di farmaci antiipertensivi, era associato ad una riduzione della mortalità. Tra tutte le categorie di farmaci utilizzati, la più bassa incidenza di morte era associata all’uso di ACE inibitori e diuretici.

Alle stesse conclusioni giunge lo studio retrospettivo di Helal (14) effettuato su 837 pazienti seguiti presso il centro ADPKD dell’Università di Colorado. Nello studio vengono messi a confronto i dati di due periodi di osservazione: 1961-1990 (225 pz) e 1991- 2011 (612 pz). I pazienti del secondo periodo si caratterizzavano per una diagnosi precoce, per un migliore filtrato glomerulare alla prima osservazione, per un miglior controllo pressorio e per un intervallo nascita-morte sensibilmente superiore rispetto ai pazienti del primo periodo (63,3 anni vs 57,2). Anche in questo caso nei pazienti del secondo periodo si evidenziava un maggior utilizzo di farmaci ACE-inibitori (42,5% vs 13,6).

Recentemente sono stati pubblicati due lavori (32, 33) che hanno valutato il ruolo del controllo della pressione arteriosa con ACE-inibitori e Sartani nella progressione del rene policistico, nell’ambito di un trial randomizzato, doppio cieco, controllato con placebo, multicentrico, follow-up di 5-8 anni (HALT PKD trial). Lo studio è stato effettuato su due gruppi di pazienti: studio A, 588 pz con età compresa tra 15-49 anni e GFR > 60 ml/min e confronto tra un controllo standard della PA (≤ 130/80 mmHg) vs rigoroso (≤ 110/70 mmHg) e studio B, 486 pz con età compresa tra 18 e 64 anni, GFR 25-60 ml/min e con controllo standard della PA.

I risultati evidenziavano che nello studio A la percentuale di incremento del TKV era inferiore nel gruppo con controllo rigoroso della PA (5,6 vs 6,6%) rispetto a quello standard. Non differenze significative tra i diversi farmaci (ACE/ARB vs ACE/placebo). Non risultavano differenze significative nel declino del GFR tra i due gruppi a 5 anni. La proteinuria si riduceva maggiormente nel gruppo con bassi valori pressori così come la massa ventricolare.

Nello studio B non si evidenziavano differenze nell’outcome composito (morte, ESRD o la riduzione di oltre il 50% del GFR basale) tra i due diversi gruppi di pazienti che assumevano l’associazione ACE-i + sartani o quelli con solo ACE-i.

I risultati degli studi confermano quindi l’importanza di un accurato e rigoroso controllo pressorio per rallentare il declino della funzione renale. L’utilizzo di un’associazione farmacologica, in particolare ACE + sartani, non si è dimostrata superiore rispetto al controllo pressorio ottenuto con i soli ACE-inibitori.

 

Progressione della malattia renale

Lo studio MDRD (34), un importante trial che ha valutato l’impatto di diversi regimi dietetici e livelli pressori sulla progressione delle malattie renali, ha identificato i principali fattori in grado di accelerare la progressione della malattia policistica: l’aumento della creatinina sierica e della proteinuria, l’ipertensione arteriosa e la giovane età, il sesso maschile. Nei 200 pazienti osservati per un f-up medio di 2,2 anni, il declino del GFR (espresso come clearance dello iotalamato) nel gruppo di pazienti con età compresa tra 40 e 49 anni, era di 5,9 ml/min/anno rispetto a 4,4 ml/min/anno nei pazienti con età compresa tra 50 e 59 anni. Ambedue i valori del declino del GFR erano nettamente superiori rispetto a quelli osservati nelle nefropatie non policistiche. Inoltre, non si sono osservate differenze significative nella progressione della malattia nei pazienti con regime dietetico a basso contenuto proteico né in quelli con valori pressori inferiori a quelli usuali.

Anche nello studio retrospettivo effettuato in una popolazione di 157 pazienti afferenti al Necker (35) la riduzione del GFR ( stimato con la formula di Cockcroft and Gault) era di 5,8 ml/min/anno (nel gruppo di 109 pazienti che giungevano alla dialisi in un f-up medio di 6,7 anni) rispetto a 5,3 ml/min/anno (nel gruppo di 48 pazienti che non raggiungevano l’ESRD). L’analisi multivariata identificava come fattori di rischio di progressione la pressione arteriosa, l’età e il genere (anche se complessivamente questi fattori influenzavano la progressione solo per il 18%).

Franz e Reubi (36) hanno studiato la velocità di perdita della funzione renale in 44 pz con ADPKD, misurando il GFR con 51 Cr-EDTA (o clearance dell’inulina) ed flusso plasmatico renale con C-PAH. Hanno dimostrato che la riduzione del GFR correlava con l’aumento dell’età dei pazienti ed era associato alla riduzione del flusso plasmatico. Inoltre è stato riscontrato in circa la metà dei pazienti un incremento della frazione di filtrazione. I dati dimostrerebbero che nella maggior parte dei pazienti la funzione renale rimarrebbe preservata per un lungo periodo per poi ridursi abbastanza rapidamente dopo i 40 anni giungendo all’ESRD in circa 10 anni.

Successivamente anche altri Autori hanno confermato questi dati. Grantham (37) ha evidenziato nei 243 pazienti dello studio CRISP (Consortium of Radiologic Imaging Studies of Polycystic Kidney Disease), tutti sottoposti alla misurazione del volume renale mediante RMN, una stretta correlazione inversa tra volume renale e GFR (clearance dello iotalamato). L’incremento del volume era intorno al 5,3% l’anno e quando raggiungeva un volume superiore a 1500 ml il GFR si riduceva di circa 4,3 ml/min/anno. Nei 185 pazienti in cui era stata determinata la mutazione genetica si assisteva ad una velocità di crescita del volume renale maggiore nei pazienti con genotipo PKD1 rispetto al PKD2, nell’arco dei tre anni di osservazione. Anche la riduzione del filtrato glomerulare, misurato con lo iotalamato, era maggiore nel tipo 1 ma non raggiungeva la significatività statistica.

Higashihara et al. (38) ha osservato 255 pazienti (f-up mediana 3,3 anni) e ha riscontrato una stretta correlazione tra l’età e il GFR iniziale (stimato con una formula modificata della MDRD). Lo slope annuo del GFR era -3,4 ml/min e non differiva significativamente tra i diversi stadi della CKD (valutati all’inizio del f-up) e tra le diverse classi di età.

Questi risultati mettono in discussione l’ipotesi dell’iperfiltrazione sostenuta in altri lavori (vedi Franz e Reubi) e che sarebbe responsabile del mantenimento del GFR entro valori normali per molti anni, seguito poi da un rapido declino nell’ultimo decennio. Probabilmente diversi fattori, oltre alla crescita progressiva delle cisti, si manifesterebbero nel corso del tempo e potrebbero contribuire al declino del GFR (infiammazione, apoptosi e fibrosi nel tessuto parenchimale sano adiacente alle cisti, infezioni e fenomeni ostruttivi sui tubuli) (39).

La storia naturale della malattia è stata indagata da Thong (40) che ha valutato pazienti con ADPKD seguiti presso lo Sheffield Kidney Institute, giunti all’ESRD dopo almeno 5 anni di f-up (113 pz, f-up medio 11,3 anni, età media 42,6 anni) e confrontati con un gruppo di pazienti che non raggiungevano l’ESRD (88 pz, f-up medio 13,9 anni, età media 38,9 anni). Nel primo gruppo il declino del GFR (stimato con la formula MDRD) risultava di 4,19 ml/min/1,73 m2/anno rispetto a 1,71 ml/min/1,73 m2/anno del secondo gruppo. Tale differenza si manteneva significativa anche confrontando i periodi precedenti fino a 20 anni di f-up. Tra le caratteristiche cliniche indagate nel gruppo che non raggiungeva l’ESRD vi erano la familiarità nel 78,6% dei casi, il 37,6% erano asintomatici mentre il 18,6% presentava dolore lombare o addominale come prima manifestazione. L’ipertensione si manifestava nel 70%, ematuria nell’11%, proteinuria nel 5,7% e UTI nel 27% dei casi. I principali fattori di progressione erano rappresentati dalle dimensioni renali e dall’età alla diagnosi, mentre il genere, l’ipertensione, l’ematuria e la proteinuria non risultavano significativamente correlati con il declino del GFR.

Lo studio CRISIS (Chronic Renal Insufficiency Standards Implementation Study) (41) ha osservato 1316 pazienti con diverse malattie renali croniche, con un follow-up di almeno 12 mesi (mediana 33 mesi) e ha valutato il tasso di progressione della malattia renale mediante il declino del GFR stimato con la formula CKD-EPI. Nel gruppo di pazienti con ADPKD (6,2%) si osservava una riduzione mediana del GFR di -4,36 ml/min/anno, che rappresentava una perdita media di 2,7 ml/min/anno più rapida rispetto ai pazienti con glomerulonefrite (mentre nei pazienti con nefropatia diabetica il GFR si riduceva di 1,69 ml/min/anno).

Un recente studio retrospettivo, condotto sui dati disponibili del registro USA di dialisi (42) ha indagato l’incidenza di ESRD nell’ADPKD confrontando due intervalli di tempo: 2001-2005 versus 2006-2010. I risultati hanno evidenziato che l’incidenza di ESRD rimaneva immodificata nei due periodi considerati (IR: 1.02) a fronte di un aumento del referral negli anni più recenti (circa il 48% dei pazienti veniva seguito dal nefrologo almeno 12 mesi prima dell’inizio della dialisi). L’età media dei soggetti al momento dell’ESRD era di 55 anni.

 

Fattori di Progressione

Il principale fattore di progressione nella malattia policistica, che ha ricevuto la massima attenzione nella letteratura scientifica, si è rilevato essere il volume renale. Secondo lo studio CRISP, la misurazione del volume renale, misurato con tecniche ultrasonografiche, radiologiche o con la RMN (senza l’utilizzo del gadolinio) sarebbe in grado di predire l’evoluzione della malattia e anche la comparsa dell’insufficienza renale. Nel lavoro di Chapman (43) dopo un f-up medio di 8 anni oltre il 30% dei pazienti raggiungeva il 3°stadio CKD. Il principale predittore era un volume basale corretto per l’altezza (ht/TKV)≥ 600 ml/m.

Anche le principali complicanze legate al rene policistico sono correlate al volume renale. Grantham (44) aveva dimostrato, infatti, che, oltre alla riduzione progressiva del GFR, l’ipertensione, la proteinuria e gli episodi di macroematuria sono maggiormente presenti nei soggetti con volume renale elevato.

Il gruppo della Mayo Clinic ha proposto un modello di progressione basato sulla misurazione del TKV ottenuto con la RMN o la TC. Il TKV si ricava dall’equazione ellissoide e poi viene corretto per l’altezza del paziente mentre il GFR è stimato con la formula CKD-EPI.

Nello studio di Irazabal (45) sono stati utilizzati pazienti dello studio CRISP (f-up medio 9 anni) e pazienti della Mayo Clinic (f-up medio 6 anni). La familiarità era intorno all’80% in entrambi i gruppi. Sulla base delle correlazioni tra volume renale in rapporto all’età del paziente sono state individuate 5 sottoclassi di pazienti: 1A: < 1,5% di crescita volume annuale, 1B: 1,5-3%, 1C: 3-4,5%, 1D: 4,5-6%,1E: >6%. Inoltre è stato possibile stimare la perdita annua del filtrato a seconda della classe di appartenenza (da -0,23 a – 4,78 ml/min/anno nei maschi, da -0,03 a -4,58 nelle femmine).

Dopo circa 4 anni il 13,5% dei pz in classe 1 A passava a B e circa lo stesso avveniva per le altre classi, quindi è necessaria una rivalutazione del volume ogni 3-5 anni. Questo modello si applica meglio per trials clinici piuttosto che nell’utilizzo comune.

La recente review di Schrier (46) ha identificato i principali predittori di progressione nel rene policistico. Oltre ai già esaminati aumento del volume renale ed ipertensione arteriosa vengono inclusi: la mutazione PKD 1 (in particolare la mutazione troncante), il sesso maschile, la familiarità per ESRD prima dei 55 anni, la comparsa di ipertensione prima dei 35 anni di età, episodi di macroematuria e nelle donne tre o più gravidanze, la presenza di proteinuria ed elevati livelli di copeptina. Altri fattori sono stati considerati, come l’iperfiltrazione glomerulare, presente soprattutto nei giovani pazienti, che correla con un più rapido incremento del volume renale ed un più rapido declino del GFR rispetto ai pazienti che non presentano iperfiltrazione (47).

Il ruolo delle mutazioni genetiche nella progressione della malattia è oggetto di studio, dato che ancora poco si conosce sulle correlazioni genotipo-fenotipo. E’ stato ipotizzato che il livello circolante di policistina sia cruciale per l’espressione fenotipica (48). Al disotto della soglia critica si sviluppano le cisti. Il raggiungimento di tale soglia può dipendere da una combinazione di fattori: mutazione somatica, varianti geniche, espressione stocastica, fattori ambientali come un danno acuto (49).

Cornec-Le Gall e coll. dell’Università di Brest hanno condotto il trial Genkyst (50) e hanno pubblicato i dati di 741 pazienti. Hanno confermato che la sopravvivenza renale associata al genotipo PKD2 era mediamente 20 anni più lunga (ESRD a 79 anni) rispetto ai pazienti con genotipo PKD1. In particolare quest’ultimi, se presentavano la mutazione troncante giungevano all’ESRD a 55 anni rispetto ai pazienti con mutazione non troncante in cui l’ESRD si manifestava a circa 67 anni. Lo stesso autore, successivamente, ha presentato un modello predittivo ricavato dall’analisi dei dati di 1341 pazienti dello studio Genkyst (51).

L’analisi multivariata ha individuato 4 variabili indipendenti: sesso, ipertensione prima dei 35 anni, evento urologico prima dei 35 anni, genetica. Ad ogni variabile individuata è stato assegnato un valore numerico: sesso M = 1 F = 0; Ipertensione < 35 anni NO = 0 SI = 2; Evento urologico < 35 anni: NO = 0 SI = 2; Mutazione PKD2 = 0; PKD1 non troncante = 2; PKD2 troncante = 4. Sono stati identificati tre livelli di rischio di progressione: basso (score 0-3), medio (score 4-6), alto (score 7-9) con la corrispondente età mediana di ESRD rispettivamente a 70.6, 56.9 e 49 anni. La mediana del declino del GFR (stimato con la formula MDRD) corrispondeva a 2 ml/min/anno nel primo gruppo, 3,4 ml/min/anno nel gruppo intermedio e di 4,4 ml/min/anno nel gruppo ad alto rischio. E’ ovvio che tale score sia applicabile solo a pazienti con età superiore a 35 anni. In caso contrario ed in assenza di eventi urologici / ipertensione si può ricorrere solo al test genetico.

Recentemente sono stati identificati e valutati diversi biomarkers sierici ed urinari che potrebbero rappresentare validi indicatori di progressione in associazione al TKV e/o declino del GFR. Come già riportato, una delle alterazioni precoci della ADPKD è la ridotta capacità di concentrazione delle urine. Il test della deprivazione dell’acqua con misurazione della concentrazione delle urine potrebbe essere utilizzato per valutare la gravità della malattia. Altri biomarkers emergenti sono rappresentati da prodotti del metabolismo (apolipoproteine, acido urico, Klotho), dell’infiammazione (MCP-1, Interleukina IL-18), proliferazione (HB-EGF), danno tubulare (KIM1, NGAL). In particolare gli esosomi potrebbero aver nel futuro un importante ruolo prognostico. Queste vescicole rilasciate dalla membrana plasmatica delle cellule contengono proteine, metaboliti, RNA che sono coinvolti nella comunicazione intercellulare. Nei pazienti con ADPKD sono stati riscontrati livelli ridotti di PC1 e PC2 negli esosomi urinari con associata sovraespressione di peptidi come periplakine, envoplakine, Villin1 e complemento (52).

La proteinuria è considerata un importante indicatore prognostico nella CKD. Nei pazienti con ADPKD è raro riscontrare una proteinuria > 1 g/die e in tali casi si dovrebbe ipotizzare la coesistenza di una malattia glomerulare. Negli studi HALT e TEMPO 3:4 è stata riscontrata una riduzione significativa dell’ACR (Albumin-to-Creatinine Ratio) nei soggetti sottoposti ad un più rigoroso controllo pressorio e nei pazienti in terapia con Tolvaptan indipendentemente dai valori pressori e dall’utilizzo di ACE inibitori (53). Le altre manifestazioni renali sono riportate in Tabella 2.

 

Conclusioni

Il rene policistico rappresenta per il nefrologo la sfida dei prossimi anni. Con l’avvento di terapie in grado di rallentare l’evoluzione della malattia, attraverso l’interazione con i meccanismi molecolari implicati nella secrezione e proliferazione delle cellule tubulari, il principale compito del nefrologo sarà quello di individuare precocemente le manifestazioni della malattia ed i soggetti a maggior rischio di progressione. Inoltre sarà necessario trattare adeguatamente l’ipertensione arteriosa che oltre a contribuire alla progressione rappresenta un importante fattore di rischio cardiovascolare.

 

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