Abstract
Il diabete rappresenta una malattia in continua espansione. L’aumento dell’incidenza e della prevalenza di questa patologia in tutto il mondo si associa ad un aumento della frequenza delle complicanze, specie nei paesi industrializzati, ove il diabete rappresenta la causa più frequente di malattia renale cronica. Ampi studi prospettici randomizzati hanno dimostrato che la gestione intensiva del diabete, con l’obiettivo di raggiungere valori glicemici quanto più possibile vicini alla normoglicemia, è in grado di ritardare l’insorgenza di microalbuminuria e la progressione del danno renale nei pazienti con diabete tipo 1 e tipo 2. Tuttavia molto meno chiaro è il ruolo dello stretto compenso glicemico nei pazienti diabetici con insufficienza renale avanzata e in dialisi. In aggiunta nel paziente nefropatico diabetico la terapia con ipoglicemizzanti orali deve essere attentamente e periodicamente monitorata poiché il declino della funzione renale al di sotto dei 60 ml/min di filtrato glomerulare può determinarne molteplici alterazioni farmacocinetiche ed esporre il paziente a gravi effetti collaterali (ipoglicemia in primis) qualora non se ne consideri una prudente riduzione di dose o addirittura la sospensione. Le attuali evidenze sembrano suggerire, la metformina come farmaco di prima scelta per i casi con insufficienza renale moderata ed in alternativa o in associazione i DPP4-inibitori, che possono essere utilizzati anche nei pazienti con insufficienza renale terminale o in dialisi, e che hanno il vantaggio di essere neutri sul peso e di non indure ipoglicemie oltre ad avere studi effettuati ad hoc in questa popolazione. Particolare attenzione va posta con l’utilizzo dei secretagoghi glucosio indipendenti, repaglinide compresa, per il rischio ipoglicemico e per la mancanza di studi con questi farmaci. Infine anche la terapia insulinica gioca un ruolo importante nella terapia dell’iperglicemia in corso di insufficienza renale, ma è assolutamente necessario uno stretto monitoraggio glicemico al fine di ridurre le ipoglicemie.
Introduzione
Il diabete mellito (DM) è una delle patologie maggiormente diffuse a livello mondiale. Secondo l’OMS nel giro di 35 anni, l’incidenza del diabete è quasi quadruplicata, passando dai 108 milioni di persone con diabete del 1980 ai 422 milioni del 2014 [1]. I dati dell’International Diabetes Federation (IDF) relativi al 2014 stimano che la malattia colpisce oltre 415 milioni di persone che sono destinate ad aumentare a 642 milioni nel 2025 [2]. In Italia i dati più recenti stimano una prevalenza del diabete intorno al 6,2%, dato più che doppio rispetto a quello di 30 anni fa [3]. L’aumento dell’incidenza e della prevalenza del diabete mellito in tutto il mondo si associa ad un aumento della frequenza delle complicanze, specie nei paesi industrializzati, ove il diabete rappresenta la causa più frequente di malattia renale cronica (CKD). Le stime attestano che circa un terzo dei pazienti diabetici svilupperà CKD [1].
La combinazione di iperglicemia, ipertensione e dislipidemia, molto frequente nel DM tipo 2, conduce a una prevalenza di CKD in circa il 40% dei pazienti [4]. Dati australiani, hanno evidenziato che il 47% dei pazienti con DM tipo 2 era da considerarsi affetto da CKD [5].
Anche lo studio italiano RIACE ha confermato questi risultati: in una coorte di 15.773 diabetici di tipo 2, il 18,7% presentava elevata microalbuminuria senza riduzione della funzione renale e il 18,8% presentava una velocità di filtrazione glomerulare stimata (eGFR) < 60 ml/min/1,73 m2. Nei pazienti con ridotta funzione renale il 56% era normoalbuminurico, il 30,8% era microalbuminurico e il 12,6% con macroalbuminuria [6].
Un adeguato controllo glicemico è di grande importanza nel paziente diabetico nefropatico. Diversi studi nel DM tipo 1, come il DCCT [7] (full text), e nel DM tipo 2, come lo UKPDS [8] e l’ADVANCE [9] (full text), hanno chiaramente dimostrato che uno stretto controllo glicemico può ridurre il rischio e/o la progressione di danno renale nei pazienti diabetici. Anche in fase di insufficienza renale più avanzata sembra che controllo glicemico sia importante, in quanto riduce il rischio di altre complicanze diabetiche (neuropatia, retinopatia, macroangiopatia). Inoltre, è stato recentemente osservato che nei pazienti diabetici in emodialisi un adeguato controllo della glicemia si associa ad un ridotto rischio di mortalità [10]. È interessante notare come il beneficio di un controllo glicemico prolungato perduri anche quando i pazienti non sono più sotto stretto controllo glicemico. Infatti, lo studio EDIC (follow-up del DCCT) [11] (full text) e il follow-up dell’UKPDS [12] (full text) hanno dimostrato che i pazienti con un controllo glicemico intensivo durante lo studio avevano un minor rischio di sviluppare sia micro che macroalbuminuria.
La presenza di insufficienza renale cronica influenza la scelta della terapia ipoglicemizzante: nel DM tipo 1 modificando il fabbisogno insulinico e nel DM tipo 2 rendendo necessaria la sospensione di alcuni ipoglicemizzanti orali e l’eventuale passaggio alla terapia insulinica.
In aggiunta i pazienti diabetici con CKD dallo stadio 3 allo stadio 5 hanno un aumentato rischio di ipoglicemia legato alla ridotta clearance della insulina e di alcuni ipoglicemizzanti orali e alla alterata gluconeogenesi renale [13].
Nello studio ACCORD, gli episodi ipoglicemici sono stati significativamente associati a un maggiore rischio di mortalità cardiovascolare, soprattutto nei pazienti con albuminuria o ridotta funzione renale [14] (full text). Appare quindi essenziale nel paziente con malattia renale cronica evitare il più possibile gli episodi ipoglicemici. Di qui la necessità di adeguare l’obiettivo glicemico di questi pazienti personalizzando il target di emoglobina glicata in base al grado di insufficienza renale, alla presenza di altre patologie concomitanti, alla dura di malattia ed al rischio ipoglicemico [15].
Nel paziente diabetico con CKD iniziale (stadio 1-2), non vi sono sostanziali limitazioni all’utilizzo delle diverse classi di agenti ipoglicemizzanti. Negli stadi di malattia 3-5, viceversa, la scelta della terapia deve essere attenta tenendo in considerazione le diverse caratteristiche dei diversi farmaci [16]. Un ulteriore aspetto da considerare quando si parla del trattamento ipoglicemizzante nel paziente con diabete e CKD è che spesso vi sono divergenze di opinione e raccomandazioni differenti tra le diverse linee guida nelle indicazione all’utilizzo dei farmaci.
In questo articolo verrà esaminato l’utilizzo dei farmaci ipoglicemizzanti orali oggi disponibili e dell’insulina nei pazienti affetti da DM tipo 2 e CKD.
La terapia del paziente con diabete ed insufficienza renale cronica
Gli approcci farmacologici al trattamento del DM2 comprendono i farmaci ipoglicemizzanti orali tradizionali (insulino-sensibilizzanti, insulino-secretagoghi e farmaci inibitori dell’assorbimento intestinale del glucosio), i farmaci incretinici (sia orali che iniettivi), gli inibitori del riassorbimento tubulare del glucosio (SGLT2 inibitori) e, laddove tali farmaci siano insufficienti o controindicati, la terapia insulinica (Figura 1).
Farmaci insulino-sensibilizzanti
Metformina
Il meccanismo d’azione della metformina coinvolge prevalentemente la riduzione della produzione epatica di glucosio [17]. In considerazione della confermata efficacia in monoterapia, del basso profilo di rischio per effetti collaterali e del bassissimo costo, la metformina resta il farmaco di prima scelta per il DM tipo 2 in particolare nelle persone diabetiche in sovrappeso o obese [18]. Le più importanti linee-guida suggeriscono l’impiego della metformina come trattamento iniziale preferenziale, salvo controindicazioni o intolleranza. L’efficacia della metformina è dose-dipendente, raggiungendo il massimo con 2 g/die [19] ed è mantenuta anche in terapia di combinazione con gli altri farmaci ipoglicemizzanti [20]. È stata descritta la comparsa di episodi di acidosi lattica grave con un’incidenza stimata in 4,3 casi per 100.000 pazienti-anno, che controindica l’utilizzo di questo farmaco in pazienti a rischio di insufficienza renale acuta (intervento chirurgico, utilizzo di mezzo di contrasto iodato) o con insufficienza renale cronica. Il farmaco, che è escreto immodificato a livello renale, è utilizzabile, secondo numerose evidenze, con cautela fino a 30 ml/min/1,73 m2, purché siano attentamente considerati i fattori di rischio di peggioramento della funzione renale e sia ridotta la dose al di sotto dei 45 ml/min/1,73 m2 (Tabella 1 e Figura 2). Non ci sono evidenze da studi prospettici comparativi o da studi di coorte osservazionali che il trattamento con metformina sia associato a un aumentato rischio di acidosi lattica o ad aumento dei livelli di lattato, rispetto ad altri trattamenti antiperglicemici [21].
È importante ricordare che la metformina non causa danno renale diretto in alcun modo.
Tiazolidinedioni (glitazoni)
I tiazolidinedioni, più comunemente definiti glitazoni, sono agonisti del recettore PPARgamma (alcuni debolmente anche del PPAR-alfa), recettore nucleare presente in molti tessuti ma prevalentemente negli adipociti. Attualmente, in Europa è disponibile il solo il pioglitazone, L’efficacia massima dei glitazoni sulla glicemia è raggiunta in un tempo più lungo (4-6 settimane) rispetto ad altri farmaci. Il pioglitazone è completamente metabolizzato a livello epatico e non induce ipoglicemia [20].
Nello studio PROactive (PROspective pioglitAzone Clinical Trial In macroVascular Events) di outcome cardiovascolare, condotto in soggetti con DM tipo 2 e preesistente malattia macrovascolare, il trattamento con pioglitazone era associato con una significativa riduzione dell’endpoint composito secondario, costituito da mortalità generale, infarto miocardico non fatale e ictus in un follow-up medio di 34,5 mesi [22]. Il trattamento con pioglitazone è stato associato al rischio di sviluppare scompenso cardiaco, probabilmente secondario a ritenzione idrica [23] (full text), e questo ne controindica l’uso nei pazienti con insufficienza cardiaca o a rischio per tale complicanza. In aggiunta sono stati osservati casi di aumentato rischio di fratture ossee nelle donne [24] (full text) che deve essere preso in considerazione nella terapia a lungo termine nelle donne trattate con pioglitazone, in particolare nel periodo post-menopausale.
Il trattamento con pioglitazone è stato recentemente associato a un possibile aumentato rischio di cancro della vescica [25] [26] che ha indotto le autorità regolatorie a controindicarne l’impiego in caso di carcinoma della vescica in fase attiva o anamnesi positiva per carcinoma della vescica e in presenza di ematuria macroscopica di natura non accertata. Successivi studi epidemiologici più ampi hanno fornito dati discordanti sull’aumento di rischio [27]. I trial randomizzati nel loro complesso mostrano un trend verso la riduzione dell’incidenza complessiva di tumori, ma non hanno dimensioni sufficienti per confermare o escludere un aumento del rischio di tumori della vescica [27].
Per quanto riguarda i pazienti con CKD può essere utilizzato, senza aggiustamenti della dose sino a un eGFR di 5 ml/min/1,73 m2 (Tabella 1).
In uno studio che ha coinvolto pazienti con diabete tipo 2 dializzati il piglitazone associato alla terapia insulinica ha determinato un miglioramento del controllo glicemico ed una riduzione della dose di insulina senza determinare aumento di edema, scompenso cardiaco ed ipoglicemie[28] (full text).
L’altro farmaco appartenente alla classe dei glitazoni, il rosiglitazone, non è più disponibile per un presunto e controverso aumento del rischio d’infarto del miocardio [29] (full text).
Farmaci inibitori dell’assorbimento intestinale del glucosio (inibitori dell’alfa-glucosidasi)
Gli inibitori dell’alfa-glucosidasi, come acarbosio e miglitolo, quest’ultimo non in commercio in Italia, agendo sull’enzima che scinde i carboidrati complessi e i disaccaridi trasformandoli in monosaccaridi, ritardano l’assorbimento dei carboidrati dal tratto gastrointestinale riducendo conseguentemente le escursioni glicemiche postprandiali. L’acarbosio è un’alternativa efficace nella terapia orale del DM tipo 2, in particolare, aggiunto a metformina, determina una riduzione dell’emoglobina glicata dello 0,6-0,7% [30].
L’acarbosio, come la metformina, e al contrario di altre terapie farmacologiche, non ha effetti negativi sul peso corporeo e non causa ipoglicemie. L’acarbosio può essere associato anche all’insulina, con effetti favorevoli sul controllo glicometabolico e sul peso corporeo [31]; in questo caso, però, occorre istruire il paziente che eventuali ipoglicemie non dovranno essere corrette con il saccarosio, ma con il glucosio.
Può essere utilizzato in pazienti con insufficienza epatica e con insufficienza renale sino a un eGFR >25 ml/min/1,73 m2 (Tabella 1). Può provocare effetti collaterali gastrointestinali (diarrea, flatulenza) che spesso interferiscono sull’adesione alla terapia.
Farmaci insulino secretagoghi glucosio indipendenti
Sulfoniluree
Le sulfoniluree e le glinidi esercitano la loro azione ipoglicemizzante stimolando la secrezione insulinica in modo glucosio-indipendente attraverso il legame a un recettore presente sulle beta- cellule (SulphonylUrea Receptor 1), evocando un’immediata liberazione dell’ormone dai granuli intracellulari e sostenendo un rilascio prolungato dai granuli di nuova sintesi [31] [32] In considerazione della loro azione glucosio indipendente il trattamento con sulfoniluree si associa a maggior rischio di ipoglicemie per tale motivo è essenziale nei pazienti con ridotta funzione renale utilizzare le molecole a più breve durata d’azione, in aggiunta sono caratterizzate da incremento ponderale [20] e limitata persistenza dell’efficacia poiché inducono esaurimento beta cellulare [33] (full text).
C’è da rilevare che non tutte le sulfoniluree sono uguali in termini di rischio ipoglicemico ed effetti collaterali per cui è necessario fare una distinzione tra le diverse molecole di questa classe.
Studi di confronto tra glibenclamide e altri secretagoghi (clorpropamide, glimepiride, gliclazide MR, glipizide, e repaglinide) suggeriscono che il trattamento con glibenclamide è associato a un maggior rischio di ipoglicemia, e quello con gliclazide a un rischio inferiore, rispetto ad altri secretagoghi [34] [35].
Dibattuta è la sicurezza cardiovascolare delle sulfoniluree sin dai risultati dello studio UGPD (University Group Diabetes Program), in cui la tolbutamide, non più in commercio, era associata ad un aumento di mortalità cardiovascolare [36], attribuito ad un possibile effetto miocardico diretto delle sulfoniluree. Metanalisi di studi clinici randomizzati hanno confermato l’assenza di aumento di rischio per eventi cardiovascolari maggiori nei soggetti trattati con sulfoniluree [37], a fronte, però, di un aumento significativo (di oltre il 20%) della mortalità da tutte le cause rispetto all’insieme dei gruppi di controllo [37]. È possibile che sulfoniluree a bassa affinità miocardica, come la gliclazide, abbiano una maggior sicurezza cardiovascolare rispetto ad altre molecole della stessa classe, come suggerito da alcuni studi osservazionali mentre, al contrario, la glibenclamide risulta associata ad un rischio aumentato di eventi e/o mortalità cardiovascolare rispetto ad altre sulfoniluree [37] [38] (full text). In base a tali studi, così come a seguito delle differenze nell’incidenza di ipoglicemie nei trial randomizzati, la glibenclamide dovrebbe sempre essere evitata, mentre la gliclazide, qualora si intenda utilizzare una sulfonilurea, sembra preferibile alle altre molecole della classe.
Nei pazienti con CKD glipizide e gliclazide, risultano indicate nello stadio 3 in quanto vengono metabolizzate a livello epatico (Tabella 1). In fasi più avanzati, l’esiguità dei dati disponibili in letteratura ne sconsiglia l’utilizzo, pur non risultando di per se controindicate in modo assoluto[39].
Glinidi
I dati concernenti il rapporto efficacia/sicurezza delle glinidi (repaglinide e nateglinide, quest’ultima non in commercio in Italia) sono molto più ridotti rispetto a quelli disponibili per le sulfoniluree. La repaglinide è un potente secretagogo a breve durata d’azione che agisce simulando la prima fase di secrezione insulinica [40]. Ha una efficacia simile alle sulfoniluree [20]con un maggiore effetto sull’iperglicemia postprandiale e un minore rischio di ipoglicemia rispetto alla glibenclamide ma non rispetto alla gliclazide [40] [41]; ha eliminazione prevalentemente epatica e potrebbe essere pertanto impiegata in pazienti con CKD (fino ad un eGFR di 20-30 ml/min/1,73 m2) [42], anche se non esiste tale indicazione in scheda tecnica che invece controindica l’uso del farmaco nell’insufficienza renale (Tabella 1).
Anche con repaglinide si riscontra un incremento ponderale [20]. Nonostante la scheda tecnica menzioni un aumento del rischio di cardiopatia ischemica, dagli studi osservazionali non sono emerse differenze significative nei pazienti trattati con repaglinide o metformina riguardo al rischio di mortalità per tutte le cause, mortalità cardiovascolare e per l’endpoint composito, indipendentemente dalla presenza di un pregresso evento cardiaco [38] (full text); non esistono comunque trial clinici di dimensioni e durata sufficienti per verificare la sicurezza cardiovascolare della repaglinide, che ha un’affinità miocardica analoga alla glibenclamide.
Per tutti i farmaci appartenenti alla classe dei secretagoghi dell’insulina glucosio indipendenti sia sulfoniluree che glinidi (o per effettivo metabolismo renale, o per mancanza di studi, o per mancanza di indicazione in scheda tecnica) è consigliabile cautela nell’utilizzo in pazienti con insufficienza renale anche moderata (eGFR <60 ml/min/1,73 m2) (Tabella 1).
Farmaci insulino secretagoghi glucosio dipendenti (incretine)
Le incretine sono peptidi di origine intestinale che vengono secreti in risposta all’ingestione di un pasto e che, a concentrazioni fisiologiche, sono in grado di indurre il rilascio di insulina. Dal punto di vista fisiologico e fisiopatologico, le incretine più importanti [43] sono rappresentate dal Glucagon-like peptide 1 (GLP- 1) e dal Glucose-mediated insulinotropic polypeptide (GIP). Il GLP-1 è una molecola sintetizzata e rilasciata dalle cellule L dell’intestino tenue distale e del colon, che possiede multipli siti d’azione: cellule beta e alfa pancreatiche, tratto gastro-enterico, polmone, cuore e vasi. Il GIP è sintetizzato e rilasciato dalle cellule K di duodeno, digiuno e ileo; agisce prevalentemente sulle beta cellule pancreatiche ma anche su adipociti, cellule progenitrici neurali e osteoblasti.
Le incretine complessivamente causano: aumento del senso di sazietà e riduzione dell’appetito, aumento della secrezione insulinica e riduzione dei livelli di glucagone. L’effetto incretinico è responsabile del 60% circa della secrezione insulinica dopo un pasto e spiega la maggiore quantità di insulina secreta in seguito all’assunzione di glucosio per os rispetto alla secrezione stimolata dall’iniezione di glucosio endovena.
Lo stimolo incretinico è glucosio dipendente per cui è assente o molto ridotto il rischio di ipoglicemia.
I peptidi GLP-1 e GIP hanno una breve emivita, di circa 2 e 7 minuti rispettivamente, a causa della loro degradazione da parte dell’enzima dipeptidil peptidasi-4 (DPP-4) che è presente sia in circolo che nei tessuti [44]. In considerazione della brevissima durata d’azione, non potrebbero pertanto essere utilizzati anche se ottenuti sinteticamente, in quanto ne sarebbe necessaria una infusione continua.
Lo sviluppo di molecole che agiscano sul sistema incretinico ha perciò seguito due strade per poter utilizzare in clinica le incretine, attraverso la sintesi di peptidi resistenti all’azione della DPP-4 ma con la stessa attività biologica (agonisti recettoriali del GLP-1), o attraverso la sintesi di inibitori specifici della DPP-4 (Figura 3).
Inibitori dall’enzima Dipeptidil-Peptidasi-4 (DPP-4) o Gliptine
Gli inibitori dell’enzima DDP-4 o gliptine (sitagliptin, vildagliptin, saxagliptin, linagliptin e alogliptin) esplicano la propria azione inibendo l’enzima DPP-4, determinando così l’aumento dei livelli circolanti di GLP-1 e GIP [43]. Le gliptine sono in grado di determinare una riduzione dei livelli di HbA1c pari a circa 0,9% in monoterapia [45], senza differenze tra le varie molecole all’interno della classe [43]. Tre recenti trial, condotti con saxagliptin, alogliptin e sitagliptin confrontati con placebo, hanno confermato la sicurezza cardiovascolare delle gliptine [46] (full text) [47] (full text) [48] (full text). Nello studio SAVOR-TIMI53, il trattamento con saxagliptin è risultato associato a un aumento, modesto ma significativo, dell’incidenza di ricovero per scompenso cardiaco, senza differenze nella mortalità specifica [46] (full text); un analogo trend, seppure non significativo, è stato osservato nello studio EXAMINE con alogliptin [49], mentre nessun segnale di rischio è emerso nello studio TECOS con sitagliptin [48] (full text), nei precedenti trial con endpoint metabolico, indipendentemente dalla molecola usata ed in un recente studio osservazionale su coorti multiple [50] (full text).
Tutte le molecole appartenenti alla categoria delle gliptine possono essere utilizzate in pazienti con insufficienza renale anche grave (eGFR < 30 ml/min/1,73 m2) con adeguamento della dose; l’unica eccezione è il saxagliptin, che, a dose ridotta, può essere usato solo fino a un eGFR uguale a 30 ml/min/1,73 m2 (Tabella 1). In particolare linagliptin, eliminato per il 90% immodificato per via enterobiliare, è utilizzabile senza adeguamento della dose in tutti i gradi di funzionalità epatica e renale. È possibile che questa classe di farmaci possieda un effetto nefroprotettivo, indipendentemente dalla loro azione sul controllo glicemico, avendo dimostrato la capacità di ridurre la microalbuminuria in pazienti con diabete tipo 2 anche con ridotta funzione renale e indipendentemente dalla loro azione ipoglicemizzante [46] (full text) [51] [52].
Da quanto sopra esposto ed in considerazione che questa classe di farmaci ha studi dedicati ad hoc sia nei pazienti con CKD, che nei pazienti anziani, appare evidente come questi farmaci abbiano un ruolo di primo piano nel trattamento del paziente diabetico con riduzione della funzione renale.
Agonisti del recettore di GLP-1 (GLP-1 RA)
Gli agonisti del recettore del GLP-1 o analoghi del GLP-1 (exenatide, liraglutide, exenatide LAR, lixisenatide e dulaglutide) esplicano la propria azione potenziando la biosintesi e la secrezione di insulina indotta dal glucosio (riducendo pertanto il rischio di ipoglicemia), inibendo la secrezione di glucagone, rallentando lo svuotamento gastrico e riducendo l’appetito [43].
Studi di confronto testa a testa suggeriscono che gli analoghi a emivita più lunga (liraglutide, exenatide LAR, dulaglutide) inducano una maggiore riduzione di HbA1c e di glicemia a digiuno rispetto agli analoghi del GLP-1 a emivita più breve (exenatide, lixisenatide) [53] [54] [55] [56] [57]. D’altra parte, gli analoghi del GLP-1 a emivita più breve (exenatide, lixisenatide) mostrano un effetto più marcato sullo svuotamento gastrico [58] (full text) [59], che si traduce, rispetto agli analoghi del GLP-1 a emivita più lunga (liraglutide, exenatide LAR), in una maggiore riduzione dell’incremento postprandiale della glicemia in concomitanza con il pasto prima del quale viene eseguita la somministrazione.
Nausea e vomito sono eventi avversi lievi e transitori che si riscontrano nelle settimane iniziali di trattamento con i GLP-1RA [53] [54] [55] [56]. Il trattamento con agonisti del recettore del GLP-1 induce un significativo calo ponderale [59], una significativa riduzione della pressione arteriosa[60] (full text) [61] e non si associa a rischio di ipoglicemie (tranne che in combinazione con sulfoniluree o insulina) [20].
La terapia combinata con insulina basale è stata studiata con exenatide, liraglutide e lixisenatide, dimostrando che tale associazione permette di ridurre l’emoglobina glicata, il peso corporeo ed il fabbisogno insulinico giornaliero [62] (full text) [63] [64]. Per dulaglutide, la combinazione con insulina prandiale ha fornito risultati più favorevoli della tradizionale terapia insulinica basal bolus [65].
In pazienti con CKD (eGFR pari a 30-59 mL/min/1,73 m2) (vLira study) liraglutide si è dimostrata efficace e sicura (nessuna aumento del rischio ipoglicemico) a fronte di un aumento degli effetti collaterali gastrointestinali osservati in questa popolazione [66].
Risultati simili sono stati ottenuti con exenatide in pazienti con diversi gradi di CKD compresi soggetti in trattamento dialitico [67] (full text).
Questa classe di farmaci è generalmente non indicata nei pazienti con insufficienza renale cronica di grado avanzato (eGFR <30 ml/min/1,73m2) sia perché la loro clearance è in parte renale, sia perché non ci sono sufficienti studi clinici disponibili in questa popolazione (Tabella 1).
Inibitori del riassorbimento tubulare del glucosio (SGLT2 inibitori)
Il cotrasportatore di sodio-glucosio 2 (SGLT2) è una proteina espressa quasi esclusivamente nel rene ed è responsabile sino al 90% del riassorbimento del glucosio nel filtrato urinario [68] [69]. Gli inibitori di SGLT2 o gliflozine (dapaglifozin, canagliflozin, empagliflozin) sono una classe di farmaci di recente sviluppo che bloccano tale riassorbimento, lasciando che circa il 40% del glucosio filtrato venga eliminato con le urine [68] [69].
Il trattamento con inibitori di SGLT2 si associa a una significativa riduzione del peso corporeo, della pressione sistolica e diastolica rispetto al placebo [69]. Il trattamento con inibitori di SGLT2 non si associa a rischio di ipoglicemie, a meno che non vengano utilizzati in combinazione con sulfoniluree o insulina. In questa ultima associaizone, gli inibitori SGLT2 determinano una riduzione dell’emoglobina glicata, del peso corporeo e delle dosi di insulina [68] [69] [70].
L’effetto collaterale più frequente di questa classe di farmaci è rappresentato dalle infezioni del tratto genitale che interessano più frequentemente le donne ed in particolare quelle che hanno una anamnesi positiva per infezioni genitali ricorrenti [69] [70]. È stata inoltre segnalata la possibilità che gli inibitori SGLT-2, soprattutto quando usati fuori dalle indicazioni (es. DM tipo 1), possano associarsi ad un aumento del rischio di chetoacidosi [71]. Inoltre, una delle molecole della classe, il canagliflozin, è stata associata con un possibile aumento del rischio di fratture [72]e più recentemente ad un più elevato rischio di amputazione a livello degli arti inferiori (soprattutto a carico delle dita del piede) [73].
Il primo studio di outcome cardiovascolare con SGLT-2 inibitori, lo studio EMPA-REG OUTCOME con empagliflozin, in pazienti con pregressi eventi cardiovascolari, ha mostrato, rispetto al placebo, una riduzione del 14% degli eventi cardiovascolari maggiori, una riduzione del 38% della mortalità cardiovascolare e del 32% della mortalità totale [74] (full text). Dato interessante evidenziato dall’analisi per sottogruppi dello studio è che l’effetto positivo cardiovascolare del farmaco era particolarmente evidente nei pazienti con eGFR compreso tra 60 e 90 ml/min/1,73m2. L’entità di tali risultati, che non sono stati osservati con altri farmaci per il diabete, inducono a preferire gli SGLT-2, rispetto alle altre opzioni terapeutiche disponibili, nei pazienti con pregressi eventi cardiovascolari maggiori.
I dati disponibili dimostrano una minore efficacia di questa classe di farmaci nei pazienti con ridotta funzione renale [75] (full text). Possono essere usati con prudenza nei pazienti con eGFR tra 60 e 30 ml/min/1,73 m2, ma sono controindicati nei pazienti con insufficienza renale severa (Tabella 1). Alcuni dati preliminari mostrano un possibile effetto di riduzione dell’albuminuria con questi farmaci [76], ma il significato di queste osservazioni andrà confermato in trial clinici già in corso su pazienti con danno renale e albuminuria.
Insulina
L’insulina può essere somministrata in qualsiasi stadio della malattia renale, ma va tenuto presente che si associa a rischio d’ipoglicemia e alla necessità di un più frequente e corretto monitoraggio delle glicemie.
La sensibilità all’insulina è ridotta nei pazienti con CKD, anche nelle fasi iniziali [77]. Tuttavia in questi pazienti si verifica spesso un marcato calo del fabbisogno insulinico, che in taluni casi può portare alla sospensione del trattamento [78]. Le spiegazioni di questo calo possono essere legate al fatto che a differenza dell’insulina endogena, che è sostanzialmente degradata dal fegato, l’insulina esogena è principalmente eliminata dal rene e dal fatto che spesso l’uremia comporta una condizione di anoressia e perdita di peso. Come regola generale si suggerisce di ridurre del 25% il dosaggio insulinico rispetto a quello usuale per un GFR compreso tra 10 e 50 ml/min/1,73 m2 e una riduzione del 50% in presenza di GFR inferiore a 10 ml/min/ 1,73 m2 [79]. Dopo l’inizio della terapia emodialitica spesso il fabbisogno insulinico si riduce ulteriormente, poiché la dialisi riduce l’insulino-resistenza [79] [80]. Nei pazienti diabetici in trattamento con dialisi peritoneale la somministrazione intraperitoneale di insulina spesso ottiene un migliore controllo glicemico con più bassi dosaggi insulinici rispetto alla somministrazione sottocutanea[81] (full text).
Pochi sono i dati in letteratura riguardanti lo schema insulinico più appropriato per un paziente con CKD. In generale l’utilizzo di analoghi dell’insulina con uno schema multiniettivo può essere più vantaggioso per la maggior flessibilità; il meccanismo d’azione più fisiologico, dose e sede indipendente; il minor rischio di ipoglicemie e la minor variabilità glicemica [82].
Conclusioni
Anche se è ormai ben stabilito che un buon controllo glicemico, applicato precocemente, è in grado di ridurre sia la comparsa sia la progressione delle complicanze nel paziente diabetico, molto meno chiaro è il ruolo dello stretto compenso glicemico nei pazienti diabetici con insufficienza renale avanzata e in dialisi. Inoltre, tali pazienti hanno frequenti crisi ipoglicemiche e presentano spesso concomitanti patologie cardiovascolari, per cui l’obiettivo glicemico deve essere il più possibile personalizzato. La presenza di CKD non deve precludere l’uso di un trattamento ipoglicemizzante orale, metformina compresa, ma la scelta del trattamento farmacologico in questi pazienti non è semplice e richiede una perfetta conoscenza della farmacocinetica delle molecole utilizzate, dei loro possibili effetti collaterali e delle loro indicazioni d’uso. Le attuali evidenze sembrano suggerire, la metformina per i casi con insufficienza renale moderata ed in alternativa o in associazione i DPP4-inibitori che possono essere utilizzati anche nei pazienti con insufficienza renale terminale o in dialisi e che hanno il vantaggio di essere neutri sul peso e di non indure ipoglicemie oltre ad avere studi effettuati ad hoc in questa popolazione. Particolare attenzione va posta con l’utilizzo dei secretagoghi glucosio indipendenti, repaglinide compresa, per il rischio ipoglicemico e per la mancanza di studi con questi farmaci. Infine anche la terapia insulinica gioca un ruolo importante nella terapia dell’iperglicemia in corso di insufficienza renale, ma è assolutamente necessario uno stretto monitoraggio glicemico al fine di ridurre il rischio di ipoglicemie.
Bibliografia
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