Gennaio Febbraio 2016 - Editorial

Spontaneous Clinical Research and Ethics Committees

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Introduzione

Nel 2015 il Giornale di Tecniche Nefrologiche e Dialitiche ha ospitato una serie di contributi sulle criticità della ricerca e del processo di pubblicazione [1] [2] [3] [4] [5]. Penso che valga la pena di coinvolgere anche i lettori del GIN su tali problematiche e, come stimolo alla discussione, vorrei proporre alcune riflessioni sull’argomento traendo anche spunto dalla mia quasi ventennale presenza nei Comitati Etici (CE). La tesi che cercherò di argomentare è che lo spazio per la ricerca clinica spontanea no profit si stia progressivamente riducendo e che gli organi preposti (CE e organizzazioni sanitarie) non facciano abbastanza per sostenerla. Concluderò proponendo alcune azioni che la SIN dovrebbe a mio avviso mettere in campo a sostegno del ricercatore clinico.

La Ricerca

Classicamente distinguiamo una ricerca profit e una no profit. Va tuttavia considerato che l’ingresso di organizzazioni no profit anche nei processi di produzione e sviluppo di farmaci (p es Telethon finanzia lo sviluppo di farmaci per malattie rare o orfane) dovrebbe comportare un superamento della dicotomia profit – no profit a favore della ricerca collaborativa.

In atto, dobbiamo alla ricerca profit le enormi ricadute in termini di salute degli avanzamenti tecnologici per farmaci e presidi. Tale ricerca ha anche il potenziale merito di costituire, per i clinici che vi partecipano, una palestra per approcciarsi al metodo scientifico. Ma, diciamola tutta, a meno di non far parte di steering committee, editorial board, etc., il clinico rappresenta un mero “portatore di dati”. Non va poi dimenticato che le enormi somme di danaro messe in campo nella ricerca profit (lo sviluppo di un nuovo farmaco/presidio muove decine e decine di milioni di dollari) servono anche per esternalizzare ad agenzie specializzate la gestione delle fasi 3 e 4 della ricerca, dalla selezione dei centri partecipanti, tutoraggio sulla raccolta e elaborazione dati, fino al report finale e, talvolta, al draft per la pubblicazione.

Alla “ricchezza” della ricerca profit, si contrappone la “povertà” della no profit, quella vera, che va distinta da quella fintamente spontanea che sottintende un promotore interessato e opaco. La vera ricerca clinica spontanea è sempre indipendente e non sempre desidera di avvalersi di sponsor esterni. Essa nasce dal brain storming fra clinici che hanno entusiasmo, pensiero critico e curiosità. È una ricerca “fatta in casa” che trova la sua vera e insostituibile ragion d’essere come fucina del ricercatore clinico. Suoi ambiti tipici e qualificanti sono rappresentati dal confronto testa a testa di farmaci o dispositivi in uso label (le industrie farmaceutiche in genere non amano i confronti diretti nell’ambito della stessa classe) e dall’ utilizzo off label di farmaci o dispositivi. È infatti l’attenzione e curiosità del clinico, che riesce a intravedere nuovi potenziali ambiti di utilizzo di un prodotto. Un esempio dalla nostra specialità? Quante volte, con le tecnologie degli anni 70, un infermiere avrà iniziato la dialisi dimenticandosi di collegare al monitor il bagno di dialisi? È stata la presenza in sala dialisi di un giovane clinico attento e curioso a collegare l’errore col fatto che quella signora, che regolarmente si ipotendeva, quella volta aveva sperimentato una dialisi del tutto tranquilla. È nata così l’ultrafiltrazione isolata [6] e il successivo filone di ricerca sui moti convettivi.

Oggi la ricerca clinica spontanea è in decadenza. Nel 2009 sfiorava il 42% del totale della ricerca medica in Italia e tale percentuale è scesa a poco meno del 24% nel 2013; la situazione negli altri paesi europei più industrializzati (Germania, Francia, Spagna, Regno Unito) è ancora peggiore[7].

È indubitabile che la medicina basata sulle prove abbia a che fare con tale trend negativo. Per raggiungere la soglia della potenza, oggi gli studi arruolano numeri elevati di soggetti spesso reclutati in centri di varie nazioni, numeri e organizzazioni inimmaginabili per la ricerca non sponsorizzata. Lo statistico epidemiologo è diventato fondamentale, il ricercatore clinico lo è sempre meno. Eppure, la verifica di una intuizione (proof of concept) che si giova di piccoli numeri e la conferma dell’evidenza basata sui grandi numeri non sono antitetiche e possono costituire fasi successive del continuum-ricerca. Faccio un esempio personale. Ai primi anni 80 pubblicammo le nostre prime ricerche sul ruolo della temperatura in dialisi [8] [9]. Ne è seguita una notevole serie di lavori RCT, il ruolo della temperatura è riconosciuto in tutte le Linee Guida e Raccomandazioni, l’industria elettromedicale ha implementato nei monitor per dialisi il controllo del bilancio termico. Ebbene, il nostro primo lavoro presentato all’EDTA di Parigi del 1981 [8] era uno studio monocentrico su 6 (SEI) pazienti. Nessuna rivista, anche con IF da prefisso telefonico, pubblicherebbe oggi un tale lavoro e chissà se la storia del freddo sarebbe oggi decollata. Ma la storia non si fa con i se e con i ma e allora poniamoci la domanda: l’attuale organizzazione dei Comitati Etici facilita la ricerca clinica spontanea povera per definizione e/o scelta?

I Comitati Etici

I CE garantiscono che le sperimentazioni siano condotte secondo i principi della dichiarazione di Helsinki e un loro ridimensionamento fino all’irrilevanza, inconfessato desiderio di non pochi, costituirebbe un vulnus enorme per la collettività. Ciò detto, va tuttavia sottolineata la criticità dell’elevato numero di CE variamente distribuiti ed organizzati sul territorio nazionale (CE del singolo ospedale, CE di Area Vasta, etc.) che comporta talora disomogeneità nei criteri di valutazione degli studi. Contrariamente da noi, la Francia ha istituito un unico CE a Parigi con poi articolazioni regionali e locali per gli aspetti pratici organizzativi. È auspicabile una soluzione intermedia fra questi due estremi, e sono fiducioso che il lavoro che sta svolgendo la Consulta delle Società Scientifiche, di cui la SIN fa parte, fornirà presto proposte ragionevoli e fattibili [10]. La necessità di una riorganizzazione dei CE è urgente anche in considerazione della loro talora eccessiva burocratizzazione. Ho assistito negli anni ad un progressivo sbilanciamento dei CE verso i pur necessari aspetti formali (quanta inutile modulistica!) a scapito della valorizzazione della metodologia implementata e rilevanza dei risultati attesi dalla ricerca. Lo staff di segreteria, il farmacista, l’esperto in presidi sanitari e quello in materie giuridiche e assicurative, il rappresentante della direzione sanitaria, il medico legale, sono diventati preponderanti rispetto al clinico e al bioeticista. L’elefantiasi burocratica dei CE tiene il passo con, e probabilmente è in parte condizionata da, il parallelo modificarsi delle richieste ed esigenze degli studi profit. Fra le tante, è emblematica l’evoluzione del consenso informato, sempre più pletorico e apparentemente completo. Dico apparentemente perchè se pensate che la cosiddetta medicina difensiva si riferisca solo ai casi di specie di cui tanto oggi si parla, vuol dire che non avete mai letto le “note informative” degli attuali studi profit. Almeno 20 pagine redatte dagli uffici legali delle aziende in cui ogni possibile contenzioso viene a priori soppesato, esplicitato e quindi depotenziato: dai rischi connessi al prelievo ematico ai cc di sangue che verranno prelevati. Il punto è che ben pochi fra i pazienti leggeranno quegli sproloqui, pensati e costruiti per tutelare le aziende da eventuali azioni di rivalsa più che per informare/tutelare il cittadino.

La prevalenza nei CE degli aspetti formali sui sostanziali, costituisce un reale ostacolo agli studi spontanei. Contrariamente ai promotori degli studi profit, che si avvalgono di agenzie specializzate per la compilazione di tutta la documentazione necessaria per le variegate richieste dei vari comitati etici, i poveri sperimentatori, che di mestiere fanno i clinici e non i cultori del burocratese, navigano in un mare periglioso e talora rinunciano per non affogare. Da questo punto di vista il caso più eclatante è quello della assicurazione. In Italia, a macchia di leopardo, i CE richiedono la copertura assicurativa anche per studi di fase 4 post-marketing comparativi con randomizzazione. Per stare nel nostro ambito, immaginiamo un confronto testa a testa fra metodiche dialitiche convettive in uso clinico routinario nei centri. In routine posso intercambiare le metodiche nello stesso paziente per vari motivi, anche banalmente organizzativi; se il confronto avviene in modo controllato tramite randomizzazione allora l’assicurazione è imprescindibile. E non ha alcuna rilevanza per il CE che le amministrazioni ospedaliere, che stanno addirittura riducendo la copertura assicurativa per gli atti clinici, sempre meno coprono i potenziali rischi connessi alla ricerca. Al ricercatore clinico rimane la dicotomica scelta capestro: o rinunci allo studio o ti trovi uno sponsor che sostenga le spese assicurative; proprio quello che non voleva fare.

Penso si concordi sul fatto che il ruolo dei CE debba esser quello di agevolare l’iter autorizzativo della ricerca spontanea, mentre quello delle strutture aziendali debba esser quello di fornire supporto logistico, tutti avendo il comune obiettivo di facilitare la ricerca clinica spontanea. Che invece da tempo non sia così né in Italia né in altre parti del mondo, lo dimostra il fatto che l’allarme sulla figura del ricercatore clinico in via di estinzione è stato lanciato già alla fine degli anni 70 [11] e la situazione non era cambiata 2 decadi dopo [12] [13]. Nei primi anni 2000 venne poi individuato il rapporto con l’industria farmaceutica come uno dei punti di criticità [14] [15]. Infine, nel mondo anglosassone al di qua e al di là dell’Atlantico vennero lanciati dei programmi per togliere i ricercatori clinici dalla lista delle specie in via di estinzione [16] [17] e vennero anche avanzate delle proposte per risolvere il conflitto di interessi fra associazioni mediche ed industria[18].

Proposte per la SIN

La nostra società ha una distribuzione capillare sul territorio italiano e molti suoi soci coltivano ancora la turpe voglia (direbbe Guccini) della ricerca clinica. E allora auspico che, in sinergia con la Consulta delle Società Scientifiche, la SIN

  • Si faccia promotrice di una raccolta di casi scuola di macroscopiche difformità di valutazione dei CE sul territorio nazionale e di difformità delle aziende sanitarie e ospedaliere in merito alla copertura assicurativa degli studi spontanei
  • Discuta e formalizzi un decalogo di raccomandazioni volte allo snellimento e omogenizzazione dell’iter autorizzativo degli studi spontanei
  • Con tale documentazione richieda un confronto col Ministero della Salute e, tramite le sue sezioni regionali, con gli Assessorati Regionali alla Sanità.

È interesse dei cittadini, e quindi di noi tutti operatori del settore, che il binomio clinico-ricercatore non vada perduto perché la buona clinica trova fondamento nell’approccio metodologico ai problemi.

Bibliografia

[1] Lombardi D. Il progresso umano: quando la scienza non accresce la conoscenza. Il caso delle cellule STAP. Giornale di Tecniche Nefrologiche e Dialitiche. 2015;27(1):42-44

[2] Timio M. Ritorno alla bioetica della “peer review”. Editoriale. Giornale di Tecniche Nefrologiche e Dialitiche. 2015;27(1):1-3

[3] Floccari F. l’industria dell’evidenza scientifica e la salute del metodo galileiano. giornale di tecniche nefrologiche e dialitiche. 2015;27(2):129-30

[4] Quintaliani G, Nicoletti I. La ricerca biomedica al tempo di “Publish or Perish”. Giornale di Tecniche Nefrologiche e Dialitiche 2015; 27 (4): 253-255

[5] Edefonti A, Albertario G, Agostoni C. Ritorno alla bioetica della ricerca (e del sistema che la supporta). Giornale di Tecniche Nefrologiche e Dialitiche 2015; 27(4): 261-263.

[6] Bergström J, Asaba H, Fürst P et al. Dialysis, ultrafiltration, and blood pressure. Proceedings of the European Dialysis and Transplant Association. European Dialysis and Transplant Association 1976; 13: 293-300

[7] Recchia G, Gussoni G, Monaco L. Giornata di Studio “La sperimentazione clinica no-profit in Italia: criticità, opportunità, prospettive”. AFI e Regione Lombardia, 10 Dicembre 2014

[8] Maggiore Q, Pizzarelli F, Zoccali C et al. Effect of extracorporeal blood cooling on dialytic arterial hypotension. Proceedings of the European Dialysis and Transplant Association. European Dialysis and Transplant Association 1981;18:597-602

[9] Pizzarelli F, Sisca S, Zoccali C et al. Blood temperature and cardiovascular stability in hemofiltration. The International journal of artificial organs 1983 Jan;6(1):37-41

[10] Corrao G. Bioetica, il comitato che vorrei. Ricetta per riorganizzare i CE ottimizzando efficienza ed efficacia. Il Sole 24 Ore Sanità, pag 17, 3 XI 2015

[11] Wyngaarden JB The clinical investigator as an endangered species. The New England journal of medicine 1979 Dec 6;301(23):1254-9

[12] Goldstein JL, Brown MS The clinical investigator: bewitched, bothered, and bewildered–but still beloved. The Journal of clinical investigation 1997 Jun 15;99(12):2803-12

[13] Rosenberg LE The physician-scientist: an essential–and fragile–link in the medical research chain. The Journal of clinical investigation 1999 Jun;103(12):1621-6

[14] Angell M Is academic medicine for sale? The New England journal of medicine 2000 May 18;342(20):1516-8

[15] Bodenheimer T Uneasy alliance–clinical investigators and the pharmaceutical industry. The New England journal of medicine 2000 May 18;342(20):1539-44

[16] Friedrich MJ A novel program seeks to take clinical scientists off the endangered species list. JAMA 2003 Aug 27;290(8):1019-20

[17] Bell J, Working Group of Academy of Medical Sciences Resuscitating clinical research in the United Kingdom. BMJ (Clinical research ed.) 2003 Nov 1;327(7422):1041-3

[18] Rothman DJ, McDonald WJ, Berkowitz CD et al. Professional medical associations and their relationships with industry: a proposal for controlling conflict of interest. JAMA 2009 Apr 1;301(13):1367-72