GSFS “collapsing” secondaria a steroidi anabolizzanti per bodybuilding: case series

Abstract

L’abuso di steroidi anabolizzanti androgeni (AAS) a fini agonistici (e non) per la pratica di bodybuilding è sempre più comune. Le conseguenze di tali sostanze sui vari organi sono solo parzialmente note. In letteratura sono stati segnalati casi di GSFS conseguente all’uso di AAS, anche con evoluzione a ESKD.
Descriviamo tre casi di bodybuilder che hanno presentato alterazione degli indici di funzione renale dopo assunzione di AAS per lunghi periodi. Sono state eseguite tre biopsie renali con diagnosi istologica di GSFS variante “collapsing”. Esaminiamo le lesioni osservate all’esame istologico. Due atleti hanno avuto rapida progressione della patologia renale con necessità di terapia sostitutiva. Il terzo continua trattamento conservativo per insufficienza renale cronica.
Discutiamo dei rischi correlati all’assunzione di sostanze dopanti e di come i bodybuilder siano esposti a diverse concause di danno renale: steroidi anabolizzanti, integratori, dieta iperproteica.

Parole chiave: steroidi androgeni anabolizzanti, glomerulosclerosi focale segmentale, variante collapsing, insufficienza renale cronica

Case series

Descriviamo di seguito tre casi clinici di pazienti bodybuilder a livello agonistico, che si sono attenuti per anni ad un regime dietetico iperproteico e hanno fatto uso di steroidi anabolizzanti e integratori durante la preparazione atletica. I pazienti in esame, tutti di etnia caucasica, presentavano recente riscontro di insufficienza renale e non assumevano farmaci. L’anamnesi familiare era negativa per patologie renali. In tutti e tre i casi la sierologia per l’autoimmunità risultava negativa e si escludevano infezioni (incluso infezione da HIV).

Caso A

Il primo caso è un maschio di 28 anni, bodybuilder da circa 6 anni, alto 1,80 m con peso corporeo di 88 kg e BMI 27kg/m2 che ha ammesso di aver assunto trenbolone intramuscolo in maniera ciclica per almeno tre anni. Oltre ad un regime dietetico iperproteico, faceva uso quotidiano di creatina per os. A ottobre 2021, in seguito a insorgenza di edema agli arti inferiori, praticava esami ematochimici con riscontro di creatinina sierica pari a 1,7 mg/dl, proteinuria 7 g/die, albuminemia 2,3 g/dl, colesterolo totale 450 mg/dl. All’ecografia renale si osservavano reni iperecogeni con conservata differenziazione cortico-midollare. Il paziente veniva indirizzato ad un nefrologo, ma rifiutava di sottoporsi ad agobiopsia renale. Pertanto proseguiva trattamento conservativo con furosemide, atorvastatina ed ezetimibe.

A gennaio 2022 il paziente veniva ricoverato per polmonite da Sars-Cov2 con riscontro di grave insufficienza renale: creatinina 8 mg/dl, urea 225 mg/dl, elettroliti nella norma, diuresi 1500 cc/24h. Il paziente veniva indirizzato presso il nostro centro per approfondimento diagnostico-terapeutico.

Agli esami praticati in ingresso si confermava il peggioramento della funzione renale con creatininemia pari a 8 mg/dl. In seconda giornata veniva praticata agobiopsia renale (Figura 1).

Figura 1. Colorazione PAS: sclerosi (testa di freccia) segmentale e collasso del flocculo con associata iperplasia (freccia) delle cellule epiteliali viscerali e parietali.
Figura 1. Colorazione PAS: sclerosi (testa di freccia) segmentale e collasso del flocculo con associata iperplasia (freccia) delle cellule epiteliali viscerali e parietali.

Caso B

Il secondo caso riguarda un paziente maschio di 48 anni, bodybuilder, alto 1,78 m, peso corporeo pari a 90 kg, BMI 28,4 kg/m2, che ha praticato diversi cicli di steroidi anabolizzanti (non meglio precisati) a fini agonistici nell’arco degli ultimi 20 anni, associati ad un regime dietetico iperproteico. Nel 2017 il paziente eseguiva esami ematochimici di routine con primo riscontro di creatinina 1,7 mg/dl, con albuminemia e proteinuria non note. In seguito a primo videat nefrologico praticato presso un altro centro veniva impostata terapia dietetica normoproteica (0,8 g/kg di peso corporeo ideale). Ai successivi controlli nefrologici si osservava lieve miglioramento degli indici di funzione renale (creatinina 1 mg/dl). A novembre 2021 si riscontrava ipertensione arteriosa e, in concomitanza con dieta chetogenica, peggioramento della funzione renale (creatinina 2,2 mg/dl). A fine dicembre 2021 praticava accesso al pronto soccorso per dispnea, oligoanuria e replezione idrosalina. Agli esami ematochimici: creatinina 16 mg/dl, urea 350 mg/dl, sodio 141 meq/l, potassio 5,8 meq/l, calcio 8 mg/dl, fosforo 6 mg/dl; all’emogasanalisi era presente acidosi metabolica severa; pertanto, il paziente veniva sottoposto a trattamento emodialitico d’urgenza. Veniva quindi trasferito presso il nostro centro: in ingresso le condizioni cliniche erano discrete ma agli esami ematochimici si confermava la grave insufficienza renale. All’esame del sedimento urinario comparivano diverse emazie, alcune delle quali dismorfiche e numerosi leucociti. Praticava, quindi, agobiopsia renale (Figure 2 e 3).

  Figura 2. Colorazione PAS: ispessimento mio-intimale (ellisse) di grado severo dei vasi campionati.
Figura 2. Colorazione PAS: ispessimento mio-intimale (ellisse) di grado severo dei vasi campionati.
Figura 3. Colorazione PAS: collasso del flocculo con severa iperplasia e ipertrofia delle cellule epiteliali viscerali («pseudocrescents»).
Figura 3. Colorazione PAS: collasso del flocculo con severa iperplasia e ipertrofia delle cellule epiteliali viscerali («pseudocrescents»).

Caso C

Il terzo caso riguarda un maschio di 30 anni, bodybuilder professionista da circa 10 anni, alto 1,65 m, peso corporeo 88 kg e BMI 32,3 kg/m2, che riferiva di seguire un regime dietetico iperproteico da almeno 10 anni e di ricorrere a cicli di steroidi anabolizzanti (non precisati) e diuretici durante la fase di preparazione atletica. A settembre 2022 lamentava comparsa di edema declive improntabile agli arti inferiori e incremento ponderale. Praticava esami ematochimici con riscontro di sindrome nefrosica: creatinina 1,8 mg/dl, albuminemia 1,8 g/dl, colesterolemia 380 mg/dl, proteinuria di 6 g/die. Dopo consulto nefrologico, iniziava terapia con furosemide, ramipril e atorvastatina e veniva indirizzato presso il nostro centro per esecuzione di agobiopsia renale (Figura 4).

 Figura 4. Colorazione PAS: atrofia tubulare severa e glomerulosclerosi globale (2 glomeruli «solidificati»).
Figura 4. Colorazione PAS: atrofia tubulare severa e glomerulosclerosi globale (2 glomeruli «solidificati»).

All’esame istologico condotto sui tre pazienti si osservava GSFS variante “collapsing” associata talora a glomerulomegalia; la glomerulosclerosi globale si riscontrava in più del 50% dei glomeruli campionati e la sclerosi segmentale coinvolgeva circa il 35% dei glomeruli osservati.  All’immunofluorescenza: positività aspecifica per IgM e C3. Il compartimento tubulo-interstiziale era compromesso in maniera significativa in tutti e tre i campioni (Figura 5).

Figura 5. Colorazione Tricromica blu di Masson: Area di atrofia tubulare, infiltrato infiammatorio, tubuli dilatati con epitelio appiattito.
Figura 5. Colorazione Tricromica blu di Masson: Area di atrofia tubulare, infiltrato infiammatorio, tubuli dilatati con epitelio appiattito.
Caso Microscopia ottica Fattori di rischio noti
Pattern Sclerosi globale Sclerosi segmentale Atrofia tubulare/ fibrosi interstiziale (%) Arteriosclerosi
 

A

 

GSFS, variante collapsing 12 su 14 2 su 14 80% Grave

-trenbolone

-dieta iperproteica

-integrazione con creatina per os

-BMI 27 kg/m2

B Glomerulonefrite crescentica IgA su precedente GSFS, variante collapsing 7 su 20 8 su 20 80% Moderata

-steroidi anabolizzanti non precisati

-dieta iperproteica

-BMI 28,4 kg/m2

C GSFS, variante collapsing 1 su 4 3 su 4 40% Grave

-steroidi anabolizzanti non precisati

-dieta iperproteica

-BMI 32,3 kg/m2

Tabella I. Esame istologico delle tre biopsie condotte.

Per i primi due pazienti, alla luce del quadro clinico-laboratoristico di grave compromissione della funzione renale e dell’esame istologico che mostrava un danno renale avanzato, si poneva indicazione a trattamento sostitutivo cronico della funzione renale.

Il terzo paziente proseguiva follow-up nefrologico ed iniziava terapia steroidea ad alte dosi (prednisone 1 mg/kg/die per 8 settimane con successivo decalage) con dimezzamento della proteinuria (3 g/die) dopo un mese di trattamento. A cinque mesi di distanza dalla biopsia renale il paziente presentava creatinina pari a 1,2 mg/dl con proteinuria pari a 2,5 g/die.

 

Discussione

L’abuso di steroidi anabolizzanti è sempre più frequente in contesti di pratiche agonistiche (e non) di bodybuilding. Spesso gli atleti non conoscono esattamente le sostanze di cui fanno uso e ne ignorano le conseguenze a livello sistemico a breve e a lungo termine. Oggi il consumo riguarda anche atleti non professionisti. Si tratta in genere di derivati sintetici del testosterone, anche destinati ad uso veterinario, in grado di promuovere la sintesi proteica, la crescita muscolare e l’eritropoiesi. Sostanze quali nandrolone, oxandrolone, metandienone, ossimetolone, trenbolone, clenbuterolo, assunte con iniezioni intramuscolo oppure per os in maniera ciclica per diverse settimane. Molte di queste sono espressamente vietate e considerate sostanze dopanti, illecite per la pratica sportiva.
Gli effetti collaterali sistemici includono: alterazioni della funzione riproduttiva (oligo-/azoospermia) e dei caratteri sessuali secondari, atrofia testicolare, acne, cardiomiopatia ipertrofica, dislipidemia con aumento delle LDL, policitemia, sbalzi d’umore, tossicità epatica, impotenza sessuale e virilizzazione delle donne [1].
Il rapporto tra danno renale e steroidi anabolizzanti è noto da tempo. Gli AAS sono ora annoverati tra le tossine podocitarie emergenti assieme ad altre sostanze d’abuso [2]. Tuttavia, gli studi effettuati sono in numero limitato ed è difficile dimostrare la relazione diretta tra steroidi anabolizzanti e danno renale. Alcuni case report documentano l’insorgenza di insufficienza renale acuta, in altri casi l’esecuzione di una biopsia renale ha consentito il riscontro istologico di glomerulosclerosi focale segmentale o glomerulonefrite membranoproliferativa [3, 4].
Herlitz et al. [5] hanno riportato una casistica di 10 bodybuilder sottoposti a biopsia renale in seguito a riscontro di proteinuria e/o peggioramento della funzione renale. Tale casistica suggerisce che sia le manifestazioni cliniche sia gli aspetti istologici possono essere vari: all’esame istologico, si osservava GSFS (di cui 3 casi con variante “collapsing”, 4 casi di GSFS Non Altrimenti Specificata, 4 casi di GSFS variante “perilare”, 1 caso caratterizzato da sola glomerulomegalia) [5].
Ancora poco si conosce sull’esatta fisiopatologia. Come ipotizzato da Herlitz et al. [5], anche noi possiamo supporre che la GSFS nei pazienti presentati nella nostra case series possa essere il risultato di una combinazione di diversi fattori: maladattamento da iperfiltrazione glomerulare conseguente a BMI elevato e dieta iperproteica associato a danno nefrotossico diretto da steroidi anabolizzanti. Si tratta di soggetti che contemporaneamente seguono un regime alimentare iperproteico e fanno uso di steroidi anabolizzanti. Nella letteratura presa in esame la GSFS è considerata conseguenza sia degli steroidi anabolizzanti sia della dieta iperproteica. Per gli steroidi anabolizzanti si ipotizza un danno podocitopatico diretto, come osservato da studi condotti “in vitro” sugli effetti del testosterone sui podociti [5], mentre la dieta iperproteica e l’elevato BMI determinano iperfiltrazione glomerulare e conseguente glomerulosclerosi.
Dalla nostra, seppur limitata, esperienza si è osservata prevalentemente la variante “collapsing” di GSFS, che in genere presenta la prognosi peggiore. A differenza dei pazienti esaminati nella casistica di Herlitz et al., che hanno risposto bene alla sospensione degli AAS, due dei nostri pazienti hanno avuto rapida progressione della patologia renale con avviamento al trattamento dialitico sostitutivo.
È noto che proteinuria e insufficienza renale cronica moderata siano asintomatiche e che questo renda complicato fare una diagnosi tempestiva. Inoltre, spesso i pazienti sono reticenti nell’ammettere l’assunzione di steroidi anabolizzanti. Tutto ciò ritarda l’intervento medico, limita le possibilità terapeutiche e impedisce la conduzione di studi mirati.
Non conosciamo, in aggiunta, le conseguenze di altri tipi di integratori che pure sono di largo consumo nella pratica di vari sport. Ad esempio, restano poco chiare le conseguenze dell’assunzione regolare di proteine del siero del latte, creatina, amminoacidi ramificati o altri supplementi multivitaminici spesso di dubbia provenienza, reperiti su siti internet.
Poiché tali pratiche stanno diventando più frequenti, ci aspettiamo nel futuro prossimo un aumento di casi simili a quelli appena riportati. Una metanalisi condotta nel 2014 [6] ha evidenziato che in passato il consumo di sostanze anabolizzanti era diretto al miglioramento delle performance di atleti professionisti, mentre attualmente si sta diffondendo anche tra giovani o sportivi amatoriali per fini puramente estetici. Ancora poco sappiamo sulla prevalenza di tale abuso nella realtà italiana per i motivi prima esaminati.

 

Conclusioni

Questa case series invita a non sottovalutare la presenza di indici di funzione renale anche solo modestamente fuori dai range di normalità in pazienti con massa muscolare ipertrofica perché potrebbero essere indizio di danno renale. È, inoltre, ancora motivo di discussione la metodologia più idonea per stimare e/o calcolare la funzione renale nei pazienti con massa muscolare aumentata. Sicuramente sarebbero di supporto dati più numerosi e studi più ampi condotti su questa popolazione. Bisogna documentare l’effettiva prevalenza dell’abuso degli AAS e approfondire la correlazione tra le sostanze dopanti e l’incidenza di glomerulonefriti e/o insufficienza renale. È doveroso, infine, riconoscere tempestivamente l’abuso di steroidi androgeni anabolici e scoraggiare simili pratiche. Occorre informare e sensibilizzare in maniera decisa sui possibili rischi per la salute a breve e a lungo termine con iniziative che coinvolgano i medici di medicina generale, le istituzioni scolastiche o chi più è addentro al mondo dello sport (preparatori atletici e personal trainer, ad esempio). Perché, dunque, non affidare ai Nefrologi, in collaborazione con il ministero della Salute, una campagna di sensibilizzazione per la prevenzione di questa patologia glomerulare?

 

Bibliografia

  1. Linhares, B.L., et al., Use, Misuse and Abuse of Testosterone and Other Androgens. Sex Med Rev, 2022. 10(4): p. 583-595. https://doi.org/10.1016/j.sxmr.2021.10.002.
  2. Pendergraft, W.F., 3rd, et al., Nephrotoxic effects of common and emerging drugs of abuse. Clin J Am Soc Nephrol, 2014. 9(11): p. 1996-2005. https://doi.org/10.2215/CJN.00360114.
  3. Parente Filho, S.L.A., et al., Kidney disease associated with androgenic-anabolic steroids and vitamin supplements abuse: Be aware! Nefrologia (Engl Ed), 2020. 40(1): p. 26-31. https://doi.org/10.1016/j.nefro.2019.06.003.
  4. Revai, T., et al., [Severe nephrotic syndrome in a young man taking anabolic steroid and creatine long term]. Orv Hetil, 2003. 144(49): p. 2425-7.
  5. Herlitz, L.C., et al., Development of focal segmental glomerulosclerosis after anabolic steroid abuse. J Am Soc Nephrol, 2010. 21(1): p. 163-72. https://doi.org/10.1681/ASN.2009040450.
  6. Sagoe, D., et al., The global epidemiology of anabolic-androgenic steroid use: a meta-analysis and meta-regression analysis. Ann Epidemiol, 2014. 24(5): p. 383-98. https://doi.org/10.1016/j.annepidem.2014.01.009.

Impatto del telemonitoraggio in dialisi domiciliare: risultati di 5 anni di osservazione

Abstract

La dialisi (emodialisi e dialisi peritoneale) rappresenta una delle alternative terapeutiche per i pazienti affetti da insufficienza renale cronica e può essere erogata in diversi setting, tra cui quello domiciliare. Esistono in letteratura evidenze che dimostrano come la dialisi domiciliare possa garantire una migliore sopravvivenza e qualità di vita, e vantaggi di tipo economico. Tuttavia, esistono delle barriere che ne ostacolano l’impiego, come il “senso di abbandono” riferito dai pazienti che ricevono cure a domicilio.

Il presente studio valuta la capacità del sistema di telemedicina Doctor Plus® Nephro, adottato nel Centro di Nefrologia del P.O. G.B. Grassi di Roma-ASL Roma 3, di monitorare efficacemente i pazienti e di migliorare la qualità delle cure. Dal 2017 al 2022 sono stati osservati N=26 pazienti (durata media di osservazione per paziente: 2,3 anni). Dall’analisi è emerso come il programma identifichi tempestivamente le possibili anomalie dei parametri vitali e attivi una serie di interventi atti a normalizzare l’eventuale profilo alterato. Nel periodo in studio, il sistema ha rilasciato N=41.563 avvisi (N=1,87 avvisi per paziente/giorno), di cui N=16.325 (39,3%) di tipo clinico e N=25.238 (60,7%) di mancata misura. Tali avvisi hanno garantito una duratura stabilizzazione dei parametri, con benefici sulla qualità di vita dei pazienti. Si è osservato un trend di miglioramento nella percezione dello stato di salute (questionario EQ-5D; +11,1 punti sulla scala VAS), nel numero di accessi in strutture ospedaliere (-0,43 accessi/paziente in 4 mesi) e di giornate lavorative perse (-3,6 giorni persi in 4 mesi). In conclusione, Doctor Plus® Nephro rappresenta uno strumento utile ed efficiente per gestire i pazienti in dialisi domiciliare.

Parole chiave: insufficienza renale cronica, dialisi, emodialisi, Doctor Plus® Nephro, telemonitoraggio, televisita

Introduzione

L’insufficienza renale cronica (IRC) è una malattia severa che se non trattata adeguatamente può avere un impatto negativo sulla qualità e l’aspettativa di vita. Storicamente, i pazienti affetti da IRC dispongono di due alternative terapeutiche: il trapianto d’organo, attuabile in una casistica selezionata, e la dialisi (emodialisi e dialisi peritoneale) [13]. A livello globale, le stime del 2010 segnalavano una prevalenza di 2.050 milioni di soggetti dializzati, un numero destinato a raddoppiare, almeno, intorno al 2030 [4]. In Italia, si stima che il numero di pazienti attualmente in dialisi sia pari a circa 45-49.000 [2].

La dialisi può essere erogata in diversi setting, tra cui quello domiciliare. Nonostante questa pratica sia stata introdotta ormai da circa 60 anni, la dialisi domiciliare non è il setting utilizzato più comunemente in Italia, rappresentando circa il 15% [3].

Alcuni dei vantaggi della dialisi domiciliare sono piuttosto ovvi, come la maggiore flessibilità nell’organizzare le sessioni, la riduzione degli spostamenti verso il luogo di cura (particolarmente importante per i pazienti anziani e i loro familiari o caregiver), e l’opportunità di condurre uno stile di vita più regolare, senza la necessità di doversi recare frequentemente in ospedale, clinica o ambulatorio [5]. Inoltre, evidenze scientifiche riportano come la dialisi domiciliare possa garantire una migliore sopravvivenza, qualità di vita e opportunità di riabilitazione [6], associate a dei vantaggi di tipo economico [4]. Studi clinici randomizzati, pongono l’accento sulla correlazione tra maggiore frequenza e regolarità delle sessioni e l’efficacia terapeutica raggiungibile, in termini di controllo del filtrato, della pressione arteriosa, della ipertrofia ventricolare sinistra [713].

Alla luce dei vantaggi riportati, il basso livello di impiego della dialisi domiciliare può sembrare un’opportunità non adeguatamente sfruttata; a parziale spiegazione vengono riportate delle barriere significative che ne ostacolano l’impiego [5]. In prima istanza, la dialisi domiciliare può risultare un’operazione complessa, non accessibile per qualsiasi famiglia. I pazienti con IRC in dialisi domiciliare riferiscono spesso un “senso di abbandono” da parte del personale sanitario, in aggiunta ad ansia e stress dovuti alla paura di non essere adeguatamente monitorati [5]. La mancanza di supervisione da parte del personale sanitario può far temere che i pazienti risultino meno aderenti alla terapia, non solo nella frequenza della dialisi, ma anche nel rispetto delle prescrizioni farmacologiche e delle raccomandazioni su dieta e stile di vita [3, 7, 1418].

Queste potenziali criticità suggeriscono pertanto che la dialisi domiciliare necessiti di un ulteriore supporto che consenta di migliorare la soddisfazione dei pazienti e, di conseguenza, l’aderenza al trattamento [19]. La telemedicina va esattamente nella direzione di creare e promuovere una connessione efficiente tra pazienti e operatori [16]. Inoltre, il telemonitoraggio consente ai medici di modificare la terapia, richiedere visite specialistiche, e rimanere in un contatto empatico con i pazienti.

Recentemente, la pandemia da COVID-19 ha fornito un nuovo slancio all’implementazione della telemedicina [20]. I pazienti anziani, fragili e con molteplici comorbidità, sono a rischio di contrarre la malattia da COVID-19 sia durante le sessioni di dialisi ospedaliera, sia semplicemente recandosi sul luogo di cura ed entrando in contatto con soggetti positivi [21]. La telemedicina favorisce, pertanto, il distanziamento sociale, garantendo allo stesso tempo un’elevata qualità di cura e un’attenzione al paziente che possono essere addirittura superiori rispetto alla visita di persona.

È interessante notare che l’importanza della telemedicina era già stata enfatizzata in epoca pre-COVID-19 dal Piano Nazionale della Cronicità (PNC), una delle principali linee di intervento per la gestione della cronicità pubblicata nel 2016. Nel PNC, si riporta testualmente che il processo di cura e riabilitazione “è facilitato dalla trasmissione di dati relativi ai parametri vitali tra il paziente (a casa, in farmacia, in strutture assistenziali) e una postazione di monitoraggio, per la loro interpretazione e l’adozione delle scelte terapeutiche necessarie (ad esempio, servizi di Teledialisi) [22].

In linea con queste raccomandazioni, il Centro di Nefrologia del P.O. G.B. Grassi di Roma-ASL Roma 3 ha adottato e valutato i vantaggi clinici e sociali del Programma Doctor Plus® Nephro, nato dalla collaborazione tra Vree Health Italia e Fresenius Medical Care, per il telemonitoraggio e televisita dei pazienti in dialisi domiciliare.

Il Programma Doctor Plus® Nephro, è composto da un “Portale clinico” online per la gestione del programma e la raccolta dei dati, da un “KIT di Programma” che comprende dispositivi medici per il telemonitoraggio e la APP Vreely®, e da un “Centro Servizi” dedicato, composto da personale amministrativo disponibile da remoto. Il sistema è stato ampiamente descritto in un una precedente pubblicazione [23].

L’obiettivo del presente lavoro è quello di analizzare le evidenze relative al monitoraggio dei pazienti arruolati nel Programma Doctor Plus® Nephro, in modo da studiarne le caratteristiche al basale, l’andamento dei segni vitali nel tempo, gli effetti dell’implementazione di un programma di televisita unitamente al programma di telemonitoraggio. In particolare, è stata analizzata la capacità del sistema di monitorare efficacemente i pazienti e della televisita di migliorare la qualità delle cure anticipando possibili complicanze, riducendo accessi imprevisti alla struttura ospedaliera (pronto soccorso) e costi per la gestione delle malattie in acuto.

 

Pazienti e metodi

Disegno dell’analisi e fonte dei dati

Il presente studio ha analizzato tutti i pazienti appartenenti al Centro di Nefrologia della ASL Roma 3 sottoposti a dialisi domiciliare e inseriti nel programma di telemonitoraggio domiciliare nel periodo 3 luglio 2017 – 17 gennaio 2022. Ogni paziente è stato osservato per un periodo minimo di 6 mesi. Per quantificare l’entità del servizio Doctor Plus® Nephro, e valutare l’andamento dello stato di salute dei pazienti, è stata condotta un’analisi del database del “Portale Clinico” che gestisce tutta la logistica assistenziale. All’interno di questo database sono stati registrati tutti i dati anagrafici del paziente (e del caregiver, se presente), le informazioni relative al piano di monitoraggio elaborato dal medico specialista in relazione alle necessità del paziente, i parametri clinici registrati dai dispositivi medici usati dai pazienti, gli eventuali avvisi generati da misure non effettuate o misure fuori soglia rispetto ai range prestabiliti, e i risultati dei questionari di qualità di vita e soddisfazione periodicamente somministrati al paziente. L’analisi del database e la raccolta dei dati sono state effettuate da Vree Health aggregando le informazioni in maniera del tutto anonima.

Popolazione in studio

Sono stati considerati eleggibili tutti i soggetti in dialisi domiciliare afferenti al Centro di Nefrologia della ASL Roma 3 che, durante il periodo di osservazione (luglio 2017 – gennaio 2022), erano stati avviati al servizio di telemonitoraggio e possedevano i seguenti requisiti: i) età maggiore o uguale a 18 anni; ii) in dialisi peritoneale o emodialisi domiciliare; iii) almeno 6 mesi di permanenza all’interno del Programma Doctor Plus® Nephro.

Outcome misurati

Nell’analisi sono state misurate le seguenti variabili: i) caratteristiche del paziente al momento di inserimento nel Programma di telemonitoraggio (t0): età, sesso del paziente; ii) periodo di permanenza nel programma: data della prima e dell’ultima misurazione; iii) dati clinici del paziente: peso, pressione, pulsazioni, glicemia (solo pazienti diabetici) e ossimetria, con relativa indicazione di data e ora; avvisi dovuti a mancata misura o per misurazioni fuori soglia, con relativa indicazione di data, ora e valore; iv) data, tipologia (chiamata o visita) e motivazione dei singoli interventi non pianificati del Centro di Nefrologia sui pazienti in monitoraggio per gestire eventuali avvisi; v) dati raccolti al t0 e ogni 4 mesi: risultati di un questionario sottoposto ai pazienti su percezione della qualità servizio, ricoveri, accessi al pronto soccorso, visite specialistiche non programmate e giorni lavorativi persi calcolati dal paziente nel periodo precedente la rilevazione del dato.

Il piano di monitoraggio dei dati clinici prevedeva le seguenti misurazioni:

  • Peso: ogni mattina (entro le 12.00).
  • Pressione, pulsazioni e ossimetria: ogni mattina (entro le 12.00) e ogni sera (entro le 00.00).
  • Glicemia (solo pazienti diabetici): tre volte a settimana, ogni mattina (entro le 12.00) e ogni sera (entro le 00.00).

L’analisi statistica è stata condotta utilizzando i programmi Microsoft® Excel® per Windows® (Microsoft Corporation, Seattle, WA, USA), e STATA 13.

 

Risultati

Caratteristiche al basale e andamento dei parametri vitali nel tempo

Nel periodo in studio, N=34 pazienti sono stati inseriti nel programma Doctor Plus® Nephro. Di questi, N=26 pazienti (76,47% del totale) sono stati osservati per più di 180 giorni e sono stati dunque considerati eleggibili per l’analisi. Dei N=26 pazienti arruolati, N=3 (12%) erano in emodialisi domiciliare quotidiana e N=23 (88%) in dialisi peritoneale. La durata media di osservazione della coorte è stata pari a N=855 giorni (2,3 anni) per un totale cumulativo di N=22.239 giorni di inserimento nel programma. Il rapporto maschi/femmine è risultato piuttosto bilanciato (N=14 femmine, 53,9%; N=12 maschi, 46,1%), e l’età media era pari a 62,7 anni (deviazione standard: 14,3). Per ciascun paziente e per ciascuno dei parametri in studio, è stato calcolato un valore basale, utilizzando la mediana di ogni singola misura nell’arco temporale dei primi 60 giorni di osservazione. Questo calcolo ha consentito di stabilire quale fosse, approssimativamente, la distribuzione al basale dei diversi parametri analizzati all’interno del programma; i risultati sono mostrati in Tabella I. I dati sono riportati in forma aggregata senza distinzione tra pazienti in emodialisi domiciliare o dialisi peritoneale.

N pazienti valutati Tipo misura Media Deviazione standard 25mo percentile Mediana 75mo percentile
25 Peso (Kg) 68,0 19,1 59,2 68,6 75,1
26 Pressione diastolica (mmHg) 79,0 8,4 74,0 79,4 84,5
26 Pressione sistolica (mmHg) 131,1 14,8 125,5 130,3 137,8
26 Pulsazioni (n/minuto) 69,1 10,8 61,5 67,3 77,0
23 % di ossigeno (%) 97,7 1,0 97,0 98,0 98,0
23 Pulsazioni ossigeno (n/minuto) 71,1 9,5 65,5 69,5 80,0
Tabella I: Distribuzione dei parametri vitali al basale.

La determinazione puntuale dei parametri vitali della coorte in studio ha consentito di estrapolare l’andamento temporale (mensile) dei parametri stessi. La Figura 1 illustra il profilo dei principali parametri monitorati dal sistema nel tempo. Lungo l’asse delle ordinate (y) sono riportati i valori medi (punti blu) e l’errore standard (barretta) dei parametri misurati, ad ogni time-point considerato. La figura mostra i dati in forma aggregata per tutti i N=26 pazienti inseriti nel programma. Da un’attenta disamina della figura si evince come i parametri vitali variano nel tempo (con oscillazioni maggiori nel lungo termine, dovute alla riduzione del numero di pazienti osservati) a testimonianza del fatto che il programma di monitoraggio associato a Doctor Plus® Nephro sia in grado di indentificare tempestivamente le possibili anomalie e attivare una serie di interventi atti a normalizzare l’eventuale profilo alterato.

Andamento medio (ed errore standard) dei parametri vitali nel tempo
Figura 1: Andamento medio (ed errore standard) dei parametri vitali nel tempo (N=26 pazienti): A) Peso; B) Pressione diastolica; C) Pressione sistolica; D) Pulsazioni; E) % di ossigeno; F) Pulsazioni ossigeno. PAS: pressione arteriosa sistolica; PAD: pressione arteriosa diastolica; Puls oss: pulsazioni ossigeno.

Avvisi di sistema

Nel periodo in studio e per i N=26 pazienti analizzati, il sistema ha rilasciato N=41.563 avvisi, di cui N=16.325 (39,3%) di tipo clinico, e N=25.238 (60,7%), di mancata misura. In altri termini, il sistema ha rilasciato poco meno di 2 avvisi al giorno (N=1,87 avvisi/die, pari a N=41.563 avvisi diviso 22.239 giorni di inserimento nel programma). La Tabella II fornisce la stratificazione degli avvisi per tipologia e per priorità dell’avviso stesso. La quasi totalità degli avvisi di mancata misura sono stati classificati di priorità bassa; al contrario, gli avvisi di tipo clinico sono stati prevalentemente classificati di priorità moderata o elevata. Gli avvisi rossi (elevata priorità) comportavano il coinvolgimento del medico che adottava tempestivamente le misure del caso. Gli avvisi con priorità minore erano analizzati durante la visita periodica. 

Tipo di avviso Livello di priorità dell’avviso
Basso Medio Elevato Totale
Clinico, n 2.194 9.107 5.024 16.325
Clinico, % 13,4% 55,8% 30,8% 100,0%
Mancata Misura, n 24.418 820 0 25.238
Mancata Misura, % 96,8% 3,3% 0,0% 100,0%
Totale, n 26.612 9.927 5.024 41.563
Totale, % 64,0% 23,9% 12,1% 100,0%
Tabella II: Distribuzione degli avvisi rilasciati nel periodo in studio, per tipo e priorità.

È importante notare che lo stesso tipo di avviso (ad esempio, la mancata misura di un determinato parametro) poteva ripetersi più volte nello stesso giorno. Il numero distinto di avvisi (ottenuto eliminando gli avvisi ripetuti nello stesso giorno) è stato pari a N=16.931. Di questi avvisi, il 39,4% (N=6.674) erano avvisi di tipo clinico, distribuiti per tipo di misura come indicato in Tabella III. Seppur non essendo possibile un confronto del sistema rispetto a un gruppo di controllo, i valori assoluti mostrano comunque una frequenza di rilascio e un’intensità del livello di controllo molto elevati.

Tipo anomalia Descrizione anomalia Numero avvisi (n) Frequenza relativa sul totale (%)
Saturazione di ossigeno Anomalia % ossigeno (86-94) 66 1,0%
Anomalia % ossigeno (<86) 20 0,3%
Pressione diastolica Anomalia PAD (85-90 mmHg) 156 2,3%
Anomalia PAD (90-100 mmHg) 474 7,1%
Anomalia PAD (<70 mmHg) 44 0,7%
Anomalia PAD (<90 mmHg) 1 0,0%
Anomalia PAD (>100 mmHg) 38 0,6%
Pressione sistolica Anomalia PAS (130-140 mmHg) 949 14,2%
Anomalia PAS (130-150 mmHg) 167 2,5%
Anomalia PAS (140-160 mmHg) 1.474 22,1%
Anomalia PAS (150-170 mmHg) 233 3,5%
Anomalia PAS (>160 mmHg) 206 3,1%
Anomalia PAS (>170 mmHg) 64 1,0%
Glicemia Anomalia glicemia (110-126 mg/dL) 16 0,2%
Anomalia glicemia (126-170 mg/dL) 61 0,9%
Anomalia glicemia (70-90 mg/dL) 36 0,5%
Anomalia glicemia (<70 mg/dL) 1 0,0%
Peso Incremento peso 2.668 40,0%
Totale 6.674 100,0%
Tabella III: Distribuzione degli avvisi clinici rilasciati per area di anomalia (e relativo dettaglio).
PAS: pressione arteriosa sistolica; PAD: pressione arteriosa diastolica.

Tassi di copertura e frequenza di valori fuori range

La sistematicità con cui il sistema Doctor Plus® Nephro raccoglie le informazioni fornisce l’opportunità di valutare altri due indicatori: i) il tasso di copertura, ossia il rapporto tra il numero di misure raccolte dal sistema e il numero di giorni di permanenza nel sistema (idealmente un tasso di copertura pari al 100% si realizzerebbe se ogni giorno il dato riguardante un certo parametro vitale fosse misurato dal paziente e inviato al centro di raccolta dati); ii) la frequenza di valori fuori range, ossia il rapporto tra il numero di valori “anomali” (che attivano un avviso) e il numero delle misurazioni effettuate. La Figura 2 mostra i tassi di copertura e la frequenza di valori fuori range nella popolazione in studio. Nel complesso, è stata registrata una copertura di circa il 60% dei giorni per quanto riguarda la pressione arteriosa; in media i pazienti hanno misurato la pressione (e inviato i dati a sistema) un po’ più frequentemente di un giorno sì e un giorno no. Un valore del 60% denota una sufficiente diligenza del paziente nel controllare il proprio stato di salute e di aderenza al programma, soprattutto se si considera il dato confrontandolo con la permanenza dei pazienti nel programma e la frequenza quotidiana teorica di rilevazione. Il tasso di anomalie pressorie è risultato molto più elevato per la pressione arteriosa diastolica (PAD) che per la pressione arteriosa sistolica (PAS). Infine, il tasso di misurazione di ossigeno è risultato nettamente più basso rispetto a quello di PAD e PAS. Tuttavia, anche in questo caso una copertura di circa il 21% implica che, mediamente, è stata effettuata almeno una misurazione settimanale.

Tassi di copertura e frequenza di valori fuori range dei principali parametri di monitoraggio.
Figura 2: Tassi di copertura e frequenza di valori fuori range dei principali parametri di monitoraggio. PAS: pressione arteriosa sistolica; PAD: pressione arteriosa diastolica.

Qualità di vita e consumo di risorse

Per N=18 pazienti è stato possibile effettuare una valutazione degli outcome di qualità di vita e di consumo di risorse durante il periodo di osservazione. La Tabella IV fornisce un confronto tra i dati (es. punteggi, numero di ricoveri, etc.) durante la prima visita (effettuata tra il 2017 e il 2018) e l’ultima visita (effettuata tra il 2019 e il 2021). Gli outcome riguardano i questionari di qualità di vita SF-12 (12-Item Short Form Survey) e EQ-5D (EuroQoL, 5 dimensioni), la rilevazione di ricoveri, accessi al pronto soccorso, perdita di produttività, e soddisfazione per il servizio.

È interessante osservare che, nel complesso, i punteggi di qualità di vita si sono mantenuti stabili nel corso del tempo e nessuna delle (modeste) differenze riscontrate su alcuni item è risultata statisticamente significativa. Anche i livelli di soddisfazione del servizio si sono attestati su valori elevati sin dall’inizio (prima visita), e si sono mantenuti tali nel corso degli anni (ultima visita). Si è infine osservato un trend di miglioramento, alla fine dell’osservazione rispetto all’inizio, seppur non significativo, in alcuni outcome, quali ad esempio la percezione dello stato di salute nel questionario EQ-5D, la riduzione degli accessi in pronto soccorso e in ospedale, come anche il numero di giornate lavorative perse per sé o per un proprio familiare, a conferma del fatto che il telemonitoraggio ha un potenziale di ottimizzazione del beneficio per il paziente e risparmio di risorse.

Questionario Domanda Scala N pazienti Valore medio p*
Prima visita Ultima visita
SF12 1 – Stato generale salute Da 1=scadente
a 5=eccellente
18 2,67 2,67 1,00
2 – La salute limita nelle attività di moderato impegno fisico? Da 1=parecchio
a 3=per nulla
18 2,11 2,22 0,54
3 – La salute limita nel salire qualche piano di scale? Da 1=parecchio
a 3= per nulla
18 2,33 2,11 0,10
4 – [ultime 4 sett] Salute fisica limita sul lavoro o nelle attività quotidiane? % pazienti che rispondono “Sì” 18 39% 50% 0,50
5 – [ultime 4 sett] Salute fisica limita alcuni tipi di lavoro o di altre attività? % pazienti che rispondono “Sì” 18 33% 44% 0,49
6 – [ultime 4 sett] Stato emotivo limita sul lavoro o nelle altre attività quotidiane? % pazienti che rispondono “Sì” 18 22% 22% 1,00
7 – [ultime 4 sett] Stato emotivo determina cali di concentrazione sul lavoro o in altre attività? % pazienti che rispondono “Sì” 18 17% 17% 1,00
8 – [ultime 4 sett] Il dolore ostacola il lavoro abituale sia in casa che fuori? Da 1=moltissimo
a 5=per nulla
18 4,39 4,06 0,29
9 – [ultime 4 sett] Per quanto tempo si è sentito calmo e sereno? Da 1=mai
a 6=sempre
18 4,28 3,78 0,15
10 – [ultime 4 sett] Per quanto tempo si è sentito pieno di energia? Da 1=mai
a 6=sempre
18 3,33 3,28 0,89
11 – [ultime 4 sett] Per quanto tempo si è sentito scoraggiato e triste? Da 1=mai
a 6=sempre
18 5,00 5,11 0,77
12 – [ultime 4 sett] Per quanto tempo la salute fisica o lo stato emotivo hanno interferito nelle attività sociali? Da 1=mai
a 5=sempre
18 4,06 4,11 0,86
OSP Grassi – 7 1 – [ultimi 4 mesi] Numero accessi al pronto soccorso o ricoveri

N/accessi

in 4 mesi

18 0,22 0,17 0,67
2 – [ultimi 4 mesi] Numero visite specialistiche NON programmate

N/visite

in 4 mesi

18 0,39 0,17 0,22
3 – [ultimi 4 mesi] Numero giorni lavorativi persi (paziente o caregiver)

N/giorni

in 4 mesi

18 2,67 2,06 0,29
4 – Soddisfazione del servizio di monitoraggio della sua patologia Da 1=non soddisfatto
a 5=moltissimo
18 4,22 3,94 0,17
5 – Quanto sarebbe soddisfatto di continuare con l’attuale forma di trattamento? Da 1=non soddisfatto
a 5=moltissimo
18 4,50 4,50 1,00
6 – Raccomanderebbe la sua forma di trattamento? % pazienti che rispondono “Sì” 18 94% 94% 1,00
7 – Quanto la rassicura sapere di poter contare
sul Centro Servizi?
Da 1=non mi rassicura
a 5=moltissimo
18 4,67 4,56 0,50
EQ-5D 1 – Attuale livello di gravità riguardo la mobilità Da 1=molto grave
a 3=nessuno
18 2,94 2,94 1,00
2 – Attuale livello di gravità riguardo la cura personale Da 1=molto grave
a 3=nessuno
18 2,94 2,94 1,00
3 – Attuale livello di gravità riguardo le attività usuali? Da 1=molto grave
a 3=nessuno
18 2,89 2,89 1,00
4 – Attuale livello di gravità riguardo il dolore o disagio? Da 1=molto grave
a 3=nessuno
18 2,72 2,78 0,67
5 – Attuale livello di gravità riguardo l’ansia o la depressione? Da 1=molto grave
a 3=nessuno
18 2,89 2,94 0,58
 6 – Da una scala da 0 a 100, attualmente come percepisce il suo stato di salute? Da 0=peggiore
a 100=migliore
18 69,9 78,7 0,07
Doctor Plus Nephro-7 1 – [ultimi 4 mesi] Numero accessi al pronto soccorso o ricoveri N/accessi in 4 mesi 18 0,28 0,06 0,26
2 – [ultimi 4 mesi] Numero visite specialistiche NON programmate N/visite in 4 mesi 17 0,00 0,06 0,33
3 – [ultimi 4 mesi] Numero giorni lavorativi persi (paziente o caregiver) N/giorni in 4 mesi 17 1,94 0,00 0,16
4 – Soddisfazione del servizio di monitoraggio della sua patologia Da 1=non soddisfatto
a 5=moltissimo
18 3,94 3,94 1,00
5 – Quanto sarebbe soddisfatto di continuare con l’attuale forma di trattamento? Da 1=non soddisfatto
a 5=moltissimo
18 4,11 4,11 1,00
6 – Raccomanderebbe la sua forma di trattamento ad altri? % pazienti che rispondono “Sì” 18 100% 100% 1,00
7 – Quanto la rassicura sapere di poter contare sul Centro Servizi? Da 1=non mi rassicura
a 5=moltissimo
18 3,94 3,83 0,54
Tabella IV: Confronto degli outcome di qualità di vita, soddisfazione del servizio e consumo di risorse, tra la prima e l’ultima visita.
*t-test per dati appaiati per i punteggi numerici; test delle proporzioni per dati binari (sì/no).
EQ-5D, EuroQoL 5 dimensioni; SF, 12-Item Short Form Survey.

Benefici attribuibili al servizio di videochiamata

Un sottogruppo di pazienti inseriti nel programma Doctor Plus® Nephro (N=16) ha beneficiato, nell’arco temporale compreso tra luglio 2020 e gennaio 2022, in occasione della pandemia COVID-19, di un servizio di videovisita attraverso una videochiamata a integrazione del piano convenzionale di monitoraggio. Per questo sottogruppo di pazienti, è stato possibile effettuare un confronto tra il periodo precedente all’implementazione del servizio e quello successivo, per una serie di indicatori, tra cui: i) qualità di vita (misurata con questionario EQ-5D e percezione dello stato di salute con scala analogico-visuale, VAS); ii) consumo di risorse sanitarie (accessi al pronto soccorso, ricoveri e visite specialistiche non programmate negli ultimi 4 mesi) iii) perdita di giorni lavorativi negli ultimi 4 mesi; iv) livello di soddisfazione del servizio.

Dai risultati delle analisi preliminari, è emersa una sostanziale sovrapponibilità tra il periodo precedente e successivo all’implementazione della videochiamata per quanto riguarda la qualità di vita e per il livello di soddisfazione del servizio. Tuttavia, sono stati registrati dei trend interessanti per quanto attiene gli altri indicatori. Ad esempio, il punteggio VAS associato allo stato di salute è aumentato nel periodo di video-visita (81,1 su 100), rispetto al periodo precedente (70,0). Al contrario, il tasso di accesso a pronto soccorso e di ricovero è risultato inferiore nel periodo di video-visita (0,07 episodi in 4 mesi), rispetto al periodo precedente (0,5 episodi in 4 mesi). Infine, il numero di giornate lavorative perse è risultato nullo nel periodo di video-visita (0 giorni lavorativi persi in 4 mesi) rispetto al periodo precedente (3,6 giorni lavorativi persi in 4 mesi). In definitiva, pur essendo questi risultati preliminari, basati su una casistica piuttosto limitata, e non idonei a un confronto statistico vero e proprio, vanno tutti nella direzione di un potenziale vantaggio per la salute del paziente e per la riduzione dei costi di gestione della malattia acuta.

 

Discussione

La presente analisi costituisce un aggiornamento di una prima indagine, condotta nel 2020 [23]. Rispetto alla precedente analisi, è stata considerata una casistica più grande e un orizzonte temporale più ampio. L’ulteriore novità di questa analisi è rappresentata dall’opportunità di aver testato, sebbene in modo preliminare, l’impatto della televisita sulla qualità di vita del paziente e sui costi diretti e indiretti. Sebbene la maggior parte delle analisi non siano comparative (rispetto, per esempio, a un gruppo di non intervento), è ugualmente possibile trarre delle importanti conclusioni: i) un programma di monitoraggio remoto come Doctor Plus® Nephro consente un efficiente controllo dei pazienti in dialisi domiciliare; ii) i risultati osservati sono in linea con una serie di studi osservazionali che hanno confermato la fattibilità di implementazione e i benefici di questi programmi [2428].

Nella presente analisi, sono stati monitorati i parametri vitali di pazienti sino a un massimo di circa 5 anni. I risultati mostrano che i profili dei parametri monitorati sono molto stabili nel tempo, con valori medi centrati sulla normalità e una frequenza delle oscillazioni rispetto ai valori medi piuttosto contenuta, a testimonianza del fatto che, nel caso di un’anomalia (ad esempio un aumento ponderale, oppure un picco pressorio), il sistema attiva una serie di interventi che raggiungono il paziente in maniera precoce. Questa tempestività garantisce un ottimale stato di salute del paziente, che allo stesso tempo si sente rassicurato, vicino al proprio medico curante, e pertanto incentivato a continuare il suo percorso di dialisi domiciliare.

In totale, il sistema ha rilasciato poco meno di 2 avvisi per paziente/giorno. Se escludiamo gli avvisi di mancata misurazione, sicuramente importanti, ma non necessariamente associabili a un peggioramento delle condizioni di salute del paziente, il sistema ha rilasciato 0,73 avvisi per paziente/giorno, che equivale, approssimativamente, a circa 5 segnalazioni in una settimana. Un sistema così presente è capace di intercettare anche minime variazioni dei parametri vitali e innescare una cascata di interventi che possono contenere il problema di salute in maniera tempestiva, riducendo così il rischio di accadimento di episodi più severi, da gestire in un setting acuto ospedaliero.

In aggiunta, i dati di soddisfazione per il servizio e di qualità di vita riportata dai pazienti certificano la bontà del programma, che incontra i bisogni dei pazienti dializzati. In questo contesto, il servizio di televisita, oltre ad avere incontrato i bisogni dei pazienti, sembra aver consentito un risparmio sia in termini di costi diretti (riduzione degli accessi alle strutture ospedaliere per potenziali complicanze), che di costi indiretti (riduzione del numero di giorni di lavoro persi dai pazienti o dai caregiver per recarsi verso il luogo di cura).

Nella sua semplicità, questa analisi offre dati sugli effetti del monitoraggio, quali il miglioramento della qualità di vita dei pazienti, e il potenziale contenimento dei costi. Tali dimensioni sono cruciali per garantire l’efficienza di un programma come Doctor Plus® Nephro, ma non sono gli unici vantaggi di sistema, come evidenziato in maniera esaustiva in altre pubblicazioni [29]. Se potenziati e affinati, i programmi di monitoraggio remoto possono consentire la realizzazione di vere e proprie piattaforme educazionali che mantengono il paziente informato sulle possibilità di cura e motivato a continuare la terapia. Questi programmi incontrano poi l’obiettivo decennale del Servizio Sanitario Italiano, solo parzialmente raggiunto, di transizione di gestione della cronicità dall’ospedale al territorio attraverso una maggiore capacità di raggiungere il paziente, piuttosto che richiedergli di raggiungere il luogo di cura. Questo obiettivo, storicamente perseguito “a macchia di leopardo” dalle amministrazioni sanitarie, è tornato, in epoca COVID-19, a essere una delle sfide più importanti in Sanità.

In ultimo, la possibilità di utilizzare l’enorme mole di dati longitudinali creando delle vere e proprie banche dati utili per indagini di outcome (compliance alle terapie croniche, analisi di outcome, etc.) con uno sforzo relativamente modesto (ormai diversi sistemi sono dotati di connettività – ad esempio Bluetooth) consente di ridurre il problema di dover trasferire dati manualmente, riducendo così anche l’errore di data entry.

 

Conclusioni

Alla luce dei risultati ottenuti, possiamo ritenere che il telemonitoraggio, e in particolare il servizio Doctor Plus® Nephro, sia uno strumento utile per un Centro di Nefrologia nel gestire i pazienti in dialisi domiciliare e possa essere di supporto per affrontare con maggiore consapevolezza e serenità il trattamento domiciliare, migliorando la soddisfazione dei pazienti e dei loro caregiver, in aggiunta ai risultati clinici e sociali.

 

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Il contributo del sostegno psicologico nella gestione dell’ansia nei pazienti nefropatici e dializzati

Abstract

Introduzione: I condizionamenti indotti dalla terapia renale sostitutiva proposta ai pazienti affetti da nefropatia cronica in stadio 5 influiscono sulla loro qualità di vita. Tali situazioni modificano l’ansia di stato, che esprime una sensazione relativa ad uno specifico contesto. Questa si va a sovrapporre all’ansia di tratto, che esprime invece una condizione più duratura della personalità.
Questo studio è mirato a caratterizzare lo stato d’ansia dei pazienti uremici e dimostrare l’utilità di un supporto psicologico sia in presenza che da remoto per ridurre soprattutto l’ansia di stato.
Materiali e metodi: 23 pazienti, seguiti presso la Nefrologia dell’Ospedale San Bortolo di Vicenza, e sottoposti ad almeno otto sedute di sostegno psicologico sono stati arruolati per questo studio. La prima e l’ultima seduta sono state effettuate in presenza, le altre sia in presenza che da remoto in base alla preferenza del paziente. Alla prima e all’ottava seduta è stato sottoposto lo State-Trait Anxiety Inventory (STAI), che misura l’ansia di tratto e di stato.
Risultati: I pazienti prima del supporto psicologico presentavano valori elevati sia di ansia di tratto che di stato. Dopo le otto sedute sia l’ansia di tratto che quella di stato si sono significativamente ridotte, sia che le sedute fossero in presenza che da remoto.
Conclusioni: Un percorso di otto sedute di supporto psicologico favorisce nel paziente nefropatico una significativa riduzione dell’ansia di tratto e ancor più dell’ansia di stato, favorendo il raggiungimento di livelli di avanzato adattamento alla nuova situazione clinica e un miglioramento della qualità della vita.

Parole chiave: supporto psicologico, insufficienza renale cronica, ansia di stato, ansia di tratto

Introduzione

La malattia renale cronica rappresenta oggi una delle malattie croniche con il maggior impatto sociale, sia per il crescente numero di pazienti, dato anche dall’allungamento della vita media, sia perché conduce il paziente a intraprendere percorsi che lo accompagnano per tutta la vita, con la scelta condivisa tra clinico e paziente che può ricadere su emodialisi, dialisi peritoneale, trapianto renale o terapia conservativa [1].

L’impatto psicologico della malattia renale cronica e delle terapie sostitutive conseguenti ad essa è ben noto, in quanto sono numerosi i fattori connessi a tali terapie che comportano una riduzione della qualità di vita associata ad un aumento delle quote di ansia e di distress psicologico nei pazienti nefropatici [2, 3].

Come stabilito dall’OMS, la salute deve corrispondere ad “uno stato di benessere fisico, mentale e sociale e non alla semplice assenza di malattia”, e in quest’ottica il percorso di miglioramento della qualità della vita ha come obiettivo ottimizzare l’outcome clinico di molte patologie e la compliance alla terapia da parte del paziente [4, 5].

La patologia renale cronica e la qualità di vita

La qualità di vita rientra sicuramente tra i focus principali di trattamento dei pazienti affetti da patologia renale cronica. Tuttavia, con particolare riferimento ai pazienti nefropatici in dialisi, è difficile far riferimento a standard di qualità di vita condivisi data la grande variabilità interpersonale di età, del contesto socio-culturale di provenienza e della presenza di una rete familiare e sociale che li circonda. Ci si trova così a valutare il grado di soddisfazione relativo alla qualità di vita sulla base della durata della terapia dialitica, della rapidità d’accesso al trapianto renale, del peso della compliance terapeutica e di una possibile presenza di ulteriori patologie significative.

Evidenze scientifiche ci confermano oggi che la qualità della vita del paziente affetto da malattia renale cronica è anche strettamente correlata allo stato psico-emotivo del paziente, si può perciò comprendere come i condizionamenti e le restrizioni causate dalla terapia dialitica agiscano sullo stile e sulla qualità della loro vita, così come nel loro percorso terapeutico [6]. Questi condizionamenti includono la famiglia, il contesto sociale e lavorativo, la sfera sessuale, le relazioni con l’équipe di cura, l’immagine di sé, la propria autostima e la propria indipendenza, spesso perduta soprattutto con l’avanzare dell’età [7, 8]. Tali situazioni possono influire sullo stato d’ansia del paziente.

In particolare si possono distinguere due forme di ansia: l’ansia di tratto e l’ansia di stato. La prima fornisce un valore del livello d’ansia che il soggetto esperisce nella vita quotidiana, si riferisce a come ci si sente abitualmente, ad una condizione più duratura e stabile della personalità che caratterizza l’individuo in modo persistente e costante, indipendentemente da una situazione particolare [9]. L’ansia di stato invece fornisce un valore dell’ansia in uno specifico contesto ed esprime una sensazione soggettiva di preoccupazione con un conseguente aumento dell’attività del sistema nervoso autonomo e perciò di intensità variabile e transitoria [10].

In tale scenario, la figura dello psicologo clinico si pone come strumento per rispondere ai bisogni emotivi dal paziente nefropatico soprattutto quando gli viene prospettata una fase pre-dialitica e dialitica del percorso di cura. Tuttavia, nonostante numerose siano le ricerche in merito, sembra non vi siano evidenze precise connesse ad un timing specifico di intervento di sostegno psicologico e i dati non dimostrano quale possa essere lo specifico momento critico nell’iter che il paziente deve affrontare [11, 12].

Obiettivi dello studio

Il primo obiettivo di questo studio è stato quello di caratterizzare lo stato d’ansia dei pazienti affetti da insufficienza renale cronica in stadio V in fase pre-dialitica e dialitica, seguiti presso l’U.O.C. di Nefrologia dell’Ospedale San Bortolo di Vicenza. Ulteriori scopi di questo studio sono stati dimostrare l’utilità di un supporto psicologico per ridurre l’ansia di stato e definire se è possibile indicare una tempistica minima per la terapia psicologica necessaria a tal fine. Infine abbiamo valutato se colloqui in presenza o da remoto potessero apportare gli stessi benefici ai pazienti.

 

Materiali e metodi

In questo lavoro riportiamo l’attività di sostegno psicologico rivolto ai pazienti seguiti in follow-up cronico presso l’U.O.C. di Nefrologia dell’Ospedale San Bortolo di Vicenza nel periodo compreso tra il 30 settembre 2020 e il 30 settembre 2022. Tale attività è stata svolta da uno Psicologo dedicato ai pazienti affetti da insufficienza renale cronica. Sono stati inclusi nello studio pazienti noti da almeno tre mesi alla nostra Unità Operativa e con più di 18 anni di età, che dopo essere stati informati delle modalità di svolgimento dello studio abbiano firmato il consenso informato. Lo studio è stato condotto nel rispetto della Dichiarazione di Helsinki.

Il progetto tratta di uno studio osservazionale retrospettivo che ha arruolato 23 pazienti: 5/23 presentavano un quadro di insufficienza renale cronica in stadio V in fase pre-dialitica mentre 18/23 erano pazienti prevalenti in dialisi (7 in dialisi peritoneale e 11 in trattamento extracorporeo).

I pazienti sono stati indirizzati al sostegno psicologico in base alle necessità indicate dai clinici del reparto di Nefrologia. In particolare, i pazienti in fase pre-dialitica presentavano una difficoltà nell’accettazione ad avviare il percorso verso il trattamento sostitutivo, mentre i pazienti già in trattamento dialitico lamentavano il peso del trattamento stesso e manifestavano una riduzione della compliance. Inoltre, alcuni pazienti manifestavano anche timore nei confronti della possibilità di trapianto renale.

Descrizione dell’attività clinica

Fase pre-dialitica

Durante questa fase si accompagna il paziente lungo il processo di accettazione e adattamento psico-emotivo alla malattia che in alcuni casi risulta essere bloccato da meccanismi di difesa quali la negazione o la rimozione. Queste limitazioni possono indurre il paziente a non riconoscere o comprendere fino in fondo le indicazioni e le spiegazioni presentate dai clinici rispetto al trattamento dialitico. In questa fase, lo psicologo si affianca ai medici in modo tale da essere riconosciuto dai pazienti come una figura alla quale far riferimento nelle situazioni di difficoltà di adesione alle terapie, nell’elaborazione della rabbia o nelle possibili reazioni di rifiuto. Un sostegno psicologico in fase pre-dialitica permette perciò di attivare un processo di adattamento psicologico estremamente importante per il mantenimento della compliance terapeutica nella fase successiva.

Fase dialitica

Come già evidenziato, la terapia sostitutiva impatta fortemente sulla vita sia del paziente che della sua famiglia e la sua capacità di reazione e accettazione risulta essere strettamente correlata ad alcuni fattori individuali (ad esempio struttura di personalità, rete familiare e sociale, stile di coping, esperienze pregresse di malattia) che evidenziano però reazioni simili quali stati depressivi, disturbi d’ansia, insonnia, disturbi sessuali. In questa fase la presa in carico psicologica mira a consolidare le risorse individuali e ad una ristrutturazione del proprio Sé in funzione del radicale cambiamento di stile di vita.

Percorso psicologico

Tutti i pazienti sono stati sono stati sottoposti ad almeno otto sedute di sostegno psicologico. La figura 1 riporta lo schema di programmazione delle sedute (Figura 1).

Descrizione del percorso di supporto psicologico realizzato presso l’U.O.C. di Nefrologia Dialisi e Trapianto Renale dell’Ospedale san Bortolo, Vicenza.
Figura 1: Descrizione del percorso di supporto psicologico realizzato presso l’U.O.C. di Nefrologia Dialisi e Trapianto Renale dell’Ospedale san Bortolo, Vicenza.

La prima e l’ultima seduta sono sempre state effettuate in presenza presso gli ambulatori della Nefrologia, mentre gli altri colloqui sono stati svolti sia in presenza che da remoto in base alla preferenza del paziente e alla sua possibilità di trasporto. In particolare, per i pazienti sottoposti a trattamento emodialitico le sedute psicologiche sono state effettuate nei giorni in cui il paziente non doveva essere sottoposto a terapia sostitutiva.

A tutti i pazienti, alla prima e all’ottava seduta, è stato sottoposto lo State-Trait Anxiety Inventory (STAI), un questionario composto da 40 items di autovalutazione su una scala Likert a 4 punti, che va a misurare due tipi di ansia: ansia di stato e ansia di tratto [13, 14].

Lo STAI richiede circa 15 minuti per la compilazione. Si propone al soggetto di compilare la scala di Stato per prima poiché risulta essere più sensibile alle condizioni nelle quali il test viene somministrato e il suo punteggio può essere condizionato dal clima emotivo che si può venire a creare durante la compilazione dello stesso. Gli items delle due scale sono valutati su una scala da 1 a 4 punti: per la valutazione dell’ansia di stato (X-1) i valori sono 1 = per nulla, 2 = un po’, 3 = abbastanza, 4 = moltissimo. Per la valutazione dell’ansia di tratto (X-2) i valori sono 1 = quasi mai, 2 = qualche volta, 3 = spesso, 4 = quasi sempre.

Analisi Statistica

L’analisi statistica è stata effettuata con l’utilizzo del software SPSS (SPSS Inc., Chicago, IL, USA) e del foglio di calcolo EXCEL. Le variabili non continue sono state espresse come media e deviazione standard o mediana e intervallo interquartile (IQR) in maniera adeguata alla distribuzione. Il test t o il test U Mann-Whitney è stato usato per la valutazione e la comparazione dei dati tra due gruppi a seconda della distribuzione della variabile. Un p-value inferiore a 0,05 è stato considerato statisticamente significativo.

 

Risultati

Nello studio sono stati arruolati 23 pazienti con un’età media di 59 ± 6,3 anni, di cui 12 maschi (52%) e 11 femmine. 5/23 presentavano un quadro di insufficienza renale cronica in stadio V seguiti in follow-up cronico nell’ambulatorio di pre-dialisi, con eGFR secondo CKD-EPI medio di 11 ± 3 ml/min/1.73 m2. 18/23 erano pazienti prevalenti da più di tre mesi in dialisi (7 in dialisi peritoneale e 11 in trattamento extracorporeo). Il 90% dei pazienti era affetto da ipertensione arteriosa, il 30% da diabete mellito tipo II. Le caratteristiche cliniche dei pazienti sono riportati in Tabella 1. 

Pazienti (numero) 23
Età (anni, media ± DS)

Maschi (%)

Ipertensione (%)

Diabete mellito (%)

Pazienti in lista trapianto (%)

59 ± 6,3
52
90
30
83
Malattie di base Glomerulonefrite (%) 35
ADPKD (%) 14
Nefroangiosclerosi (%) 39
Uropatia Ostruttiva (%) 4
Altro (%) 8
Emoglobina, g/l (media ± DS)

Albumina, g/dl (media ± DS)

Kt/V emodialisi (media ± DS)

wKt/V dialisi peritoneale (media ± DS)

117 ± 7,7
4,01 ± 0,2
1,33 ± 0
1,84 ± 0,4
Tabella 1: Caratteristiche cliniche e parametri biochimici dei pazienti. Legenda: DS: Deviazione Standard; ADPKD: Autosomal Dominant Polycystic Kidney Disease; wKt/V: total (renal and peritoneal) weekly Kt/Vurea.

Le patologie di base sono risultate essere per il 35% della popolazione studiata glomerulonefriti, per il 39% nefroangiosclerosi, per il 14% malattia del rene policistico autosomico dominante, per il 4% uropatie ostruttive e per l’8% dei casi altre patologie. L’83% dei pazienti risultava essere in lista di attesa attiva per trapianto di rene.

I valori di emoglobina medi erano di 117 ± 7,7 g/l, mentre l’albumina era di 4,01 ± 0,2 g/dl. Come indici di depurazione per i pazienti in trattamento sostitutivo abbiamo considerato il Kt/V, che per i pazienti in emodialisi era in media 1,33 ± 0,2 mentre per i pazienti in dialisi peritoneale il valore settimanale era in media 1,84 ± 0,4.

Dall’analisi dei dati risulta che tutti i pazienti prima del supporto psicologico presentavano al test STAI valori indicativi di livelli elevati sia di ansia di tratto che di stato (rispettivamente media 54,8 ± 7,3 e 60,8 ± 0,8).

I valori del test STAI somministrato ai pazienti sono stati confrontati prima e dopo le otto sedute di terapia psicologica programmate. I valori del test STAI ottenuti dopo le 8 sedute sono statisticamente inferiori sia per l’ansia di stato che per l’ansia di tratto (ansia di tratto 54,8 ± 7,3 versus 45,7 ± 9,2, p < 0,001 e ansia di stato 60,78 ± 0,8 versus 44,13 ± 6,36, p < 0,001, rispettivamente) (Figura 2).

Variazioni dei livelli di ansia di tratto e ansia di stato secondo i valori del test State-Trait Anxiety Inventory (STAI)
Figura 2: Variazioni dei livelli di ansia di tratto e ansia di stato secondo i valori del test State-Trait Anxiety Inventory (STAI), prima e dopo otto sedute di supporto psicologico.

Inoltre, abbiamo diviso la nostra popolazione in 2 gruppi basandoci sulla modalità di esecuzione delle sedute intermedie (sedute in presenza e sedute da remoto). I valori del test STAI risultano statisticamente diminuiti dopo le 8 sedute con entrambe le modalità (p = 0,02) ed i delta ottenuti pre-post seduta sono sovrapponibili nei due gruppi (p = 0,68).

Confrontando i valori di riduzione dello stato d’ansia di tratto con la riduzione dello stato d’ansia di stato si dimostra che la differenza tra prima e dopo le sedute è maggiore per l’ansia di stato in modo statisticamente significativo (delta ansia di tratto 9,1 ± 2,7 versus delta ansia di stato 16,7 ± 5,67, p < 0,001).

Dividendo la popolazione in base al genere, non è stata individuata differenza nello stato d’ansia di tratto tra maschi e femmine né prima né dopo le sedute (ansia di tratto prima delle sedute nei maschi nei confronti delle femmine rispettivamente 55,1 ± 12,0 versus 54,5 ± 7,8, p = 0,851 e ansia di tratto dopo le sedute nei maschi rispetto alle femmine 47,7 ± 7,8 versus 43,5 ± 4,2, p = 0,167, rispettivamente).

Abbiamo poi analizzato la riduzione dell’ansia di tratto prima e dopo le sedute psicologiche confrontando maschi e femmine. Riguardo l’ansia di tratto non vi è una differenza significativa dei valori prima e dopo le sedute confrontando maschi e femmine (delta ansia di tratto nei maschi nei confronti delle femmine: 7, IQR 2 – 8,25 versus 12, IQR 8 – 15; p 0,111) (Figura 3). L’ansia di stato è risultata invece maggiore nelle donne rispetto ai maschi sia prima che dopo le sedute psicologiche (ansia di stato prima delle sedute nei maschi rispetto alle femmine rispettivamente 59,0 ± 7,8 versus 62,72 ± 0,70, p = 0,032 e 46,2 ± 7,8 versus 41,9 ± 5,7, p = 0,041). La riduzione dei valori che si riferiscono all’ansia di stato tra prima e dopo le otto sedute è stata maggiore nelle donne rispetto agli uomini (delta ansia di stato tra prima e dopo le sedute nei maschi rispetto alle femmine: 14, IQR 7,5 – 15,25 versus 22, IQR 16 – 24,5; p = 0,002) (Figura 3).

Figura 3: Confronto della riduzione dei livelli di ansia di tratto e di stato ottenuta con otto sedute di supporto psicologico tra maschi e femmine secondo i valori del test State-Trait Anxiety Inventory (STAI).

 

Discussione

In questo lavoro abbiamo descritto la nostra esperienza di supporto psicologico ai pazienti affetti da insufficienza renale cronica in fase pre-dialitica e dialitica. Il primo dei colloqui previsti è stato eseguito in presenza per consentire una conoscenza più stretta tra lo psicologo e il paziente, così come l’ultimo, per poter valutare in un rapporto più diretto se fosse necessario o meno proseguire con gli incontri. Nel primo e ultimo colloquio è stato somministrato ai pazienti il test STAI per la valutazione dello stato d’ansia di tratto e di stato.

I colloqui intermedi invece sono stati eseguiti sia in presenza che da remoto, assecondando le preferenze del paziente, facilitando così l’accesso al supporto psicologico per i pazienti con difficoltà di trasporto o con scarsa disponibilità di tempo. Abbiamo constatato che l’ambiente domestico non limita la percezione da parte del paziente del supporto fornito, né riduce la possibilità di analisi da parte dello psicologo. La modalità di colloqui da remoto, attivata durante il periodo di pandemia da SARS-CoV-2, è stata pertanto trovata utile e adottata nel periodo dello studio. La modalità da remoto è stata quindi scelta da alcuni pazienti anche alla riapertura degli ambulatori, preferendo la possibilità di essere sostenuti nella narrazione della loro storia di fatica e sofferenza rimanendo al di fuori del contesto ospedaliero che rappresenta il luogo della terapia e del vincolo cronico. Proprio per questo motivo per i pazienti in trattamento emodialitico è stato preferito un giorno di non dialisi per i colloqui.

L’obiettivo di questo studio è stato valutare l’ansia di stato e l’ansia di tratto tramite la somministrazione ai pazienti del test STAI prima di iniziare le sedute psicologiche e al termine delle otto sedute. L’analisi di dati che si ricavano dal test permette infatti di effettuare una discriminazione tra l’ansia intesa come sintomo e l’ansia espressa come modalità abituale di risposta agli stimoli esterni [15]. I nostri dati mostrano un alto livello di stress iniziale confermando quanto riscontrato in letteratura secondo cui i pazienti in fase pre-dialitica e dialitica presentano un’elevata incidenza di disturbi d’ansia e depressivi [2].

I valori alla prima somministrazione del test STAI evidenziano una significativa compromissione del tono dell’umore, con tratti evidenti di depressione, rabbia, confusione, astenia, ridotta speranza nel futuro. Questo risultato è stato confermato nell’intera popolazione analizzata, nei maschi e nelle femmine. Infatti non sono state riscontrate differenze statisticamente significative tra maschi e femmine. Nella nostra esperienza durante i colloqui psicologici, è emersa la difficoltà da parte dei pazienti ad accettare le limitazioni dalla terapia causate dalla malattia e dal cambiamento dell’immagine del sé, ancora più evidenti qualora la necessità di accedere alle terapie sia improvvisa o inaspettata, facendo percepire al paziente un profondo senso di rabbia dovuto alla condizione di dipendenza e al legame irreversibile con la terapia dialitica.

Dalla nostra esperienza si evince, inoltre, che un percorso di sostegno psicologico della durata minima di otto sedute può essere sufficiente per favorire un significativo calo dell’intensità dei sintomi riguardanti sia l’ansia di tratto che di stato. In particolar modo grazie a questo percorso di interventi psicologici mirati, è stata più rilevante la riduzione dell’ansia di stato, favorendo quindi il raggiungimento di livelli di adattamento avanzati rispetto alla nuova situazione clinica e di conseguenza anche psico-sociale.

Un supporto per la gestione della sintomatologia ansiosa può permettere quindi ai pazienti di vivere la malattia e la terapia in modo tale da favorire significativi miglioramenti nel loro stile di vita, trovando importanti alternative alla rassegnazione. L’adattamento infatti è un processo che va costruito nel tempo, attraverso lo sviluppo di una sinergia tra l’utilizzo delle risorse individuali del paziente (capacità di coping, senso di auto-efficacia, tratti caratteriali, ecc.) e quelle ambientali (atteggiamento degli operatori, supporto psicologico, familiare, sociale, ecc.).

Dai dati raccolti non sono state riscontrate differenze significative tra i due sessi riguardo l’ansia di tratto. Invece le donne hanno dimostrato valori di ansia di stato più alti rispecchio ai maschi, ma anche una riduzione di questa maggiore tra prima e dopo le sedute. Si può quindi dedurre che possano essere in particolare le pazienti donne a trarre un maggior beneficio dal supporto psicologico.

Le limitazioni dello studio sono legate al ristretto numero di pazienti analizzati e al fatto che si tratti di uno studio monocentrico. Questo ha comportato il fatto che non è stato possibile valutare separatamente i pazienti appartenenti alla fase pre-dialitica o in dialisi peritoneale ed extracorporea, ma potrà essere valutato in uno studio successivo che comprenda un numero maggiore di pazienti.

 

Conclusioni

Il lavoro clinico condotto dal 2020 ad oggi dimostra che un modello di cura integrato in cui si fondano la dimensione medica, quella psico-emotiva e socio-cognitiva rappresenta uno spazio di cura globale del malato cronico, favorendo la stimolazione e l’empowerment di un più avanzato adattamento alle terapie e al luogo di cura stesso. In tale contesto, i malati cronici che vivono continue esperienze di lutto e perdite, mostrano un costante bisogno di ricercare nuovi significati connessi alla loro esperienza di malattia e tale ‘ri-significarsi’ può avvenire proprio all’interno di uno spazio di ascolto e contenimento. I risultati evidenziati dimostrano il raggiungimento di una serie di obiettivi connessi alla possibilità di contenere una possibile ricaduta negativa sugli outcome assistenziali, evidenziando l’importanza dell’applicazione di strategie di sostegno psico-emotivo ai pazienti al fine di migliorare la gestione delle terapie, dello stile di vita e di salvaguardare la relazione équipe/paziente rinforzando la fiducia e l’adesione alle indicazioni terapeutiche.

 

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Lo studio FRASNET: identificazione dei fattori clinici e sociali associati all’insufficienza renale in una popolazione di anziani

Abstract

Background. Gli anziani rappresentano il segmento di età più ampio e in più rapida crescita della popolazione con insufficienza renale cronica (IRC) e presentano un aumento della prevalenza di fragilità e sarcopenia, associate a un’ampia gamma di esiti avversi per la salute quali cadute, ospedalizzazione, disabilità.
Obiettivo. Descrivere le variabili sociodemografiche e cliniche di una popolazione di anziani lombardi e identificare i fattori associati all’insufficienza renale.
Materiali e metodi. Studio osservazionale di tipo cross-sectional condotto in ospedale, nei centri ricreativi per anziani, nelle Università della Terza Età delle province di Milano e Monza-Brianza condotto attraverso un campionamento di convenienza di 1250 soggetti di età superiore a 65 anni.
Risultati. Lo studio ha identificato come fattori associati all’insufficienza renale cronica il vivere da soli, un reddito individuale annuo < 10.000 €, la poli farmacoterapia, la sarcopenia e la fragilità. Il campione presenta una eGFR media pari a 71.74 mL/min/1.73m2 (SD ±16.56). Gli anziani che vivono da soli hanno una maggiore probabilità di sviluppare IRC (P=0.031, intervallo di confidenza, IC [1.031-1.905]), così come avere un reddito < 10.000 € (P=0.002, IC [0.392-0.923]). L’assunzione di più di 11 farmaci al giorno aumenta di 16 volte la probabilità di avere insufficienza renale cronica (P=0.012, IC [1.155-3.16]). La sarcopenia e la fragilità aumentano la probabilità di avere insufficienza renale cronica (IRC) (P=0.001, IC [1.198-2.095]).
Conclusioni. Identificare i fattori associati all’insufficienza renale rappresenta un passo fondamentale per introdurre misure preventive e fornire una migliore assistenza alla popolazione anziana.

Parole chiave: Insufficienza Renale Cronica, anziani, sarcopenia, fragilità

Introduzione

Vivere a lungo significa confrontarsi con sentimenti di incapacità, dipendenza, bisogno di cure a lungo termine, perdita dei ruoli sociali, isolamento, solitudine, depressione e, a volte, mancanza di senso della vita [13]. L’invecchiamento demografico è un fenomeno, riscontrabile in tutto il mondo, che richiede alla società di riorganizzare il mercato del lavoro, le politiche sociali, nonché le dinamiche familiari e i sistemi sanitari [1, 4].

In Italia, l’aspettativa di vita è di 82.9 anni, 80.5 per i maschi e 84.9 per le femmine [5]. L’aumento di aspettativa di vita e il progredire delle cure, hanno portato a conseguenze molto positive per la salute e il benessere delle persone anziane: un numero molto elevato di anziani vivono e agiscono in modo indipendente nella loro vita quotidiana, nonostante siano affetti da una o più malattie croniche che li rendono clinicamente a rischio di peggioramento [6]. Gli anziani costituiscono quindi una popolazione vulnerabile e in crescita con un carico particolarmente elevato di comorbidità quali malattie cardiovascolari, diabete, malattie respiratorie croniche, insufficienza renale, depressione, artrite reumatoide, osteoporosi [711]. La malattia renale cronica è un grave problema di salute pubblica ad alta incidenza e prevalenza; si traduce in costi elevati e un alto tasso di mortalità [12]. È definita dalla presenza di danno renale o una filtrazione glomerulare inferiore a 60 mL/min/1.73m2, per un periodo superiore a tre mesi. Le complicanze più frequenti associate alla malattia renale cronica comprendono infezioni, sanguinamento e insufficienza cardiaca [1214].

La riduzione della Velocità di Filtrazione Glomerulare al di sotto di 60 ml/min/1.73m2 stimata con formula MDRD o CKD-EPI da più di tre mesi è espressione di insufficienza renale cronica e può essere considerata come fattore di rischio sufficiente per lo sviluppo di comorbidità.

La prevalenza della fragilità è molto alta nei pazienti con insufficienza renale cronica e aumenta con la sua gravità. Un certo numero di fattori associati all’insufficienza renale cronica sembrano favorire la frequente comparsa di fragilità in questi pazienti oltre ad avere un impatto sfavorevole sulla qualità della vita, sulla morbilità e sulla mortalità, per questo motivo la fragilità è un criterio importante nella definizione degli obiettivi di trattamento per la malattia renale cronica [15]. Gli anziani rappresentano il segmento di età più ampio e in più rapida crescita della popolazione con malattia renale allo stadio terminale. Nella popolazione anziana si ritrovano le stesse malattie renali degli individui più giovani, ma l’invecchiamento determina una graduale e progressiva riduzione della velocità di filtrazione glomerulare stimata (GFR), che determina la diminuzione della riserva funzionale; per tale motivo gli anziani sono più vulnerabili agli effetti dannosi di ipertensione, malattie cardiovascolari, diabete e tossicità dei farmaci [16]. Le persone con IRC in questa fascia di età hanno un rischio maggiore di caduta e di esiti negativi rispetto a quelle senza IRC, ciò a causa dell’osteodistrofia renale [17, 18]. Purtroppo, l’insufficienza renale cronica è una condizione spesso misconosciuta e sottovalutata tanto che è stata definita il “Silent Killer” [19].

La sarcopenia e la fragilità sono condizioni prevalenti nella popolazione con IRC. La sarcopenia è caratterizzata dalla perdita di massa e funzione muscolare [18], mentre la fragilità è definita come un danno multisistemico associato ad una maggiore vulnerabilità ai fattori di stress [20]. C’è una sostanziale sovrapposizione tra le due condizioni, in particolare per quanto riguarda le manifestazioni fisiche: debole forza di presa, diminuita velocità di andatura e bassa massa muscolare. Sia la sarcopenia che la fragilità sono state associate a un’ampia gamma di esiti avversi per la salute quali disabilità, cadute, ospedalizzazione [20]. Pertanto, individuare precocemente i fattori associati all’insufficienza renale cronica, condizione spesso silente, è utile per sviluppare interventi in grado di evidenziarla e al tempo stesso ostacolare lo sviluppo dello stato di fragilità e sarcopenia negli anziani.

Possiamo considerare tutto ciò un obiettivo strategico sia ai fini di un miglioramento della qualità della vita in una popolazione che continua ad invecchiare, sia per il contenimento della spesa in campo sociosanitario dedicato alle condizioni di cronicità e dipendenza funzionale.

Obiettivo dello studio

Descrivere le variabili sociodemografiche e cliniche di una coorte di anziani non ospedalizzati per identificare i fattori associati all’insufficienza renale cronica.

 

Materiali e metodi

Disegno dello studio

È stato condotto uno studio osservazionale, di tipo cross-sectional.

Setting e partecipanti

Lo studio è stato condotto in alcuni centri ricreativi per anziani, presso alcune Università della Terza Età della provincia di Milano e Monza-Brianza e presso l’ambulatorio di Nefrologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. È stato effettuato un campionamento volontario di convenienza fino ad arruolare 1250 pazienti.

I criteri di inclusione prevedevano di reclutare persone con età superiore a 65 anni, che avessero la possibilità di camminare 500 metri senza assistenza (autoriferita), con un punteggio ≥ 18 al Mini-Mental State Examination (MMSE), privi di gravi problemi di salute recenti che comportassero un’aspettativa di vita inferiore a 6 mesi.

Strumenti per la raccolta dei dati

La valutazione basale ha permesso di verificare il possibile arruolamento attraverso la compilazione di un questionario anagrafico e anamnestico per l’esclusione di malattie gravi. Il MMSE è uno strumento che valuta il deficit cognitivo attraverso 11 voci, applicabile in modo etero-somministrato in pochi minuti. Il MMSE prende in esame l’orientamento spazio-temporale, l’attenzione e il calcolo, la memoria, il linguaggio e la prassia costruttiva, senza porre limiti di tempo nelle risposte a voce. La validità e l’affidabilità dello strumento è stata calcolata tenendo in considerazione l’età e il livello di scolarizzazione dei soggetti. I punteggi inferiori a 24 vengono considerati quelli in cui valutare una potenziale demenza. Il MMSE è risultato valido e affidabile sia sulla popolazione normale che sulla popolazione affetta da demenza e disturbi psichiatrici maggiori. La quantificazione del cut-off a 24 per l’MMSE è stato identificato così come previsto dallo studio di validazione dello strumento, che ha stratificato la compromissione cognitiva nei seguenti range: 24-30 norma (nello specifico si possono distinguere i punteggi tra 30-28 come indicativi di soggetti con un funzionamento cognitivo “normale-fascia alta”; punteggi tra 27-24 sono invece indicativi di un funzionamento cognitivo “normale-fascia bassa”), 18-23 compromissione media, 0-17 compromissione severa.

In seguito, tutti i soggetti arruolati sono stati sottoposti a un questionario volto a raccogliere caratteristiche demografiche, psicosociali. Inoltre sono stati valutati sarcopenia e bioimpedenzometria attraverso bilancia bioimpedenziometrica e test fisici. Sulla base dei risultati di tali test i soggetti sono stati classificati in base all’applicazione dell’indice di Fried modificato [21].

Il test di Fried prevede la valutazione di 5 parametri: perdita di peso involontaria (5% negli ultimi 12 mesi), facile affaticabilità riferita nello svolgimento delle attività quotidiane (per almeno tre giorni nella settimana), riduzione dell’attività fisica nella sua frequenza settimanale (PASE Physical Activity Scale for the Elderly), riduzione nella velocità del cammino (TUG-Timed Up and Go Test oppure SPPB-test della marcia), riduzione della forza muscolare (SPPB-test della sedia). Noi non abbiamo considerato affidabile il dato sulla perdita di peso involontaria in quanto solo riportata dal soggetto e non misurata dall’operatore. La fragilità è stata calcolata con soli quattro parametri. Il soggetto viene considerato fragile se sono presenti tre o quattro di questi elementi, pre-fragile se sono presenti uno o due elementi, robusto se non è presente nessun elemento.

La sarcopenia è stata definita come la presenza di ridotta massa muscolare e della compromissione muscolare (forza o prestazione) come raccomandato dal “Gruppo di lavoro sulla sarcopenia negli anziani” [22]. La funzione muscolare è stata valutata utilizzando alternativamente due test: SPPB (SPPB), che genera una scala che va da 0 a 12 punti, che comprende le valutazioni di equilibrio, velocità del passo e alzata dalla sedia. Il test del cammino consiste nella valutazione della velocità del cammino (m/s), registrando il tempo necessario per percorrere 10 m alla velocità scelta e con eventuali ausili. È stata inoltre eseguita l’analisi di impedenza bioelettrica (BIA) che rappresenta un approccio rapido, informativo, non invasivo, relativamente poco costoso e sicuro per valutare la massa muscolare, adatto per studi su larga scala. Il dispositivo fornisce misurazioni della massa magra in chilogrammi e percentuale di grasso corporeo totale secondo l’equazione fornita dal software della macchina. L’indice di massa grassa (FMI, kg/m2) sarà calcolato come il peso (kg) diviso per l’altezza (m) al quadrato. L’indice di massa magra (FFMI) (kg/m2) sarà calcolato sottraendo il FMI (kg/m2) dal BMI (kg /m2).

Il soggetto è stato definito sarcopenico in presenza di un indice di massa magra (FFMI) al di sotto del 25° percentile in combinazione con uno dei seguenti parametri funzionali: o un punteggio SPPB ≤ 8 o una velocità di andatura <1.0 m/s.

I questionari sono stati compilati dai soggetti arruolati in presenza di operatori sanitari in grado di chiarire eventuali dubbi.

Variabili e outcome dello studio

Una revisione sistematica con metanalisi del 2017 ha valutato 110 articoli e definito la poli farmacoterapia come l’assunzione di cinque o più farmaci al giorno; rappresentata nel 46.4% degli studi analizzati [23]. Per definire il gruppo di pazienti con insufficienza renale è stato adottato il criterio del GFR inferiore a 60 mL/min/1.73 m2 [24, 25]. Si precisa, pertanto, che i pazienti senza IR possono includere anche i pazienti con proteinuria.

Analisi statistiche

Le caratteristiche socio-demografiche e anamnestiche dei partecipanti sono state analizzate mediante analisi di statistica descrittiva, eseguite con il software statistico IBM Statistical Package for Social Science (SPSS®), versione 25.

È stato costruito un modello di regressione logistica multipla al fine di individuare le variabili associate all’insufficienza renale cronica, utilizzando la strategia proposta da Hosmer & Lemeshow [26]. A tale scopo è stata costruita una variabile dicotomica (GFR < 60) che raggruppava tutti coloro che avevano un indice GFR inferiore a 60 e una variabile dicotomica (GFR < 45) che raggruppava tutti coloro che avevano un indice GFR inferiore a 45. Per ciascuna variabile indipendente è stato calcolato l’odds ratio (OR) e il relativo intervallo di confidenza al 95% (95% IC). Il livello di significatività è stato fissato a P < 0.05.

Considerazioni etiche

Prima di avviare la raccolta dati è stata chiesta l’autorizzazione al Comitato Etico dell’Ospedale San Raffaele (protocollo n° 36, registro pareri CE 24/INT/2017, approvato in data 09/03/2017). Tutti i partecipanti hanno firmato il consenso informato. È stato spiegato a ciascun partecipante che l’adesione allo studio era volontaria, la gestione dei dati riservata e che avevano facoltà di ritirarsi in qualsiasi momento. È stata rispettata l’autonomia dei partecipanti fornendo informazioni tali da rendere libera e consapevole la scelta di partecipare.

 

Risultati

Descrizione del campione

L’intero campione in studio è composto da 1250 pazienti, di cui 497 uomini (39.8%) e 753 donne (60.2%). La maggior parte del campione (67.3%) ha un’età compresa tra 65 e 75 anni. Il 76.6% non dichiara cadute e il 76.6% non ha avuto accessi in Pronto Soccorso (PS) nell’anno precedente al periodo di raccolta dati. Il 64.5% si dichiara non fumatore e il 63.0% non assume alcolici. In riferimento allo stato sociale, il 51.4% non ha un caregiver e il 24.1% vive da solo. Il 75.1% dichiara di svolgere attività ricreativa durante la giornata. Solo il 16.8% possiede una scolarità elementare, mentre la maggior parte del campione (42.3%) ha una scolarità di 10 anni. In riferimento allo stato economico, la maggior parte del campione (89.1%) ha un reddito annuo superiore a 10.000 €.

In riferimento alla fragilità, il 33.7% del campione è fragile, il 35.9% è pre-fragile e il 26.7% è robusto. La maggior parte del campione (55.2%) non presenta sarcopenia, il 28.6% ha una sarcopenia di grado medio e il 13.8% di grado elevato. La GFR media è pari a 71.74 (SD ± 16.56). In generale, se si considera come cut-off di riferimento il valore di GFR pari a 60 mL/min/1.73 m2, più del 20% di questa popolazione ha insufficienza renale mentre solo il 3% ha riferito di esserne affetto. Infine, il 45.4% del campione è in sovrappeso. In riferimento al numero di farmaci quotidiani, l’11.8% (n=147) non assume alcun farmaco, il 72,2 (n=903) assume da 1 a 5 farmaci, il 14.8% (n=185) assume da 6 a 10 farmaci e l’1.2 % (n=15) assume da 11 a 16 farmaci.

La Tabella 1 mostra le statistiche descrittive della popolazione suddivisa in due gruppi: con e senza IRC, sulla base dei cut-off descritti nella sezione “Materiali e metodi”.

Pazienti non IRC * Pazienti con IRC
N n % N n %
Valido Mancante Valido Mancante
Sarcopenia 946 20 251 10
Assente 560 59.2 120 47.8
Media 287 30.3 65 25.9
Alta 99 10.5 66 26.3
Classi Fragilità 933 33 250 11
Robusti 278 29.8 50 20
Pre-fragili 364 39 81 32.4
Fragili 291 31.2 119 47.6
eGFR, mg/ml/1.73 m2 [media±SD] 966 0 78.3±10.4 261 0 47.5 ±46 50.8
Genere 966 0 261 0
Maschio 372 38.5 117 44.8
Femmina 594 61.5 144 55.2
Età 966 0 261 0
65-75 725 75.1 104 39.8
76-85 226 23.4 127 48.7
> 85 15 1.6 30 11.5
Cadute anno precedente 958 8 260 1
No 733 76.5 206 79.2
225 23.5 54 20.8
Accessi in Pronto soccorso anno precedente 961 5 261 0
No 745 77.5 196 75.1
216 22.5 65 24.9
Fumo 951 15 256 5
No 628 66 163 63.7
323 34 93 36.3
Presenza di Caregiver 942 24 257 4
No 491 52.1 141 54.9
451 47.9 116 45.1
Vive da solo 958 8 259 2
No 739 77.1 183 70.7
219 22.9 76 29.3
Alcolici 956 10 261 0
No 614 64.2 162 62.1
342 35.8 99 37.9
Attività Ricreativa 949 17 260 1
No 217 22.9 72 27.7
732 77.1 188 72.3
Scuola 963 3 261 0
Elementare (5 anni) 132 13.7 70 26.8
Scuola Media Inferiore (8 anni) 226 23.5 61 23.4
Scuola Media Superiore  (10 anni) 430 44.7 92 35.2
Laurea e oltre (> 10 anni) 175 18.2 38 14.6
Stato Economico_ 952 14 257 4
                < 10.000 euro 80 8.4 34 13.2
                >10.000 euro 872 91.6 223 86.8
BMI_ 964 2 261 0
Sottopeso 7 0.7 0 0
Normopeso 327 33.9 77 29.5
Sovrappeso 435 45.1 123 47.1
Obeso 195 20.2 61 23.4
Numero di Farmaci 966 0 261 0
No Farmaci 126 13 19 7.3
da 1 a 5 farmaci 734 76 157 60.2
da 6 a 10 farmaci 102 10.6 75 28.7
da 11 a 16 farmaci 4 0.4 10 3.8
* E’ stato adottato il criterio dell’Insufficienza Renale (GFR < 60 ml/min), pertanto i pazienti senza IRC possono includere anche pazienti con proteinuria.
Tabella 1: Caratteristiche del campione suddiviso per pazienti con IRC e non IRC

Caratteristiche dei pazienti con IRC

Il sottogruppo di pazienti con IRC, si compone di 261 pazienti che presentano una GFR media pari a 47.46 ml/min (SD ± 50.8). Tale sottogruppo si compone di 117 uomini (44.8%) e 144 donne (55.2%). La maggior parte del campione di pazienti con IRC ha un’età compresa tra i 76 e gli 85 anni.

Il 79.2% non dichiara cadute e il 75.1% non dichiara accessi in pronto soccorso nell’anno precedente all’arruolamento. Il 63.7% si dichiara non fumatore e il 62.1% di non assumere alcolici. In riferimento allo stato sociale, il 54.9% dei pazienti con insufficienza renale cronica non ha un caregiver e il 29.3% vive da solo; il 72.3% esegue attività ricreative quotidianamente. Per quanto concerne il livello di scolarità il 26.8% possiede una scolarità elementare (pari a 5 anni di studio), mentre la maggior parte del campione possiede un titolo di studio superiore (pari a 10 anni di studio). Lo stato economico dichiarato è riferito ad un reddito >10.000 euro per 86.6% dei soggetti. Il 47.8% dei soggetti con IRC non presenta sarcopenia, il 25.9% ha una sarcopenia di grado medio e il 26.3% ha una sarcopenia di grado elevato. Per quanto concerne la fragilità dei soggetti con IRC, il 20% dei soggetti sono robusti, il 32.4% prefragili e il 47% è considerato fragile; in riferimento al valore del Body Max Index (BMI) osservato, nessun soggetto è sottopeso, il 29.5% risulta normopeso, il 47.1% in sovrappeso e il 23.4% obeso.

Infine, per quanto riguarda il numero dei farmaci assunti si riscontra che il 7.3% non assume alcuna terapia farmacologica, il 60.2% assume da 1 a 5 farmaci, il 28.7% assume da 6 a 10 farmaci e il 3.8% assume dagli 11 ai 16 farmaci.

Fattori associati all’insufficienza renale

Tramite analisi di statistica inferenziale sono stati esplorati i fattori associati dell’IRC, utilizzando il criterio di un GRF < 60 ml/min (Tabella 2). I risultati mostrano che gli anziani che vivono da soli hanno una maggiore probabilità di sviluppare IRC (P=0.031, IC [1.031-1.905]), così come avere un reddito < 10.000 € (P=0.002, IC [0.392-0.923]). Per quanto concerne la polifarmacoterapia, l’assunzione di più di 11 farmaci al giorno aumenta di 16 volte la probabilità di avere insufficienza renale cronica (P=0.012, IC [1.155-3.16]). Anche la sarcopenia e la fragilità aumentano la probabilità di avere IRC; in particolare i soggetti che presentano sarcopenia di moderata o alta intensità hanno una possibilità maggiore di sviluppare IRC (P=0.001, IC [1.198-2.095]) e la probabilità diventa tre volte maggiore in coloro che hanno una sarcopenia di grado elevato rispetto a coloro che non sono sarcopenici (P=0.001, IC [2.152-4.498]). I soggetti fragili hanno una maggiore probabilità di sviluppare IRC (P=0.002, IC [1.208-2.386]) e la probabilità di avere IRC è due volte maggiore in coloro che sono fragili o pre-fragili rispetto a coloro che sono robusti (P=0.001, IC [1.572-3.288]).

95% C.I.per EXP(B)
B S.E. Wald gl Sign. Exp(B) Inferiore Superiore
Vive da solo 0.337 0.157 4.641 1 0.031 1.401 1.031 1.905
Stato economico -0.508 0.218 5.427 1 0.02 0.602 0.392 0.923
Farmacoterapia (no/si) 0.647 0.257 6.361 1 0.012 1.911 1.155 3.16
Sarcopenia (assente/presente) 0.46 0.143 10.393 1 0.001 1.584 1.198 2.095
Sarcopenia (assente/grado medio) 0.055 0.17 0.106 1 0.745 1.057 0.757 1.476
Sarcopenia (assente/grado elevato) 1,135 0.188 36.418 1 0 3.111 2.152 4.498
Fragilità (assente/presente) 0.529 0.174 9.3 1 0.002 1.698 1.208 2.386
Classi Fragilità_(assente/prefragili) 0.213 0.197 1.171 1 0.279 1.237 0.841 1.819
Classi Fragilità_(assente/fragili) 0.821 0.188 19.039 1 0 2.274 1.572 3.288
B: beta, coefficiente non standardizzato; S.E.: standard error; Wald: test di Wald; gl: gradi di libertà; Sign.: livello di significatività statistica; Exp (B): coefficient standardizzato; CI: Intervallo di confidenza 
Tabella 2: Fattori associati dell’insufficienza renale, utilizzando il criterio di un GRF < 60 ml/min

Tramite analisi di statistica inferenziale sono stati esplorati i fattori associati dell’IRC, utilizzando il criterio di un GRF < 45 ml/min (Tabella 3). I risultati mostrano che la sarcopenia e la fragilità aumentano la probabilità di avere IRC; in particolare i soggetti che presentano sarcopenia hanno una possibilità maggiore di sviluppare IRC (P=0.004, IC [0.285-0.786]) e la probabilità diventa circa 1.5 volte maggiore in coloro che hanno una sarcopenia di grado elevato rispetto a coloro che non sono sarcopenici (P<0.001, IC [0.124-0.394]). I soggetti fragili hanno una maggiore probabilità di sviluppare IRC (P=0.001, IC [0.104-0.566]) e la probabilità di avere IRC è una volta maggiore in coloro che sono pre-fragili rispetto a coloro che sono robusti (P=0.037, IC [0.150-0.943]).

95% C.I.per EXP(B)
B S.E. Wald gl Sign. Exp(B) Inferiore Superiore
Vive da solo -0.103 0.283 0.133 1 0.716 0.902 0.518 1.570
Stato economico 0.523 0.357 2.143 1 0.143 1.687 0.838 3.396
Farmacoterapia (no/si) -0.829 0.523 2.518 1 0.113 0.436 0.157 1.215
Sarcopenia (assente/presente) -0.748 0.259 8.350 1 0.004 0.473 0.285 0.786
Sarcopenia (assente/grado medio) -0.113 0.331 0.116 1 0.733 0.893 0.467 1.709
Sarcopenia (assente/grado elevato) -1.509 0.295 26.132 1 0.000 0.221 0.124 0.394
Fragilità (assente/presente) -1.418 0.433 10.726 1 0.001 0.242 0.104 0.566
Classi Fragilità_(assente/prefragili) -0.978 0.469 4.349 1 0.037 0.376 0.150 0.943
Classi Fragilità_(assente/fragili) -1.761 0.444 15.701 1 0.000 0.172 0.072 0.411
B: beta, coefficiente non standardizzato; S.E.: standard error; Wald: test di Wald; gl: gradi di libertà; Sign.: livello di significatività statistica; Exp (B): coefficient standardizzato; CI: Intervallo di confidenza
Tabella 3: Fattori associati dell’insufficienza renale, utilizzando il criterio di un GRF < 45 ml/min

 

Discussione

Lo scopo dello studio era descrivere le variabili socio-demografiche e cliniche di una popolazione anziana, identificando i fattori associati all’insufficienza renale cronica. L’insufficienza renale cronica, infatti, è spesso sottovalutata e i pazienti sono poco consapevoli di essere portatori di insufficienza renale e delle potenziali conseguenze. La consapevolezza di tale condizione rimane inaccettabilmente bassa, nonostante i recenti tentativi di aumentarne la conoscenza attraverso raccomandazioni, eventi di sensibilizzazione della comunità come la Giornata mondiale del rene e gli sforzi di screening gratuiti per le persone ad alto rischio. Il riconoscimento precoce di tale condizione potrebbe rallentarne la progressione, prevenendo lo sviluppo di malattie e le complicanze associate; inoltre, è stato dimostrato che l’intervento tempestivo del nefrologo migliora gli esiti per coloro che progrediscono verso la malattia renale allo stadio terminale [27]. La riduzione del movimento e dell’attività fisica legati alla sarcopenia risultano essere correlati a esiti clinici avversi, sia nella popolazione generale che nei pazienti con disfunzione renale [28]. È necessario far comprendere all’anziano che un monitoraggio attento, un precoce riconoscimento della patologia e l’adozione di comportamenti a sostegno possono permettere una presa in carico efficace da parte del curante, ed esiti migliori nel tempo.

Partendo da questo concetto il nostro studio ha evidenziato che negli anziani affetti da sarcopenia è aumentata la probabilità di avere insufficienza renale cronica. Allo stesso modo in uno studio osservazionale prospettico americano su 336 pazienti, si è evidenziato che la riduzione dell’attività fisica era relativamente comune nei pazienti con insufficienza renale e ciò aumentava il rischio di inizio della terapia dialitica sostitutiva o di morte del soggetto [29]. Anche la fragilità, descritta nella letteratura geriatrica come un evento che rappresenta il declino della funzione fisica e una vulnerabilità globale a esiti avversi, secondo i nostri risultati aumenta la probabilità di avere un’insufficienza renale cronica. Wilhelm-Leen ha condotto un’indagine a livello nazionale negli Stai Uniti che ha evidenziato come i soggetti affetti da malattia renale cronica moderata o grave per il 20% erano fragili [30].

Un numero elevato di anziani, spesso a causa di comorbilità legate all’età, assume generalmente e giornalmente, un numero significativo di farmaci. La letteratura attuale riferisce che chi assume più di 11 farmaci al giorno ha un rischio maggiore di sviluppare un’insufficienza renale cronica [23]. La polifarmacoterapia, già definita come l’uso di più di 5 farmaci [23], espone al rischio di un utilizzo di farmaci dosati in modo inappropriato, che interagiscono tra loro e che possono associarsi ad una non aderenza alla terapia che può portare a ricoveri anche ricorrenti e a un peggioramento della funzionalità renale. Uno studio retrospettivo condotto di recente che ha analizzato più di 500.000 soggetti con un’età uguale o superiore ai 65 anni, ha evidenziato che all’80.6% del campione totale è stato prescritto almeno un farmaco indipendentemente dalla diagnosi o dalle condizioni generali. La polifarmacoterapia può essere affrontata attraverso la “deprescrizione”, un processo basato sull’evidenza che consente l’identificazione e l’eliminazione di farmaci non necessari o inappropriati [31].

I risultati di questo studio suggeriscono che le persone che vivono da sole hanno una possibilità maggiore di sviluppare l’insufficienza renale cronica. L’invecchiamento e la non consapevolezza di tale condizione espongono al rischio di progressione anche rapida fino allo stadio terminale, comportando un aumentato onere per le famiglie e per i caregiver in termini di assistenza e supporto. I caregiver e i partner abituali svolgono un ruolo fondamentale nella gestione di molte condizioni croniche [32, 33]. Promuovere la capacità degli anziani di autogestire la propria salute può rallentare la progressione della malattia e migliorare lo stato di salute.

Il supporto all’autogestione deve enfatizzare il ruolo centrale che i pazienti e i membri della loro famiglia hanno nella gestione della propria cura in collaborazione con la comunità e il sistema sanitario [3437].

Uno studio qualitativo recente ha esplorato i bisogni di interventi di autogestione per gli adulti con insufficienza renale cronica e i loro caregiver [38]. I partecipanti di questo studio hanno discusso le loro esigenze di supporto all’autogestione attraverso tre temi: empowerment attraverso la conoscenza, attivazione attraverso la condivisione delle informazioni e supporti tangibili per il miglior percorso di salute. Ne consegue che, come indicato anche dalle nostre analisi, il vivere da solo può influenzare in modo negativo la salute delle persone anziane. Occorre quindi cercare di personalizzare i servizi sanitari in base all’unicità del paziente tenendo conto dei bisogni, delle preferenze e dei valori del singolo soggetto. Un’assistenza meglio coordinata riduce le riammissioni ospedaliere ed evita gli eventi avversi. Un approccio di cura fondato sulla partecipazione e sulla decisionalità condivisa con il paziente permette, attraverso l’adozione di strategie innovative, la responsabilizzazione incoraggiando l’autogestione della propria malattia [35].

Sulla base dei risultati ottenuti e del numero di soggetti analizzati possiamo identificare come limite dello studio l’arruolamento di persone con un livello culturale elevato, questo fattore può influire in parte sull’estensione dei risultati a persone con caratteristiche diverse.

 

Conclusioni

L’indagine dei fattori associati all’insufficienza renale cronica, obiettivo del presente studio, rappresenta un passo fondamentale per garantire una assistenza adeguata alla persona affetta da tale condizione. Questo studio identifica fattori associati all’insufficienza renale cronica facilmente rilevabili attraverso un approccio multidisciplinare basato su anamnesi e test fisici. Il presente studio ha identificato come fattori associati il vivere da soli, un reddito inferiore a 10.000 €, la polifarmacoterapia, la sarcopenia e la fragilità. Questo approccio rappresenta un passo fondamentale per introdurre misure preventive e fornire una migliore assistenza alla popolazione anziana.

 

Bibliografia

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Leucopenia linfocitopenica in due pazienti affetti da rene policistico candidati a trapianto renale

Abstract

La malattia del rene policistico autosomico dominante (ADPKD) è la più comune malattia genetica renale, presente nel 10% dei pazienti in terapia sostitutiva renale. Il coinvolgimento renale è spesso associato ad alcune ben note manifestazioni extrarenali e tra queste la leucopenia non è comunemente descritta; tuttavia, essa può essere presente e se misconosciuta può richiedere l’esecuzione di accertamenti invasivi, il cui esito spesso non è immediato.

Descriviamo due casi clinici interessanti di pazienti ADPKD con leucopenia. Il primo caso riguarda un paziente di 47 anni affetto da insufficienza renale cronica secondaria ad ADPKD, in trattamento dialitico peritoneale, convocato per trapianto renale da donatore cadavere, il quale veniva ritenuto temporaneamente non idoneo per la presenza di significativa leucopenia, mai indagata prima. Descriviamo poi un secondo paziente di 60 anni, anch’egli affetto da insufficienza renale cronica secondaria ad ADPKD, in trattamento dialitico peritoneale, il quale aveva una moderata leucopenia stabile da tempo. Dato il contemporaneo riscontro di riduzione percentuale delle gammaglobuline associata a componente monoclonale, veniva temporaneamente sospeso dalla lista trapianto e sottoposto ad agoaspirato midollare.

In entrambi i casi, gli accertamenti eseguiti non hanno evidenziato nulla di rilevante ed hanno consentito di escludere malattie ematologiche, oncologiche ed infettivologiche, per cui i pazienti sono stati reinseriti in lista di attesa ed uno dei due è stato trapiantato.

La leucopenia potrebbe essere considerata una manifestazione extrarenale di ADPKD, ad eziologia non chiara, il cui impatto clinico non è noto. Sarebbe interessante valutarne in ulteriori studi l’associazione con il genotipo ed il fenotipo clinico.

Parole chiave: ADPKD, linfopenia, leucopenia, trapianto renale, insufficienza renale cronica

Introduzione

La malattia del rene policistico (ADPKD) è la malattia genetica renale più comune nei pazienti affetti da insufficienza renale cronica (IRC), presente nel 10% dei pazienti in terapia sostitutiva renale [1]. I geni principalmente implicati sono PKD1 e PKD2 responsabili della malattia nel 72-75% e nel 15-18% dei casi rispettivamente, mentre il 7-10% dei casi restano geneticamente irrisolti (GUR). La patologia è associata a una grande variabilità fenotipica inter ed intra-familiare, perlopiù legata alla estrema variabilità genetica [1].

La progressione della patologia è caratterizzata dallo sviluppo ed espansione inesorabile di cisti nel parenchima renale, causa della progressiva perdita di funzione renale e della conseguente insufficienza renale cronica terminale, che solitamente avviene intorno alla quinta-sesta decade di vita. La malattia è tipicamente caratterizzata da manifestazioni extra-renali quali l’ipertensione arteriosa, le cisti epatiche e pancreatiche, gli aneurismi cerebrali, la diverticolosi del colon e il prolasso delle valvola mitrale [2].

In alcuni studi osservazionali l’ADPKD è stata inoltre associata a diverse forme di leucopenia, in particolare alla riduzione della concentrazione dei linfociti [3,4]. I primi ad evidenziare questa correlazione sono stati Banerjee et al.[3], i quali hanno analizzato i parametri ematologici di 360 pazienti in trattamento emodialitico. La conta totale dei globuli bianchi risultava significativamente ridotta nei 26 pazienti affetti da ADPKD rispetto ai 334 pazienti affetti da altre patologie (6,03 ±1,66 vs. 7,20 ±1,96×109/l). Non avendo a disposizione la formula leucocitaria di questi soggetti, hanno analizzato una seconda coorte di pazienti in cui questo dato era disponibile, riscontrando che i pazienti con ADPKD (n=11) avevano in media 0,61×109/l (40%) linfociti in meno rispetto ai controlli dello stesso genere ed età non affetti da ADPKD (n=33). Nei pazienti ADPKD di questa seconda coorte anche la conta dei monociti e degli eosinofili risultava ridotta, mentre non venivano riscontrante differenze nella conta dei neutrofili, dei basofili e delle piastrine.

Successivamente Van Laecke et al. [4] hanno condotto uno studio trasversale caso-controllo analizzando anch’essi due coorti di pazienti: la prima costituita da pazienti affetti da IRC stadio 5 candidati a trapianto di rene, la seconda da pazienti affetti da IRC stadio 1-5. I pazienti sono stati stratificati per età, sesso, valori di Proteina C Reattiva (PCR) e stima del filtrato glomerulare (eGFR) ed è risultata, rispettivamente, una conta linfocitaria in media minore di 0,26×109/l (prima coorte) e di 0,35×109/l (seconda coorte) nei soggetti affetti da ADPKD rispetto ai soggetti affetti da altre patologie. In particolare, nella prima coorte sono state riscontrate minori concentrazioni di linfociti T CD8 e linfociti B oltre che una conta minore di neutrofili, monociti e piastrine nei pazienti affetti da ADPKD rispetto ai non affetti. Nei pazienti ADPKD della seconda coorte è stata osservata una simile riduzione di linfociti, monociti e piastrine, ma nessuna differenza nella conta dei neutrofili. Gli autori concludono che l’ADPKD sembrerebbe caratterizzata da varie forme di citopenia, specialmente da linfopenia, indipendentemente dalla funzione renale e da altri fattori confondenti quali età, sesso e stato di infiammazione.

L’eziologia della linfopenia in questi pazienti non è nota. Diverse sono le ipotesi formulate, tra cui il sequestro dei globuli bianchi da parte degli organi affetti o l’intossicazione uremica nei pazienti affetti da IRC. Non è inoltre noto se la riduzione del numero dei linfociti abbia un impatto funzionale, ovvero se i linfociti, pur essendo pochi, mantengano un’adeguata capacità di rispondere allo stimolo. A questo proposito è possibile che le mutazioni nei geni PKD1 e PKD2 possano avere un ruolo diretto, promuovendo sia una ridotta proliferazione sia l’aumento dell’apoptosi dei linfociti [5].

In merito a quest’ultima teoria, vari studi condotti in vitro hanno analizzato il comportamento delle cellule della linea linfoide nei soggetti affetti da mutazioni nei geni PKD. In particolare, Aguiari et al. [6,7] hanno evidenziato come, dopo stimolazione con fattore attivante le piastrine (PAF), le concentrazioni intracellulari di Ca2+ nelle cellule linfoblastoidi di tipo B (LCL) ottenute da soggetti affetti da mutazione in PKD2 (PKD2-LCL) e, di conseguenza, con ridotta espressione di policistina 2 (PC2, codificata da PKD2) fossero nettamente minori rispetto alle LCL non affette da mutazione PKD. Questa riduzione è stata riscontrata anche nelle LCL affette da mutazione PKD1 in presenza di valori normali di PC2. La proliferazione cellulare, controllata dalla concentrazione intracellulare di Ca2+, è risultata ridotta nelle LCL affette sia da mutazioni in PKD2 che in PKD1. Rimane da chiarire se la minor proliferazione di queste cellule PKD in vitro si traduca in un simile effetto anche in vivo.

Anche nelle cellule T con mutazione di PKD2 e ridotta espressione di PC2 l’ingresso di calcio dopo stimolo con ATP sembrerebbe ridotto. Tuttavia, i linfociti T derivati dai pazienti con mutazioni PKD1 e PKD2 sembrerebbero avere un aumento della proliferazione cellulare, della chemiotassi e dell’aggregazione cellulare, cosa che potrebbe avere un ruolo nella patogenesi dell’infiammazione interstiziale [8].

Per quanto riguarda invece le mutazioni nel gene PKD1, è noto come la policistina 1 (PC1 codificata da PKD1) possa interferire con alcune vie di segnalazione, tra cui la cascata di attivazione delle chinasi N-terminali c-Jun (JNKs). La stimolazione di questa cascata provoca la degradazione della proteina anti-apoptotica Bcl-2 e causa conseguentemente un incremento dell’apoptosi delle cellule renali, dei linfociti e di varie altre linee cellulari [9,10,11].

Da queste evidenze è ipotizzabile che il deficit delle policistine possa disturbare l’omeostasi delle cellule immunitarie e che la citopenia possa essere un’intrinseca manifestazione di ADPKD correlata a fattori genetici. La linfopenia potrebbe perciò essere considerata una manifestazione extrarenale di ADPKD [5].

Infine non dimentichiamo che l’ADPKD rientra nella classificazione delle ciliopatie, un esteso gruppo di malattie genetiche accomunate dall’alterazione funzionale del ciglio primario, e che l’associazione tra immunodeficienza (sia umorale che cellulare) e ciliopatie è stata osservata e riportata più volte nel tempo [12,13]. Anomalie nel processo apoptotico, nella polarità cellulare, nell’espressione genica e nella ECM (ExtraCellular Matrix) risultano implicate nella patogenesi di ADPKD nonostante, a capo del processo che determina la crescita e sviluppo delle cisti, sembrano esserci un incremento della proliferazione cellulare e la secrezione di fluido [14].

Le similitudini strutturali e funzionali tra il ciglio primario e le sinapsi immunologiche potrebbero nascondere i link mancanti tra citopenia e ADPKD [12,13,15].

 

Caso clinico 1

Descriviamo il caso di un paziente affetto da ADPKD con riscontro di insufficienza renale cronica a 36 anni e successivo raggiungimento dello stadio di uremia terminale ed inizio di dialisi peritoneale (DP) a 42 anni. Regolarmente iscritto in lista trapianto da donatore cadavere, il paziente è stato successivamente sottoposto a nefrectomia bilaterale per motivi di ingombro addominale.

Dopo circa cinque anni dall’inizio della DP, il paziente ha ricevuto una prima convocazione per trapianto da donatore cadavere. Tuttavia, al momento del ricovero gli esami ematici dell’ingresso mostravano una significativa leucopenia linfocitopenica (globuli bianchi 3,4×109/l di cui linfociti 0,4×109/l), motivo per cui il paziente è stato ritenuto non idoneo al trapianto ed è stato dimesso con temporanea sospensione dalla lista, in attesa di eseguire approfondimenti clinici.

Gli esami degli anni precedenti avevano evidenziato una conta dei globuli bianchi e linfocitaria sempre ai limiti bassi della norma, ma nell’ultimo anno il dato sembrava essere in ulteriore progressiva riduzione.

In seguito a consulenza ematologica ed infettivologica, sono stati eseguiti i seguenti esami: tipizzazione linfocitaria, dosaggio delle immunoglobuline, elettroforesi proteica, pannello dell’autoimmunità, dosaggio degli indici di flogosi, sierologia per Toxoplasmosi, Rosolia, CMV, EBV, HSV, VZV e HIV, risultati tutti negativi. Dopo aver escluso le cause secondarie, si è quindi tentato di incrementare la depurazione dialitica massimizzando gli scambi di CAPD (5×2L). Nonostante questo, i globuli bianchi sono rimasti ai limiti inferiori della norma (Figura 1) con persistenza di una lieve linfopenia (Tabella I e Figura 1), motivo per cui il quadro è stato ritenuto benigno ed associato ad ADPKD. Il paziente è stato reinserito in lista ed è stato trapiantato con successo l’anno dopo. Un anno dopo il paziente non ha avuto complicanze legate all’immunosoppressione post-trapianto, pur persistendo una lieve linfopenia (globuli bianchi 3,9×109/l di cui linfociti 0,6×109/l).

  Globuli Bianchi

(×109/l)

Neutrofili

(×109/l)

Linfociti

(×109/l)

INIZIO DP 4,9 2,9 1,1
1° anno in DP 5,2 3,6 1,1
2° anno in DP 4,3 2,9 0,9
3° anno in DP 4,9 3,6 0,4
4° anno in DP 3 2 0,4
POST-BINEFRECTOMIA 3,7 2,5 0,5
5° anno in DP 2,7 1,7 0,3
1a CONVOCAZIONE 3,4 2,1 0,4
6° mese post-CONVOCAZIONE 3,4 2,4 0,3
8° mese post-CONVOCAZIONE 4,2 2,8 0,4
1° ANNO POST-TX 3,9 2,9 0,6
Tabella I: Conta dei globuli bianchi, neutrofili e linfociti dall’inizio della DP al post-trapianto del caso clinico 1
Figura 1: Grafico della variazione dei globuli bianchi, neutrofili e linfociti dall’inizio della DP al post-trapianto del caso clinico 1
Figura 1: Grafico della variazione dei globuli bianchi, neutrofili e linfociti dall’inizio della DP al post-trapianto del caso clinico 1

 

Caso clinico 2

Descriviamo di seguito un secondo caso clinico di un paziente di 60 anni affetto da ADPKD in trattamento dialitico peritoneale dall’età di 53 anni. Iscritto in lista trapianto da circa sei anni, esegue periodicamente i regolari esami di aggiornamento. Fin dall’inizio della DP è sempre stata evidente una moderata leucopenia (globuli bianchi <4×109/l), mai indagata perché stabile ed asintomatica (Tabella II). Tuttavia, in seguito al riscontro, circa due anni fa, di riduzione percentuale delle gammaglobuline (9,7%) e sospetto picco monoclonale in zona gamma, il paziente è stato temporaneamente sospeso dalla lista trapianto in attesa di eseguire accertamenti ematologici per escludere la presenza di gammopatia monoclonale. Sono stati eseguiti dosaggio delle immunoglobuline e delle catene leggere libere plasmatiche (rapporto k/l conservato), tipizzazione linfocitaria, pannello autoimmunitario, dosaggio degli indici di flogosi, sierologia per CMV, EBV e HIV, risultati tutti negativi.

Il paziente è stato quindi sottoposto ad agoaspirato midollare, il cui esito non evidenziava nulla di patologico. In particolare, lo studio immunofenotipico su sangue midollare mostrava linfociti T, B e NK pari a 67,2%, 6,3% e 26,3% rispettivamente, mentre le sottopopolazioni T CD8 e CD4 risultavano pari al 26% e 40%. Il paziente è stato quindi reinserito in lista trapianto attiva.

  Globuli Bianchi

(×109/l)

Neutrofili

(×109/l)

Linfociti

(×109/l)

INIZIO DP 3,5 2,4 0,9
1° anno in DP 3,8 2,5 0,8
2° anno in DP 4,3 2,9 0,9
3° anno in DP 3,3 2,1 0,9
4° anno in DP 3,6 2,4 0,8
5° anno in DP 3,6 2,4 0,8
6° anno in DP 2,9 1,8 0,8
7° anno in DP 3,2 2,1 0,7
Tabella II. Conta dei globuli bianchi, neutrofili e linfociti del caso clinico 2

 

Discussione

I casi descritti riguardano il riscontro occasionale di leucopenia linfocitopenica in due pazienti affetti da ADPKD.

In uno dei casi, addirittura, la leucopenia era risultata talmente severa da ritenere il paziente temporaneamente non idoneo per il trapianto. L’esecuzione di esami di approfondimento ematologici ed infettivologici ha poi permesso di inquadrare la leucopenia linfocitopenica come benigna, motivo per cui il paziente è stato reinserito in lista trapianto e trapiantato con successo l’anno dopo, mantenendo l’immunosoppressione al minimo indispensabile. Nel secondo caso clinico invece, la leucopenia linfocitopenica era di entità meno rilevante e stabile da tempo, motivo per cui il paziente era regolarmente inserito in lista d’attesa per trapianto renale. Tuttavia, la comparsa di ipogammaglobulinemia associata a componente monoclonale ha reso necessario l’esecuzione di agoaspirato midollare. L’esame ha escluso la presenza di gammopatia monoclonale e ci ha permesso di studiare le popolazioni linfocitarie direttamente su sangue midollare, risultate nella norma.

Da notare che in entrambi i casi si tratta di pazienti in trattamento dialitico peritoneale, a differenza della maggior parte della casistica riportata in letteratura che descrive pazienti in trattamento emodialitico. Questo ci ha permesso di escludere l’ipotesi di leucopenia secondaria alla disregolazione immunitaria che tipicamente caratterizza i pazienti emodializzati (legata principalmente al grado di biocompatibilità delle membrane di dialisi e all’adeguatezza dialitica [16,17,18]) e di avvalorare invece altre ipotesi, tra cui quella di leucopenia associata ad ADPKD, motivo per cui abbiamo condotto una revisione della letteratura a riguardo.

La leucopenia linfocitopenica infatti è sempre più comunemente descritta nei pazienti ADPKD tanto da poter essere considerata una manifestazione non cistica extrarenale della malattia [19]; tuttavia, è difficile stabilire fino a che punto questa sia una condizione benigna, o quando invece rappresenti una spia di una malattia ematologica, o al contrario possa rappresentare un rischio per lo sviluppo di malattie infettive o oncologiche.

Tutto questo ha ancora più senso se pensiamo che i pazienti ADPKD sono ottimi candidati al trapianto renale, avendo riportato elevata sopravvivenza del paziente e dell’organo sia da donatore cadavere che da vivente [20,21]. Inoltre nei pazienti ADPKD si è osservato nel corso degli ultimi anni un aumento della probabilità di ricevere un trapianto, con una prevalenza di trapianto come modalità di terapia sostitutiva, aumentata dal 43,5% al 59,1% tra il periodo 1991-1996 e 2006-2010, rispetto ai pazienti non ADPKD in cui si è osservato un aumento di prevalenza molto meno significativo dal 41,2% al 44,1% [22]. Tutto ciò è dovuto probabilmente al miglior follow-up nel periodo pre-dialitico che dà la possibilità di affrontare per tempo la tematica del trapianto e nello specifico quella da donatore vivente.

La prima questione è quindi: come inquadriamo la leucopenia linfocitopenica nei pazienti affetti da ADPKD? Da questo punto di vista esistono al momento sufficienti evidenze per definirla una manifestazione benigna extrarenale della malattia policistica. Tuttavia, se è di primo riscontro, particolarmente severa o associata ad altre alterazioni ematologiche, la leucopenia merita di essere indagata al fine di escludere malattie ematologiche sottostanti. In entrambi i nostri casi clinici è stato necessario indagare la leucopenia, nel primo caso solo con esami ematici, nel secondo, essendo anche presente la componente monoclonale, si è reso necessario l’esame invasivo midollare.

La seconda questione è: che impatto ha la leucopenia linfocitopenica sul rischio infettivologico e oncologico post-trapianto? È necessario modulare la terapia immunosoppressiva post-trapianto?

Relativamente a questi aspetti i dati non sono così chiari e non permettono di giungere a conclusioni definitive. Tuttavia, già indipendentemente dal trapianto, i pazienti ADPKD hanno un maggior rischio di sviluppare alcuni tipi di infezioni, quali diverticolite ed infezioni delle vie urinarie [23,24]. Tale rischio è perlopiù legato alle condizioni anatomiche favorenti, e potrebbe essere aumentato nel post-trapianto per via dell’effetto dell’immunosoppressione. Dati di registro danese relativi ai pazienti trapiantati con ADPKD, hanno mostrato come in questo sottogruppo di pazienti sia maggiore il rischio di polmonite da Pneumocistis jirovecii rispetto ai pazienti non ADPKD e come questo sia associato ad un aumento dell’ospedalizzazione e della mortalità [25] . In altri studi retrospettivi condotti sui pazienti trapiantati, è stata evidenziata una maggiore incidenza di bronchiectasie e di infezioni polmonari ricorrenti nei pazienti ADPKD [26,27]. Da questo punto di vista, da un lato il deficit di PC1 e PC2 nelle ciglia dell’epitelio bronchiale potrebbe essere responsabile della loro alterata funzione e favorire perciò la formazione di bronchiectasie [28], dall’altro la superinfezione potrebbe poi essere favorita dalla compromessa meccanica ventilatoria legata all’ingombro addominale.

A tutte queste condizioni anatomiche si aggiunge la presenza di linfopenia che è più frequente nei pazienti ADPKD e che è ben noto essere un fattore predisponente alle infezioni e alla mortalità per infezioni nella popolazione generale [4]. In uno studio prospettico danese condotto su un ampio campione di popolazione generale (n=98,344) la linfopenia (conta dei linfociti <1,1×109/l) è risultata associata ad un rischio maggiore di 1,4 volte di sviluppare infezioni e ad un rischio maggiore di 1,7 volte di decesso correlato alle infezioni [29].

Se queste evidenze sono valide per i trapiantati di rene e per la popolazione generale, rimane ancora da chiarire se la linfopenia associata ad ADPKD sia clinicamente rilevante e quale possa essere il suo ruolo nel decorso clinico e prognostico dei pazienti affetti da ADPKD [5].

Due studi retrospettivi condotti sulla popolazione taiwanese hanno rilevato come i soggetti affetti da ADPKD, probabilmente a causa del loro aumentato rischio di sviluppare linfopenia, abbiano potenzialmente un maggior rischio di incorrere in infezioni virali (specie quelle dovute a herpes virus come Varicella Zoster Virus in forma severa) e in infezione da tubercolosi rispetto ai controlli affetti da altre patologie stratificati per età, genere e comorbidità [30,31].

D’altra parte, anche se l’associazione teorica tra linfopenia ed infezioni sembra plausibile, questo non significa che tutti i pazienti ADPKD abbiano un rischio infettivo aumentato.

A riprova di ciò in alcuni studi retrospettivi condotti sui pazienti trapiantati, il rischio di infezione da BK polioma e di infezioni fungine sembrerebbe addirittura ridotto nei pazienti ADPKD rispetto ai non ADPKD [19,32] . Inoltre, anche il rischio di infezione da CMV post-trapianto non sembrerebbe essere influenzato dalla nefropatia di base [33].

Relativamente al rischio oncologico è fatto ben noto che i pazienti affetti da ADPKD abbiano un rischio aumentato di tumore renale, il cui riscontro è per lo più occasionale in nefrectomie eseguite per altri motivi [34]. In alcune casistiche i pazienti affetti da ADPKD sembrerebbero anche avere un aumentato rischio di tumore del colon ed epatico [35]. Tuttavia, anche a questo riguardo i dati sono inconclusivi probabilmente perché la biologia dei tumori è estremamente varia e non solo spiegabile dall’alterazione di un’unica via del segnale. Certo è che le vie del segnale a valle di mTOR, di PC1 e PC2, tutte alterate in corso di malattia policistica, hanno un effetto favorente sulla proliferazione cellulare [36]. Nel post-trapianto, inoltre, nei pazienti affetti da ADPKD sembrerebbe esserci un rischio di sviluppare carcinomi cutanei non melanoma 1,5 volte maggiore rispetto ai pazienti non ADPKD [19,37,38].

A questo proposito sappiamo che la riduzione dei linfociti CD4 è un fattore di rischio, mentre la riduzione anche dei linfociti T CD8 e dei linfociti B è un fattore di rischio per i tumori solidi [39,40]. Tuttavia, l’impatto della linfopenia sul rischio oncologico nei pazienti ADPKD (trapiantati e non) non è noto.

In conclusione, le evidenze finora disponibili non consentono di avere dati definitivi e sono necessari studi prospettici che analizzino se i pazienti affetti da ADPKD linfocitopenici sottoposti a trapianto abbiamo davvero un aumentato rischio infettivologico e oncologico rispetto agli stessi pazienti senza linfopenia. Tutto ciò avrebbe delle importanti ripercussioni pratiche sulla scelta della terapia immunosoppressiva nei pazienti ADPKD che potrebbe essere personalizzata in base al profilo di rischio. Sarebbe inoltre interessante valutare l’associazione genotipo/fenotipo, che ci consentirebbe di capire se la linfopenia è un riscontro casuale, legato al solo ambiente uremico o al sequestro renale dei leucociti, o se al contrario siano implicati fattori legati alla proliferazione cellulare influenzati dalla genetica del rene policistico.

 

Conclusioni

La leucopenia linfocitopenica potrebbe essere considerata una manifestazione non cistica extrarenale dell’ADPKD, le cui implicazioni cliniche non sono ancora ben note. L’eziologia non è stata ancora identificata: è possibile che l’ambiente uremico, così come il sequestro dei linfociti da parte degli organi aumentati di volume, possa avere un ruolo. Tuttavia, sembrerebbe che le mutazioni nei geni PKD1 e PKD2 possano essere associate sia ad una ridotta proliferazione sia all’aumento dell’apoptosi dei linfociti.

La linfopenia nel paziente affetto da ADPKD pone alcuni problemi di gestione, legati dapprima al riconoscimento della condizione come benigna ed associata alla malattia e successivamente alla gestione anche in vista del trapianto. In modo particolare l’entità della linfopenia da un lato potrebbe condizionare l’eleggibilità al trapianto alla luce del rischio immediato infettivo, e dall’altro necessita di una personalizzazione e modulazione anche a lungo termine dell’immunosoppressione.

La linfopenia potrebbe essere un’altra delle espressioni della variabilità genotipo/fenotipo della malattia policistica e sarebbe interessante valutarne la prevalenza, le caratteristiche ed eventualmente relazionarla al genotipo e alla severità di malattia. Studi prospettici condotti specificatamente sulla popolazione ADPKD sono necessari per valutare l’effettiva relazione tra linfopenia e rischio infettivologico ed oncologico, in assenza dei quali ogni conclusione può solo essere dedotta dai dati sulla popolazione generale.

 

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Sindrome di Alström, rarissima causa di insufficienza renale: case report e review della letteratura

Abstract

Descriviamo il caso di un paziente maschio di anni 26 con pregressa diagnosi di Sindrome di Alström che giunge  alla nostra osservazione per comparsa di stato soporoso, dispnea, tremori e dolore addominale sordo senza segni di irritazione peritoneale. Il paziente presentava ipoacusia neurosensoriale, diminuzione del visus da distrofia corioretinica, difficoltà di deambulazione con scoliosi a doppia curva dorso-lombare, alterazione dell’omeostasi glicemica ed un’importante deterioramento della funzione renale.

La sindrome di Alström è una malattia multisistemica caratterizzata da distrofia dei coni-bastoncelli, perdita dell’udito, obesità, resistenza all’insulina e iperinsulinemia, diabete mellito tipo 2, cardiomiopatia dilatativa (CMD), disfunzione renale ed epatica progressiva. A livello mondiale sono stati individuati circa 450 casi. I segni clinici, l’età di esordio e la gravità possono variare significativamente tra le diverse famiglie e all’interno della stessa famiglia.

È necessario un accurato follow-up nefrologico nei pazienti con ciliopatie sindromiche poiché i problemi renali a lungo termine possono avere un notevole impatto su altre malattie, specie quelle cardiovascolari.

Parole chiave: malattie rare, ciliopatie, insufficienza renale cronica

Introduzione

La sindrome di Alström, descritta per la prima volta nel 1959, è una malattia multisistemica caratterizzata da distrofia dei coni-bastoncelli, perdita dell’udito, obesità, resistenza all’insulina e iperinsulinemia, diabete mellito tipo 2, cardiomiopatia dilatativa (CMD), disfunzione renale ed epatica progressiva. A livello mondiale sono stati diagnosticati circa 450 casi. I segni clinici, l’età di esordio e la gravità possono variare significativamente tra le diverse famiglie e all’interno della stessa famiglia.

 

Descrizione del caso clinico

Il paziente è un maschio di 26 anni affetto Sindrome di Alström esordita in età neonatale. Il paziente è primogenito, nato a termine da parto spontaneo dopo una gravidanza normocondotta. Dall’età di 2 mesi il bambino presentava sonnolenza in ambiente luminoso. All’età di 4 mesi praticava una visita ambulatoriale presso l’Ospedale Pediatrico Regionale dove veniva riscontrato un accorciamento del muscolo sternocleidomastoideo destro, per cui veniva prescritta immobilizzazione del rachide cervicale in flessione per 1 mese; una visita oculistica riscontrava refrazione ipermetropica e nistagmo bilaterale. Effettuava poi una visita neurologica per approfondimento diagnostico, con PEV e EEG nella norma. A 20 mesi, insorgeva fotofobia e si effettuava una PEV di controllo che evidenziava un ritardo di conduzione troncoencefalica. Successivamente, a 8 anni, venivano diagnosticate l’insufficienza renale, il diabete iperinsulinemico e la sordità neurosensoriale. All’età di 10 anni la diagnosi di Sindrome di Alström veniva confermata dall’analisi molecolare del gene ALMS1 (omozigosi per la mutazione C11460G nell’esone 16).

I suoi genitori sono sani ed ha un fratello affetto anch’egli da Sindrome di Alström. Nel corso degli anni il paziente, seguito presso il centro di riferimento regionale per le malattie rare, ha effettuato regolari visite di controllo (visita oculistica, cardiologica, endocrinologica, dermatologica, neuropsichiatrica e nefrologica) e controlli strumentali (ecografia addome ed ecocardiogramma). Tale monitoraggio era finalizzato al controllo delle varie manifestazioni della Sindrome. Infatti, il paziente presentava ipoacusia neurosensoriale, diminuzione del visus da distrofia corioretinica, difficoltà di deambulazione con scoliosi a doppia curva dorso-lombare ed alterazione dell’omeostasi glicemica.

Giungeva alla nostra osservazione per comparsa di stato soporoso, dispnea, tremori e dolore addominale sordo senza segni di irritazione peritoneale. Da due giorni era in trattamento con ceftriaxone 1 gr/die per riferita bronchite con febbre. All’ingresso in ospedale i suoi parametri erano: SpO2 97%, P.A. 130/70 mmHg, polsi isosfigmici. L’esame obiettivo evidenziava addome poco trattabile e, al torace, mv aspro con crepitii consensuali. Gli esami di laboratorio erano: Azotemia 309 mg/dl; Creatininemia 22,8 mg/dl; Glicemia 184 mg/dl; Sodio 132 mEq/l; Potassio 5.0 mEq/L; Calcemia 8,6 mg/dl; Fosforemia 11.0 mg/dl; Amilasi 927 UI/L; Lipasi 4306 UI/L; CK-MB(massa) 6,2 ng/ml; Troponina I 0,10 ng/ml; Colesterolo totale 122 mg/dl; Trigliceridi 210 mg/dl; G.B. 27400/mmc; G.R. 4210000/mmc; HGB 11,1 gr/dl; HCT 34,3 %; PLT 207000/mmc. L’emogasanalisi arteriosa mostrava acidosi metabolica con eccesso di basi -19,8 mmol/L.

Il nefrologo chiamato in consulenza urgente dava indicazione al trattamento dialitico immediato tramite incannulamento ecoguidato della vena femorale sinistra con catetere bilume 11.5 Fr/Ch (3.8 mm) x 19.5 cm. Durante il ricovero venivano praticati ulteriori esami ematochimici, ecografia addominale, emogasanalisi, TC encefalo, TC torace e addome, e colangio- RM. L’ecografia renale evidenziava: reni bilateralmente ai limiti bassi per volumetria (D.L. dx 7,5 cm, D.L. sin 8 cm), ridotto spessore parenchimale ed iperecogenicità corticale. Inoltre, è stato effettuato l’ecocardiogramma per valutare la possibilità di una cardiomiopatia dilatativa e tale esame ha dato esito negativo. Tali ulteriori indagini e l’anamnesi patologica remota ci hanno orientato per una cronicità della insufficienza renale; pertanto il paziente è stato immesso in un programma di dialisi cronica. I trattamenti emodialitici sono stati effettuati con dializzatore in polietersulfone Revaclear 300 avente superficie di 1,4 mq. Dopo il secondo trattamento emodialitico si assisteva ad un drastico miglioramento del sensorio. Come riportato in letteratura anche il caso osservato presentava inoltre pancreatite acuta associata, con riscontro di alterazioni della crasi lipidica (ipertrigliceridemia) e con aspetto TAC caratteristico (Fig. 1).

Figura 1: Aspetto tumefatto della coda del pancreas ed imbibizione della fascia pararenale anteriore di sinistra
Figura 1: Aspetto tumefatto della coda del pancreas ed imbibizione della fascia pararenale anteriore di sinistra

Le pancreatiti in questi pazienti possono essere pericolose per la vita. È stato inoltre esclusa una genesi litiasica. Gli esami colturali e di laboratorio hanno escluso una sepsi con disfunzione multi organo. Il trattamento della pancreatite, con digiuno ed idratazione, nonché il trattamento sostitutivo della funzione renale, hanno permesso la risoluzione della pancreatite ed un sostanziale miglioramento dell’outcome del paziente.

 

Discussione

La sindrome di Alström è una rara sindrome autosomica recessiva ereditaria causata da una mutazione in entrambe le copie del gene ALMS1 localizzato sul cromosoma 2 (regione 2p13.1) e comprendente 23 esoni [2]. La proteina ALMS1 è un componente del centrosoma alla base delle ciglia;risulta formata da 4169 Aa e partecipa all’assemblaggio del materiale pericentriorale (Fig. 2). Sebbene l’esatta funzione biologica di ALMS1 rimanga oscura, l’evidenza attuale suggerisce che le funzioni includono il mantenimento della funzione ciliare, la modulazione del trasporto intracellulare e la differenziazione degli adipociti. Nel modello murino della sindrome, con proteina ALMS1 anomala, si evidenzia una perdita di ciglia nelle cellule tubulari prossimali mentre nei fotorecettori si ha accumulo di vescicole intracellulari [3].

Le mutazioni di geni che codificano per proteine del Ciglio Primario sono alla base di patologie definite ciliopatie. Le ciglia primarie sono organelli sensoriali che si trovano su molte cellule dell’uomo e svolgono ruoli critici nella comunicazione cellulare relativamente alla proliferazione e differenziazione, motilità e polarità cellulare [4]. Trattasi di un eterogeneo gruppo di disordini che interessano molteplici organi, compreso il rene. La malattia del rene policistico autosomico dominante (ADPKD) “rappresenta la ciliopatia più comune, e si presenta con caratteristiche cliniche uniche, specifiche. Ad essa si aggiungono la malattia del rene policistico autosomica recessiva (ARPKD), la nefronoftisi (NPHP), ed un gruppo di ciliopatie sindromiche caratterizzate da difetti renali ed extra-renali, come la distrofia retinica, il situs inversus, disturbi cognitivi e obesità. Tra queste ultime si annoverano la sindrome di Bardet-Biedl (BBS), la sindrome di Senior-Löken (SNLS), la sindrome di Meckel (MKS), la sindrome di Joubert (JBTS), la sindrome oro-facio-digitale di tipo 1 (OFD1), la distrofia toracica asfissiante di Jeune (JATD) e la sindrome di Alström (ALMS)” [5].

Struttura del cilio primario
Figura 2: Struttura del cilio primario. L’assonema è composto da nove paia di microtubuli ed è ancorato alla cellula mediante il corpo basale che è un centriolo modificato, costituito da nove triplette di microtubuli. Il centriolo madre gioca un ruolo chiave nella ciliogenesi, reclutando le molecole necessarie per l’allungamento degli assonemi. Il centriolo figlio risulta dalla duplicazione del centriolo madre durante la fase S della mitosi. Le frecce indicano gli elementi chiave del ciglio strutturale (l’assonema, la zona di transizione e corpo basale) e le proteine coinvolte nelle ciliopatie renali e nel carcinoma a cellule renali (RCC) (tradotto da Adamiok-Ostrowska) [3]
La sindrome è caratterizzata dall’insorgenza di obesità nell’infanzia o nell’adolescenza, diabete di tipo 2, spesso con grave insulino-resistenza, dislipidemia, ipertensione e grave fibrosi multiorgano che coinvolge fegato, reni e cuore. La sindrome di Alström è anche caratterizzata da una progressiva perdita della vista e dell’udito, una forma di malattia cardiaca che indebolisce il muscolo cardiaco (cardiomiopatia dilatativa) e bassa statura. Questo disturbo può anche causare problemi medici gravi o potenzialmente letali che coinvolgono fegato, reni, vescica e polmoni. Le manifestazioni cliniche della sindrome di Alström variano in gravità e non tutti gli individui affetti hanno tutte le caratteristiche associate al disturbo [1].

Le manifestazioni di danno renale si rendono evidenti soprattutto dopo la seconda-terza decade di vita e comprendono: diminuzione della capacità di concentrazione delle urine, ipertensione, acidosi tubulare renale, nefrocalcinosi disfunzione del tratto urinario inferiore, infezioni intercorrenti, reflusso vescico-ureterale e instabilità del detrusore [6]. Insufficienza renale terminale si verifica nel 50% dei pazienti Le cause dell’insufficienza Renale sono la fibrosi e l’’atrofia tubulare. Le  infiltrazioni fibrotiche sono alla base degli altri fenotipi clinici, in particolare cardiaco, polmonare ed epatico suggerendo meccanismi patogeni comuni [7]. Non c’è correlazione con il diabete o con la pielonefrite [8] in quanto sono assenti le caratteristiche istopatologiche della nefropatia diabetica e/o da reflusso suggerendo che la malattia renale possa essere la manifestazione primaria della sindrome anche se non si può escludere un effetto additivo sulla progressione del danno renale da parte del diabete e dell’ipertensione [9].

Prima della scoperta delle mutazioni ALMS1, la diagnosi di Sindrome di Alström era basata unicamente sul fenotipo, ma esso è molto variabile anche all’interno dei nuclei familiari. Pertanto, sono stati proposti criteri diagnostici specifici per età riportati in Tabella I [1012].

Criteri diagnostici di sindrome di Almstrom tradotto da Jan D Marshall 2007
Tabella I: Criteri diagnostici di sindrome di Almstrom tradotto da Jan D Marshall 2007 [10]
Tali criteri sono fondamentali per la diagnosi di sindrome di Almstrom, la cui diagnosi differenziale con altre patologie può essere complessa. Citiamo in particolare la Sindrome di Bartdet-Bieldl, che presenta molte analogie cliniche con la sindrome di Almstrom, dalla quale tuttavia si differenzia per la polidattilia e per la più bassa prevalenza di cardiomiopatia dilatativa nella BBS rispetto alla AS. oltre che per una diversa diagnosi molecolare [13].

 

Conclusioni

La sindrome di Alström è una rarissima malattia causa di insufficienza renale terminale necessitante di terapia dialitica. I pazienti raramente sopravvivono oltre i 40 anni. Al momento non c’è alcun trattamento specifico, ma diagnosi e interventi precoci possono rallentare la progressione delle espressioni fenotipiche migliorando il periodo di sopravvivenza e la qualità della vita dei pazienti.

 

Bibliografia

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  13. Brühl P, Schwanitz G, Mallmann R, Müller SC, Raff R. Bardet-Biedl-Syndrom: nephrourologische und humangenetische Aspekte [Bardet-Biedl syndrome: aspects of nephro-urology and human genetics]. Klin Padiatr 2001; 213(1):8-12. German. https://doi.org/10.1055/s-2001-1126

Self-efficacy and self-management nel paziente in emodialisi: una revisione narrativa di teorie multidisciplinari

Abstract

L’emodialisi è il trattamento più comune nei pazienti affetti da malattia renale cronica terminale e l’ampio accesso a tale terapia ha portato a prolungare la vita dei pazienti, pur comportando alterazioni della sfera emozionale e, spesso, una riduzione della compliance terapeutica in quanto la cronicità della malattia renale impone al paziente modifiche del proprio stile di vita che diventano difficili da mantenere a lungo termine. La gestione di una condizione medica cronica è infatti un processo complesso che richiede necessariamente un’azione multidisciplinare.

I concetti di “Self-efficacy” (autoefficacia) e “Self-management” (autogestione) rientrano nella Self Determination Theory (Teoria dell’Autodeterminazione), e possono essere rilevanti per la promozione della salute in quanto fanno riferimento alle convinzioni che ognuno possiede circa le proprie abilità di controllare il comportamento e dunque anche di determinare il successo nell’aderenza alle prescrizioni sanitarie.

Inoltre, la promozione di self-efficacy e self-management attraverso un approccio educativo digitale di “eHealth”, consente di sviluppare una maggiore consapevolezza di sé e di controllo sulle scelte di cura del paziente e incrementare l’adesione alle indicazioni terapeutiche-dietetiche del paziente dializzato.

Questo articolo vuole evidenziare l’importanza dell’implementazione dell’approccio eHealth nella gestione del paziente emodializzato, nonché favorire la conoscenza delle relative teorie multidisciplinari da applicare in questo contesto clinico, al fine di garantire a tali pazienti una migliore assistenza, una maggiore aderenza terapeutica e quindi anche una migliore qualità della vita e delle cure.

Parole chiave: self-efficacy, self-management, emodialisi, insufficienza renale cronica, eHealth

Background

L’insufficienza renale (IRC), in particolare nello stadio più avanzato, è tra le più importanti cause di morte e disabilità in tutto il mondo [1]. L’emodialisi costituisce il trattamento più comune per chi soffre di IRC e il suo utilizzo ha portato a prolungare la vita dei pazienti [2], tuttavia esso comporta molteplici alterazioni, tra cui disturbi del sonno, neuropatia periferica, infezioni, anemia, prurito, disagio emotivo che influenzano diversi aspetti della qualità di vita dei pazienti [3].

Al pari delle altre malattie croniche, la gestione di questi pazienti richiede un processo multidisciplinare coordinato tra operatori sanitari e pazienti [4,5]. La cronicità della malattia renale impone infatti al paziente molte modifiche del proprio stile di vita che diventano spesso difficili da mantenere a lungo termine [6]. La qualità della vita del paziente emodializzato è significativamente compromessa dal vissuto emotivo di dipendenza, che costringe a vivere la propria esistenza con incertezza e preoccupazioni esistenziali costanti, nonché dai sintomi legati all’IRC, ad altre patologie coesistenti e alle caratteristiche del trattamento sostitutivo stesso [7]. Tali condizioni generano nei pazienti in emodialisi il bisogno di rivendicare continuamente il controllo della propria vita e, allo stesso tempo, avvertono una perdita di indipendenza e di mancanza di libertà. Inoltre, la visione del paziente è a volte in conflitto con l’opinione del professionista sanitario su ciò che è meglio per sé stesso (talvolta il paziente può preferire condizioni mediche meno ottimali dal punto di vista clinico o persino scegliere di interrompere la dialisi) in cambio di una maggiore libertà o controllo sugli aspetti della propria vita quotidiana [8]. Di conseguenza è importante che il paziente in dialisi, come accade per gli altri pazienti con patologie croniche, acquisisca un certo grado di autonomia nella gestione della propria condizione di salute attraverso lo sviluppo di abilità di self-care [5,9,10].

L’acquisizione di comportamenti utili a mantenere la condizione di salute nelle patologie croniche si verifica infatti quando le persone stesse considerano questi atteggiamenti importanti e li sviluppano attraverso una autonomia motivazionale conquistata senza pressioni da parte di altri, primi fra tutti gli operatori sanitari [4, 11,12]. Il concetto di autonomia è inteso come l’attuazione di comportamenti non influenzati o controllati da forze esterne che permette cambiamenti duraturi ed efficaci. Sono infatti i pazienti che interiorizzano la necessità di un cambiamento comportamentale che sviluppano maggiormente la capacità di aderire alle terapie raccomandate [13]. Questo significa che sviluppare l’autonomia e la competenza del paziente cronico è importante per favorire i processi di interiorizzazione di quei comportamenti utili a garantire salute e benessere [14].

Tale processo permette lo sviluppo di un’adeguata “Self-efficacy” (autoefficacia) che comporta la definizione delle intenzioni alla base del cambiamento per il raggiungimento di un obiettivo, anche di fronte ad imprevisti o difficoltà. La self-efficacy necessita anche di interventi di gestione autonoma della patologia, indicati con il termine “Self-management” (autogestione) [15,16].

Per promuovere lo sviluppo dell’autonomia, l’utilizzo di strumenti interattivi per la gestione a distanza del paziente con IRC può considerarsi un ulteriore strumento utile per aiutare i pazienti nello sviluppo di queste competenze e per favorire una maggior consapevolezza dei processi di cura a cui sono sottoposti [17].

Il termine “eHealth” è stato utilizzato per descrivere un’ampia gamma di tecnologie digitali e interventi utilizzati da una varietà di parti interessate in diversi contesti. Esistono per esempio interventi promettenti che utilizzano i telefoni cellulari per interagire con malati cronici, anche se sembrano essere poche le applicazioni sui pazienti con patologia renale [18]. I pazienti affetti da IRC sono spesso anziani e di basso status socioeconomico e bassa alfabetizzazione sanitaria. Tuttavia, la tecnologia mobile permette ai pazienti di migliorare la comunicazione complessiva paziente-operatore sanitario rafforzando l’autonomia del primo e consentendogli di affrontare i problemi di salute quotidiana, diventando partecipante attivo alle proprie cure e quindi, indirettamente, anche alla cura della popolazione. Anche la letteratura recente ha mostrato che strumenti di eHealth nel contesto di un approccio multidisciplinare garantiscono un’assistenza universalmente accessibile, economica e di alta qualità [19].

Scopo di questo lavoro è esplorare le teorie di self-efficacy e self-management al fine di applicarli, attraverso strumenti eHealth, alla cura dei pazienti dializzati. Lo scopo è considerare questi ultimi come partner paritari nella gestione delle proprie cure, consentendo loro di percepire una maggiore capacità di gestione della malattia di cui sono affetti, una maggiore libertà, autonomia e indipendenza.

 

Self-efficacy e self-management

Il concetto di self-efficacy (autoefficacia) è stato definito dallo psicologo canadese Bandura come un insieme di convinzioni nutrite dalla persona sulle proprie capacità di gestire adeguatamente situazioni e attuare comportamenti necessari per raggiungere obiettivi prefissati [8]. In particolare, la teoria sociocognitiva dell’autore considera fondamentale nella determinazione dell’autoefficacia l’interazione di tre fattori: la persona, il comportamento e l’ambiente. La nozione di self-efficacy viene inclusa tra i comportamenti rilevanti per la promozione della salute in quanto fa riferimento alle convinzioni che ognuno ha sulle proprie abilità di controllare il comportamento e, quindi, di determinare anche il successo o il fallimento nell’aderenza alle prescrizioni sanitarie. Il grado di self-efficacy dell’individuo può infatti influenzare il modo di fronteggiare gli eventi stressanti e modificare i comportamenti nocivi [20] e ha quindi un impatto sul suo stato di salute. L’autoefficacia risulta pertanto centrale nel definire le intenzioni alla base del cambiamento, nel modulare gli sforzi impiegati per il raggiungimento dell’obiettivo e nel determinare la perseveranza nel perseguire il proprio scopo, anche qualora dovessero presentarsi imprevisti o difficoltà [21]. È inoltre noto come un alto livello di autoefficacia relativa agli ambiti di cura possa favorire il mantenimento di comportamenti riguardanti l’aderenza al trattamento.

Il basso livello di aderenza al trattamento è un problema di rilevanza clinica esteso tra i pazienti affetti da patologia renale cronica. Uno studio italiano [22] ha esplorato l’adesione alle prescrizioni mediche nei pazienti emodializzati, mostrando che le principali cause di non adesione alla terapia riguardano la cronicità della malattia, la negazione della stessa con atteggiamenti di paura e fuga, gli ostacoli percepiti dal paziente nella comunicazione con il personale medico, la carenza di informazioni o la difficoltà a memorizzarle. Molteplici fattori possono influenzare l’aderenza al trattamento, tra cui la l’età, lo stato socio-economico e il supporto familiare, la complessità, la fiducia e la motivazione verso il trattamento [23]. Tra i fattori psicosociali possono essere inclusi la presenza di depressione, il supporto sociale, le dinamiche familiari, che vengono spesso correlati agli esiti del trattamento dei pazienti con malattia renale cronica o terminale sottoposti a emodialisi [24,25,26]. In letteratura viene inoltre mostrato come il supporto sociale e familiare possa influire sull’autoefficacia nei pazienti affetti da patologie croniche, influenzando la messa in atto di comportamenti salutari [27,28,29]. Inoltre, la self-efficacy, dopo un programma di intervento di self-management, risulta aumentata poiché viene riscontrata una correlazione positiva tra le due abilità.

Il self-management rappresenta un cambiamento di prospettiva sui pazienti che da destinatari “passivi” del trattamento diventano individui responsabilizzati che sono partner nella gestione efficace della loro salute [30]. Esso è caratterizzato da tre categorie: “Positive Lifelong Life Management”, “Positive Lifelong self-management” e “Positive Lifelong Relational Management”. Il primo include la componente emotiva del benessere, il secondo concerne le risorse individuali che permettono di affrontare in maniera adattiva i cambiamenti e le transizioni nel lavoro e nella vita ed il terzo comprende risorse per l’adattamento relazionale nei contesti lavorativi e di vita [31]. I concetti di self-efficacy e self-management rientrano nella Teoria dell’Autodeterminazione, o Self Determination Theory (SDT), che individua i processi attraverso i quali una persona viene motivata ad acquisire nuovi comportamenti legati alla salute e a mantenere tali comportamenti nel tempo.

 

Self-efficacy e self-management nella malattia renale cronica

Anche nella malattia renale cronica, la self-efficacy è correlata al self-management e comporta un aumento del benessere, delle risorse individuali e della capacità di adattamento ai cambiamenti indotti dalla malattia in situazioni di bisogno [32].

Di frequente si verificano meccanismi avversi rispetto a quelli appena citati, che causano scarsa aderenza nella gestione della malattia renale allo stadio terminale, come la mancata aderenza alle prescrizioni dialitiche, ai farmaci e alla dieta che possono condurre i pazienti ad esiti clinici avversi. I pazienti emodializzati inoltre, a seguito della confezione dell’accesso vascolare, devono occuparsi di mantenere la zona di accesso pulita, sostituire le bende dopo il trattamento dialitico, evitare di sollevare oggetti pesanti [33] ed occuparsi di controllare l’assunzione di liquidi tra una sessione di dialisi e l’altra, gestendo la sete e riflettendo sulle potenziali conseguenze dannose dei comportamenti che potrebbero innescare la sete (modificando ad esempio le proprie abitudini e le attività sociali al fine di ridurre l’esposizione al caldo o pressioni sociali che aumenterebbero la tentazione di assumere determinati cibi o liquidi) [34].

In questo contesto, identificare le persone che faticano ad aderire al regime di dialisi e adattare gli interventi per migliorare e supportare l’adesione diviene quindi una chiara esigenza clinica. Curtin et al. [35] sostengono che la chiave del successo per una vita lunga e sana in dialisi sia nel trasformare i pazienti in auto-gestori completi e attivi del proprio stato di salute.

Relativamente all’aderenza alle prescrizioni terapeutiche nei pazienti emodializzati, risultano importanti predittori la motivazione, la self-efficacy e l’empatia [36]. Pertanto, i soggetti che soffrono di una patologia renale cronica necessitano di costante supporto da parte di infermieri, medici e nutrizionisti, uniti in un approccio multidisciplinare [22]. Fattori ulteriori che possono aiutare a spiegare la non aderenza sono il tono dell’umore, il supporto sociale, la complessità della malattia e le percezioni riguardo al trattamento, ma anche il fenotipo associato al paziente [37]. Infatti, è mostrata in letteratura una considerevole variabilità di risultati tra i differenti soggetti ed è ormai ben noto quanto i fattori psicologici possano influire, modificando ad esempio la tenuta di regimi alimentari specifici, indispensabili in questi pazienti. Il distress psicologico è dunque riconosciuto come fattore di rischio che può portare ad esiti negativi nei trattamenti medici dei pazienti nefrologici [38,39].

L’aderenza al trattamento risulta migliore quando i clinici prendono in considerazione anche la fiducia in sé stessi e la capacità di raggiungere gli obiettivi mostrata dai pazienti [30,40]. A tal proposito Moattari e colleghi [41], attraverso uno studio clinico randomizzato su 48 pazienti sottoposti a trattamento dialitico sostitutivo, hanno dimostrato un miglioramento della qualità di vita, del controllo ponderale nel periodo inter dialitico, del controllo pressorio e delle variabili biochimiche come emoglobinemia a seguito di interventi di “empowerment” associati a sessioni di consulenza individuali e di gruppo. I moduli utilizzati identificavano nei pazienti le aree potenzialmente problematiche per l’autogestione ed evidenziavano le loro esigenze educative in dieci diversi aspetti, come evidenziate in Tabella 1.

1.     condizioni mediche
2.     relazioni con la famiglia e gli amici
3.     problemi associati con lavoro scuola e assicurazioni
4.     alimentazione
5.     futuro
6.     sentimenti
7.     responsabilità
8.     stile di vita
9.     attività quotidiane
10.   relazioni con il personale
Tabella I: Le aree problematiche del self-care nel paziente emodializzato. Adattato e tradotto da Moattari et al. [41]

 

La eHealth come alleata nella gestione della malattia renale cronica

La eHealth (electronic health, o salute elettronica), ha lo scopo di fornire soluzioni per l’empowerment dei pazienti e per un’assistenza sanitaria di valore. Infatti, l’integrazione della tecnologia nell’assistenza sanitaria è utile nell’operatività dell’empowerment, aiutando a creare un contesto specifico in cui questa entità concettuale dovrebbe essere ulteriormente esaminata ed implementata [42].

Le tecnologie della eHealth possono quindi essere utilizzate nei contesti sanitari come strategia di promozione del self-management, oltre che per promuovere la comunicazione con i pazienti e tra i pazienti ed il team di cura, facilitando il monitoraggio e l’autogestione da casa, che nel caso del paziente dializzato riguardano cinque domini della terapia: aderenza alle raccomandazioni riguardanti dieta, assunzione di liquidi, trattamento dialitico, farmaci e attività fisica [42].

Infatti, esiste una relazione positiva tra indice di massa corporea e sopravvivenza nei pazienti in dialisi. Il problema dell’obesità in dialisi è definito come un paradosso, in quanto i pazienti sono predisposti costantemente al rischio di malnutrizione. Questa situazione, definita “epidemiologia inversa”, è paradossale sia dal punto di vista epidemiologico che da quello clinico, rendendo questo dato in contrasto con la normale epidemiologia dell’obesità [43]. Sulla base di questo principio vorremmo implementare un progetto che preveda la promozione del self-care attraverso la eHealth, utilizzando una App contapassi nei pazienti dializzati in sovrappeso. L’obiettivo è quello di sensibilizzare il paziente a prendersi cura di sé stesso, aumentando i livelli di aderenza all’attività fisica sfruttando appunto lo smartphone.

L’effetto dell’attività fisica sul dimagrimento potrà essere valutato non solo attraverso il controllo dell’indice di massa corporea e dei valori impedenziometrici, ma anche attraverso esami biumorali eseguiti di routine, questionari di valutazione della qualità di vita e dell’attività fisica. Questo si collega a quanto viene riportato dai pazienti: gli interventi di eHealth dimostrano di facilitare il monitoraggio di sintomi, di migliorare l’autogestione fisica, e di rispettare la prescrizione al trattamento dialitico al fine di adattare lo stile di vita durante la dialisi [44]. Dal punto di vista del personale sanitario, consente l’acquisizione e lo scambio di dati in tempo reale, creando l’opportunità di fornire un feedback al paziente, specialmente nel momento in cui viene percepita una problematica che prevede uno sguardo multidisciplinare e multispecialistico. È possibile inoltre stabilire immediatamente la comunicazione tra il paziente e il professionista sanitario, per consentire la valutazione dell’ambiente domestico del paziente, l’aderenza alla tecnica prescritta, l’osservazione e la correzione di rischi potenziali o reali di infezione, ad esempio in caso di dialisi peritoneale [44]

Uno studio ha mostrato l’efficacia dell’utilizzo dell’eHealth nella gestione della patologia renale, con controllo dell’aumento del peso interdialitico, riduzione dell’assunzione di sodio nella dieta, diminuzione della mortalità [45, 46] e miglioramento della funzionalità renale. Questi studi evidenziano il potenziale della tecnologia applicata alla self-efficacy e self-management per migliorare in modo significativo la qualità e la sicurezza dei pazienti nell’assistenza sanitaria.

 

Discussione

L’insufficienza renale, soprattutto allo stadio terminale, è una patologia cronica in cui un’autogestione efficace da parte del paziente è particolarmente rilevante per evitare il peggioramento del suo stato di salute psico-fisico. Pertanto, approfondire la conoscenza e la comprensione dei componenti legati all’autogestione della malattia può aiutare pazienti, medici, infermieri e gli altri professionisti del team sanitario multidisciplinare a massimizzare i risultati positivi per la salute [4,29].

Tale processo di educazione può essere d’aiuto per aumentare la consapevolezza del paziente sulle indicazioni terapeutiche e stimolare il suo interesse nel completarle. Lo scopo dell’educazione del paziente è di aiutare le persone affette da malattia cronica a prendere decisioni consapevoli in merito alle loro cure e ad ottenere chiarezza circa i propri obiettivi, valori e motivazioni, con l’intento finale di aumentarne e migliorarne gli outcomes sensibili all’assistenza come la qualità di vita, parametri vitali, gestione dalla dieta e della terapia farmacologica [47,48,49]. Infatti, sono ben note le stime di non aderenza al farmaco, che variano dal 17 al 74% tra i pazienti con IRC e dal 3 all’80% tra i pazienti in emodialisi [50,51], mentre l’adesione alla dieta e all’assunzione di liquidi si attesta a meno del 40% [52]. Pertanto, identificare studi o strumenti di intervento specifici sull’aderenza può portare a benefici affidabili e duraturi rispetto allo stato di salute, diminuizione della mortalità e morbilità [45].

Accanto all’ approccio educativo classico, l’utilizzo della eHealth permette di incrementarne ulteriormente il potenziale. I dispositivi tecnologici, se utilizzati in ambito sanitario, supportano il processo educativo del paziente poiché facilitano l’aumento dell’autoefficacia e dell’autodeterminazione personale, e pertanto anche il benessere psicofisico [53]

I temi e le modalità di educazione e di autogestione della patologia renale cronica sono descritti in letteratura e comprendono: la gestione della dieta, l’esercizio fisico, l’aderenza alla terapia, la gestione dei sintomi. Gli strumenti a disposizione dei professionisti sanitari spaziano dalla carta stampata, con brochure o poster, ai colloqui motivazionali individuali o di gruppo, fino all’utilizzo di interventi web-based con collegamenti a pagine formative o utilizzo di e-mail o sms. Tali strumenti sostengono il processo educativo, aumentando la self-efficacy e il self-management [44].

 

Conclusioni

Nel corso degli ultimi decenni del XX secolo si è superato l’approccio di cura paternalistico, che vede il paziente come un mero esecutore delle prescrizioni fornite dal personale sanitario. L’introduzione in medicina di un approccio di cura fondato invece sulla partecipazione e decisionalità condivisa permette al paziente di non sentirsi negato il diritto individuale all’autodeterminazione. Stabilire una relazione di tipo simmetrico e non paternalistico tra il paziente e il team multidisciplinare risulta ancor più importante nei contesti sanitari che trattano patologie croniche, le quali spesso minimizzano il senso di libertà e di indipendenza del soggetto che ne è affetto.

L’adozione di una teoria che sostenga e promuova la self-efficacy e il self-management, anche attraverso l’adozione di strategie digitali applicate nelle organizzazioni sanitarie [53], offre approcci e tecniche sempre più innovative. Lo scopo è innanzitutto responsabilizzare il paziente, incoraggiando l’autogestione attiva della propria malattia, ma anche l’integrazione dei servizi sanitari con la vita del paziente e il contenimento dei costi sanitari.

Poiché modificare un comportamento come l’aderenza è un processo molto complesso e, al momento, non esiste un metodo standardizzato per stimare con precisione gli interventi che possono migliorare il self-management, sarebbe utile promuovere nuove ricerche, che prevedano percorsi multidisciplinari e che considerino anche l’utilizzo di tecnologie digitali di supporto.

 

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Esiste un ruolo per la terapia orale con ferro nell’anemia del paziente con malattia renale cronica in fase conservativa? Risultati di una esperienza clinica

Abstract

La carenza marziale gioca un ruolo importante nella patogenesi dell’anemia del paziente affetto da malattia renale cronica (MRC).

Il deficit marziale è presente in circa il 30% dei pazienti affetti da MRC non in dialisi e il trattamento di prima linea è rappresentato dai supplementi orali di ferro, così come raccomandato dalle linee guida Kidney Disease Improving Outcomes (KDIGO). A differenza del ferro endovena, infatti, i preparati per os sono più facili da reperire e somministrare, sono meno dispendiosi ed evitano frequenti venipunture. La loro efficacia è, però, limitata dallo scarso assorbimento intestinale e dagli eventi avversi che ne limitano la compliance.

Nuovi preparati orali a base di ferro sono disponibili per il trattamento dell’anemia in pazienti non in dialisi e sono stati oggetto di studi clinici che ne hanno dimostrato l’efficacia e la sicurezza in questo gruppo di pazienti, tanto da essere ritenuti una valida alternativa al ferro endovenoso.

Abbiamo condotto presso la nostra nefrologia uno studio clinico, monocentrico, prospettico, il cui scopo è stato quello di valutare la tollerabilità e l’efficacia dell’integratore alimentare composto da ferro saccarato sul metabolismo marziale di 33 soggetti adulti di entrambi i sessi, anemici e affetti da MRC stadio 3-5. L’analisi dei dati ha messo in evidenza che il ferro saccarato è un ferro orale efficace e sicuro, in grado di determinare un incremento statisticamente significativo del livello dell’emoglobina rispetto ai valori basali già dopo due mesi di terapia, seppur i suoi effetti sul ripristino dei depositi di ferro siano limitati.

Parole chiave: carenza marziale, insufficienza renale cronica, MRC, anemia, ferro orale

Introduzione

La carenza marziale, associata o meno all’anemia, rappresenta una delle condizioni più frequenti dei pazienti affetti da malattia renale cronica (MRC), siano essi in terapia conservativa o in terapia dialitica sostitutiva [1,2].

La carenza marziale è definita dalla Organizzazione Mondiale della Sanità come una condizione caratterizzata da una quantità di ferro insufficiente a mantenere la fisiologica funzione di sangue, cervello e muscoli. Essa non sempre si associa ad anemia, soprattutto se il deficit non è sufficientemente severo o è di recente insorgenza [3].

 

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Vaccino anti Covid-19 e malattia renale, stato dell’arte: dalle paure alla consapevolezza per ristabilire le vere priorità

Abstract

L’infezione da SARS-CoV-2 (Covid-19) ha colpito circa 124 milioni di persone nel mondo con circa 2.7 milioni di decessi. Una caratteristica enigmatica dell’infezione è l’ampia variabilità clinica, dalla totale assenza di sintomi a forme gravi con compromissione multiorgano ed esito fatale. Molti studi hanno evidenziato come l’insufficienza renale rappresenti un fattore di rischio importantissimo per lo sviluppo delle forme severe di malattia e l’aumentata mortalità. Una preesistente nefropatia o un danno renale acuto sono stati infatti significativamente correlati con un elevato rischio di morte per Covid-19.

Uno studio effettuato dalla Società Italiana di Nefrologia ha riportato una mortalità dieci volte maggiore tra i pazienti dializzati rispetto alla popolazione generale, specialmente nella seconda fase della pandemia (26% vs 2.4%). Questi numeri richiedono una risposta tempestiva.

Attualmente esistono tre vaccini approvati già in corso di somministrazione, Pfizer-BioNTech e Moderna, con lo stesso meccanismo d’azione e Il vaccino Vaxzevria (AstraZeneca), che sfrutta una tecnologia più tradizionale. Tutti i vaccini sono sicuri, ognuno con le proprie caratteristiche: AIFA ha suggerito di utilizzare quelli a mRNA per i pazienti anziani e fragili e riservare Vaxzevria per i pazienti maggiori di 18 anni. Il futuro è luminoso, ci sono tanti altri vaccini in fase di studio, i cui risultati preliminari sono promettenti; una parte di questi potrebbero essere approvati a breve per l’utilizzo su larga scala.

L’alta morbidità e mortalità dei pazienti affetti da malattia renale cronica e dializzati dovrebbero imporre la massima priorità per la vaccinazione contro SARS-CoV-2.

Parole chiave: SARS-CoV-2 (Covid-19), insufficienza renale cronica, vaccino

Introduzione

L’infezione da SARS-CoV-2 (Covid-19) ha colpito circa 124 milioni di persone nel mondo e si contano a tutt’oggi circa 2.7 milioni di decessi. Una caratteristica ancora enigmatica di tale infezione è l’ampia gamma di manifestazioni cliniche che variano dalla pressoché totale assenza di sintomi a forme estremamente gravi con compromissione multiorgano dall’esito inesorabilmente fatale [1]. L’elevata frequenza di infezioni asintomatiche inoltre ha indubbiamente contribuito alla rapida diffusione mondiale di SARS-CoV-2. Il principale quesito clinico a cui dare una risposta resta quindi ancora strettamente legato alla individuazione precoce dei soggetti ad alto rischio di sviluppare malattia grave. Questi individui possono trarre particolare vantaggio dall’isolamento precauzionale e soprattutto essere un gruppo prioritario per la vaccinazione [1].

 

Sebbene l’età sia il principale fattore di rischio, è stato osservato che anche gli anziani possono essere asintomatici, paucisintomatici o presentare una malattia lieve dando origine a ulteriore diffusione del virus [2].

Il livello di esposizione al virus e la carica virale, nonché fattori genetici e immunologici ancora non del tutto delineati, molto probabilmente giocano un ruolo importante, ma è stato sicuramente osservato che alcune patologie concomitanti predispongano con una elevata probabilità a sviluppare una forma di malattia più grave e spesso mortale. Diabete, ipertensione e malattie cardiovascolari sono stati elencati come fattori di rischio per forma grave di malattia sin dalla prima segnalazione nel gennaio 2020 [2].

Analizzando infatti i dati di oltre 65.000 pazienti provenienti da 25 studi in tutto il mondo, è stato evidenziato che il rischio di morte per Covid-19 viene raddoppiato dalla presenza di altre condizioni preesistenti, in particolar modo le patologie cardiovascolari. Questo risultato è stato ottenuto grazie a una ricerca nei database MEDLINE, SCOPUS, OVID, Cochrane Library e medrxiv.org dal 1° dicembre 2019 al 9 luglio 2020.

Soltanto più recentemente, la malattia renale cronica (CKD) è stata individuata come il fattore di rischio più comune, dopo l’età avanzata, per forma severa di malattia. È emerso infatti che i soggetti affetti da CKD presentano un rischio di mortalità tre volte maggiore rispetto alla popolazione generale [3,4].

 

Malattia renale e suscettibilità alle infezioni

I pazienti affetti da malattia renale, acuta e cronica, generalmente presentano di per sé un’aumentata mortalità rispetto alla popolazione generale [5], a causa di problemi correlati all’aumentato rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e tumorali, ma anche sicuramente alla maggiore incidenza di complicanze infettive.

È stato osservato che i pazienti affetti da CKD non in dialisi hanno un rischio 3-4 volte maggiore dei pazienti con normale funzione renale di essere ricoverati per cause infettive, rischio che diventa 8 volte maggiore nei pazienti dializzati [6]. Inoltre, i pazienti affetti da CKD presentano una mortalità maggiore per polmonite rispetto alla popolazione generale [7]. Peraltro, lo stress fisiologico causato dalla risposta infiammatoria a un processo infettivo potrebbe ulteriormente indebolire organi già deficitari a causa della malattia renale o peggiorare la funzione renale stessa [5].

Le cause di questa maggiore predisposizione possono essere molteplici e, in particolare, non vanno dimenticate le patologie alla base della CKD, come per esempio il diabete mellito o le glomerulonefriti a genesi autoimmune, per citarne alcune; tali comorbilità possono giustificare un deficit immunitario di per sé o in ragione delle terapie messe in atto. Inoltre, la stasi di fluidi a livello polmonare, caratteristica dello scompenso cardiaco (spesso associato alla CKD) o dell’uremia terminale, sono una ragione ulteriore di abbassamento delle difese locali.

Il deficit immunitario dei pazienti insufficienti renali sembra essere correlato a un deficit delle cellule presentanti l’antigene (APC), che impediscono un’adeguata attivazione T-cellulare, più che a un deficit specifico di questa popolazione linfocitaria. Tale deficit può spiegare infatti anche una ridotta risposta ai vaccini antivirali da parte dei pazienti CKD [8]. Inoltre, tali pazienti presentano anche un elevato grado di infiammazione sistemica multi-fattoriale che sopprime a sua volta la risposta immunitaria, oltre ad avere grosse implicazioni cardiovascolari, come detto sopra [9].

Ciononostante, la vaccinazione antinfluenzale sembra essere efficace nel ridurre significativamente la mortalità nei pazienti dializzati [10] e insufficienti renali in stadio avanzato, per cui ormai da anni le linee guida KDIGO la raccomandano per tutti i pazienti affetti da CKD, salvo controindicazioni specifiche [11].

 

Malattia renale e infezione da SARS-CoV-2 (Covid-19)

Nel caso di SARS-CoV-2 l’ipotesi di una particolare suscettibilità all’infezione e allo sviluppo di complicanze più gravi da parte dei pazienti affetti da malattia renale risulta ulteriormente coerente con il fatto che rene e cuore presentano la più alta espressione di recettori ACE2, a cui è stato appunto dimostrato che il virus si lega [12]. Questo si traduce clinicamente in forme più importanti di infezione e maggior tasso di ospedalizzazione e mortalità nei pazienti che presentano una preesistente nefropatia.

L’infezione da SARS-CoV-2 può essere essa stessa causa di danno renale acuto (AKI), ma è sicuramente un fattore di rischio indipendente di elevata mortalità nei pazienti con nefropatia preesistente. I recettori ACE2, il danno virale diretto e il danno immuno-mediato svolgono ruoli importanti nella correlazione tra malattia renale e infezione severa [3]. L’AKI nel corso dell’infezione potrebbe derivare dall’effetto sinergico citotropico del virus e dalla risposta sistemica infiammatoria secondaria all’attivazione citochinica. Sono stati riportati casi di Collapsing Glomerulopathy in alcune biopsie renali di pazienti, come variante della glomerulosclerosi segmentale focale indotta dal danno virale [13,14].

L’incidenza di AKI in base agli studi epidemiologici disponibili è infatti significativamente più alta nel contesto di infezione più severa [1517]. Altri possibili meccanismi responsabili di AKI potrebbero essere ricondotti a necrosi tubulare acuta (ATN), a insufficienza multiorgano e a stato di shock. Anche la tossicità delle terapie e l’eventuale esposizione al mezzo di contrasto per esami di imaging possono certamente svolgere un ruolo [18].

L’impatto dell’infezione da SARS-CoV-2 sulla CKD è parimenti molto importante. Numerosi studi hanno documentato una mortalità significativamente maggiore in questa coorte di pazienti. È stata riportato che l’incidenza di AKI è sicuramente più elevata nei pazienti già affetti da CKD. Per contro, l’incidenza di CKD residuata in seguito a danno renale acuto in corso di Covid-19 è risultata variabile dallo 0,7-47,6%, in base agli studi effettuati [19,20].

È stato inoltre osservato che la malattia renale e il danno renale acuto sono sicuramente associati a un più alto rischio di morte nei pazienti Covid-19. Un recente studio condotto nel Regno Unito in ambiente intensivo ha infatti esaminato l’associazione tra malattia renale ed esiti clinici sfavorevoli nei pazienti con Covid-19. Il lavoro, condotto all’Imperial College di Londra, ha contato 372 pazienti affetti da Covid-19 (per il 72% uomini, media di circa 60 anni) ricoverati in terapia intensiva in quattro ospedali in UK dal 10 marzo al 23 luglio 2020 [21]. Nel 58% (216) dei pazienti è stata riscontrata insufficienza renale in diverso stadio. Nel 45% si è assistito all’insorgenza di danno renale acuto (AKI), mentre il 13% era già noto per una nefropatia preesistente. Nei pazienti che hanno presentato AKI, non era nota alcuna malattia renale antecedente al loro ricovero in terapia intensiva, suggerendo che il danno sia stato direttamente indotto dall’infezione. La mortalità osservata è stata invece assolutamente maggiore nel gruppo con malattia renale preesistente, confermando questa come uno dei fattori di rischio principali per lo sviluppo di infezione grave a prognosi sfavorevole [21].

La medesima evidenza è stata confermata da Fominskiy et al [22] in uno studio condotto su 195 pazienti affetti da Covid-19 e ricoverati presso reparti di terapia intensiva dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano nel corso della prima ondata. È stato infatti riportato che 3 su 4 pazienti sottoposti a ventilazione invasiva hanno sviluppato danno renale acuto, di cui 1 su 6 è stato trattato con terapia renale sostitutiva in continuo (CRRT). I pazienti con AKI hanno presentato una mortalità approssimativamente del 40% e i pazienti trattati con CRRT di circa il 50% [22].

Gli studi hanno confermato l’età avanzata come importante fattore di rischio per AKI e necessità di CRRT, ma tale fattore di rischio è risultato nettamente aumentato se in presenza di preesistente nefropatia, confermando l’insufficienza renale come fattore prognostico assolutamente sfavorevole di per sé [15,23,24].

Certamente va ricordato che molti pazienti con malattia renale cronica presentano comorbilità multiple come diabete e ipertensione, che possono ulteriormente predisporli a Covid-19. Una recente meta-analisi ha mostrato infatti che circa il 20% dei pazienti con CKD che hanno contratto Covid-19 soffriva contestualmente di altre patologie gravi con un rischio 3 volte superiore rispetto però a quelli senza CKD [25].

Va segnalato inoltre l’impatto del Covid-19 sulla popolazione di nefropatici nel nostro paese. Gli effetti dell’epidemia sui pazienti dializzati, secondo quanto evidenziato e riportato da un’indagine dalla Società Italiana di Nefrologia, sono stati decisamente importanti. Fra i dializzati si è infatti registrata una mortalità dieci volte superiore a quella a oggi stimata nella popolazione generale, soprattutto durante la seconda fase della pandemia (26% vs 2.4%) [26]. L’analisi è stata condotta su pazienti con malattia renale in stadio avanzato, pazienti in emodialisi, emodialisi domiciliare, dialisi peritoneale e trapiantati. I dati hanno documentato che nel corso della seconda ondata il numero totale dei pazienti affetti da insufficienza renale con tampone positivo è quadruplicato: il numero dei pazienti in emodialisi positivi è passato dal 3,4% della prima ondata all’11,6% della seconda ondata; il numero dei pazienti in dialisi peritoneale e domiciliare è andato dall’1,3% al 6,8%. È stato documentato inoltre un picco pure per i pazienti trapiantati, la cui positività è passata dallo 0.8% al 5%. I dati rilevati hanno inoltre documentato un rischio di mortalità estremamente elevato per i malati affetti da CKD (soprattutto dializzati e trapiantati).

Con particolare riferimento ai pazienti trapiantati di rene, è noto da precedenti epidemie di coronavirus diverse da Covid-19 come questi pazienti siano particolarmente suscettibili, anche in relazione alle concomitanti terapie immunosoppressive [27,28]. I pazienti trapiantati sono a maggior rischio di infezione, in particolare per la depressione della risposta immunitaria T-cellulare secondaria all’immunosoppressione. Il rischio è più elevato durante i primi 3 mesi dopo il trapianto, in particolare se i pazienti ricevono una terapia di induzione con agenti che riducono i linfociti [29,30]. Pertanto, durante la pandemia Covid-19, il trapianto di rene elettivo deve essere eseguito con cautela e spesso ritardato.

Nei casi di Covid-19 relativi a pazienti trapiantati sono stati descritti sintomi iniziali lievi, come febbre di basso grado, tosse lieve e normale conteggio dei globuli bianchi, verosimilmente a causa dell’effetto inibitorio della terapia immunosoppressiva sulla tempesta citochinica [29]. Quindi, anche i sintomi lievi o atipici non dovrebbero essere sottovalutati e non possono escludere un successivo decorso insidioso e dall’esito fatale.

Pertanto, i pazienti affetti da insufficienza renale rappresentano realmente una coorte di soggetti estremamente a rischio a cui è necessario prestare massima attenzione, adottando ogni sforzo per prevenire la progressione della malattia o del danno al fine di ridurne la mortalità. L’elevata prevalenza di CKD in combinazione con l’elevato rischio di mortalità da SARS-CoV-2 richiede quindi un’azione urgente di tipo preventivo, prima ancora che terapeutico.

Figura 1: Insufficienza renale come fattore di rischio di mortalità in corso di Covid-19
Figura 1: Insufficienza renale come fattore di rischio di mortalità in corso di Covid-19

Vaccini anti SARS-CoV-2 attualmente disponibili

I vaccini si configurano da sempre come un bene fondamentale oltre che come la strategia principale con cui l’umanità è riuscita a sconfiggere molte malattie infettive. In soli undici mesi è stato ottenuto un vaccino e questo ha rappresentato una conquista senza precedenti [31].

Il vaccino Covid-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty), noto come Pfizer-BioNTech, è stato il primo vaccino disponibile in Italia ai soggetti a partire dai 16 anni di età per prevenire Covid-19 [32,33]. Il vaccino è stato autorizzato da EMA (European Medicines Agency – Agenzia Europea per i Medicinali) [34] e AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) [35,36]. Per la sua realizzazione sono state regolarmente rispettate tutte le abituali fasi di verifica finalizzate alla valutazione di sicurezza e di efficacia [37]. In Italia la sua somministrazione è stata avviata il 27 dicembre, secondo il piano nazionale di vaccinazione che prevede più tappe.

Il vaccino Covid-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) è stato il primo ad arrivare in Italia, seguito da Covid-19 Vaccine mRNA-1273, noto più comunemente come vaccino Moderna e con il medesimo meccanismo d’azione [37], approvato da EMA il 6 gennaio 2021 [38] e da AIFA il giorno successivo [39].

Ma come si comporta SARS-CoV-2 all’interno dell’organismo? E come funzionano i vaccini a disposizione? La singola particella di SARS-CoV-2 ha forma rotondeggiante e sulla sua superficie presenta delle “punte” rendono il virus simile a una corona (da cui il nome Coronavirus) [37]. La proteina Spike presente sulle punte si lega all’enzima di conversione dell’angiotensina 2 (ACE2) presente sulle cellule dell’epitelio polmonare, ed entra nella cellula impedendo all’enzima di esplicare la propria funzione protettiva verso infezioni ed agenti esterni. La proteina Spike può essere quindi paragonata a una chiave che consente l’inclusione del virus nelle cellule dell’organismo. Dentro la cellula il virus rilascia la propria identità genetica (RNA) e induce la cellula alla produzione di proteine virali che generano nuovi coronavirus: questi a loro volta infettano altre cellule, sostenendo quindi il processo alla base della malattia [3,20].

I vaccini Covid-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) e Covid-19 mRNA-1273 sono stati pensati per stimolare una risposta immunitaria atta a neutralizzare la proteina Spike, al fine di inibire l’infezione delle cellule. Essi contengono le molecole di RNA messaggero (mRNA), ossia le “istruzioni” necessarie per costruire le proteine Spike del virus SARS-CoV-2. Le molecole di mRNA sono inserite in una vescicola lipidica che protegge l’mRNA stesso per evitarne la degradazione da parte delle difese immunitarie, in quanto riconosciuto come estraneo all’organismo [32,33,40]. All’interno dell’organismo, il mRNA è internalizzato nel citoplasma delle cellule e induce la creazione della sola proteina Spike, che, riconosciuta estranea, stimola la produzione di anticorpi specifici. Con il vaccino quindi si inocula nelle cellule solamente l’informazione genetica fondamentale per costruire copie della proteina Spike [32,33,40]. La vaccinazione inoltre determina anche una attivazione delle cellule T che preparano le cosiddette “cellule di memoria” del sistema immunitario. Dopo aver svolto l’azione di induzione anticorpale, il mRNA del vaccino si degrada naturalmente nell’arco di pochi giorni. Non esiste pertanto alcun rischio che venga integrato nel DNA delle cellule dell’organismo in via definitiva. Il vaccino Covid-19 m RNA BNT162b2 (Comirnaty) prevede due somministrazioni a distanza di almeno 21 giorni l’una dall’altra.

Il vaccino Pfizer BioNTech e il Moderna sono sicuri, come conferma anche il New England Journal of Medicine [33]. Il dubbio mediaticamente espresso su una troppo rapida produzione e distribuzione di questo vaccino può essere facilmente fugato. Gli studi sui vaccini anti Covid-19 hanno avuto inizio nel corso della prima ondata e certamente sono durati un periodo relativamente breve rispetto ai tempi abituali. Questo perché gli studi hanno coinvolto un numero di soggetti dieci volte maggiore rispetto a quanto osservato in studi analoghi standardizzati per la messa a punto di altri vaccini. È stato pertanto condotto un lavoro di enormi proporzioni, sufficienti documentare l’efficacia e la sicurezza del vaccino, senza saltare nessuna fase sperimentale normalmente prevista [40]. A questo ha indubbiamente contribuito anche la ricerca precedentemente effettuata su altri vaccini a RNA, frequentemente usati in malattie tumorali, e anche le enormi risorse umane ed economiche messe a disposizione rapidamente, non ultima la tempestiva supervisione delle agenzie regolatorie. Tutti questi fattori insieme hanno reso possibile risparmiare anni sui tempi di approvazione, in un momento storico che rendeva necessario l’avvio della campagna vaccinale quanto prima.

Gli studi si sono svolti in sei Paesi: Stati Uniti, Germania, Brasile, Argentina, Sudafrica e Turchia, con l’adesione di più di 44mila persone. La metà dei soggetti ha ricevuto il vaccino, l’altra metà ha ricevuto un placebo. La stima dell’efficacia è stata valutata su oltre 36mila persone a partire dai 16 anni di età (compresi soggetti di età superiore ai 75 anni) in assenza di segni di precedente infezione [33]. È stato quindi dimostrato che il numero di casi sintomatici di Covid-19 si è ridotto del 95% nei soggetti che hanno ricevuto il vaccino rispetto a quelli che hanno ricevuto il placebo [41].

Il vaccino è stato somministrato inizialmente in modalità prioritaria alle categorie più a rischio, in primis agli operatori sanitari. Attualmente, è disponibile su larga scala. Va segnalato inoltre un recente studio del Centri per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie [42] che rileva come i vaccini mRNA Covid-19 siano molto efficaci nel prevenire la malattia tra sanitari e operatori essenziali. Lo studio ha dimostrato che la vaccinazione parziale con un vaccino mRNA ha ridotto il rischio di infezione del 80% (due settimane dopo la singola dose), mentre la vaccinazione completa ha abbattuto il rischio di infezione del 90% (due settimane dopo la seconda dose).

Per quanto riguarda le prospettive future, un terzo vaccino con tecnologia RNA è il CVnCoV, sviluppato dalla farmaceutica tedesca CureVac e dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovation (CEPI), ed è in attesa di autorizzazione da parte di EMA dal febbraio 2021 [43].

Un’altra tipologia di vaccino anti SARS-Cov-2 attualmente a disposizione è il vaccino Covid-19 AstraZeneca, approvato in prima battuta da EMA [44] e da AIFA [36] rispettivamente in data 29 e 30 gennaio 2021, destinato ai soggetti di età pari o superiore ai 18 anni [45]. Questo vaccino ha un meccanismo sostanzialmente differente dai precedenti. È composto infatti da un adenovirus di scimpanzé incapace di replicarsi (ChAdOx1 – Chimpanzee Adenovirus Oxford 1) e modificato per veicolare l’informazione genetica destinata a produrre la proteina Spike del virus SARS-CoV-2. In sintesi, l’adenovirus è stato geneticamente modificato per sostituire una delle proteine dell’adenovirus con la proteina Spike del SARS-CoV-2, verso cui si genererà la risposta immunitaria nell’organismo ospite [45].

Quale è il potenziale vantaggio di questo approccio rispetto a quello usato per gli altri vaccini? Uno è indubbiamente la maggiore stabilità dell’“involucro” del vaccino, in quanto rappresentato da un altro agente virale: mentre gli altri vaccini richiedono per la loro conservazione temperature molto basse, questo tipo di vaccino può essere invece tranquillamente conservato sei mesi in un comune frigorifero [45].

Quattro studi clinici randomizzati, in doppio cieco, di cui due condotti nel Regno Unito, uno in Brasile e uno Sudafrica, hanno documentato che tale vaccino è sicuro ed efficace nella prevenzione della malattia sintomatica nelle persone a partire dai 18 anni di età [46]. Questi studi hanno coinvolto più di 20.000 persone. I partecipanti, di età ≥18 anni sono stati randomizzati e assegnati a uno dei due gruppi: gruppo di soggetti che hanno ricevuto il vaccino e il gruppo di controllo, che in questo caso ha ricevuto vaccino antimeningococcico coniugato ACWY o soluzione salina, con un rapporto di allocazione 1:1. I dati di sicurezza sono basati sull’analisi ad interim di dati aggregati provenienti dai quattro studi clinici di riferimento [46]. Le reazioni avverse registrate più frequentemente erano generalmente lievi-moderate e si sono risolte dopo pochi giorni dalla vaccinazione. Le più comuni sono state: dolore nel sito di iniezione, cefalea, astenia, mialgie, malessere generalizzato, brividi, febbre, artralgie e nausea [46].

I risultati ottenuti sono sicuramente confortanti; la domanda da porsi è quindi se questo vaccino sia sicuro ed efficace al pari di quelli precedentemente descritti. A questo quesito rispondono gli studi clinici. I dati di sicurezza emersi dagli studi preliminari sono risultati molto buoni. Per quanto riguarda il profilo di efficacia i dati sinora disponibili la hanno attestata a circa il 60% [46]. Seppure in termini puramente numerici, l’efficacia sembri quindi significativamente minore rispetto al vaccino Covid-19 mRNA BNT162b2; in realtà, il vaccino AstraZeneca presenta una buona efficacia, sicuramente superiore per esempio a quella del comune vaccino antiinfluenzale impiegato annualmente e che ogni anno fornisce comunque una ottima copertura contro l’influenza stagionale, in special modo nei soggetti fragili. Il vero limite che riguarda invece il vaccino AstraZeneca sembrerebbe verosimilmente correlato alla sua incapacità nel prevenire le infezioni asintomatiche. In sintesi, le persone sono protette dalla malattia, ma possono infettarsi in maniera asintomatica e forse trasmettere il virus ad altri [45].

L’AIFA aveva in prima battuta autorizzato l’utilizzo di questo vaccino sino ai 55 anni di età [36], limite attualmente in estensione a soggetti più anziani. Tuttavia, un’adeguata protezione è comunque auspicabile, sia in base all’esperienza ottenuta con altri vaccini, sia per la buona risposta immunitaria riscontrata in questa fascia di età. Poiché esistono peraltro dati attendibili sulla sicurezza in questa coorte, gli esperti dell’EMA ritengono che il vaccino possa essere perciò utilizzato a breve anche negli adulti più anziani.

Quindi, al momento attuale il vaccino AstraZeneca non può essere considerato lo strumento ideale per raggiungere l’obiettivo fondamentale dell’immunità di gregge. Tuttavia, presenta un rapporto beneficio/rischio favorevole ed è sicuramente un’arma per il contenimento dell’infezione. È bene sottolineare che la sicurezza del vaccino è stata comunque dimostrata in tutti e quattro gli studi presi in esame [46].

Il vaccino AstraZeneca non è l’unico prodotto che sfrutta la tecnologia dei vettori virali non replicanti. Su questo tipo di meccanismo d’azione si riconoscono altri vaccini come quello russo Gam-COVID-Vac (Sputnik V) [47], quello cinese AD5-nCOV Convidecia [48] e il vaccino Ad26.COV2.S progettato dalla farmaceutica belga Janssen sotto la società americana Johnson & Johnson [48]. Convidecia e il vaccino di Janssen Johnson & Johnson [48] sono entrambi vaccini “single-dose”, che offrono una logistica meno complicata, e possono essere conservati in refrigerazione ordinaria per diversi mesi. Questi ultimi vaccini non sono ancora in utilizzo in Italia, seppure la loro immissione nel programma vaccinale dovrebbe essere prevista a breve.

Va invece riportato che in seguito all’introduzione del vaccino AstraZeneca in UE sono emerse segnalazioni di eventi trombotici potenzialmente correlabili, producendo allarme generalizzato nella popolazione. Tuttavia, l’EMA ha comunicato che alla data del 10/3/2021, il sistema di vigilanza europea degli eventi avversi EudraVigilance aveva registrato 30 casi di eventi trombotici in 5 milioni di soggetti vaccinati e che tale numero risultava paragonabile al tasso di trombosi abitualmente registrato nella popolazione generale. Negli studi registrativi (condotti peraltro sotto stretta sorveglianza degli eventi avversi) non risultava segnalato alcun aumento del rischio di eventi trombotici. In data 18/3/2021 EMA e AIFA, dopo una revisione dei casi segnalati, si sono espresse nuovamente in modo favorevole verso tale vaccino definendolo sicuro ed efficace, escludendo relazioni tra casi di trombosi e la somministrazione dei sieri e reinserendolo nella campagna vaccinale.

A tutt’oggi il vaccino AstraZeneca rappresenta pertanto un’alternativa assolutamente utile. In seguito al caos conseguente allo stop imposto dall’UE per la somministrazione del vaccino, l’azienda ha deciso però di cambiarne il nome in Vaxezevria, modificando la scheda tecnica e riportando tra gli effetti collaterali anche le trombosi (seppure non siano stati dimostrata associazione causale tra i decessi e la somministrazione del vaccino).

Attualmente la Commissione tecnico-scientifica dell’AIFA ha indicato pertanto il seguente utilizzo preferenziale dei vaccini [35,36]:

  • vaccini a mRNA nei soggetti anziani e/o a più alto rischio di sviluppare una malattia grave
  • vaccino Vaxezevria nei soggetti maggiori di 18 anni, ad eccezione però dei soggetti estremamente vulnerabili tra cui vanno certamente annoverati i pazienti dializzati e trapiantati. Sulla scorta dei dati di immunogenicità e di quelli di sicurezza, il rapporto beneficio/rischio del vaccino resta comunque vantaggioso nei soggetti più anziani in assenza di specifici fattori di rischio.

 

Conclusione

La storia insegna da sempre che i vaccini sono sinonimo di vita. Non esiste malattia che sia meglio contrarre piuttosto che vaccinarsi, perché il rischio di ammalarsi supera sempre e comunque quello vaccinale.

L’elevato rischio di infezione grave e di aumentata mortalità in presenza di insufficienza renale è ormai documentato da plurime evidenze cliniche e rende il vaccino altamente raccomandato per questa coorte di pazienti, anche indipendentemente dal fattore età. È necessario quindi che in ambiente nefrologico ci si muova in un’unica direzione al fine di delineare quanto prima una regolamentazione che definisca questi pazienti come appartenenti a una categoria ad elevato rischio e di condurre a una rapida somministrazione di vaccini in modalità prioritaria, soprattutto per i soggetti affetti dalla malattia in stadio avanzato, per i pazienti dializzati e per i pazienti trapiantati.

A questo proposito va segnalato lo sforzo dimostrato dalla Società Italiana di Nefrologia che, con l’impegno congiunto di altre associazioni di settore come ANED (Associazione Nazionale Emodializzati Dialisi e Trapianto) e FIR (Fondazione Italiana del Rene), ha ottenuto l’aggiornamento del piano strategico nazionale di vaccinazione da parte del Ministero della Salute, dell’AIFA, del Comitato Tecnico Scientifico e del Commissario Straordinario per l’emergenza Covid-19. Infatti, nella lettera di impegno del 9 Febbraio firmata dal già Commissario Arcuri, vengono inseriti nella categoria di persone vulnerabili e con priorità per la vaccinazione tutti i pazienti con patologia renale, dializzati e soggetti portatori di trapianto renale. Questo importante traguardo dimostra che la collaborazione sinergica da parte di tutti gli enti coinvolti nel settore migliora la possibilità di raggiungere importanti obiettivi in modo più tempestivo ed efficace.

I malati affetti da nefropatie croniche, in dialisi o trapiantati hanno pagato un tributo molto alto alla pandemia Covid-19. Per tale motivo è necessario che questa popolazione particolarmente fragile sia non soltanto protetta nel minor tempo possibile ma anche monitorata nel tempo, per rilevare la risposta immunologica che seguirà alla vaccinazione e la sua reale efficacia.

 

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L’andamento della funzione renale nello stadio CKD 5: un destino già scritto?

Abstract

Introduzione e scopo: Gli stadi 4 e 5 della Malattia Renale Cronica sono sempre stati considerati difficili da modificare nella loro progressione ed evoluzione. Noi abbiamo valutato retrospettivamente i nostri pazienti in CKD5 (dall’1/1/2016 al 31/12/2018), per analizzarne l’evoluzione funzionale nel tempo.

Materiale e Metodi: Sono stati inclusi pazienti con follow-up >6 mesi e almeno 4 controlli che includessero la clearance della creatinina misurata (ClCr) e stimata mediante la formula CKD-EPI (eGFR). Abbiamo analizzato: la concordanza fra ClCr ed eGFR mediante analisi di Bland-Altman, la modalità di progressione classificata come rapida (perdita di eGFR >5 ml/min/anno), lenta (perdita di eGFR 1-5 ml/min/anno) e non evolutiva (perdita di eGFR <1 ml/min/anno oppure guadagno di eGFR). Abbiamo individuato quali parametri clinico-laboratoristici (diabete, controllo pressorio, uso di ACEi/ARBs, cardiopatia ischemica cronica, arteriopatia obliterante cronica periferica, proteinuria, emoglobina, acido urico, PTH, fosforo) sono associati alle diverse modalità di progressione, mediante analisi bivariata e un modello di regressione multinomiale multipla. Risultati: ClCr ed eGFR hanno mostrato una elevata concordanza, specialmente per valori di GFR <12 ml/min. Lo slope medio dell’eGFR è stato pari a -3.05 ±3.68 ml/min/1.73 m2/anno. La progressione è stata rapida nel 17.0% dei pazienti, lenta nel 57.6% dei pazienti; un quarto dei pazienti (25.4%) ha avuto un andamento non evolutivo. Alla analisi bivariata, la maggior progressione del danno renale cronico è risultata associata con lo scarso controllo pressorio (p=0.038) e con l’assunzione di farmaci ACEi/ARBs (p=0.043), mentre nel modello multivariabile solamente la arteriopatia obliterante cronica periferica è risultata associata a un accresciuto rischio di progressione veloce dell’eGFR (relative risk ratio=5.97).

Discussione: Meno di un quinto dei pazienti ha avuto una perdita di filtrato >5 ml/min/anno, mentre nella grande maggioranza dei pazienti si è assistitito ad una progressione lenta ma anche alla possibilità di una stabilizzazione o di un recupero funzionale. Nonostante i limiti legati alla numerosità del campione, questi dati ci incoraggiano a non considerare il CKD5 un inesorabile e breve viaggio verso il trattamento sostitutivo.

 

Parole chiave: malattia renale cronica, CKD, progressione, filtrato glomerulare, insufficienza renale cronica

Introduzione

La malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD) colpisce oltre 850 milioni di persone nel mondo (11% circa della popolazione mondiale) [1]; di questi, 37 milioni sono negli Stati Uniti (pari al 15% della popolazione) [2], 38 milioni in Europa (il 10% della popolazione) [3] e circa 4 milioni in Italia, pari a circa il 7% della popolazione [4]. Numerosi studi hanno approfondito i fattori di rischio e progressione del danno renale cronico, spesso includendo nel campione fasi di CKD estremamente polimorfe come fenotipo clinico, rischio cardiovascolare e complicanze in corso di malattia [58].

Agli inizi degli anni ’90, Maschio [10] considerava un valore di creatininemia di circa 2 mg/dl come un “punto di non-ritorno” della storia naturale della CKD,  al di là del quale si prevedeva un inevitabile e progressivo peggioramento della funzione renale, nonostante gli interventi di tipo dietetico e terapeutico messi in atto. Tutt’oggi si ritiene che la malattia renale cronica abbia un andamento prevalentemente lineare con una progressione più rapida nelle fasi più avanzate. Recenti studi osservazionali [11, 12] hanno evidenziato invece come nelle fasi avanzate della CKD la modalità di progressione possa essere variabile, mostrando spesso un andamento non lineare e fortemente eterogeneo.

 

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