Dengue: A Growing Public Health Problem in Europe with Potential Severe Renal Involvement

Abstract

Dengue is an arboviral infection transmitted by the mosquito of the Aedes genus, widespread especially in tropical and subtropical regions but now with worldwide involvement. Cases of contagion are also progressively increasing in Europe, and the differential diagnosis with other infections is not always easy. Renal involvement with acute renal failure is possible and caused by the direct action of the virus, hemodynamic instability, rhabdomyolysis, or acute glomerular damage. In patients most at risk of renal involvement, there is high morbidity and mortality, with more extended hospital stays and follow-ups over time, which increases the burden on healthcare systems. Knowledge of this infection by nephrologists is essential for reducing morbidity, mortality, and, therefore, healthcare costs.

Keywords: Acute kidney failure, Arbovirus, classical Dengue fever, Dengue hemorrhagic fever, Dengue shock syndrome, early diagnosis

Introduction 

The dengue virus, responsible for the disease, is an arbovirus with four antigenically and genetically distinct DENV serotypes (DENV1–4). It is an important mosquito-borne viral infection, once confined to tropical and subtropical regions but now it is a growing global public health concern.
DENV has a single-stranded RNA genome composed of three structural protein genes: core protein (C), a membrane-associated protein (M), an envelope protein (E) and seven nonstructural protein (NS) genes, and glycoprotein NS1 has diagnostic importance. Infection with any serotype confers lifelong immunity to that viral serotype. However, in cross immunity for the other serotypes, the recovery is only partial, and temporary. Genetic variation within each serotype is called “subtypes” or “genotypes”. Currently, three subtypes are identified for DENV-1, six for DENV-2, four for DENV-3, and four for DENV-4. 

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Clozapine-induced Tubulointerstitial Nephritis

Abstract

Tubulointerstitial nephritis is a common cause of acute renal failure, in two thirds of cases it is associated with drugs (mostly antimicrobials and NSAIDs), in 5-10% of cases it is associated with infections (bacterial/viral/parasitic), in 5-10% of cases it is idiopathic (this is the case of the TINU syndrome characterized by interstitial nephritis and bilateral uveitis, and the anti-glomerular basal membrane antibody syndrome), and finally in 10% of cases it is associated with systemic diseases (sarcoidosis, by Sjogren, LES). The pathogenesis is based on a cell-mediated immune response and in most cases removing the causative agent is the gold standard of therapy. However, a percentage of patients, in a variable range from 30% to 70% of cases, do not fully recover renal function, due to the rapid transformation of the interstitial cell infiltrate into vast areas of fibrosis.

Clozapine is a second generation atypical antipsycothic usually used for the treatment of schizophrenia resistant to other types of treatment; it can cause severe adverse effects among which the best known is a severe and potentially fatal neutropenia, furthermore a series of uncommon adverse events are recognized including hepatitis, pancreatitis, vasculitis. Cases of acute interstitial tubular nephritis associated with the use of clozapine have been described in the literature, although this complication is rare. Medical personnel using this drug need to be aware of this potential and serious side effect.

We describe the case of a 48-year-old man who developed acute renal failure after initiation of clozapine.

Keywords: Intestinal tubular nephritis, acute renal failure, clozapine

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Case report

Un uomo di 48 venne ricoverato il primo ottobre 2020 nel reparto di Psichiatria dell’Ospedale di Vizzolo per stato delirante in nota piscosi schizoaffettiva, tale patologia era nota sin dal 2004. Nessun altro problema clinico rilevante segnalato in anamnesi. Veniva impostata all’ingresso terapia con Clozapina (mai assunta prima) titolata sino ad un dosaggio di 200 mg/die, Citalopram e Aloperidolo. In data 15/10 comparivano febbre, faringodinia e sindrome diarroica, accompagnati da rialzo degli indici di flogosi (PCR, fibrinogeno, D-dimero e ferritina). Il paziente veniva trasferito presso l’U.O. di Medicina Interna del nostro nosocomio per approfondimento diagnostico, tuttavia i dati laboratoristici e iconografici non fornivano elementi orientativi di tipo eziopatogenico. Veniva empiricamente impostata terapia con Cefriataxone e fluconazolo. Successivamente il paziente, stabile dal punto di vista clinico, veniva ritrasferito presso il Reparto di Psichiatria per titolazione della terapia con Clozapina. A questo punto si assisteva alla ricomparsa di febbre, accompagnata da marcata astenia, inappetenza e, dato nuovo, progressivo rialzo dei valori di creatinina (in ingresso paria a 0,8 mg/dl) sino ad un picco di 5 mg/dl. A questo punto nel sospetto di tossicità da farmaci la clozapina veniva sospesa e sostituita con Olanzapina.

Ecograficamente entrambi i reni presentavano aumento dell’ecogenicità corticale come nei casi di nefropatia di grado moderato, senza franche lesioni focali apprezzabili né “formazioni calcolotiche”. L’esame urine delle 24 ore mostrava una proteinuria di poco superiore al grammo. Gli esami ematici mirati ad indagare l’eziologia dell’insufficienza renale acuta mostravano esclusivamente p-ANCA positività, ma negatività dell’MPO e del PR3, nella norma il dosaggio di C3, C4 e immoglobuline, negativi ANA ed ENA. Si segnala inoltre negatività del pannello virale per epatite B, C, HIV, CMV, Toxoplasma, EBV; negativi inoltre tutti gli esami colturali effettuati su sangue e urine. Data la pandemia in corso, inoltre, sono stati più volte eseguiti tamponi N/F per ricerca di SARS-CoV-2 e tampone rettale risultati sempre negativi.

Persistendo la sintomatologia febbrile in associazione al rialzo degli indici di flogosi (PCR persistentemente elevata e leucocitosi neutrofila) e in assenza di franchi richiami d’organo, si decideva di effettuare esame PET TAC che escludeva focolai settici o lesioni neoplastiche caratterizzate da elevata proliferazione cellulare. Avendo escluso la natura infettiva/neoplastica della febbre, in considerazione dei valori di creatininemia stabilmente elevati, di proteinuria 1 grammo/24 ore e cilindruria e al sopravvenuto esito di positività di p-ANCA, si decideva di sottoporre il paziente ad agobiopsia renale sinistra ecoguidata. L’esame istologico (microscopia ottica e immunofluorescenza) mostrava una nefrite tubulointerstiziale diffusa di grado moderato-severo in assenza di lesioni glomerulari e vascolari.

Pertanto, in accordo ai colleghi psichiatri, si decideva di avviare terapia steroidea a basse dosi per os (prednisone 25 mg/die) il cui dosaggio è stato gradualmente scalato per un periodo complessivo di 2 mesi. In dimissione la creatinina si attestava su valori pari a 2,32 mg/dl e ai controlli successivi dopo 1 e 2 mesi risultava rispettivamente paria a 1,53 mg/dl e 1,22 mg/dl; si assisteva inoltre di pari passo ad una riduzione della PCR (7 mg/l) e della leucocitosi, ad una negativizzazione della proteinuria (proteinuria delle 24 ore 0,12 grammi). Si concordava con i colleghi psichiatri sulla non reintroduzione della clozapina.

 

Discussione

Ci sono quattordici case report in letteratura riguardanti l’associazione tra glomerulonefrite interstiziale e clozapina [317]. I pazienti dei report in questione sono 9 uomini e 5 donne, l’età varia da 24 a 69 anni e l’analisi dei casi dimostra variabilità nella presentazione dei sintomi dopo l’avvio della terapia in un range temporale compreso tra alcuni giorni e 3 mesi. La posologia di clozapina assunta variava da un minimo di 25 mg ad un massimo di 700 mg/die.  I sintomi comuni includevano febbre, eosinofilia e proteinuria. In sei di questi casi è stata effettuata la biopsia renale che mostrava nefrite interstiziale acuta, la clozapina fu sospesa in tutti i casi e i pazienti vennero trattati con terapia di supporto, steroidi e, in alcuni casi, emodialisi.

Nel caso nel nostro paziente i sintomi sistemici febbre e rialzo degli indici infiammatori (incremento dei globuli bianchi, eosinofilia, incremento della PCR) iniziavano a comparire circa 15 giorni dopo l’inizio della terapia, mentre la comparsa dell’insufficienza renale acuta con proteinuria circa 40 giorni dopo (Tabella e Figura 1).

Dato anamnestico Valore massimo Dopo 4 settimane Dopo 8 settimane Dopo 12 settimane
Proteinuria (g/24h) 1 0,3 0,12 0
Creatinina (mg/dl) 0,8 5 2,32 1,22 1,06
Proteina C reattiva (mg/l) 128 14 7 5
Eosinofili (x103/μl) 1,1 7,5 6,1 3,2 2,4
Tabella 1 – Figura 1. Andamento della funzione renale, della proteina C reattiva e del valore degli eosinofili durante il ricovero e il follow-up.

Ci sono circa 100 farmaci associati in letteratura alla comparsa di nefrite interstiziale acuta che includono anche diversi antibiotici (penicilline, chinolonici, Beta lattamici) che il paziente ha assunto ma successivamente alla comparsa del corteo sintomatologico.

La diagnosi di nefropatia tubulointerstiziale da clozapina sembra essere verosimile (Figura 2), anche il timing di presentazione coincide con quanto riportato in letteratura. I valori di creatinina dopo due mesi di osservazione sono scesi, senza ancora ritornare ai valori basali. Nella letteratura citata in precedenza la funzione renale ritornò al basale in sei casi, migliorò ma non tornò al basale in 5 casi, in un caso non ci furono rialzi della creatinina, mentre in due casi il follow-up non è riportato.

Il nostro caso vuole mettere in luce una seria complicanza, poco conosciuta, di un importante farmaco antipsicotico usato largamente nel trattamento della schizofrenia resistente.

Per quel che concerne la positività dei p-ANCA (con dosaggio quantitativo negativo) segnaliamo in letteratura la presenza di vasculite ANCA associata iatrogena in associazione a diversi farmaci, tra cui compare la clozapina . In particolar modo un case report giapponese [5] riporta la storia di una donna di 48 anni in terapia con clozapina che sviluppò febbre, mialgie, atralgie e rash cutaneo con positività dei p-ANCA con la necessità di avviare terapia steroidea, i cui sintomi regredirono con la sospensione della clozapina e lo steroide venne gradualmente sospeso. Nel caso del nostro paziente segnaliamo esclusivamente la positività degli ANCA senza sintomi clinici corrispettivi e in assenza di segni bioptici suggestivi. Proseguirà follow-up laboratoristico degli ANCA. Il meccanismo patogenetico con cui la clozapina induce danno tubulointerstiziale non è noto [17, 17].

Diversi studi presenti in letteratura analizzano i possibili effetti avversi della clozapina su altri organi/tessuti, in particolar modo in un recente lavoro condotto su topi sottoposti ad una dieta ad elevato contenuto di grassi si è visto che il gruppo sottoposto a terapia con clozapina rispetto al gruppo controllo sviluppava in una percentuale maggiore obesità, insufficienza renale, intolleranza glucidica, fegato steatosico e danno retinico. Inoltre, essi presentavano maggiore espressione di specie reattive dell’ossigeno e di IL-1 ed un minore livello di enzimi antiossidanti (superossidodismutasi, glutatione e catalasi). Per di più si è visto che i topi trattati con clozapina presentavano un bilancio negativo del cromo, elemento che partecipa al metabolismo delle proteine, dei lipidi e dei carboidrati ed ha effetti positivi sui pazienti obesi, nefropatici e diabetici; la maggiore percentuale di cromo è riassorbita a livello del tubulo prossimale renale, ma una certa quantità viene escreta nelle urine, i topi con danno renale mostravano una maggiore quantità di cromo urinario [18].

Figura 2a-2b. Severo e diffuso infiltrato infiammatorio interstiziale, prevalentemente linfomonocitario e plasmacellulare. Focolai di scleroatrofia tubulointerstiziale. Cilindri tubulari proteici.
Figura 2a-2b. Severo e diffuso infiltrato infiammatorio interstiziale, prevalentemente linfomonocitario e plasmacellulare. Focolai di scleroatrofia tubulointerstiziale. Cilindri tubulari proteici.

 

Conclusioni

L’utilizzo prolungato del farmaco è stato associato ad un incremento della sindrome metabolica con un conseguente aumento del rischio cardiovascolare e della mortalità.

 

Ringraziamenti

Un ringraziamento particolare alla professoressa Manuela Nebuloni del Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche, settore Anatomia Patologica dell’università degli studi di Milano, per la disponibilità, l’analisi dei campioni istologici e la creazione delle immagini per il completamento di questo lavoro.

 

Bibliografia

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New Perspectives in Post-Surgical Acute Kidney Injury During Sepsis

Abstract

Postoperative acute kidney injury (PO-AKI) is a common complication of major surgery that is strongly associated with short-term surgical complications and long-term adverse outcomes. Risk factors for PO-AKI include older age and comorbid diseases such as chronic kidney disease and diabetes mellitus.  Sepsis is a common complication in patients undergoing surgery and is a major risk factor for the development of acute kidney injury (SA-AKI). Prevention of AKI in surgery patients is largely based on identification of high baseline risk, monitoring, and reduction of nephrotoxic insults. Early identification of patients at risk of AKI, or at risk of progressing to severe and/or persistent AKI, is crucial to the timely initiation of adequate supportive measures, including limiting further insults to the kidney. Although specific therapeutic options are limited, several clinical trials have evaluated the use of care bundles and extracorporeal techniques as potential therapeutic approaches.

Keywords: AKI, PO-AKI, sepsis, biomarkers, extracorporeal treatment

 

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Introduzione

Il danno renale acuto post-chirurgico (PO-AKI) è associato ad un rischio elevato di mortalità e di sviluppo di altre complicanze post-operatorie [1].

La definizione adottata è sostanzialmente quella di danno renale acuto secondo le linee guida KDIGO 2012 (aumento della creatinina sierica di 0,3 mg/dl in 48 ore oppure di 1,5 volte rispetto al basale, oppure output urinario < 0,5 ml/kg/h per almeno sei ore), che si manifesta entro 7 giorni dall’intervento chirurgico [1].

L’obiettivo di questa revisione è quello di sintetizzare i dati presenti in letteratura e fornire una visione complessiva riguardo al danno renale acuto che si manifesta nel periodo post-chirurgico, soprattutto nei casi complicati da un evento infettivo, co-fattore nello sviluppo e nel mantenimento del danno renale.

STADIO Misure del danno renale acuto
Aumento della creatinina sierica Riduzione della diuresi
1 ≥ 0,3 mg/dl (26,52 micromol/l) o 1,5-1,9 volte il basale < 0,5 ml/kg/h per 6-12 h
2 2-2,9 volte il valore basale < 0,5 ml/kg/ora per ≥ 12 h
3 ≥ 4,0 mg/dl (353,60 micromol/l) o ≥ 3 volte il basale < 0,3 ml/kg/h per ≥ 24 h o anuria per ≥ 12 h
Tabella 1: Criteri di stadiazione del danno renale acuto (KDIGO, Kidney Disease Improving Global Outcomes 2012 [2]).

 

Epidemiologia

Va segnalato, però, che nell’immediato periodo post-chirurgico si può assistere ad una riduzione dell’output urinario, sebbene transitoria, come adattamento fisiologico allo stato di ipovolemia relativa, alla vasodilatazione o al rilascio di arginina-vasopressina in risposta all’insulto tissutale [3].

L’incidenza di AKI post-chirurgica varia dal 25% nella chirurgia traumatologica al 50% nella chirurgia dell’aorta o nel trapianto di fegato [4]. I pazienti più a rischio sono quelli con malattia renale cronica (proteinuria o alterazione della funzione renale), di sesso maschile, età > 50 anni, diabete, comorbidità cardiovascolari, elevato BMI [1].

 

Fisiopatologia

Danno renale acuto post-chirurgico
I meccanismi fisiopatologici alla base del PO-AKI non sono stati ancora del tutto chiariti; sicuramente l’eziologia del danno renale è complessa e multifattoriale.

Figura 1: L’eziologia del PO-AKI è multi-fattoriale – il danno renale è spesso dato dalla combinazione dei fattori pre-operatori e degli eventi intra- e post-operatori [1] (reprinted with permission).
Figura 1: L’eziologia del PO-AKI è multi-fattoriale – il danno renale è spesso dato dalla combinazione dei fattori pre-operatori e degli eventi intra- e post-operatori [1] (reprinted with permission).
Tra i principali fattori implicati vi sono l’insulto ischemia-riperfusione, nefrotossine endogene o esogene, fattori infiammatori, vasocostrizione e stress-ossidativo. Anche le tecniche anestesiologiche possono avere un ruolo, in quanto possono determinare vasodilatazione e ipotensione. Anche le tempistiche e il distretto coinvolto possono influire sul rischio, maggiore per gli interventi eseguiti in regime d’urgenza e per quelli eseguiti sul distretto cardiovascolare e intraperitoneale [1].

Nel 2019 ha avuto luogo una Consensus Conference con il fine di analizzare e valutare le evidenze scientifiche presenti riguardo il danno renale acuto in seguito ad interventi chirurgici (escludendo l’ambito cardiochirurgico). Di seguito sono riportati i punti salienti in merito ai meccanismi fisiopatologici ed epidemiologici.

EPIDEMIOLOGIA E PATOFISIOLOGIA DEL PO-AKI SECONDO IL “The Acute Disease Quality Initiative (ADQI)-24 and the PeriOperative Quality Initiative (POQI)-7 Conference”
Consensus Statement 1a: Il PO-AKI è una sindrome piuttosto che una singola patologia. Nella maggior parte dei casi l’eziologia è multifattoriale (ungraded).
Consensus Statement 1b: L’incidenza del PO-AKI (definita sulla base dell’aumento della creatinina) varia in base alle caratteristiche e al timing dell’intervento chiurgico.  L’incidenza del danno renale acuto in seguito ad interventi in regime ambulatoriale è incerta (ungraded).
Consensus Statement 1c: Il danno renale acuto definito da una condizione transitoria di oliguria è più comune nel periodo intra- e post-operatorio rispetto al danno renale acuto definito dall’aumento della creatinina sierica. L’oliguria severa e l’anuria, anche in assenza di un aumento della creatinina sierica si associano ad un rischio aumentato di morbidità e mortalità (ungraded).
Consensus Statement 1d: La maggioranza degli studi osservazionali si focalizzano sul danno renale acuto nell’immediato periodo post-operatorio. Minori sono le evidenze disponibili riguardo all’epidemiologia del danno renale acuto trascorsi i 7 giorni dall’intervento chiurgico (AKD) (ungraded).
Consensus Statement 1e: I fattori di rischio per il PO-AKI includono un’età > 50 anni, sesso maschile, tasso di filtrazione glomerulare < 60 ml/min/1,73 m2, diabete mellito, scompenso cardiaco, ascite, impertensione, interventi chirurgici in regime di emergenza, interventi intraperitoneali, numero di farmaci, utilizzo di ACEi o ARBs, high American Society of Anesthesiology Physical Status classification score e albuminuria. I pazienti con malattia renale cronica e/o diabete sono da considerarsi particolarmente a rischio di danno renale acuto (ungraded).
Tabella 2: Epidemiologia e patofisiologia del PO-AKI [1] (reprinted with permission).

Se in questo setting delicato si aggiungono il ricovero in terapia intensiva (dai dati presenti in letteratura, il danno renale acuto è presente in oltre il 50% dei pazienti ricoverati in terapia intensiva nel post-operatorio [5]), l’utilizzo di farmaci nefrotossici/mezzo di contrasto, sepsi e shock, il rischio di danno renale incrementa notevolmente [6].

Tra tutti questi fattori, quello più rilevante è la sepsi, intesa come una disfunzione d’organo dovuta a una risposta disregolata dell’ospite rispetto ad un evento infettivo [7], che rappresenta il 45-70% di tutte le cause di AKI nei pazienti critici [8].

Danno renale acuto associato alla sepsi

La sepsis-associated-AKI (SA-AKI) viene definita come una sindrome eterogenea che si instaura come conseguenza di meccanismi direttamente legati all’infezione o alla risposta messa in atto dall’ospite, oppure di meccanismi indiretti che sono conseguiti alla sepsi (es. antibiotici nefrotossici o la “abdominal compartment syndrome”) [8]. Il rischio è maggiore in presenza di shock settico che si esprime come quadro di sepsi severa che si associa a ipotensione refrattaria al riempimento volemico, con necessità di impiego di amine vasoattive per mantenere la pressione arteriosa media sopra i 65 mmHg e una concentrazione di lattati < 2 mmol/l [7], utilizzo di vasopressori o ventilazione meccanica, batteriemia sostenuta da germi gram-negativi [8].

I meccanismi che contribuiscono allo sviluppo di danno renale associato a sepsi sono molteplici, tra questi l’infiammazione sistemica e renale, l’attivazione del complemento, la disregolazione del sistema RAAS, la disfunzione mitocondriale e del microcircolo [8]. Anche per quanto riguarda la SA-AKI, vi è stata di recente una Consensus Conference con l’obiettivo di identificare i gap conoscitivi nella popolazione adulta, fornire raccomandazioni per la pratica clinica e sviluppare una struttura comune per la ricerca futura. Riassumiamo di seguito le principali dichiarazioni per quanto riguarda i meccanismi patofisiologici.

PATOFISIOLOGIA DEL SA-AKI SECONDO IL “Conference Chairs of the 28th ADQI consensus committee (L.G.F., A.Z., M.K.N. and C.R.)”
Consensus statement 2°: Il SA-AKI è una sindrome eterogenea in quanto molteplici meccanismi contribuiscono al danno renale con varia intensità nei pazienti in corso di sepsi (not graded).
Consensus statement 2b: Il contributo relativo di uno o più meccanismi specifici che determinano il danno renale definiscono distinti endotipi di danno renale acuto associato a sepsi (not graded).
Consensus statement 2c: Fattori modificabili e non conferiscono suscettibilità allo sviluppo di SA-AKI e determinano la severità del quadro e le possibilità di recupero (not graded).
Consensus statement 2d: L’integrazione di biomarcatori specifici con la clinica permetterà l’identificazione degli endotipi specifici di SA-AKI (not graded).
Consensus statement 2e: L’identificazione dei distinti endotipi di SA-AKI potrebbe fornire informazioni prognostiche cruciali, aiutare a definire la risposta al trattameto e arricchire la popolazione dei trial clinici (not graded).
Tabella 3: Patofisiologia del SA-AKI [8] (reprinted with permission).

Sebbene la sepsi si accompagni a uno stato di instabilità emodinamica e di bassa portata, in recenti studi su modelli animali e umani, in particolare nei pazienti con batteriemia da GRAM-, si è osservato, nella fase iniziale della sepsi, un incremento del flusso plasmatico renale rispetto ai controlli (fase iperdinamica, legata alla vasodilatazione sistemica), diversamente da quanto tradizionalmente concepito. Il declino del GFR in questi pazienti sarebbe quindi disgiunto dalle modifiche del flusso plasmatico renale e attribuibile invece ad altri fattori, quali la disfunzione endoteliale, le alterazioni del microcircolo e delle cellule epiteliali tubulari indotte dall’attivazione della cascata citochinica e coagulativa [9].

Figura 2: Alterazione del microcircolo e delle cellule epitaliali tubulare indotte dall’infiammazione [10] (reprinted with permission).
Figura 2: Alterazione del microcircolo e delle cellule epitaliali tubulare indotte dall’infiammazione [10] (reprinted with permission).
Gli antigeni esposti dal patogeno (PAMPs) e dalle cellule danneggiate dell’ospite (DAMPs) nel corso di un evento infettivo si legano ai recettori per l’antigene (TLRs o NODs) delle cellule circolanti del sistema immunitario e delle cellule epiteliali tubulari (TEC). Tale legame favorisce la produzione di citochine (mediatori infiammatori di peso molecolare < 40 kDa quali IL1-IL6-IL17-TNFalfa), radicali liberi (ROS), stress ossidativo e attivazione endoteliale. L’attivazione endoteliale promuove il rolling e l’adesione dei leucociti e piastrine, con aumentato rischio di formazione di microtrombi capillari [10].

Come già accennato, anche la nefrotossicità da antibiotici (in primis glicopeptidi e aminoglicosidi, con meccanismo dose-dipendente) svolge un ruolo fondamentale nell’eziopatogenesi dell’AKI nei pazienti settici. Vancomicina e gentamicina, impiegate rispettivamente nelle infezioni da batteri GRAM+ e GRAM-, agiscono sulle TEC attivando la produzione di ROS e di specifiche caspasi pro-apoptotiche; la vancomicina è associata anche alla formazione di cilindri tubulari ostruenti (tubular casts) e a un danno da ipersensibilità ritardata [11].

 

Fattori di rischio: il danno renale acuto nel post-operatorio degli interventi di artroprotesi d’anca

Nella nostra pratica clinica, abbiamo osservato come il danno renale acuto sia stato una complicanza relativamente frequente degli interventi di artroprotesi d’anca nei pazienti con sepsi/infezioni protesiche.

Oltre ai noti e già citati fattori di rischio di danno renale acuto post-operatorio, sono implicati nell’incidenza di AKI le procedure bilaterali, specie se sincrone (rispetto a quelle ravvicinate < 7gg o differite) [12], le revisioni di protesi, l’uso di ACE-inibitori, bassi valori di ematocrito e di albumina pre-operatori; i pazienti con albuminemia ridotta, rispetto ai controlli, sono infatti a maggior rischio di sviluppo di complicanze (infezioni, polmoniti, sepsi, infarto miocardico) a 30 giorni dall’intervento [1214].

I foci infettivi più frequenti sono rappresentati dalle infezioni delle vie urinarie (1/3 dei casi probabilmente legati alle manovre di cateterismo vescicale), infezioni del sito chirurgico (1/4), le polmoniti nosocomiali (1/7) [15], ma anche le infezioni periprotesiche (periprosthetic joint infection, PJI) di anca e ginocchio, la cui incidenza è in progressivo aumento (attualmente circa il 2%).

Oltre all’impatto clinico sul paziente (in termini di quantità e qualità della vita), le complicanze infettive determinano un significativo incremento dei costi della sanità: sulla base dei dati dei ricoveri ospedalieri nei primi 5 anni da una sostituzione totale di anca il costo di una revisione della protesi per infezione è 5 volte più alto di quello richiesto da una revisione per altre cause. Si stima che negli USA il costo delle cure ospedaliere per artroprotesi infette (anca e ginocchio) raggiungerà gli 1.85 miliardi entro il 2030.

I batteri aerobi GRAM+ (S. aureus, stafilococchi coagulasi negativi, Streptococchi ed Enterococchi) sono stati identificati quali principali agenti microbici nelle infezioni periprotesiche (82% dei casi); i batteri GRAM- contribuiscono per l’11% mentre i funghi per il 3%.

 

Early-onset

(< 3 mesi)

Delayed-onset

(3-12 mesi)

Late-onset

(> 12 mesi)

Sintomi locali e sistemici

Necrosi della ferita chirurgica, segni di flogosi locali (dolore, calore, eritema, tumefazione), deiscenza.

Febbre

Dolore persistente

Fistola cutanea

Mobilizzazione protesi

Segni di flogosi locali

Febbre

Patogeni S. aureus, GRAM-, polimicrobica Stafilococchi coagulasi-negativi (Staphylococcus lugdunensis), enterococchi, Propionibacterium S. aureus, GRAM-, streptococchi beta-emolitici
Tabella 4: Clinica e principali microrganismi coinvolti nelle infezioni periprotesiche, raggruppati in base al tempo di insorgenza.

 

Strategie terapeutiche

Tecniche di prevenzione e nuovi scenari farmacologici

La gestione e la terapia dei pazienti sottoposti a intervento chirurgico con sepsi che hanno sviluppato danno renale acuto non sono del tutto state definite in quanto, in letteratura, mancano precise linee guida o trial clinici randomizzati.

Sicuramente le prime misure da adottare sono la sospensione di tutti gli agenti nefrotossici e l’ottimizzazione del profilo emodinamico [1], in associazione alla somministrazione di una terapia antibiotica adeguata per risolvere l’infezione. Nel caso specifico dell’infezione periprotesica è raccomandata la rimozione della stessa. Di seguito è riportato un esempio di protocollo che può essere adottato nelle fasi peri-operatorie dell’intervento di artroprotesi d’anca per ridurre lo sviluppo di danno renale acuto [16], che può essere applicato anche per le altre tipologie di interventi chirurgici in elezione.

Figura 3: Protocollo peri-operatorio per la prevenzione del danno renale acuto [16] (reprinted with permission).
Figura 3: Protocollo peri-operatorio per la prevenzione del danno renale acuto [16] (reprinted with permission).
Per quanto riguarda terapie specifiche nel trattamento del danno renale acuto, sono in corso degli studi che prevedono l’impiego di agenti farmacologici che agiscono sui meccanismi implicati nella sepsi: ad esempio l’utilizzo di desametasone è stato associato a una minore necessità di intraprendere la terapia sostitutiva nei pazienti sottoposti ad intervento cardiochirurgico [17]; un trial di fase 2 ha dimostrato i benefici a lungo termine sulla funzione renale e la minore mortalità nei pazienti trattati con la fosfatasi alcalina ricombinante umana nei pazienti con sepsi [18]; anche il levosimendan potrebbe avere un ruolo di protezione sulla funzione renale nei pazienti con AKI sottoposti ad intervento cardiochirurgico [19].

In considerazione del fatto che le strategie terapeutiche a disposizione restano limitate, è fondamentale identificare i pazienti a rischio prima dell’intervento e mettere in atto strategie preventive: è ragionevole sospendere ace-inibitori e sartani almeno 24 ore prima dell’intervento [1], ridurre l’utilizzo dei FANS e in generale di evitare farmaci nefrotossici (es. la gentamicina utilizzata in profilassi in caso di interventi ortopedici si associa ad aumento rischio di PO-AKI [20]).

Occorre però precisare che ad oggi non vi sono dati significativi a supporto di queste teorie [23], né è stato stabilito il timing per la ripresa di ace-inibitori e sartani nel post-operatorio.

Un altro aspetto importante è assicurare al paziente uno stato euvolemico, evitare l’iperglicemia e correggere i valori di emoglobina/ematocrito e albumina sia prima dell’intervento che nell’immediato post-operatorio [1].

Tecniche sostitutive dialitiche

Nel caso in cui l’adozione delle misure sopracitate non abbiano apportato un beneficio in termini di recupero della funzione renale, le tecniche di dialisi extracorporee (possibilmente in ambiente intensivo) rimangono l’opzione migliore non solo per contrastare il sovraccarico idrico e mantenere un buon controllo dell’equilibrio acido-base e degli elettroliti, ma anche per offrire un’ulteriore strategia di trattamento in corso di sepsi grazie alla rimozione di endotossine, citochine, patogeni e altri fattori pro-infiammatori circolanti [8].

Tra le tecniche più utilizzate vi sono l’emofiltrazione e l’emoadsorbimento; quest’ultima si basa sull’ipotesi del picco di concentrazione, cioè il meccanismo d’azione è quello di rimozione dei soluti con più alta concentrazione nel sangue. Per un funzionamento ottimale, è necessario l’utilizzo di membrane specifiche: nuove resine di polimeri sintetici dotate di elevata biocompatibilità sono state messe a punto per favorire l’emoadsorbimento di DAMPS e altri mediatori, la cui concentrazione è appunto elevata in corso di sepsi [8]. Di seguito sono rappresentate le caratteristiche dei trattamenti extracorporei utilizzati in corso di SA-AKI [8].

Figura 4: Caratteristiche dei trattamenti extracorporei disponibili per pazienti con sepsi e SA-AKI [8] (printed with permission).
Figura 4: Caratteristiche dei trattamenti extracorporei disponibili per pazienti con sepsi e SA-AKI [8] (printed with permission).
I trattamenti utilizzati sono l’emodialisi in continuo (CVVHD) con membrane ad alto cut-off efficaci nella rimozione dei mediatori pro-infiammatori (EMIC2 Fresenius Medical Care, cut-off 40 kDa, dimensione pori 10 millimicron, durata filtro 72h) ed emodialfiltrazione continua (CVVHDF) con l’aggiunta della cartuccia sorbente Cytosorb (AFERETICA – max 24 ore di utilizzo), che agisce su sostanze prevalentemente idrofobe, a basso e medio peso molecolare, in funzione della concentrazione plasmatica.

Si consideri inoltre l’utilizzo di filtri attivi verso batteri, virus e funghi quali Seraph 100 Microbind Affinity adsorber (Exthera Medical, CA, USA), (durata trattamento 4±1 ore) in grado di legare i patogeni circolanti nel circolo ematico, mimando la naturale superficie delle cellule endoteliali mediante la presenza di un glicocalice contenente eparan solfato [21].

Figura 5: Caratteristiche della superficie del filtro Seraph 100 confrontata con una cellula epiteliale con in superficie il glicocalice contenente eparan solfato (da scheda tecnica SERAPH 100, EXTERA MEDICAL).
Figura 5: Caratteristiche della superficie del filtro Seraph 100 confrontata con una cellula epiteliale con in superficie il glicocalice contenente eparan solfato (da scheda tecnica SERAPH 100, EXTERA MEDICAL).

Il timing con cui va iniziato il trattamento dialitico rimane tutt’ora controverso; sicuramente un aspetto importante da considerare sono le condizioni cliniche generali e la prognosi dei pazienti.

In un trial randomizzato controllato su coorte francese con shock settico e AKI severa (Failure sec-RIFLE, AKI stadio III sec-KDIGO), non è stato riscontrato beneficio in termini di mortalità nell’inizio precoce (entro 12h dall’esordio) del trattamento sostitutivo emodialitico rispetto al braccio di pazienti sottoposti a dialisi dopo 48h [22]. Nessun vantaggio sulla sopravvivenza del paziente è stato inoltre dimostrato con l’incremento della dose dialitica > 20/25 ml/kg/h raccomandata nel paziente critico [23].

Di seguito sono sintetizzate le informazioni emerse dalla recentissima Consensus Conference sulla SA-AKI per quanto riguarda le tecniche di trattamento extracoporeo.

Terapie extracorporee e nuove strategie nella SA-AKI
Consensus statement 5a: Tecniche extracorporee di purificazione del sangue (EBP) possono essere utilizzate per la rimozione di patogeni, tossine microbiche, mediatori infiammatori e metaboliti tossici (grade 1A). Consensus statement 5d: L’inizio di EBP in corso di sepsi può essere considerato a scopo di supporto immuno-modulatorio nei pazienti che rispettano i criteri clinici e/o biologici, come la concentrazione di DAMPS e PAMPS, o di altri componenti dell’infiammazione sistemica (not graded).
Consensus statement 5b: Le terpapie sostitutive della funzione renale supportano la funzione dell’organo mediante il controllo dei soluti, la rimozione delle tossine ematiche e il bilancio dei fludi tramite i meccanismi di diffusione, convezione e adsorbimento. La dialisi peritoneale potrebbe essere utilizzata quando le tecniche extracorporee non sono disponibili (grade 1A). Consensus statement 5e: L’ottimizzazione del trattamento extracorporeo è determinata da fattori quali l’inizo tempestivo e in sicurezza, la durata del trattamento, l’utilizzo di un accesso vascolare appropriato, la dose dialitica personalizzata per il singolo paziente, la corretta strategia di anticoagulazione, il corretto utilizzo di farmaci concomitanti (antibiotici, vasopressori, …) e nutrienti, una giusta prescrizione del trattamento e della quota di ultrafiltrazione (not graded).
Consensus statement 5c: Le indicazioni sull’inizio del trattamento sostitutivo nel corso di SA-AKI non differiscono rispetto a quelle per il trattamento del danno renale acuto in generale (grade 1A). Consensus statement 5f: Trattamenti sicuri ed efficacy richiedono marcatori oggettivi di risposta al trattamento, che possono essere valutati durante il corso del trattamento, con focus sugli obiettivi di cura “patient-centred” (grade 1B).
Tabella 5: Terapie extracorporee e nuove strategie nella SA-AKI [8].

 

Utilizzo di nuovi marcatori

Negli anni si è tentato di mettere a punto una serie di score in associazione all’uso di marcatori per stimare il rischio di sviluppo di danno renale acuto nei pazienti da sottoporre ad intervento chirurgico.

Ad esempio, è raccomandato l’utilizzo del risk-based kidney health assessment (KHA) nel periodo pre- e post-operatorio: si tratta di una valutazione che include la storia nefrologica del paziente, la terapia, le comorbidità cardiovascolari, lo stato emodinamico e i marcatori di danno renale (es. creatininemia, proteinuria) [1].

Altri studi hanno validato score prognostici che possono essere presi in considerazione per stratificare il rischio di danno renale acuto post-TJA secondo un sistema di calcolo; il “web-based risk assessment system” si basa ad esempio sulla classe ASA, sesso del paziente, valori di creatininemia pre-operatori, tipo di anestesia, uso di RAASi e di acido tranexamico peri-operatorio [24]; un Norton scale score basso (ampiamente utilizzato in ortopedia per la stratificazione del rischio di sviluppo di ulcere da pressione, che tiene in considerazione fattori fisici, mentali, il grado di attività, mobilità e incontinenza) è risultato un fattore predittivo di AKI post-artroplastica totale di anca (THA) [25].

In tale ambito il riconoscimento precoce dell’AKI è fondamentale per fornire un trattamento ottimale ed evitare ulteriori lesioni renali.

Allo stesso modo, il rilevamento di AKI nel contesto dell’infezione è fondamentale perché può definire la sepsi in un determinato paziente [26].

Figura 6: Decorso clinico e prognosi nei pazienti con SA-AKI [10] (printed with permission).
Figura 6: Decorso clinico e prognosi nei pazienti con SA-AKI [10] (printed with permission).
Biomarker Sede di ricerca Sede di rilascio tubulare Funzione fisiologica Utilizzo
NGAL Plasma e urine Tratto spesso ansa di Henle e dotto collettore Proteina antinfiammatoria e antiapoptotica che è coinvolta nella sintesi e nel trasporto del ferro nell’epitelio tubulare renale. NGAL conferisce un effetto batteriostatico limitando l’assorbimento batterico del ferro. L’NGAL urinario è più specifico dell’NGAL plasmatico. Tuttavia, è stato dimostrato che l’NGAL plasmatico predice il recupero di S-AKI
KIM-1

 

Plasma e urine Tubulo prossimale Glicoproteina transmembrana di tipo 1 che ha un effetto antinfiammatorio sul rene. Partecipa al recupero renale e alla rigenerazione tubulare KIM-1 nelle prime 24 ore dopo il ricovero presenta una AUC di 0,91 per la diagnosi di S-AKI.
L-FABP

 

Urine Tubulo prossimale Della famiglia delle lipocaline, coinvolte nel legame e nel trasporto degli acidi grassi a catena lunga ai perossisomi e ai mitocondri da metabolizzare. Svolge un ruolo antiossidante riducendo lo stress ossidativo cellulare dovuto al legame dei prodotti di ossidazione degli acidi grassi i livelli urinari di L-FABP al momento del ricovero sono solitamente più alti nei non sopravvissuti con S-AKI e avevano un punteggio AUC più alto rispetto al punteggio APACHE II e SOFA.93 Ha anche dimostrato di essere un predittore di mortalità nei bambini settici.
TIMP 2- IGFBP7

 

Urine Tubulo prossimale Entrambe le proteine regolano la crescita cellulare e l’apoptosi. In presenza di danno cellulare, TIMP 2 e IGFBP7 sono sovraregolati e possono portare all’arresto del ciclo cellulare G1 attraverso l’induzione di p27 e p21, rispettivamente.

Biomarcatore approvato dalla FDA per lo strumento di valutazione del rischio di AKI nella sepsi. L’urina TIMP2/IGFBP7 ha la più alta specificità per il danno renale, in quanto vi è un’elevazione minima in presenza di altre lesioni d’organo. Alti livelli di TIMP2 e IGFBP7 nella fase iniziale dello shock settico sono fattori di rischio indipendenti per la progressione verso l’AKI grave nelle successive 24 ore.

Angiopoietina

 

Plasma Fattori angiogenici per lo sviluppo vascolare; Ang-1 è stato trovato per essere protettivo stabilizzando l’endotelio, mentre Ang-2 promuove la perdita vascolare, che può peggiorare la sepsi Nei pazienti con S-AKI, l’Ang-1 plasmatico è significativamente inferiore rispetto ai pazienti con sepsi ma senza AKI. Livelli più elevati di Ang-1 sono associati a un minor rischio di AKI e livelli più elevati di Ang-2 erano associati a un rischio più elevato di AKI e sono un predittore indipendente di mortalità a 28 giorni nei pazienti in terapia intensiva con AKI che richiedevano RRT
VE-cadherin

 

Plasma Una glicoproteina transmembrana endoteliale che forma giunzioni aderenti Il livello plasmatico di VE-caderina al momento dell’arruolamento è stato associato a AKI grave che richiede RRT (OR: 6,44 per log di aumento del VE-cadhe plasmatico)
Soluble
thrombomodulin
 
Plasma La trombomodulina è un recettore della trombina che viene espresso sulla superficie delle cellule endoteliali e viene rilasciato nel flusso sanguigno quando vengono attivate le cellule endoteliali. La trombomodulina PSoluble in un paziente con sepsi al ricovero in terapia intensiva è un predittore indipendente per S-AKI con AUC di 0,758
Interleukina-6 Plasma Una citochina con una vasta

gamma di attività biologiche; aiuta a controllare l’induzione della risposta di fase acuta; un mediatore per il cambio di classe delle immunoglobuline

 

L’interleuchina-6 al basale al momento del ricovero ha previsto l’AKI nei pazienti con sepsi grave
sTREM-1

 

Urine/

plasma

TREM-1 è un recettore attivante espresso selettivamente sulla superficie dei neutrofili e dei monociti e associato alla risposta infiammatoria innescata dall’infezione batterica. (È quasi non rilevabile nell’infiammazione non infettiva). sTREM-1 può essere prodotto localmente dalle cellule endoteliali, dalle cellule epiteliali tubulari o dalle cellule infiammatorie infiltranti durante la necrosi tubulare acuta.105,106 Nei pazienti con sepsi, sTREM-1 nelle urine al ricovero in terapia intensiva ha previsto AKI a 48 h con AUC di 0,922,107 Valore diagnostico per S-AKI: AUC di 0,794 per il plasma e 0,707 per le urine; valore predittivo 24 ore prima della diagnosi di S-AKI: AUC di 0,746 per il plasma e 0,778 per l’urina
 Tabella 6: Biomarcatori studiati in S-AKI [10].

A tal riguardo l’uso di marcatori e del loro andamento nel contesto della AKI può fornire ulteriori fondamentali informazioni utili a una diagnosi precoce di danno renale.

In futuro, il dosaggio dei nuovi biomarcatori di danno renale, ad oggi non ancora routinario, potrebbe essere utilizzato per stimare la progressione del danno renale; tra questi si citano il tissue inhibitor of metalloproteinases 2 (TIMP2) e l’insulin-like growth factor binding protein 7 (IGFBP7) urinari, dei quali è stato studiato il rapporto maggiore di 2 [26].

Figura 7: Andamento nel tempo dei biomarkers rispetto all’evento acuto. Clin J Am Soc Nephrol 10: 147–155, 2015 [28].
Figura 7: Andamento nel tempo dei biomarkers rispetto all’evento acuto. Clin J Am Soc Nephrol 10: 147–155, 2015 [28].
Figura 8: Sede di produzione di biomarkers in vari setting di danno tubulare [27].
Figura 8: Sede di produzione di biomarkers in vari setting di danno tubulare [27].
 

Conclusioni

In conclusione, il PO-AKI è una complicanza comune degli interventi di chirurgia maggiore che si associa ad una prognosi peggiore nel lungo termine, per la maggiore insorgenza di malattia renale cronica, eventi cardiovascolari e morte. Se nel post-operatorio il paziente va incontro a sepsi, il rischio di danno renale acuto incrementa notevolmente (SA-AKI). La prevenzione del danno renale acuto nel contesto peri-operatorio si basa sull’identificazione dei pazienti a rischio di AKI, nella riduzione degli agenti nefrotossici e nel trattamento delle cause sottostanti. Nel contesto del SA-AKI vi è la possibilità di utilizzare trattamenti extracorporei, che oltre ad una funzione di supporto della funzione renale facilitano la risoluzione del quadro.

Le prospettive prognostiche del paziente che nel post-operatorio sviluppa sepsi con danno renale acuto dipendono dalla tempestiva messa in atto di misure terapeutiche e dalla personalizzazione del trattamento.

 

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Acute Renal Failure, Lactic Acidosis, and Metformin: Two Case Reports and Literature Review

Abstract

Lactic acidosis is a potential adverse event related to metformin therapy. Although metformin-associated lactic acidosis (MALA) is a rare condition (about 10 cases / 100,000 patients / year), new cases continue to be reported, with a mortality of 40-50%. We describe two clinical cases characterized by severe metabolic acidosis, hyperlactacidemia, and acute renal injury. The first also with NSTEMI, successfully treated.

Keywords: lactic acidosis, metformin, acute renal failure

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Introduzione

La metformina è un farmaco di prima scelta nel trattamento del diabete mellito tipo 2. Sicura e facile da usare, essa rappresenta l’ipoglicemizzante orale più prescritto al mondo. Immessa in commercio nel 1961, la molecola è ancora oggi indicata dalle linee guida internazionali come il primo antidiabetico da impiegare per la terapia orale del diabete tipo 2 (non-insulino-dipendente) e dunque è considerata sicura, ma una possibile complicanza legata al suo utilizzo è l’acidosi lattica [1]. La metformina è controindicata nei pazienti affetti da severa disfunzione epatica o renale e una velocità di filtrazione glomerulare (VFG) <30 ml/min/1,73m2 rappresenta la soglia per la sua interruzione. Il rischio di acidosi lattica è più alto nei pazienti molto anziani e in quelli con disfunzione circolatoria, come l’insufficienza cardiaca congestizia. Sebbene l’acidosi lattica associata a metformina sia un’evenienza rara (prevalenza di 1-5 casi su 100.000 pazienti) la mortalità è pari al 40-50%. A causa della sintomatologia variegata e aspecifica, l’acidosi lattica associata a metformina è spesso difficile da predire e diagnosticare. È comunque noto che la MALA si verifica in presenza di un alterato rapporto tra aumentata produzione e alterato metabolismo/clearance di lattato [2].

 

Caso clinico n.1

Donna di 76 anni, con diabete mellito tipo 2, trattato con metformina. Non nota I.R.C. Giunge in pronto soccorso tramite il servizio di emergenza e accolta in codice rosso. Si presenta soporosa, ipotesa, anurica. Inoltre, da 7 giorni presentava sintomi di vomito e inappetenza. In anamnesi: ipertensione arteriosa, diabete mellito di tipo 2, fibrillazione atriale e scompenso cardiaco cronico. La creatininemia un mese prima era di 1,14 mg/dl. Al monitor bradicardia spinta con f.c. 20 bpm circa P.A. non apprezzabile, t.c. 33°C, f.r. 13 atti/min., SO2 non apprezzabile, arti freddi. Agli esami: creatinina 11,04 mg/dl, potassio 6,3 mmol/l, glicemia 685 mg/dl, grave acidosi metabolica (pH 7,05, PCO2 27 mmHg, PO2 68 mmHg, HCO3- (c) 9,4 mmol/l, BEecf -19,5 mmol/l, lattati 15.8 mmol/l). La paziente è stata trattata con infusione di liquidi, bicarbonato di sodio e supporto aminico; intubata e ventilata. Inoltre è stato impiantato P.M. temporaneo per via femorale destra ed eseguito PTCA/DES su CDX distale per NSTEMI. Per la persistenza di condizioni gravi, nonostante la terapia medica, il nefrologo chiamato in consulenza urgente ha dato indicazione al trattamento dialitico. Dopo le prime due sedute di bicarbonatodialisi si assisteva al miglioramento dell’emogasanalisi (EGA) e alla ripresa della diuresi; dopo 48 ore l’acidosi metabolica risultava risolta, è stata quindi sospesa la dialisi e la paziente è stata estubata il terzo giorno. Dimessa dopo 14 giorni con valori di creatininemia di 1,5 mg/dl.

Nel caso descritto, in particolare per la gravità dell’acidosi (pH di 7,05), la terapia medica e l’utilizzo della dialisi hanno dimostrato ottima efficacia nel ripristinare l’equilibrio metabolico, con ripristino dei parametri emodinamici ed EGA già dopo 24 ore, fino a completa correzione dopo 48 ore, consentendo l’interruzione della dialisi. La rapidità della diagnosi e dell’inizio del trattamento sostitutivo hanno avuto un importante impatto sulla prognosi della paziente.

Grafico 1: Caso clinico n.1: variazione dei principali parametri ematochimici pre- e post- trattamento dialitico.
Grafico 1: Caso clinico n.1- variazione dei principali parametri ematochimici pre- e post- trattamento dialitico.

 

Caso clinico n.2

Donna di 78 anni con anamnesi di cardiopatia ipertensiva, diabete mellito tipo 2 e pregresso intervento di colecistectomia per litiasi biliare. La terapia domiciliare comprendeva acido acetilsalicilico 100 mg die, ramipril 5 mg die e metformina cp 850 mg due volte/die. Si presenta in P.S. per sintomatologia algica addominale, vomito da circa 5 giorni, calo ponderale e oligo-anuria. I parametri all’ingresso erano i seguenti: P.A. 165/80 mmHg; F.C. 88 bpm; SO2 97% (Aria/Ambiente). Gli esami di laboratorio evidenziavano: urea: 167 mg/dl; creatinina: 8,70 mg/dl; amilasi e lipasi nei limiti della norma; PCR: 9,89 mg/l; leucociti: 18,11 × 10^3/μl. L’EGA segnalava un quadro di gravissima acidosi metabolica: pH 6,64, PCO2 14 mmHg, PO2 120 mmHg, lattati 10,8 mmol/l, BECF -26,7, HCO3-(c) 3,6 mmol/l, HCO3 st 6,3 mmol/l.

La paziente esibisce esami di 1 mese prima che evidenziavano una normofunzione renale con creatininemia di 1,13 mg/dl, urea 15 mg/dl.

È stata trattata con infusione di liquidi e bicarbonato di sodio, ma le infusioni di bicarbonato di sodio all’8,4% (3 × 100 ml) non avevano effetto sui livelli sierici di bicarbonato, mentre il lattato sierico

ha continuato a salire fino a un massimo di 23 mmol/l. Dunque, per l’insuccesso della terapia medica si è rapidamente intrapreso il trattamento sostitutivo della funzione renale in Acetate Free Biofiltration (AFB) con infusione di bicarbonati 2000 ml/h per 4 ore, flusso ematico di 250 ml/min, dopo aver posizionato un catetere temporaneo per emodialisi (HD) in giugulare interna destra sotto guida ecografica; dopo le prime 24 ore si assisteva al miglioramento dell’EGA e alla ripresa della diuresi; dopo 48 ore l’acidosi metabolica risultava risolta, è stato sospeso il trattamento AFB (acetate free biofiltration ). Dimessa dopo 14 giorni con valori di creatininemia di 1,5 mg/dl e miglioramento netto delle condizioni generali. Nel caso descritto, particolare per la gravità dell’acidosi (pH di 6,64), la terapia medica e l’utilizzo dell’AFB hanno dimostrato ottima efficacia nel ripristinare l’equilibrio metabolico, con miglioramento notevole dei parametri emodinamici ed EGA già dopo 24 ore, fino a completa correzione dopo 48 ore, consentendo l’interruzione del trattamento sostitutivo. La rapidità della diagnosi e dell’inizio dell’AFB hanno avuto un importante impatto sulla prognosi della paziente.

Grafico 2: Caso clinico n.2: variazione dei principali parametri ematochimici pre- e post- seduta AFB.
Grafico 2: Caso clinico n.2 – variazione dei principali parametri ematochimici pre- e post- seduta AFB.

 

Discussione

La metformina è una biguanide utilizzata sempre più frequentemente negli obesi affetti da diabete mellito di tipo 2 e nel trattamento della sindrome dell’ovaio policistico.

Un effetto collaterale importante, a seguito del suo impiego, è l’insorgenza di acidosi lattica che porta a morte in circa il 50% dei casi. Questo grave disordine metabolico, considerato raro fino a poco tempo fa, sta diventando ora più frequente vista l’ampia diffusione del farmaco; poiché la metformina viene eliminata per il 90% con le urine, l’insorgenza di insufficienza renale è una delle cause più frequenti del suo accumulo. La metformina causa acidosi lattica attraverso due meccanismi: modificando il metabolismo intracellulare da aerobico ad anaerobico e sopprimendo la gluconeogenesi derivante dal lattato.

L’acido lattico è un normale metabolita, prodotto dalla glicolisi anaerobica per riduzione del piruvato. La sua produzione è dell’ordine di circa 1 mmol/kg/h, pari a oltre 1500 mmol al giorno, per una concentrazione di 0,6 e 1 mmol/l, rispettivamente a livello arterioso e venoso. Sebbene il lattato venga prodotto da tutti i tessuti, i maggiori siti responsabili della sua produzione sono il muscolo scheletrico, il cervello, i globuli rossi e la midollare renale. Il lattato può andare incontro a due destini: riconversione a piruvato oppure escrezione da parte dei reni. Sebbene sia liberamente filtrato dai glomeruli renali, il lattato è perlopiù riassorbito nel tubulo prossimale. Normalmente, meno del 2% viene escreto nelle urine. Il piruvato è il precursore immediato, e unico, del lattato. Esso è prodotto nel citoplasma primariamente dal metabolismo del glucosio nella glicolisi (Fig. 1).

Figura 1: la glicolisi è la via metabolica che converte il glucosio in due molecole di piruvato, generando energia sotto forma di ATP.
Figura 1: la glicolisi è la via metabolica che converte il glucosio in due molecole di piruvato, generando energia sotto forma di ATP.

In presenza di ossigeno, il piruvato entra nei mitocondri ed è sottoposto a decarbossilazione ossidativa, per dare l’acetil-coenzima A e, infine, CO2 e acqua. La piruvato deidrogenasi (PDH) è l’enzima mitocondriale limitante nell’ossidazione del piruvato. Questo processo genera 36 moli di ATP e richiede NAD+. Il piruvato può anche prendere la strada del ciclo di Cori, nel fegato e nella corteccia renale, per essere riconvertito in glucosio. In condizioni di ipossia, il piruvato non può entrare nel mitocondrio e viene convertito a lattato, secondo un equilibrio dinamico fondato sul rapporto NADH/NAD+ e sulla concentrazione del piruvato stesso (Fig. 2). Solo 2 moli di ATP vengono generate da ogni mole di glucosio convertito in lattato.

Il fegato e i reni rispondono del 60% e 30%, rispettivamente, della clearance del lattato, sebbene la clearance dei lattati non correli con la funzione renale.

Figura 2: Ciclo di Cori: il lattato dal muscolo raggiunge per via ematica il fegato dove è riconvertito in glucosio, il quale a sua volta, rilasciato dagli epatociti, raggiunge il muscolo per la produzione di energia. 
Figura 2: Ciclo di Cori – il lattato dal muscolo raggiunge per via ematica il fegato dove è riconvertito in glucosio, il quale a sua volta, rilasciato dagli epatociti, raggiunge il muscolo per la produzione di energia.

L’acidosi lattica si verifica quando la produzione del lattato eccede il suo utilizzo. Crisi di grande male o esercizio fisico intenso sono esempi di incremento transitorio della produzione di lattato, che si associa con acidosi; in queste circostanze, il lattato è prontamente metabolizzato e l’acidosi risolta. Nella maggior parte delle acidosi lattiche clinicamente significative, comunque, non solo si ha una iperproduzione di lattato, ma esiste anche un’alterazione nel suo utilizzo. L’ipossia e l’ipoperfusione determinano un ridotto uptake del lattato a livello epatico, e il fegato diventa un sito di produzione del lattato stesso. Pertanto l’uso del farmaco deve essere guidato dall’estrema cautela sia nelle condizioni  che rafforzano la glicolisi anaerobica (infezioni, scompenso cardiaco e/o respiratorio) sia in quelle che favoriscono l’accumulo nel siero di lattato e/o del farmaco (insufficienza epatica e renale) [3] e ciò anche in considerazione del fatto che la grave acidosi metabolica può precipitare la sindrome coronarica acuta in virtù di un calo dell’utilizzo di energia [4] nonché alterando la contrattilità miocardica e provocando venocostrizione con congestione vascolare centrale, vasodilatazione arteriosa e resistenza agli effetti vasocostrittori delle catecolamine, specialmente quando il pH è 7,10-7,20 [5]. Gli effetti negativi sull’apparato cardiovascolare influenzano l’outcome  e “come validato da studi su modelli animali e su preparati di miocardiociti umani la riduzione della contrattilità cardiaca sembra addebitabile alla compromissione dei legami actina-miosina, all’interferenza nel rilascio di ioni calcio o alla ridotta responsività delle proteine contrattili allo stesso ione” [6, 7].

Il trattamento dell’acidosi lattica da metformina richiede talvolta una terapia di supporto alla stabilità emodinamica ma è fondamentale la correzione dello squilibrio acido-base, l’eliminazione del farmaco e la rimozione delle cause precipitanti.

Sebbene vengano spessissimo utilizzate soluzioni di bicarbonato, il loro uso è ancora controverso in letteratura. Infatti il bicarbonato viene metabolizzato a CO2 e acqua comportando un consumo di protoni cui segue diminuzione del pH intracellulare, aumento del lattato sierico, spostamento a sinistra dell’ossiemoglobina, e inoltre non è noto esattamente se il bicarbonato migliori veramente endpoint clinicamente rilevanti [9, 10].

La terapia sostitutiva della funzione renale si inserisce a pieno titolo nella terapia dell’acidosi lattica da metformina poiché si tratta di una piccola molecola (165 Da) con un basso legame farmaco-proteico e pertanto dializzabile. Inoltre, la terapia sostitutiva della funzione renale comporta diminuzione dei lattati e correzione del pH ematico [11].

Sia l’emodialisi standard a bicarbonato che l’emodialisi veno-venosa continua (CVVHD) possono essere usate, ma la letteratura segnala nella seconda metodica una clearance della metformina inferiore a quella in HD, e pertanto la CVVHD deve essere riservata ai solo pazienti instabili che non tollerano l’HD convenzionale [13].

Per quanto riguarda l’AFB (metodica utilizzata nel secondo caso descritto) abbiamo osservato una più veloce correzione dei parametri già con una seduta e la riteniamo metodica da preferisi poiché permette “l’infusione di grossi quantitativi di bicarbonati in brevissimo tempo, con progressiva correzione dell’acidosi metabolica e successiva stabilizzazione dell’emodinamica cardiaca e dei valori pressori” [12].


Conclusioni

L’acidosi lattica è una acidosi metabolica ad anion gap aumentato spesso associata all’uso della metformina ed a insufficienza renale acuta necessitante di trattamento sostitutivo della funzione renale. Essa è causa di elevata mortalità ed ulteriori studi sull’uomo sono necessari. Negli ultimi decenni, sono state rese disponibili per il trattamento dei pazienti con diabete di tipo 2, compresi quelli con funzionalità renale compromessa, diverse nuove classi di farmaci anti-iperglicemici, e alcuni di questi agenti hanno dimostrato una protezione cardiorenale [8]. Si ritiene quindi utile lo shift dalla metformina ad altri presidi farmacologici antidiabetici a partire dai 70 anni di età al fine di proteggere gli anziani da questa potenziale gravissima complicazione sempre osservata in anziani.

 

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A case of acute kidney injury due to ethylene glycol intoxication

Abstract

In this article we describe a case of acute kidney injury caused by ethylene glycol intoxication which partially reversed after temporary hemodialysis treatment. The diagnosis was obtained after the patient’s clinical history and the finding of ethylene glycol in the blood, numerous intratubular crystals at renal biopsy, and the presence of large amounts of atypical – spindle-like and needle-like – calcium oxalate crystals in the urinary sediment.

Keywords: Ethylene glycol, acute kidney injury, urinary sediment, calcium oxalate crystals

Introduction

Ethylene glycol (EG) is a fluid used in antifreeze solutions, whose ingestion occurs by mistake (especially in children and in work accidents) or intentionally, for suicidal purposes or for its ethanol-like euphoric effect [1]. The ingestion of EG causes a multiorgan involvement including the kidneys due to acute intratubular calcium oxalate precipitation with consequent tubular obstruction and acute kidney injury (AKI) [2, 3].

In this article, we describe a patient who developed AKI after EG ingestion for suicidal purposes, which partially reversed after hemodialysis treatment.

 

Case report

On May 3rd, 2021, a 57-year-old man was evaluated at the emergency unit of “A. Manzoni” hospital, Lecco, Italy, for drowsiness associated with agitation and purposeless movements of the four limbs, and anuria. An almost empty bottle containing a blue-colored antifreeze solution and a full rat-killing bottle were found in the patient’s backpack. Therefore, a nasogastric feeding-tube was positioned, through which a blue fluid was suctioned, similar to the antifreeze bottle content.Electrocardiogram was normal and a non-contrast CT scan showed normal kidneys. Ultrasound investigation and echocardiogram were not performed.
Laboratory data showed: serum creatinine 6.1 mg/dL (normal value [NV]: 0.6-1.17); BUN not available, acid-base balance: pH 7.15 (NV: 7.34-7.45), lactates 24 mmol/L (NV: 0.5-1.5); HCO3 15.9 mmol/L (NV: 22-26); Ca++ 0.93 mmol/L (NV: 1.15-1.30); anionic gap 32 (NV: 8-16); Na+ 138 mmol/L (NV:135-145); K+ 4.7 mmol/L (NV: 3.5-5.0); phosphorus was not performed. Blood count and hepatic enzymes were normal.

On the basis of the findings described above, EG poisoning was hypothesized and the Poison Control Center of “San Matteo” Hospital in Pavia was contacted for the measurement of EG in blood and urine and for advice about a targeted treatment, which was fomepizole 1g/day and thiamine 100 mg/day.  Endotracheal intubation was performed for airway protection because of severe CNS depression​. In addition, a 3-hour hemodialysis, with high blood (300 mL/min) and dialysate (600 mL/min) flow and bicarbonate and high-flux polysulfone filter with a wide surface (2.1 m2) was started, which was repeated on the two following days. No dialysate modifications such as those suggested by Peces et al. [4] were used.

On May 4th, the toxicology screening showed the presence of EG in the urine (76 mg/dL), while it was absent in the blood. Thus, fomepizole was stopped. On the same day, a slow and partial consciousness recovery was noticed which led to patient extubation with no subsequent respiratory problems.

On May 6th, diuresis increased and a second-morning urine sample was collected from a vesical catheter. Dipstick showed: specific gravity 1.000 (NV: 1000-1030), pH 7.5 (NV: 5-8), albumin ± (NV: absent), glucose + (NV: absent), hemoglobin ++++ (NV: absent), leucocyte esterase +++ (NV: absent), nitrites negative, ketones absent. Urinary sediment (Used) examination, performed by one of us (G.L.) with bright-field and polarized light microscopy, after standardized centrifugation [5], showed: isomorphic erythrocytes > 100/high power field at 400x (HPF) (NV: ≤1/ microscopic field), leukocytes 50-60/ HPF (NV: ≤ 1/ microscopic field), crystals > 50/HPF (NV: absent). The latter were spindle-like and needle-like structures of variable size, both individual and in aggregates, which under polarized light showed a strong and polychromatic birefringence (Figures 1 and 2), similar to those described by several authors in EG intoxication [611].

Large aggregates of spindle-like and needle-like calcium oxalate crystals found in the patient’s urinary sediment
Figure 1: Large aggregates of spindle-like and needle-like calcium oxalate crystals found in the patient’s urinary sediment (bright field microscopy, original magnification 400x).
A. Aggregates of calcium oxalate crystals found in the patient’s urinary sediment strongly birefringent and polychromatic under polarized light. B.
Figure 2: A. Aggregates of calcium oxalate crystals found in the patient’s urinary sediment strongly birefringent and polychromatic under polarized light. B. The inset of figure A as seen at higher magnification (original magnification 400x).

On May 12th, after normalization of electrolytes and acid-base imbalances and crystalluria reduction, the dialysis was temporarily withdrawn, even though serum creatinine was still high (11.3 mg/dL) (Table 1).

03/05 04/05 05/05 06/05 12/05 24/05 25/05 04/06
Serum creatinine (mg/dL) 6.1 4.2 5.37 5.3 11.3 7.3 / 5.9
Diuresis (mL/24h) anuria anuria anuria 200 3000 1100 / 1050
Crystalluria / / /  ++++ ++ absent / absent
Fomepizole x x / / / / / /
Dialysis  x x x ___ ___ x ___ ___
Renal Biopsy x
Table 1: The clinical course during the hospitalization period.

On May 24th, hemodialysis was carried out and the next day renal biopsy was performed. This showed 13 normal glomeruli and numerous intra-tubular crystals, which were colorless under bright-field microscopy and strongly birefringent and polychromatic under polarized light (Figure 3). Furthermore, multifocal acute tubular injury was present together with rare lymphocytes and eosinophil aggregates in the interstitium, while vessels were normal. The immunofluorescence staining for immunoglobulins, C1q, C3, fibrinogen, and kappa and lambda light chains was negative.

Renal biopsy
Figure 3: Renal biopsy. A. Calcium oxalate crystals within the tubules (hematoxylin-eosin stain, original magnification 200x). B. Detail at high magnification of image A.  C. Intratubular crystals as seen under polarized light (original magnification 400x).

In the same day, Used examination showed no crystalluria, which was confirmed in the following days (Table 1).

On June 4th, as renal function (serum creatinine 5.9 mg/dL; eGFR 15 mL/min) and general conditions had slowly improved, the patient was discharged. No respiratory, neurological, or cardiological symptoms were present. Subsequently, the patient was lost at follow-up.

 

Discussion

In this paper, we describe a case of EG poisoning, whose clues for diagnosis were the patient’s clinical history and the finding of: EG in the blood, numerous intratubular crystals at renal biopsy, and severe crystalluria at targeted urinary sediment examination performed with phase contrast and polarized light microscopy.

EG nephropathy is a rare condition, known since the late seventies [2, 3, 6].

EG is a fluid used in antifreeze solutions, whose ingestion occurs by mistake (children, work accidents) or intentionally, for suicidal purposes (as in our patient), or for its ethanol-like euphoric effect [1].

Shortly after ingestion, EG is oxidized in the liver, by alcohol dehydrogenase and aldehyde dehydrogenase, into glycolic acid, glyoxylic acid, and oxalic acid, all of which are highly toxic. Furthermore, oxalic acid binds to serum calcium, causing hypocalcemia and calcium oxalate crystal precipitation in the kidneys, central nervous system, heart, and lungs [1].

Several mechanisms lead to kidney injury. The first and principal one is the intratubular calcium oxalate crystals precipitation, with subsequent tubular obstruction. This is followed by crystal phagocytosis by tubular cells, which causes damage up to necrosis by apoptosis. Then, as a consequence of tubular membrane damage, crystals pass into the interstitium with subsequent inflammation and final “crystal granuloma” formation [12].

Definitive diagnosis of EG poisoning is based on serum and urinary EG levels measurement, which however is available only in highly specialized laboratories.

In the absence of EG levels, a presumptive diagnosis can be made if there is a strong suspicion of EG ingestion (as it was in our patient) associated with one or more of the following criteria [13]:

  • arterial pH < 7.3
  • serum bicarbonate levels < 20 mEq/L
  • osmolal serum gap > 10 mOsm/L
  • presence of spindle-like and needle-like crystals in the urine

A presumptive diagnosis can also be made if the ingestion of a toxic dose of EG is known (>100 mL) [14], associated with osmolal serum gap (OSG) > 10. Noteworthy, OSG is increased in the presence of EG, while anion gap increases only in the presence of EG metabolites [15].

Used examination is a simple, reliable, fast, and inexpensive tool to diagnose this severe clinical condition. This is characterized by the presence, usually in high amounts, of spindle- and needle-like mono- and bi-hydrate calcium oxalate crystals, strongly birefringent and polychromatic under polarized light (Figures 1 and 2) [611]. These are totally different from common mono- and bi-hydrate calcium oxalate crystals, as described by several authors (Figure 4).

Common mono-hydrate calcium oxalate crystals
Figure 4: Common mono-hydrate calcium oxalate crystals, as seen with bright-field (A) and polarized light microscopy (B). Common bi-hydrate calcium oxalate crystals, as seen with bright field (C) and polarized light microscopy (D) (original magnification 400x).

As a treatment, fomepizole (or, if unavailable, ethanol) is used in patients with blood EG levels > 20 mg/dL, since it blocks alcohol dehydrogenase and the subsequent production of EG toxic metabolites [11]. Thiamine and pyridoxine can be used as alternative drugs for EG elimination [16].

Hemodialysis is an effective tool for the elimination of toxic metabolites from blood and electrolyte imbalance correction. It must be started in the presence of severe metabolic acidosis, high EG blood levels, and/or acute kidney injury [1].

According to Iliuta et al., dialysis should be performed with a large surface filter (>1.5 mq) and a high blood flow (300 mL/min) associated with fomepizole administration [17]. In addition, in patients with normal renal function and normal serum levels of phosphorus and potassium, Peces suggests the use of an HD solution of bicarbonate enriched with phosphorus and potassium [4]. An alternative dialytic approach is represented by sustained low-efficiency dialysis (SLED), which consists of a long procedure (up to 16 hours) that allows a slow removal from the blood of toxic substances with the prevention of their fast post-dialysis increase. SLED is primarily used for hemodynamically unstable patients [11].

Besides kidneys, EG poisoning involves other organs, as a consequence of calcium oxalate tissue deposition and/or metabolic alterations.

Neurologic involvement is characterized by drowsiness, euphoria, seizures, or coma in early stages. Later it can lead to nervous system depression [1].

Heart disease is characterized by arrhythmias and myocardial contractility reduction, also favored by metabolic acidosis and hypocalcemia [3].

Respiratory system damage is caused by two mechanisms: inhalation, with upper tract airways irritation after exposure to EG for four weeks or more [2]; ingestion, with pulmonary effects which occur in 12-72 hours: acute dyspnea, tachypnea, hyperventilation, pulmonary edema [3,18].

 

Conclusions

Our case describes a rare clinical condition characterized by severe AKI, whose diagnosis requires an articulated approach, which includes Used examination, a fast and inexpensive diagnostic tool, often neglected by nephrologists.

 

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Discovering uncommon nephropathies: a case of acute kidney damage from malaria

Abstract

Malaria is one of the most common infectious diseases in the world with a high prevalence in developing countries. Renal impairment occurs in 40% of Plasmodium falciparum infections; glomeruli, tubules or interstitium can be involved with different pathophysiological mechanisms. We describe a case of severe acute renal failure caused by P. falciparum malaria in a young woman from the Ivory Coast. Renal biopsy revealed severe and widespread acute tubular necrosis and the presence of blackish pigment granules in the glomerular and peritubular capillaries, negative for iron histochemical staining; in electron microscopy we found rounded-oval-shaped structures containing cytoplasmic organelles, electrondensic granules and cellular debris, likely of infectious origin, within monocyte-macrophages located in the tubular lumen. Specific Antigen for P. falciparum and malarial parasite in blood were positive, with very rare trophozoites and gametocytes compatible with Plasmodium falciparum. Steroid therapy and specific antiparasitic therapy were set up with progressive functional improvement until complete recovery. This case highlights the importance of paying maximum attention to low incidence pathologies in our country, considering the continuous migratory movements of these years that can cause an increase in these diseases; anamnestic data are essential for a timely diagnosis which can contribute to a rapid remission avoiding severe complications.

Keywords: malaria, acute kidney failure, tubular necrosis, Plasmodium falciparum

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Introduzione

La malaria è una malattia endemica in Asia, Africa e America Latina. Si può riscontrare un interessamento renale nel 40% dei casi in corso di infezione da Plasmodium falciparum; possono esser colpiti glomeruli, tubuli e interstizio con diversi meccanismi fisiopatologici. Viene riportato un caso di severa insufficienza renale acuta da necrosi tubulare (diagnosi istologica) in corso di malaria da P. falciparum con successiva ripresa e normalizzazione funzionale. Il caso descritto evidenzia l’importanza dell’attenzione anche verso forme di patologie spesso misconosciute per la bassa incidenza nel nostro Paese; i dati anamnestici, spesso difficili da raccogliere anche per barriere linguistiche, risultano essenziali per una tempestiva diagnosi che può contribuire ad una rapida remissione anche di severe complicanze.

 

Caso clinico

Donna di 22 anni giunta in Italia in data 3/04/21, proveniente dalla Costa D’Avorio. Anamnesi patologica remota muta, una gravidanza a termine senza riferite complicanze. Non familiarità per diabete, malattie cardiovascolari, nefropatie. Non segnalati episodi di macroematuria; non presenti eruzioni cutanee né artromialgie.

Il 25/04 la paziente accedeva in PS per comparsa a partire dal 12/04 di astenia, malessere, nausea e vomito; in un contesto di relativa barriera linguistica veniva segnalato dal marito un recente episodio di subittero sclerale ed emissione di urine riferite marsalate. Non segnalati episodi febbrili a domicilio. Agli esami ematici si riscontrava severa anemizzazione con Hb 7.1 g/dl, PTLs 303000/mmc, insufficienza renale con creatinina 10,3 mg/dl, iponatremia con Na 118 mmol/l, Potassio 3,8 mmol/L. Alla EGAa HCO3 29, pH 7,49. All’esame urine presenza di proteine 30 mg/l, esterasi leucocitaria positiva, emoglobinuria, microematuria (29/ul) e leucocituria (169/ul). Diuresi conservata.

All’ecografia addome i reni risultavano in sede, di dimensioni regolari con parenchima conservato in spessore, non idronefrosi; non segnalate alterazioni negli altri organi parenchimatosi. All’Rx torace non lesioni pleuroparenchimali, non segni di scompenso del microcircolo.

La paziente veniva ricoverata in ambito nefrologico. All’ingresso la paziente si presentava astenica, apiretica, PA 110/60 mmHg, diuresi attiva (circa 1700 cc/die senza stimolazione diuretica). Assenti segni di sovraccarico cardiocircolatorio, così come segni clinici di disidratazione. Veniva impostata terapia infusionale nel tentativo di riequilibrare il bilancio elettrolitico ed acido/base. Si registrava una progressiva normalizzazione del quadro idroelettrolitico; pur in presenza di diuresi conservata persistevano valori di creatinina plasmatica di 9,5-10 mg/di con urea fino a 174 mg/dl. In considerazione dell’anemia persistente la paziente veniva sottoposta a trasfusioni di GRC con premedicazione con Urbason 40 mg per presenza di Test di Coombs diretto positivo e indiretto negativo. In data 28/04 per comparsa di febbre >38°C veniva avviata terapia antibiotica su base empirica (cefalosporina).

Per indagare le cause di nefropatia e la comparsa di piressia sono stati effettuati i seguenti esami: dosaggio di immunoglobuline (IgA, IgM e IgG con sottoclassi) risultate nella norma, Beta2microglobulina aumentata (15,6 ug/l), ANA reflex positivi 1:640, spekled, AntiDNA negativi, ENA reflex negativi, ANCA negativi, elettroforesi sierica negativa per CM, AntiGBM negativi, LAC debolmente positivo. PU delle 24 ore lievemente al di sopra della norma (0,41 g/die), aptoglobine non consumate (0,74 g/L), LDH elevato (fino a 474 U/L), indici di funzionalità epatica sostanzialmente nella norma, bilirubinemia diretta lievemente aumentata (0,69mg/dl). TSH nella norma. AntiHIV, antiHCV e HBV reflex negativi, iperferritinemia (1469 ug/l) ed elevati livelli di vitamina B12 (2949 pmol/l). Quantiferon indeterminato ripetuto 2 volte per cui eseguito esame colturale per micobatteri e PCR per BK con esito negativo. Urinocoltura negativa.

In data 30/04 si procedeva ad esecuzione di biopsia renale e dal 1/05 veniva avviata terapia steroidea con 80 mg di Urbason al giorno (1,5 mg/kg/die) nell’ipotesi di un danno tubulo-interstiziale. Per la persistenza di anemia con LDH aumentata veniva effettuato studio di emocromo di II livello che mostrava anisocitosi moderata, poichilocitosi lieve, emazie con punteggiatura basofila e policromasia, non segnalati schistociti. Data la provenienza della paziente, venivano effettuati: ricerca di emoglobine patologiche risultate negative, dosaggio di G6PDH risultato nella norma (16,5 u/g), dosaggio di piombemia nella norma. La ricerca di schistosoma era negativa. Riscontro agli esami ematici del 4/05 di positività per Ag specifico per P. falciparum e per parassita malarico, con rarissimi trofozoiti e gametociti compatibili con Plasmodium falciparum (parassitemia <0,05%). La valutazione infettivologica deponeva per quadro di malaria grave all’esordio (nausea/vomito, IRA con anemia da sospetta emolisi intravascolare per riferito subittero); veniva pertanto avviata terapia con artesunato 2,4 mg/kg (3 somministrazione) e successivamente eurartesim (fino all’11/05). In contemporanea si proseguiva terapia steroidea a dosaggio scalare.

L’indagine istologica renale (Figure 1 e 2) ha evidenziato:

  • Microscopia ottica (MO): quadro di severa e diffusa ATN, con aspetti di rigenerazione cellulare, lieve flogosi interstiziale, ricca componente plasmacellulare IgG4-, lieve capillarite peritubulare; segnalata presenza di granuli di pigmento nerastro nei capillari glomerulari e peritubulari, negativi alla colorazione istochimica per il ferro (possibile pigmento malarico).
granuli di pigmento nerastro nei capillari glomerulari
Figura 1: A) granuli di pigmento nerastro nei capillari glomerulari e peritubulari, negativi alla colorazione istochimica per il ferro. B)  Necrosi tubulare acuta con aspetti di rigenerazione cellulare, lieve flogosi interstiziale, ricca componente plasmacellulare IgG4-, lieve capillarite peritubulare.
  • Immunofluorescenza (IF) negativa.
  • Microscopia elettronica (ME): modesta espansione mesangiale e compromissione del comparto tubulare, segnalati lumi capillari occlusi da cellule endoteliali ipertrofiche e degenerate, presenza di strutture all’interno dei monociti-macrofagi, contenuti nel lume tubulare, di forma rotondeggiante-ovalare contenenti organelli citoplasmatici, granuli elettrondensi e detriti cellulari, di possibile origine infettiva.
 lume tubulare con elementi infiammatori
Figura 2: C) lume tubulare con elementi infiammatori, cellule epiteliali di sfaldamento e materiale filamentoso. D)  lume tubulare contenente un elemento di non chiara origine che potrebbe essere riferibile a patogeno contenente varie strutture organellari. E) particolare a maggiore ingrandimento della struttura (immagine D).

Dal punto di vista clinico si è riscontrato un progressivo miglioramento del quadro generale dopo terapia infusionale e correzione delle alterazioni del quadro elettrolitico ed acido/base. Non si è reso necessario un trattamento sostitutivo artificiale; la diuresi è rimasta sempre presente. La funzione renale ha iniziato a migliorare (Figura 3) dopo impostazione di terapia steroidea e successiva specifica terapia antimalarica. La paziente è stata dimessa 11/05 con normofunzione renale (creatininemia di 1 mg/dl), esame urine privo di reperti patologici; steroide a dosaggio scalare terminato il 4/06. Dal punto di vista infettivologico la paziente è stata dichiarata guarita.

Figura 3: Andamento funzionale renale (creatinina plasmatica e diuresi) in corso di ricovero. Timing terapia steroidea e anti-malarica.
Figura 3: Andamento funzionale renale (creatinina plasmatica e diuresi) in corso di ricovero. Timing terapia steroidea e anti-malarica.

 

Discussione

La malaria è una delle malattie infettive più comuni al mondo con un’elevata prevalenza nei Paesi in via di sviluppo [1]. Nel 2019 sono stati stimati globalmente circa 229 milioni di casi, in calo da 238 milioni nel 2000, e i decessi per malaria sono diminuiti costantemente in tale periodo, da 736 000 nel 2000 a 409 000 nel 2019. L’Africa registra circa il 94% dei casi, principalmente in Nigeria (27%), Repubblica Democratica del Congo (12%), Uganda (5%), Mozambico (4%) e Niger (3%) [2].

La malaria viene trasmessa dalla puntura infettiva della femmina di zanzara anofele; cinque specie parassitarie sono responsabili della malattia nell’uomo: 1) Plasmodium falciparum; 2) vivax; 3) malariae; 4) ovale; 5) knowlesi.

Lo spettro clinico dell’infezione può variare da asintomatico a semplice malaria, caratterizzata da sintomi parossistici non specifici come febbre, cefalea e muscoli doloranti, a grave malaria, caratterizzata da sintomi potenzialmente letali, inclusa grave anemia, coma, danno renale acuto e acidosi metabolica [5].

L’insufficienza renale è una complicanza comune della forma grave di malaria da Plasmodium falciparum ed è stata segnalata fino al 40% di tutti i casi [6]. Il coinvolgimento renale è considerato un fattore prognostico negativo [10]. Le caratteristiche istopatologiche tipiche nel danno renale acuto correlato alla malaria includono necrosi tubulare acuta (ATN) e, meno comunemente, nefrite interstiziale o glomerulonefrite [7, 8].

I meccanismi patogeni dell’insufficienza renale acuta nella malaria non sono ancora completamente definiti, sebbene vi siano molteplici processi patologici che possono convergere sul rene, compreso il sequestro parassitario, la disfunzione endoteliale, lo stress ossidativo, il danno immuno-mediato, l’emolisi intravascolare e l’instabilità emodinamica. Il verificarsi sinergico di questi processi, culminando nell’esacerbazione di una vigorosa risposta infiammatoria sistemica, potrebbe rappresentare il meccanismo predominante attraverso il quale la malaria grave porta allo sviluppo di danno renale acuto [9].

Relativamente allo sviluppo della necrosi tubulare acuta, come precedentemente detto, sembrerebbero concorrere vari meccanismi [12]:

  • citoaderenza, cioè l’adesione dei globuli rossi infetti agli altri eritrociti e alle cellule endoteliali vascolari. Il meccanismo induce la formazione di grappoli e rosette intravascolari provocando il sequestro dei globuli rossi dalla circolazione degli organi vitali, alterazione del microcircolo, anemia e trombocitopenia causando ipossia tissutale [1316]. I ligandi adesivi sulle membrane dei globuli rossi parassitati sono stati chiamati B-knobs; la proteina della membrana eritrocitaria del Plasmodio falciparum (pfEMP), codificata dal genoma del parassita, sembra essere il determinante più significativo di adesività eritrocitaria [17]; altre famiglie di proteine adesive comprendono rifine, rosettine, e proteine ricche di istidina [1820];
  • rilascio di citochine infiammatorie, specie reattive dell’ossigeno e ossido nitrico;
  • ipovolemia, determinata da perdite (febbre, distress respiratorio), scarsa assunzione di cibo e liquidi per os, vomito, quadri che possono concorre a determinare ipotensione e ipoperfusione renale;
  • massiccia emolisi con conseguente emoglobinuria (febbre dell’acqua nera) [21]. Questa condizione potrebbe essere il risultato della distruzione dei globuli rossi determinata sia dall’infezione sia farmaco-indotta dai farmaci antimalarici; pazienti con deficit di G6PD sono maggiormente a rischio per questa complicanza [7];
  • iperbilirubinemia coniugata con colestasi; l’ittero in quasi tutti i pazienti si presenta “bifasico”, con una componente non coniugata derivante dall’eccessiva emolisi e da una coniugata derivante dalla colestasi [11];
  • raramente, rabdomiolisi [7] o microangiopatia trombotica.

A livello istologico possono essere visualizzati all’interno dei tubuli dei pazienti che sviluppano ATN depositi di emosiderina; inoltre è stato documentato edema, necrosi cellulare e infiltrazioni monocellulari a livello dell’interstizio [22].

Il coinvolgimento glomerulare nell’infezione da P. falciparum non è comune; quando presente è generalmente caratterizzato da proliferazione mesangiale, con lieve espansione della matrice mesangiale e ispessimento occasionale della membrana basale, con deposito di materiale eosinofilo granulare nell’endotelio, nel mesangio e nella capsula di Bowman, depositi di IgM, IgG e C3 all’immunofluorescenza. Alla microscopia elettronica è possibile il riscontro di depositi densi di elettroni nella regione subendoteliale e mesangiale, associati alla presenza di materiale granulare, fibrillare e amorfo.  L’infezione da P. malariae può associarsi a glomerulonefriti membranoproliferative e più raramente a glomerulonefriti rapidamente progressive. Nel primo caso le manifestazioni cliniche si manifestano in due modi: un pattern benigno, con proteinuria lieve e transitoria che compare nella seconda o terza settimana di infezione, senza alterazione della funzione renale, e un pattern grave, con proteinuria persistente o sindrome nefrosica.  Il danno renale acuto da P. vivax non è comune, sebbene studi recenti in aree endemiche lo abbiano registrato nel 16% dei casi [23].

Sono disponibili due classi di medicinali per il trattamento parenterale della malaria grave: i derivati ​​dell’artemisinina (artesunato o artemetere) e gli alcaloidi della china (chinino e chinidina). Tuttavia, mentre il dosaggio dei derivati ​​dell’artemisinina non deve essere aggiustato per i pazienti con disfunzione degli organi vitali, il chinino rischia di accumularsi in queste situazioni. In caso di danno renale acuto persistente e assenza di miglioramento clinico entro 48h, la dose di chinino deve essere ridotta, ad eccezione di paziente in emodialisi o emofiltrazione. Dopo il trattamento parenterale iniziale è essenziale continuare e completare il trattamento con un farmaco antimalarico orale efficace somministrando un ciclo completo di ACT (Artemisin-based Combination Therapy) [24].

La terapia steroidea non è raccomandata nel trattamento della malaria grave [24]; nel nostro caso la terapia è stata impostata precocemente in maniera empirica, nell’attesa dei risultati laboratoristici ed istologici, alla luce del quadro renale acuto e dell’assenza, in fase iniziale, di reperti clinici correlabili con una infezione in atto. A posteriori, a nostro giudizio, potrebbe aver contribuito alla riduzione del quadro infiammatorio sistemico ed al miglioramento del danno tubulo interstiziale renale.

In conclusione, la malaria è una malattia ad elevata prevalenza con gravi complicanze a livello renale. Nonostante la malaria endemica sia stata debellata nei Paesi europei, alcuni casi di malaria sono stati notificati in Europa (Francia); si tratta generalmente di casi importati, riscontrati nei viaggiatori di ritorno o nei migranti che si spostano da Paesi in cui la malaria è endemica [3].

La pandemia di COVID-19 ha rappresentato una preoccupante minaccia ai già fragili programmi di controllo della malattia, gravando ulteriormente sui sistemi sanitari nei Paesi endemici [4]; molti Paesi hanno infatti segnalato riduzioni nell’accesso a trattamenti antimalarici efficaci nel 2020 [2].

Nel caso descritto l’andamento clinico, gli esami laboratoristici infettivologici, la risposta alla terapia, il quadro istologico (MO e ME) hanno portato alla diagnosi di insufficienza renale acuta secondaria ad infezione malarica. L’alterazione volemica conseguente a nausea e vomito nei giorni precedenti il ricovero può aver contribuito allo sviluppo della compromissione renale, ma non sembra costituire l’elemento fisiopatologico essenziale; all’ingresso non erano presenti chiari segni di disidratazione né significative alterazioni emodinamiche.

Il caso descritto mette in evidenza l’importanza di un’accurata anamnesi, anche se spesso difficoltosa per problemi di barriera linguistica, per impostare una corretta terapia quanto prima possibile. In caso di flussi migratori o viaggi intercontinentali nella diagnosi differenziale vanno considerate anche nefropatie secondarie a malattie endemiche presenti in altre parti del mondo [25].

La collaborazione interdisciplinare costituisce un importante valore aggiunto all’attività clinica specialistica nefrologica.

 

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  25. Gentile F, Martino M, Santangelo L, et al. From Uganda to Italy: a case of nephrotic syndrome secondary to Plasmodium infection, Quartan malarial nephropathy and kidney failure. Turk J Pediatr. 2019;61(5):776-779. https://doi.org/10.24953/turkjped.2019.05.019.

Campylobacter: a vintage pathogen to the fore

Abstract

Campylobacteriosis is caused by Gram bacteria. Most common species are C. jejuni and C. coli. Campylobacteriosis is a rare cause of sepsis, and in some European countries it is more common than salmonellosis, becoming a public health problem.
We have treated a 66-year-old patient, hypertensive, ischemic cardiopathic, scheduled for coronary angiography, hospitalized with AKI, in a state of shock after some days of acute diarrhea.
Because of the pathogen’s seasonal nature and the patient’s clinical features, in addition to common coproculture also Campylobacter has been sought, and found. Treated with volume repletion and antibiotics, within one week normal kidney functions were fully restored. He had a coronary angiography a week after being discharged from the hospital.

Keywords: Campylobacteriosis, AKI, diarrhea

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Introduzione

La campylobatteriosi è causata da batteri GRAM-negativi, pleomorfi, spesso di forma incurvata (dal greco Kampylos, cioè curvo) a S, elicoidale, spiraliforme o ad “ala di gabbiano”, della lunghezza di 2-5 μm e del diametro di 0,2-0,9 μm.

Inizialmente descritta come rara causa di sepsi nei pazienti immunodepressi, nel 1972 è stata inclusa tra le cause di malattie diarroiche. Le specie più frequenti (oltre il 90% delle infezioni) sono C. jejuni e C. coli.

Negli ultimi anni il tasso di incidenza della campilobatteriosi ha superato in alcuni paesi europei quello relativo alle salmonellosi, diventando un concreto problema di salute pubblica [7].

Ha un andamento stagionale e risulta più frequente nel periodo giugno-settembre. Le fasce di età più colpite sono 0-5 anni e > 65 anni. 

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Immunotherapy in kidney cancer: how it has changed and what are the challenges for the nephrologist – focus on pembrolizumab

Abstract

Kidney cancer accounts for about 3.5% of all malignant neoplasms; in 85% of cases the tumor arises from cells of the renal parenchyma, with an incidence of 70% of the clear cells subtype.

Surgery, at present, is the treatment of choice for most renal cancers; medical therapy, on the other hand, has only palliative purposes and is used only in the relapsed or metastatic patients.

The therapeutic toolbox available in the fight against renal cancer is continuously renewed due to the approval of new drugs. In particular, in the 2000s, antiangiogenic drugs were introduced and showed good efficacy in terms of increased survival in patients with advanced renal carcinoma.

Immunotherapy was a treatment strategy for renal cancer in the 1980s, when cytokines such as Interleukin-2 and Interferon were administered. The advent of antiangiogenic drugs had bound immunotherapy to a secondary role until the discovery of immune check-point inhibitors (ICIs), which have been approved in the various lines of treatment, in monotherapy or in combination with other drugs, as they have shown to increase the oncological outcome.

In this review we analyze the evolution of immunotherapy for the treatment of kidney tumor from the viewpoint of nephrologists, with a special focus on renal adverse events, pembrolizumab and its recent approval as first line therapy in association with axitinib.

Keywords: immunotherapy, kidney cancer, interstitial nephritis, acute kidney injury, molecularly targeted agents.

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Epidemiologia del carcinoma renale

Il tumore del rene rappresenta circa il 3.5% di tutte le neoplasie maligne (4.6% tra gli uomini e 3% tra le donne) e, in Italia, si colloca al decimo posto come frequenza. Nell’85% delle diagnosi di tumore del rene la neoplasia è a partenza da cellule del parenchima renale e tra queste si riscontra un sottotipo a cellule chiare nel 70% dei casi [1,2].

Il tumore del rene è tipicamente una neoplasia delle nazioni industrializzate dell’emisfero nord; per quanto riguarda l’Italia, la sua incidenza è maggiore nelle regioni del nord e del centro, minore al sud e nelle isole [3].

L’incidenza è nettamente superiore nel sesso maschile rispetto a quello femminile: 1 su 38 uomini e 1 su 90 donne hanno una probabilità teorica di sviluppare questo tumore nel corso della loro vita. L’incidenza aumenta parallelamente all’età con un picco nella sesta decade e circa l’80% delle diagnosi avviene in pazienti con età compresa tra i 40 e i 69 anni [1].

Negli ultimi anni si è assistito a un incremento dello 0.7% dell’incidenza di nuovi casi di tumore a cellule renali (RCC): questo è in buona parte dovuto all’aumento delle diagnosi accidentali di tumori di piccolissime dimensioni che in passato restavano misconosciuti. A conferma di questo dato si è visto che attualmente la percentuale di tumori diagnosticati in stadio T1 (<7cm e limitati al rene) è salita dal 43% (circa 20 anni fa) al 60% [2,3].

Secondo dati recenti il tasso di mortalità sta diminuendo del 0.9% per anno con un conseguente aumento della sopravvivenza: la sopravvivenza a 5 anni per tumore del rene localizzato è del 92.6%, arriva a sfiorare il 100% nei casi T1a, scende al 66.7% nella malattia loco-regionale e all’11% nella malattia metastatica [4].

La prognosi in termini di sopravvivenza è influenzata in modo positivo dal trascorrere degli anni dal momento della diagnosi; ad un anno dalla diagnosi, indipendentemente dallo stadio, la probabilità di sopravvivere altri 5 anni è pari al 85% circa, ma a 5 anni dalla diagnosi, tale probabilità arriva addirittura al 90% [5], a testimonianza dell’importanza di un approccio terapeutico aggressivo e, soprattutto, moderno.

La relazione tra tumore del rene ed insufficienza renale può essere considerata bidirezionale: da una parte il 26% dei pazienti con tumore a cellule renali al momento della diagnosi presenta un’insufficienza renale cronica, dall’altra parte il rischio di sviluppare una neoplasia renale aumenta con il ridursi del filtrato glomerulare. In particolare, il rischio aumenta del 29% per ogni riduzione del GFR di 10 ml/min, con il rischio più alto nei pazienti con GFR <40 ml/min [6].

Questo fatto potrebbe in parte essere spiegato dalla condivisione dei fattori di rischio tra le due patologie renali: ipertensione, diabete mellito, fumo di sigarette, obesità ed età avanzata [7].

Gli altri fattori che si è ipotizzato possano avere un ruolo di rilievo nel determinare questo aumento di incidenza nel paziente con malattia renale cronica avanzata (End Stage Renal Disease, ESRD) o in dialisi, sono lo stato di infiammazione correlato all’uremia, lo stress ossidativo, la ritenzione di tossine uremiche e soluti, la disregolazione del sistema immunitario e la procedura di dialisi stessa [3].

 

Principi generali di terapia

La chirurgia rimane il trattamento di elezione per la maggior parte delle neoplasie renali, con una crescente tendenza al ricorso ad interventi conservativi, al fine di preservare il più possibile la funzionalità renale.

Per anni, anche in presenza di una malattia già metastatica, la chirurgia – sotto forma di nefrectomia citoriduttiva – veniva quasi sempre proposta, essendovi dati a sostegno di un suo positivo impatto sulla sopravvivenza. Attualmente, il ruolo della chirurgia citoriduttiva è più controverso, essendo chiaro che ciò che fa la differenza è la selezione dei pazienti da avviare alla chirurgia ed il timing della stessa [8].

Dal punto di vista della terapia medica, ad oggi non sono stati identificati trattamenti adiuvanti – finalizzati cioè a ridurre il rischio di recidiva – da proporre ai pazienti resecati radicalmente, ma ad alto rischio di ricaduta. È tuttavia proprio di questi giorni, una press release che annuncia la positività di uno studio di immunoterapia adiuvante, con il quale la somministrazione del pembrolizumab si sarebbe dimostrata in grado di prolungare la sopravvivenza libera da malattia (Disease-Free Surival, DFS) [9].

La terapia medica allo stato attuale ha quindi scopo palliativo e viene utilizzata nel paziente recidivato o metastatico.

Una prima rivoluzione nel trattamento del carcinoma renale si è avuta in conseguenza del riconoscimento della strettissima dipendenza della patogenesi di questa neoplasia dall’attivazione dell’angiogenesi, dovuta ad una alterazione a carico del gene oncosoppressore di Von Hippel Lindau (VHL), altamente prevalente nelle neoplasie renali a cellule chiare.

L’utilizzo clinico di farmaci ad attività antiangiogenica (pura o preferenziale), ha consentito, per la prima volta, a partire dall’inizio degli anni 2000, di prolungare significativamente la sopravvivenza della maggioranza dei pazienti affetti da carcinoma renale avanzato [10], con un’abbondanza di farmaci che, già nel 2006, è stata ben definita come “l’imbarazzo dei ricchi” [11].

Purtroppo, al di là di una quota, piccola ma comunque presente, di pazienti primitivamente refrattari ai trattamenti antiangiogenici, anche in quei pazienti che inizialmente beneficiano di questi trattamenti, inevitabilmente si osserva lo sviluppo di resistenza ad essi, resistenza che si manifesta mediamente dopo circa 8-11 mesi di terapia.

I farmaci antiangiogenici tuttora utilizzati nelle varie linee di trattamento sono riassunti nella tabella I, il meccanismo d’azione degli stessi è schematizzato nella Fig 1.

Farmaco Bersagli principali Indicazioni secondo l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) al 12-08-2021
Sunitinib

(Sutent™)

Tirosin chinasi: VEGFR1,2,3, PDGFRa e b, KIT, RET

·  trattamento del carcinoma renale avanzato/metastatico (mRCC) negli adulti

· trattamento del tumore stromale del tratto gastrointestinale (GIST) non operabile e/o metastatico negli adulti dopo fallimento di un trattamento con imatinib dovuto a resistenza o intolleranza.

· trattamento di tumori neuroendocrini pancreatici (pNET) ben differenziati, non operabili o metastatici, in progressione di malattia, negli adulti

Pazopanib

(Votrient™)

Tirosin chinasi: VEGFR1,2,3, PDGFRa e b, KIT

· trattamento di prima linea del carcinoma renale (RCC) avanzato e nei pazienti che hanno ricevuto in precedenza una terapia a base di citochine per malattia avanzata

· trattamento dei pazienti adulti affetti da sottotipi identificati di sarcoma dei tessuti molli (STS) in stato avanzato che hanno ricevuto in precedenza chemioterapia per malattia metastatica o che sono andati in progressione entro 12 mesi dopo la terapia (neo) adiuvante

Axitinib

(Inlyta™)

Tirosin chinasi: VEGFR1,2,3

· trattamento del carcinoma renale (RCC) avanzato nei pazienti adulti, dopo fallimento di un precedente trattamento con sunitinib o con una citochina

· trattamento di prima linea del carcinoma a cellule renali avanzato negli adulti, in associazione al pembrolizumab

Lenvantinib

(Lenvima™)

Tirosin chinasi: VEGFR1,2,3, FGFR1,2,3,4, PDGFRa, KIT, RET

· trattamento del carcinoma differenziato della tiroide (papillare/follicolare/a cellule di Hürthle) progressivo, localmente avanzato o metastatico, refrattario allo iodio radioattivo

· trattamento del carcinoma epatocellulare (HCC) avanzato o non operabile negli adulti che non hanno ricevuto una precedente terapia sistemica

· N.B. – trattamento di prima linea del carcinoma renale, in associazione al pembrolizumab, non ancora approvato

· N.B. – trattamento di pazienti pretrattati con un inibitore del VEGF, in associazione all’Everolimus, non ancora approvato

Tivozanib

(Fotivda™)

Tirosin chinasi: VEGFR1,2,3

· trattamento di prima linea di pazienti adulti affetti da carcinoma a cellule renali (RCC) avanzato e di pazienti adulti naive agli inibitori della via VEGFR e mTOR in seguito alla progressione della malattia dopo un precedente trattamento con terapia a base di citochine per RCC avanzato

Bevacizumab

(Avastin™)

VEGF-A circolante

· trattamento di prima linea di pazienti adulti con carcinoma renale avanzato e/o metastatico in associazione con l’interferone

· trattamento di pazienti adulti con carcinoma metastatico del colon e del retto, in associazione con chemioterapia a base di fluoropirimidine

· trattamento in prima linea di pazienti adulti con carcinoma mammario metastatico, in associazione con paclitaxel

· trattamento in prima linea di pazienti adulti con carcinoma mammario metastatico, per cui una terapia con altri regimi chemioterapici, inclusi quelli a base di taxani o antracicline, non è considerata appropriata, in associazione con capecitabina

· trattamento in prima linea di pazienti adulti con carcinoma polmonare non a piccole cellule, non resecabile, avanzato, metastatico o ricorrente, con istologia a predominanza non squamocellulare, in aggiunta a chemioterapia a base di platino

· trattamento in prima linea di pazienti adulti affetti da carcinoma polmonare non a piccole cellule, non squamocellulare, avanzato non resecabile, metastatico o ricorrente, con mutazioni attivanti del recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR), in associazione all’erlotinib

· trattamento in prima linea del carcinoma ovarico epiteliale, del carcinoma alle tube di Falloppio o del carcinoma peritoneale primario in stadio avanzato (stadio III B, III C e IV, secondo la Federazione Internazionale di Ginecologia e Ostetricia – FIGO) in pazienti adulte, in associazione con carboplatino e paclitaxel

· trattamento di pazienti adulte con prima recidiva di carcinoma ovarico epiteliale, carcinoma alle tube di Falloppio o carcinoma peritoneale primario platino-sensibili che non hanno ricevuto una precedente terapia con bevacizumab o altri inibitori del VEGF o altri agenti mirati al recettore VEGF, in associazione con carboplatino e gemcitabina o in combinazione con carboplatino e paclitaxel

· trattamento di pazienti adulte con recidiva di carcinoma ovarico epiteliale, carcinoma alle tube di Falloppio o carcinoma peritoneale primario platino-resistenti che hanno ricevuto non più di due precedenti regimi chemioterapici e che non hanno ricevuto una precedente terapia con bevacizumab o altri inibitori del VEGF o altri agenti mirati al recettore VEGF, in associazione con paclitaxel, topotecan o doxorubicina liposomiale pegilata

· trattamento di pazienti adulte affette da carcinoma della cervice persistente, ricorrente o metastatico in associazione con paclitaxel e cisplatino o, in alternativa, a paclitaxel e topotecan in donne che non possono essere sottoposte a terapia a base di platino

Cabozantinib

(Cabometyx™)

Tirosin chinasi: VEGFR1,2,3, MET, AXL

· trattamento di prima linea in pazienti adulti affetti da carcinoma renale avanzato con rischio intermedio o sfavorevole

· trattamento in pazienti adulti affetti da carcinoma renale avanzato precedentemente trattati con terapia contro il VEGF

· trattamento di prima linea del carcinoma a cellule renali avanzato in pazienti adulti, in associazione a nivolumab

· trattamento del HCC negli adulti che sono stati precedentemente trattati con sorafenib

Sorafenib

(Nexavar™)

Tirosin chinasi:

VEGFR1,2,3, PDGFRa, Raf chinasi

· trattamento di pazienti con carcinoma a cellule renali avanzato dopo fallimento terapeutico ad una precedente terapia a base di interferone-alfa o interleuchina-2, o che sono considerati non idonei a ricevere tale terapia

· trattamento del HCC

· trattamento di pazienti con carcinoma differenziato della tiroide (papillare/follicolare/a cellule di Hürthle) localmente avanzato o metastatico, in progressione, refrattario al radioiodio

Tabella I: Farmaci anti-angiogenici utilizzati nel trattamento del RCC (e loro ulteriori indicazioni Oncologiche)
Principali farmaci anti-angiogenici e il loro meccanismo d’azione
Figura 1: Principali farmaci anti-angiogenici e il loro meccanismo d’azione

 

La moderna immunoterapia

Che l’immunoterapia rappresentasse una strategia attiva nei confronti della patologia neoplastica renale metastatica lo si sapeva fin dagli anni ’80 allorché una forma “primitiva” di immunoterapia, rappresentata dalla somministrazione di citochine quali l’Interleuchina-2 e l’Interferone (somministrati singolarmente o in combinazione) si era dimostrata in grado di indurre lunghe remissioni di malattia in un numero purtroppo limitato di pazienti, ed a spese di importanti tossicità [12].

Negli ultimi anni la scoperta degli inibitori dei check-point immunitari (ICIs) ha rivoluzionato il trattamento di molte neoplasie, compreso il tumore del rene [13]. Questa neoplasia è spesso diffusamente infiltrata da linfociti T CD8+, una caratteristica che, se da una parte suggerisce una buona capacità del sistema immunitario (SI) di riconoscere questo tipo di tumore come estraneo all’organismo, dall’altra indica anche la presenza di meccanismi che causano l’esaurimento del SI e che permettono ai tumori di sfuggire all’attività delle cellule effettrici della risposta immune [14].

L’attivazione delle cellule T è infatti un meccanismo complesso che coinvolge un numero elevato di recettori ad attività stimolatoria o, al contrario, inibitoria [14].

Questi recettori rappresentano dei veri e propri checkpoints immunologici, ovvero dei sistemi di controllo, atti a garantire una migliore regolazione della risposta del SI, al fine di attivare il SI solo al momento opportuno e per una durata limitata all’esigenza dell’organismo, ovvero di limitarne attivazioni eccessive o incontrollate che porterebbero ad un danno tissutale immunomediato.

In particolare, i due checkpoints inibitori della funzione/attivazione delle cellule T, e che al momento sono gli unici sfruttati a finalità terapeutica, sono il Cytotoxic T Lymphocyte Antigen-4 (CTLA-4) ed il Programmed death 1 (PD-1) [14,15].

Pathway di CTLA-4

CTLA-4 (Cytotoxic T-Lymphocyte Antigen 4), noto anche come CD152, è un recettore appartenente alla superfamiglia delle immunogobuline espresso sui linfociti T CD4+ e CD8+ attivati.

A seguito del legame con uno dei suoi ligandi, B7.1 (noto anche come CD80) oppure B7.2 (noto anche come CD86), espressi sulle cellule presentanti l’antigene (APC), trasmette all’interno del linfocita un segnale di tipo inibitorio, contribuendo così alla regolazione omeostatica della risposta immunitaria (Fig 2).

CTLA-4 è espresso in modo costitutivo a livello dei linfociti T regolatori ed è inducibile sulla superficie delle cellule T naive (Fig 1); in quest’ultime, il recettore è fisiologicamente contenuto in vescicole all’interno del compartimento intracellulare e viene esposto per esocitosi sulla membrana cellulare in quantità proporzionale alla forza del segnale di feed-back prodotto dal T cell receptor (TCR) [16].

Pathway di CTLA-4. *Farmaci attualmente registrati in Italia per il trattamento del carcinoma a cellule renali
Figura 2: Pathway di CTLA-4. *Farmaci attualmente registrati in Italia per il trattamento del carcinoma a cellule renali

Pathway di PD-1

PD-1, noto anche come CD279, è una proteina espressa sulla superficie dei linfociti T; fisiologicamente, la sua interazione con i ligandi PD-L1 e PD-L2 che sono normalmente espressi sulla superficie delle cellule dendritiche e dei macrofagi, causa una riduzione della produzione di citochine e la soppressione della proliferazione delle cellule T. Questo stesso meccanismo è sfruttato attivamente dalle cellule tumorali, che esprimendo PD-L1 e PD-L2, sfuggono al riconoscimento da parte del SI [17].

I pathway PD-1/PD-L1 e CTLA-4 rappresentano quindi un meccanismo adattativo di resistenza immunitaria, sviluppato dalle cellule neoplastiche in risposta all’attività antitumorale endogena. Questi due pathway, seppur simili negli effetti negativi espletati sull’attività delle cellule T, differiscono per il timing ed il sito ove avviene questa inibizione. CTLA-4 ha infatti un’espressione limitata alla superficie dei linfociti T, ed agisce nelle prime fasi della loro attivazione all’interno dei tessuti linfoidi. PD-1 è invece presente anche a livello delle cellule T attivate, delle cellule B e delle cellule mieloidi, ed agisce durante la loro fase effettrice, prevalentemente a livello del microambiente tumorale [16].

Gli inibitori dei checkpoint immunitari agiscono quindi bloccando i recettori linfocitari (PD-1 o CTLA-4), ovvero il ligando sulla cellula tumorale (PDL-1) [17], riattivando così la fisiologica risposta antitumorale (Fig 3).

Pathway di PD-1/PD-L1. *Farmaci attualmente registrati in Italia per il trattamento del carcinoma a cellule renali
Figura 3: Pathway di PD-1/PD-L1. *Farmaci attualmente registrati in Italia per il trattamento del carcinoma a cellule renali

Gli inibitori dei checkpoint immunitari attualmente registrati in Italia (e la loro relativa indicazione secondo l’Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA) sono riportati nella Tabella II.

Farmaco Checkpoint inibito Indicazioni secondo Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) al 12-08-2021

Pembrolizumab

(Keytruda™)

PD-1

· trattamento di prima linea del carcinoma a cellule renali avanzato negli adulti, in associazione all’axitinib

· trattamento del melanoma avanzato (non resecabile o metastatico)

· trattamento adiuvante di pazienti adulti con melanoma allo stadio III e con coinvolgimento dei linfonodi che sono stati sottoposti a resezione completa

· trattamento di prima linea del tumore polmonare non a piccole cellule (NSCLC) metastatico esprimente PD-L1 con un tumour proportion score (TPS) ≥ 50%, in assenza di positività per mutazione di EGFR o per ALK

· trattamento di prima linea del NSCLC metastatico non squamoso non positivo per mutazioni di EGFR o per ALK, in associazione a pemetrexed e chemioterapia contenente platino

· trattamento di prima linea del NSCLC metastatico squamoso, in associazione a carboplatino e paclitaxel o nab-paclitaxel

· trattamento del NSCLC localmente avanzato o metastatico esprimente PD-L1 con un TPS ≥1%, che non abbia ricevuto almeno un precedente trattamento chemioterapico

· trattamento del Linfoma di Hodgkin recidivato o refrattario a fallimento di un trattamento con trapianto autologo di cellule staminali e brentuximab vedotin (BV), o in pazienti che non siano eleggibili al trapianto e abbiano fallito il trattamento con BV

· trattamento del carcinoma uroteliale localmente avanzato o metastatico trattato con una precedente chemioterapia contenente platino

· trattamento del carcinoma uroteliale localmente avanzato o metastatico, con un CPS ≥10, laddove non sia proponibile una chemioterapia contenente cisplatino

· Carcinoma a cellule squamose della testa e del collo (HNSCC)

· trattamento di prima linea del carcinoma squamoso del distretto cervico-cefalico metastatico o ricorrente, con un CPS ≥1, in monoterapia o in associazione a chemioterapia contenente platino e 5-fluorouracile (5-FU)

· trattamento del HNSCC ricorrente o metastatico con un TPS ≥50%, e in progressione durante o dopo una chemioterapia contenente platino

· N.B. – trattamento di prima linea del carcinoma a cellule renali avanzato negli adulti, in associazione al lenvatinib, non ancora approvato

Nivolumab

(Opdivo™)

PD-1

· trattamento del RCC avanzato dopo precedente terapia

· trattamento in prima linea del RCC avanzato a rischio intermedio/sfavorevole, in associazione ad ipilimumab

· trattamento di prima linea del carcinoma a cellule renali avanzato in pazienti adulti, in associazione a cabozantinib

· trattamento del melanoma avanzato (non resecabile o metastatico), in monoterapia o in associazione ad ipilimumab

· trattamento adiuvante del melanoma con coinvolgimento dei linfonodi o malattia metastatica sottoposto a resezione radicale

· trattamento del NSCLC localmente avanzato o metastatico dopo una precedente chemioterapia

· trattamento del Linfoma di Hodgkin classico recidivante o refrattario dopo trapianto autologo di cellule staminali e trattamento con brentuximab vedotin (BV)

· trattamento del SCCHN ricorrente o metastatico in progressione durante o dopo terapia a base di platino

· trattamento del carcinoma uroteliale localmente avanzato non resecabile o metastatico dopo fallimento di precedente terapia a base di platino

Cemiplimab

(Libtayo™)

PD1

· trattamento del carcinoma cutaneo a cellule squamose metastatico o localmente avanzato non candidato ad intervento chirurgico curativo o radioterapia curativa

Atezolizumab

(Tecentriq™)

PD-L1

· trattamento del carcinoma uroteliale localmente avanzato o metastatico dopo una precedente chemioterapia contenente platino o in pazienti non eleggibili al cisplatino ed il cui tumore presenta un’espressione di PD-L1 ≥5%

· trattamento di prima linea del NSCLC non squamoso metastatico, in combinazione con bevacizumab, paclitaxel e carboplatino; nei pazienti affetti da NSCLC con alterazioni a carico di EGFR o ALK è indicato solo dopo il fallimento di adeguate terapie a bersaglio molecolare

· trattamento del NSCLC localmente avanzato o metastatico precedentemente trattato con chemioterapia

· trattamento di prima linea del NSCLC non squamoso metastatico che non presenti mutazioni di EGFR o riarrangiamento di ALK, in combinazione con nab-paclitaxel e carboplatino

· trattamento di prima linea del carcinoma polmonare a piccole cellule (SCLC) in stadio esteso, in combinazione con carboplatino ed etoposide

· trattamento di prima linea del HCC avanzato o non resecabile, in combinazione con bevacizumab

Avelumab

(Bavencio™)

PD-L1

· trattamento di prima linea di pazienti adulti affetti del RCC avanzato, in associazione con axitinib

· trattamento del carcinoma a cellule di Merkel metastatico

Durvalumab

(Imfinzi™)

PD-L1

· trattamento del NSCLC localmente avanzato, non resecabile, negli adulti il cui tumore presenta un’espressione di PD-L1 ≥1% sulle cellule tumorali e la cui malattia non è progredita a seguito di chemioradioterapia a base di platino

· trattamento di prima linea di pazienti adulti con SCLC in stadio esteso, in combinazione con etoposide e carboplatino o cisplatino

Ipilimumab

(Yervoy™)

CTLA4

· trattamento in prima linea di pazienti adulti con RCC avanzato a rischio intermedio/sfavorevole, in associazione a nivolumab

· trattamento del melanoma avanzato (non resecabile o metastatico) negli adulti e negli adolescenti di età pari o superiore a 12 anni

· trattamento del melanoma avanzato (non resecabile o metastatico) negli adulti, in associazione a nivolumab

· trattamento in prima linea del carcinoma polmonare non a piccole cellule metastatico negli adulti il cui tumore non esprime mutazioni per EGFR o traslocazioni di ALK, in associazione a nivolumab e 2 cicli di chemioterapia a base di platino

· trattamento in prima linea di pazienti adulti con mesotelioma maligno della pleura non resecabile, in associazione a nivolumab

· trattamento di pazienti adulti con carcinoma del colon-retto metastatico con deficit di riparazione del mismatch o elevata instabilità dei microsatelliti dopo precedente chemioterapia di associazione a base di fuoropirimidina, in associazione a nivolumab

Tabella II: Gli inibitori dei checkpoint immunitari attualmente registrati in Italia e la loro indicazione

In particolare, per il trattamento del carcinoma a cellule renali sono state approvate le seguenti associazioni: ipilimumab + nivolumab, nivolumab + cabozantinib, avelumab + axitinib e pembrolizumab + axitinib.

Ipilimumab è un anticorpo monoclonale IgG1-k anti-CTLA4. È registrato per il trattamento in prima linea del tumore a cellule renali a rischio intermedio-sfavorevole in associazione a nivolumab, il primo alla dose di 1 mg/kg, il secondo a 3 mg/kg. Non è necessario adeguare la dose nei pazienti con insufficienza renale lieve o moderata [1].

Motzer et al. nel 2018 e 2019, hanno confrontato l’efficacia di questa associazione in termini di sopravvivenza globale (Overall Survival, OS) e sopravvivenza libera da progressione di malattia (Progression Free Survival, PFS) rispetto a quella di sunitinib in monoterapia, all’interno di uno studio randomizzato di fase III condotto su 1096 pazienti con diagnosi di carcinoma renale avanzato non precedentemente trattato con terapia medica. A 32.4 mesi questa combinazione aveva già mostrato la sua superiorità: OS mediana non raggiunta [IC al 95% 35.6-non stimabile] rispetto a 26.6 di sunitinib [IC al 95%, 22-33.4]; PFS mediana 8.2 mesi [IC al 95%, 6.9-10.0] mentre sunitinib 8.3 [IC al 95%, 7.0-8.8]; inoltre era maggiore la percentuale di pazienti che avevano ottenuto una risposta obiettiva 42% per ipilimumab + nivolumab vs 29% di sunitinib [1].

Avelumab è un anticorpo monoclonale umano IgG1 diretto contro il recettore PD-L1. Ha un’azione antitumorale immunorelata e un’attività di lisi diretta delle cellule tumorali mediata dalle cellule natural killer (NK).

Questo anticorpo monoclonale è registrato nella terapia di prima linea del tumore a cellule renali avanzato, alla dose di 800 mg ev ogni 2 settimane in associazione ad axitinib 5 mg per os due volte al giorno. Anche in questo caso non è necessario aggiustare la dose per i pazienti con insufficienza renale lieve o moderata, mancano invece i dati per quelli con insufficienza renale severa.

Uno studio in aperto, randomizzato, multicentrico su 866 pazienti con carcinoma a cellule chiare avanzato non precedentemente trattato o metastatico, in cui i pazienti sono stati randomizzati o al braccio con infusione di avelumab + axitinib o a sunitinib in monoterapia, ha confermato la superiorità della combinazione sulla PFS (13.8 mesi vs 7.0 mesi per i pazienti PD-L1 +) e sul tasso di risposte obiettive su tutta la popolazione in esame. I dati di sopravvivenza globale non sono ancora a disposizione [1].

 

Pembrolizumab

Farmacocinetica

Pembrolizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato IgG4-k, viene somministrato per via endovenosa alla posologia di 200 mg ogni 3 settimane o 400 mg ogni 6 settimane in monoterapia o 200 mg ogni 3 settimane quando fa parte di un’associazione di più farmaci [18].

Pembrolizumab ha una distribuzione extravascolare limitata, pertanto il volume di distribuzione del farmaco allo stato stazionario è piccolo (~6,0 L; CV: 20 %). Come ci si aspetta da un anticorpo, pembrolizumab non si lega in modo specifico alle proteine plasmatiche. Pembrolizumab è catabolizzato attraverso vie non specifiche ma presenti in più tessuti; il metabolismo non contribuisce alla sua clearance.

La clearance del farmaco è in media di 0.22 L/die (CV 37%), aumenta all’aumentare del peso corporeo ma non in modo tale da necessitare un aggiustamento della posologia, infatti, sia le dosi fisse (200 mg ogni 3 settimane/400 mg ogni 6 settimane) che le dosi adeguate al peso del paziente (2 mg/kg) hanno mostrato un’efficacia clinica comparabile in tutte le tipologie di tumore [19].

L’emivita sierica del farmaco è di circa 26 giorni (CV 38%) e lo steady-state di concentrazione, con un regime di somministrazione di una dose ogni 3 settimane, è raggiunto in 16 settimane [18].

Studi di farmacocinetica in popolazioni speciali hanno dimostrato come non ci sia necessità di adeguare la dose del farmaco a genere, razza, età (15-94 aa) e alle dimensioni della massa tumorale. Nei pazienti con compromissione epatica lieve (bilirubina totale compresa tra 1.0 e 1.5 × ULN o AST >ULN) e compromissione renale lieve (eGFR tra 90 e 60 ml/min/1.73 m2) o moderata (eGFR tra 60 e 30 ml/min/1.73 m2) non vi è indicazione a riduzione del dosaggio, poiché queste non hanno effetti clinicamente significativi sulla clearance del farmaco [20].

Non ci sono dati nei pazienti con insufficienza renale severa (eGFR minore di 30 ml/min/1.73 m2) o insufficienza epatica moderata (bilirubina totale tra 1.5 e 3 x ULN con qualsiasi livello di AST O) o severa (bilirubina tot >3 x ULN accompagnata da qualsiasi valore di AST)  [21] .

I dati mancano perché tali pazienti non vengono arruolati negli studi registrativi e si basano esclusivamente su studi di farmacocinetica di popolazione.

L’insufficienza renale non influisce sulla biodisponibilità e sulla clearance di pembrolizumab a causa della mancanza di metabolismo ed escrezione renale del farmaco e per il peso molecolare degli anticorpi monoclonali che ne impedisce il passaggio attraverso la membrana glomerulare [19].

Farmacodinamica

Pembrolizumab è un farmaco altamente selettivo diretto contro il recettore PD-1 espresso sulla membrana cellulare dei linfociti T [22].

Il tumore, grazie al legame tra PDL-1/PDL-2 con PD-1, inibisce la proliferazione cellulare e la produzione di citochine pro-infiammatorie. Infatti, l’attivazione di PD-1, tramite il reclutamento di SHP-1 e SHP-2, blocca i pathway PI3k/AKT e Ras-MAPK-ERK riducendo la risposta immunitaria [23,24]. Pembrolizumab ha come obiettivo quello di inibire questa cascata spostando l’equilibrio verso la reattività del sistema immunitario, l’aumento dell’immunosorveglianza del tumore e la risposta immune anti-tumorale [20].

Per ottenere ciò impedisce l’interazione tra PD-1 e PDL-1/PDL-2 andando ad occupare il sito di legame del recettore. Pembrolizumab esplica quindi la sua azione sia rendendo indisponibile il recettore sia inducendo in quest’ultimo piccoli cambiamenti conformazionali che lo rendono incompatibile per il legame con i suoi ligandi [25,26].

Indicazioni terapeutiche

Le indicazioni terapeutiche del farmaco e le nuove indicazioni AIFA di Dicembre 2020 sono riportate nella Tabella II.

La terapia con pembrolizumab viene proseguita fino a comparsa di tossicità di alto grado o fino a progressione confermata di malattia. Nel trattamento del melanoma la somministrazione del farmaco deve essere interrotta dopo massimo un anno, anche in assenza di eventi avversi o di progressione tumorale (come da indicazioni presenti nella scheda tecnica pubblicata dall’EMA).

Sono stati segnalati casi di risposta atipica al farmaco: iniziale e transitorio aumento della massa tumorale o comparsa di nuove lesioni nei primi mesi di trattamento, a cui segue poi progressiva riduzione della massa tumorale con buona risposta alla terapia [27].

Effetti avversi /sicurezza e tollerabilità

Diversi studi hanno dimostrato che pembrolizumab è un farmaco oncologico piuttosto sicuro e generalmente ben tollerato dai pazienti. Infatti, nonostante il 79% dei pazienti trattati presenti delle reazioni avverse, solo nel 13% dei casi queste sono di Grado 3 o 4 secondo i criteri CTCAE-AE vers. 5.0 [28]. Studi condotti su soggetti in monoterapia hanno mostrato che le reazioni avverse più frequenti sono caratterizzate da sintomi generali aspecifici quali astenia (32%), nausea (21%), diarrea (21%), cefalea, mialgia ed elevazione degli enzimi epatici. Al contrario, le reazioni avverse più gravi sono solitamente reazioni immuno-correlate o reazioni legate all’infusione [29].

Nonostante non sia ancora del tutto chiara l’eziopatogenesi delle reazioni avverse immuno-correlate, sembrerebbe che queste siano secondarie proprio all’inibizione dei check-point immunitari e all’aumentata risposta del SI che ne consegue; proprio questa iperattivazione immunitaria viene ricercata con la terapia con lo scopo di aumentare la risposta dell’organismo nei confronti del tumore ma, in alcuni casi, può causare un’attivazione anomala del SI nei confronti dell’organismo stesso per una perdita della tolleranza nei confronti del self. L’incidenza di questo tipo di reazioni avverse è inferiore coi nuovi farmaci anti PD-1 rispetto a quella che si rileva con i farmaci anti CTLA-4 (10-15% di reazioni di grado 3-4 con pembrolizumab rispetto al 20-30% con ipilimumab) [30].

La maggior parte delle reazioni avverse immuno-correlate, comprese quelle di grado elevato, si risolve grazie alla sospensione del farmaco e/o all’inizio di una terapia medica, solitamente a base di corticosteroidi e/o terapia di supporto. Possono manifestarsi a livello di quasi tutti gli organi e i più frequentemente colpiti sono: polmone, colon, fegato, rene, ipofisi, surrene, pancreas, cute e tiroide. È possibile che queste reazioni avverse si manifestino anche a distanza di tempo dall’ultima somministrazione, non dipendono dal numero di somministrazioni del farmaco e possono interessare più organi contemporaneamente.

In caso di sospetta reazione avversa al farmaco, è mandatorio confermare o escludere la relazione causa-effetto laddove possibile con un’indagine sierologica o istologica [30].

Generalmente il trattamento con inibitori di check-point immunitari può essere continuato in pazienti che sviluppano tossicità di grado 1, ad eccezione dei pazienti che presentano un coinvolgimento neurologico, ematologico e cardiaco [31].

La somministrazione del farmaco andrebbe invece sospesa nella maggior parte dei pazienti con eventi avversi di grado 2, con la possibilità di riprendere il trattamento alla risoluzione parziale o completa del sintomo. In questo caso la terapia con corticosteroidi va iniziata a una dose di circa 1-2 mg/kg/die di prednisone seguita da una graduale riduzione al miglioramento della sintomatologia; non ci sono dati riguardanti la durata e il modello di decalage dello steroide [32].

Per i pazienti che manifestano reazioni avverse di grado 3, invece, è indicata la sospensione del farmaco ed il trattamento con alte dosi di corticosteroidi (prednisone 1-2 mg/kg/die o metilprednisolone 1-2 mg/kg/die fino a 2-4 mg/kg/die nelle reazioni più gravi).

Ci sono dati in letteratura, seppur piccoli case report, sull’utilizzo di terapie immunosoppressive differenti nei pazienti refrattari ai corticosteroidi, in particolare con l’utilizzo di micofenolato, ciclofosfamide, eculizumab, infliximab o ciclosporina [33].

In linea generale un’interruzione definitiva di pembrolizumab è raccomandata nei pazienti che hanno avuto reazioni di grado 3 refrattarie alla terapia immunosoppressiva (steroidea o altro) o reazioni di grado 4, con l’eccezione dei pazienti con disordini endocrini in terapia ormonale sostitutiva [33].

 

Tossicità renale da inibitori dei checkpoint immunitari

La tossicità renale secondaria alla terapia oncologica viene suddivisa in 4 gradi di gravità dai National Cancer Institute – Common Terminology Criteria for Adverse Events [34]. In particolare, nella tabella III viene riassunta la classificazione dell’insufficienza renale acuta, manifestazione clinica più frequente per quanto riguarda la tossicità renale da inibitori dei checkpoint immunitari.

G1

G2 G3

G4

Insufficienza renale acuta Aumento di >0.3 mg/dl o creatinina compresa tra 1,5 e 2,0 x baseline Creatinina 2-3 x baseline Creatinina >3 x baseline o >4 mg/dl. Indicata ospedalizzazione

Conseguenze che mettono a rischio la vita, indicata dialisi

Questa classificazione non è presente nella nuova versione 5.0 delle NCI-CTAE
Tabella III: Classificazione della gravità della tossicità renale secondo NCI-CTAE 4.0 [34

Caratteristiche dell’AKI (incidenza, tempo di insorgenza, correlazione con la dose)

L’insufficienza renale acuta secondaria a immunoterapia generalmente si sviluppa dopo 6-24 mesi di esposizione ai farmaci [35,36] e può peggiorare nonostante la sospensione del farmaco che ha causato la tossicità stessa. Gli eventi avversi immuno-relati, infatti, possono manifestarsi anche mesi dopo la sospensione dell’immunoterapia; questo potrebbe essere dovuto al fatto che, nonostante l’emivita sierica dei farmaci immunoterapici sia di circa 12-20 giorni, il farmaco può raggiungere il plateau occupando l’80% dei recettori di PD-1 sulle cellule T per 90 giorni dopo una singola dose di immunoterapia e, dopo tre dosi, i recettori rimangono occupati al 40% per più di 8 mesi dall’ultima somministrazione [37]. La tossicità renale immuno-mediata è indipendente dalla dose e dalla durata del trattamento [38].

Un’analisi condotta su 3695 pazienti trattati con inibitori di checkpoint immunitari ha mostrato come l’incidenza assoluta di insufficienza renale acuta sia circa del 2.2 % e l’incidenza di AKI di grado III o IV del 0.6%. L’insufficienza renale si manifesta più frequentemente in pazienti che ricevono terapia combinata (4.9% per ipilimumab-nivolumab) rispetto ai pazienti trattati con monoterapia (2% ipilimumab, 1.9% nivolumab e 1.4 % pembrolizumab) [35].

Spettro di lesioni del danno renale

Cortazar et al. [39] nel 2020 hanno condotto uno studio retrospettivo multicentrico su 138 pazienti che hanno sviluppato AKI durante il trattamento con inibitori dei checkpoint immunitari. In particolare, hanno analizzato 56 esiti di biopsie renali descrivendone le caratteristiche istopatologiche; i dati raccolti hanno confermato la nefrite interstiziale come lesione predominante (presente nel 93% delle biopsie analizzate) ma hanno individuato lesioni istologiche renali differenti. Nella figura 4 vengono riassunti le principali patologie glomerulari secondarie all’uso degli inibitori dei check-point immunitari.

Lesioni renali da inibitori di check-point immunitari
Figura 4: Lesioni renali da inibitori di check-point immunitari

Danno renale da immunoterapia

La tossicità renale che si riscontra più di frequente in pazienti in immunoterapia è la nefrite interstiziale acuta. Questa ha una presentazione clinica e istologica analoga a quella delle altre forme di AIN a diversa eziologia [40,41] con un pattern di infiltrazione non dirimente per l’identificazione del meccanismo patogenetico sottostante [31].

Studi condotti su biopsie renali hanno evidenziato che nella maggior parte dei pazienti il danno renale indotto dagli inibitori di checkpoint immunitari è a carico dei tubuli e la presentazione clinica più frequente consiste in edema, infiammazione interstiziale e tubulare.

L’infiltrato che si riscontra a livello interstiziale è formato da cellule infiammatorie e immunitarie, tra cui linfociti CD4+ e CD8+, eosinofili e plasmacellule; la presenza di questo infiltrato in prossimità della membrana basale tubulare rappresenta segno distintivo di AIN. La patologia tubulare è caratterizzata da dilatazione dei tubuli stessi, vacuolizzazione citoplasmatica, nucleoli prominenti ed edema interstiziale [31].

In assenza di adeguato trattamento la nefrite interstiziale acuta può evolvere in una patologia cronica caratterizzata da fibrosi interstiziale ed atrofia tubulare.

Immunofluorescenza e microscopia elettronica non permettono una diagnosi di AIN di certezza poiché i reperti sono spesso negativi per depositi di immunoglobuline o frazioni del complemento [42].

La microscopia elettronica può essere invece utile nell’identificazione dei casi di nefrite interstiziale associata a glomerulonefrite a lesioni minime e in quelli di nefrite granulomatosa interstiziale che è una rara variante istologica caratterizzata da infiltrazione di istiociti e macrofagi, con monociti, plasmacellule e linfociti che circondano le strutture glomerulari e tubulari [43,44].

Nella maggior parte dei pazienti la nefrite interstiziale esordisce con una presentazione tipica per patologia tubulo-interstiziale: escrezione urinaria normale, leucocituria asettica, cilindri glomerulari, proteinuria scarsa o assente ed aumento della creatinina sierica. Solo in pochi soggetti questi segni sono accompagnati da eosinofilia, ematuria, ipertensione e astenia [29].

Fattori di rischio e fisiopatologia del danno renale

Cortazar et al. [39] hanno inoltre individuato i principali fattori di rischio indipendenti per lo sviluppo di eventi avversi immunorelati: un basso eGFR al baseline, uso di inibitori di pompa protonica, terapia combinata di anti CTLA-4 + anti PD-1.

Sono state riscontrate numerose analogie tra la patogenesi della nefrite acuta interstiziale immuno relata e quella delle malattie autoimmuni. Gli inibitori dei checkpoint immunitari, infatti, attraverso il blocco di PD-1 o CTLA-4, limitano il sistema di protezione dell’organismo nei confronti dell’autoreattività del SI. Vengono in questo modo attivate anche le cellule T tessuto-specifiche autoreattive normalmente mantenute quiescenti dall’espressione di alti livelli di PD-1 sulla loro superficie [31].

Il meccanismo specifico attraverso il quale si crea un danno a livello renale è ancora in gran parte sconosciuto. Franzin et al.  [45] hanno proposto 4 principali meccanismi patogenetici di danno:

  • Riattivazione di cellule T farmaco-specifiche: il signaling di CTLA-4 e PD-1 è fondamentale nel mantenimento della tolleranza periferica nei confronti degli antigeni esogeni dei farmaci. L’alterazione di questi segnali può portare alla riattivazione di cellule T farmaco-specifiche in precedenza attivate da farmaci nefritogenici (PPIs, FANS).
  • Perdita di tolleranza verso antigeni del self: lo sviluppo, selezione e proliferazione di cloni di cellule T attive contro il self potrebbe attivare le cellule B auto-reattive causando un rilascio di autoanticorpi e a danno renale.
  • Effetti off-target: l’upregolazione di PD-L1 sulle cellule tubulari renali può portare a danno renale causato dall’infiltrazione da parte di linfociti T effettori, portando a una nefrite tubulo-interstiziale acuta.
  • Citochine pro-infiammatorie: gli inibitori dei check point immunitari promuovono la migrazione e attivazione di cellule effettrici all’interno del tessuto renale, infiltrazione di altre cellule immunitarie, come linfociti B, e il rilascio di citochine pro-infiammatorie (es. IL6, TNFa, che contribuisce alla generazione di un ambiente infiammatorio, portando a danno renale).

Trattamento del danno

Per quanto riguarda la sospensione/interruzione della terapia con farmaci inibitori di checkpoint immunitari e l’eventuale inizio di terapia steroidea/farmaci immunosoppressori è necessario seguire le indicazioni fornite in precedenza in merito al trattamento di tutti gli eventi avversi immunorelati. Prima di interrompere in modo definitivo l’immunoterapia è però sempre necessario fare un bilancio tra i potenziali benefici sul versante oncologico nel continuarla e il rischio relato allo sviluppo di insufficienza renale [35].

È infatti opportuno sottolineare che nella quasi totalità dei casi si ottiene un buon recupero della funzione renale dopo l’interruzione del farmaco o dopo terapia steroidea. In particolare dallo studio retrospettivo di Cortazar et al. [39] è emerso che il 40% dei pazienti ha ottenuto una risposta completa alla terapia steroidea con recupero della funzione renale, il 45% ha avuto un recupero di funzionalità solo parziale e il 15% non ha risposto alla terapia; è emerso inoltre che i pazienti che presentano contemporaneamente eventi avversi immunorelati extrarenali hanno un rischio maggiore di non recuperare completamente la funzione renale nonostante la terapia steroidea [39]. Le recidive sono più frequentemente associate alla reintroduzione del farmaco in soggetti che avevano avuto tossicità di grado più elevato [15] e a reintroduzioni molto precoci del farmaco una volta risolta la sintomatologia [39].

In letteratura al momento ci sono poche informazioni relative all’outcome di una nefrite interstiziale acuta immuno-relata insorta in pazienti con una insufficienza renale cronica preesistente. Per quanto è stato visto fino ad ora sembrerebbe che questi abbiano una prognosi equiparabile ai pazienti con normofunzione renale che sviluppano nefrite intestiziale.  [35]

I dati clinici disponibili attualmente non permettono di stabilire se i pazienti che sviluppano eventi avversi immuno-relati abbiano una risposta antitumorale maggiore rispetto agli altri soggetti a causa dalla superiore attivazione immunitaria [35].

Algoritmo di diagnosi di AKI da immunoterapia

Perazella et al. [46] hanno proposto un algoritmo di diagnosi e gestione del paziente oncologico in terapia con inibitori dei checkpoint immunitari che sviluppa AKI. Per i casi di AKI di grado 1 il paziente può essere monitorato mentre continua la terapia oncologica, valutando le altre possibili cause di insufficienza renale, ed eventualmente risolvendole. In caso di AKI grado 2 o superiore invece, è necessario un consulto tra oncologo e nefrologo per valutare le possibili cause di danno renale e stabilire se sia indicato eseguire una biopsia. In caso di forte sospetto di AKI per cause diverse dalla terapia oncologica bisogna trattare quelle e, in caso di fallimento terapeutico, valutare la biopsia. Quando invece si ha un forte sospetto per AKI secondaria a danno da inibitori di checkpoint immunitari bisogna valutare il paziente stesso: se questo presenta altri segni/sintomi clinici che avvalorano l’ipotesi (effetti avversi immuno-relati a carico di altri organi e/o anomalie urinarie più caratteristiche come piuria o cilindri leucocitari) è possibile iniziare la terapia steroidea ed eseguire una biopsia renale solo in caso di mancata risposta agli steroidi. Quando invece si ha un sospetto di danno renale immuno-relato ma non si hanno segni/sintomi tipici di accompagnamento è consigliato eseguire immediatamente la biopsia renale per permettere una diagnosi di certezza.

Le informazioni fornite dalla biopsia sono spesso fondamentali per guidare le scelte cliniche in merito alla terapia oncologica (salvavita per il paziente) evitando inutili sospensioni o danni renali irreversibili, permettendo inoltre di ottimizzare la terapia per l’AKI stessa evitando non necessarie somministrazioni di steroidi o idratazioni eccessive.

Popolazioni speciali

I pazienti con insufficienza renale cronica, in particolare quelli sottoposti a trattamento dialitico cronico e i pazienti trapiantati sono categorie escluse dai trial clinici dei farmaci, pertanto ci sono pochissime informazioni in merito all’uso e gli effetti avversi dei farmaci in queste popolazioni speciali.

Pazienti in dialisi

Negli ultimi due anni sono stati condotti due studi riguardanti l’uso degli inibitori dei check-point immunitari nei pazienti in dialisi. Strohbehn et al. [47] hanno condotto un’analisi retrospettiva su 20 pazienti dializzati sottoposti ad immunoterapia mentre Mroue et al. [48] hanno pubblicato una revisione sistematica raccogliendo i dati presenti in letteratura in merito a 54 pazienti.

Quello che è emerso da entrambi gli studi è che questa categoria di farmaci è sicura nei pazienti dializzati come nel resto della popolazione, non necessita un aggiustamento di dose, il farmaco è rimosso solo in minima parte dalle procedure dialitiche; bisogna tuttavia considerare che i pazienti dializzati sono immunodepressi e “fragili”, il rischio di sviluppare qualsiasi tipo di complicanza potrebbe essere maggiore e pertanto vanno monitorati strettamente in corso di immunoterapia.

Sono necessari studi su popolazioni maggiori che permettano di confermare questi primi dati.

Pazienti trapiantati

Tre dei principali studi che hanno valutato il profilo di sicurezza degli inibitori dei checkpoint immunitari in pazienti trapiantati sono quelli pubblicati da Perazella et al. [49], Murakami et al. [50] ed Abdel-Wahab et al. [51]. Quello che è emerso da questi studi è che a causa del meccanismo primario di funzionamento di questi farmaci si ha una riduzione dell’immunosoppressione sistemica che porta a un aumentato rischio di rigetto dell’organo trapiantato. Il rischio aumenta maggiormente nei pazienti trattati con una combinazione di più farmaci immunoterapici e in particolare con anti CTLA-4. È importante quindi trovare delle strategie che permettano di massimizzare l’immunosoppressione mantenendo però forte l’azione del SI contro il tumore; anche in questo caso sono necessari ulteriori studi su un numero maggiore di pazienti che permettano di acquisire conoscenze più approfondite

Alterazioni elettrolitiche

Diversi studi hanno mostrato un’incidenza aumentata di disordini elettrolitici nei pazienti in terapia con farmaci inibitori dei check-point immunitari [15].

In uno studio condotto da Cantini et al. su pazienti con NSCLC trattati con inibitori dei check-point immunitari si riscontra iponatremia nel 8.7% dei pazienti trattati (95%CI: 7.5-10.1) contro un’incidenza del 4.9% nei pazienti del gruppo di controllo sottoposti a CT tradizionale (95%CI: 3.8-6.1) e ipokaliemia nel 10% dei pazienti in immunoterapia (95%CI: 9.2-11.7) contro 5.9% (95%CI: 4.9-7.1) nel gruppo di controllo [52].

Resta tutt’ora non completamente chiaro il meccanismo attraverso il quale gli ICIs possano determinare le diverse alterazioni elettrolitiche. Diversi studi mostrano come queste non siano legate ad un danno renale ma ad un coinvolgimento del sistema endocrino e dell’apparato gastroenterico da parte di eventi avversi immunorelati. Nel primo caso sembrerebbero legati a un deficit di ACTH secondario a ipofisiti, ovvero a deficit adrenergici primari; nel secondo caso si potrebbero correlare alle manifestazioni cliniche delle coliti immuno-correlate [52,53].

 

La nuova approvazione per il trattamento di prima linea del RCC

A seguito della pubblicazione della Determina AIFA nella GU n.311 del 16.12.2020 è stata approvata una nuova indicazione terapeutica per pembrolizumab nel tumore del rene: Keytruda ©, in associazione ad axitinib, è indicato nel trattamento di prima linea del carcinoma a cellule renali avanzato negli adulti.

Axitinib (Inlyta ©) è un inibitore multichinasico (MTKI) di seconda generazione che inibisce in modo selettivo VEGFR-1, VEGFR-2 e VEGFR-3 e debolmente il recettore del fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGFR) e il recettore tirosin chinasico KIT [54]. A livello tumorale la sua azione consiste nell’arresto/rallentamento della crescita tumorale ottenuta grazie all’inibizione dell’angiogenesi, l’aumento dell’apoptosi e la riduzione della densità dei vasi sanguigni. I primi risultati sono solitamente già visibili nelle prime 24 ore dalla prima somministrazione e dopo una settimana di trattamento si assiste alla regressione di circa il 50% dei vasi sanguigni tumorali [55,56].

Axitinib è un farmaco somministrato per via orale. L’emivita del farmaco è di 2-5 ore e pertanto deve essere assunto due volte al giorno ad un dosaggio di 5mg. Viene metabolizzato principalmente dal citocromo P450 3A4/5 e in maniera minore da CYP1A2, CYP2C19 e uridina difosfato glucuronosiltransferasi 1A1. Il farmaco viene eliminato quasi completamente per via epatica, con un’escrezione renale inferiore al 20% che rende non necessario adeguare la dose farmacologica alla GFR del paziente [57,58].

Il farmaco ha un’alta affinità di legame all’albumina [54] per tale ragione potrebbe essere somministrato in modo sicuro anche a pazienti in emodialisi, anche se in letteratura sono riportati soltanto dei case report [59]. Lo studio di fase III KEYNOTE-426 ha dimostrato la superiorità dell’associazione pembrolizumab + axitinib su sunitinib, registrato per la prima linea, nel tumore renale a cellule chiare di grado avanzato [60].

Questo studio ha confrontato dati di sopravvivenza e progressione di malattia di pazienti trattati con pembrolizumab (200mg ev ogni 3 settimane) + axitinib (5mg per os due volte al giorno) con pazienti trattati con sunitinib (50 mg per os 1 volta al giorno per le prime 4 quattro settimane di ogni ciclo di 6 settimane) [57].

Dopo un follow up di 12.8 mesi, la PFS mediana era di 15.1 mesi (95% Ci: 12.6-17.7) per pembrolizumab + axitinib e 11.1 mesi (95% CI: 8.7-12.5) per sunitinib. La sopravvivenza a 12 mesi è del 89.9% tra i pazienti trattati con pembrolizumab + axitinib e del 78.3% tra quelli trattati con sunitinib; non ci sono dati relativi al confronto della sopravvivenza mediana poiché al momento della pubblicazione dello studio non era trascorso un tempo sufficiente dall’inizio della terapia [60].

La tossicità della combinazione dei due farmaci si è dimostrata essere superiore a quella della monoterapia [61]. Eventi avversi di grado III o superiore sono stati registrati nel 28% dei pazienti in trattamento con pembrolizumab + axitinib e nel 16% di quelli con sunitinib [62].

Le tossicità di grado III e IV più comuni sembrerebbero essere ipertensione (23%), diarrea (10%) e astenia (10%) [59]. Per quanto riguarda la tossicità renale espressa in termini di aumento della creatinina sierica nello studio condotto nel 2018 da Atkins et al. è stata registrata un’incidenza di AKI G1-2 nel 15% dei 52 pazienti e nessun caso G3 o superiore [61]. Un secondo studio condotto da Rini et al. nel 2019 ha invece osservato un’incidenza di insufficienza renale acuta di qualsiasi grado nel 11,5% dei 429 pazienti con un’AKI di G3-4-5 nello 0,5% di questi casi [60].

Un ulteriore studio condotto da Wilky et al. ha confermato un’incidenza di AKI simile agli studi precedenti (18% dei 33 pazienti in trattamento)  [63].

Attualmente un’altra associazione di pembrolizumab con lenvatinib è stata approvata da EMA per il trattamento in prima linea del tumore renale a cellule chiare [64]. Questa stessa associazione è stata recentemente approvata dalla FDA e EMA per il trattamento del carcinoma endometriale avanzato. Ha dimostrato inoltre una buona e duratura risposta antitumorale in studi di fase Ib/II per i tumori uroteliali, carcinoma a cellule squamose di testa e collo, melanoma, tumore polmonare non a piccole cellule e carcinoma renale a cellule chiare [65].

Lo studio clinico di fase 3 KEYNOTE-564 [66], ha dimostrato un aumento statisticamente significativo della DFS con l’uso di pembrolizumab come terapia adiuvante nei pazienti con tumore a cellule renali a medio e alto rischio di recidiva; quando approvato sarà la prima terapia adiuvante nella storia del tumore del rene.

 

Conclusioni

In un campo in continua evoluzione ed espansione come è quello degli inibitori degli immuno check-point, dove c’è un continuo sviluppo di nuovi farmaci, un aumento dei campi di applicazioni e delle possibili combinazioni, i dati e le indicazioni derivate dall’esperienza sulla gestione delle eventuali tossicità sono ancora pochi in particolare nella popolazione nefropatica. Questo rende fondamentale una collaborazione stretta tra i professionisti.

Champiat et al. individuano due motivi principali: permettere all’oncologo di approfondire le sue conoscenze in merito alla gestione di particolari tossicità disimmuni organo-specifiche e permettere agli specialisti di aumentare le conoscenze in merito alle tossicità farmaco-mediate che coinvolgono l’organo di cui si occupano. Questo permette di creare un circolo virtuoso che pone al centro il paziente, offrendo la miglior gestione possibile. È sempre più evidente negli ultimi anni che la creazione di team multidisciplinari garantisce il più alto standard di cura per il paziente migliorandone l’outcome nel breve e lungo periodo e la qualità della vita [67].

 

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Relevance of an accurate microscopic examination of urinary sediment in a patient after mitral valve surgery

Abstract

Hemoglobinuria, clinically revealing as gross hematuria associated with anemia, increased hemolysis indices, acute kidney injury (AKI), can all be caused by mechanical intravascular hemolysis following mitral valve surgery. It can result from factors related to the surgical procedure or acquired later, such as paravalvular leak (PL), whose definite diagnosis is based on transesophageal echocardiography. 

We report the case of a patient who experienced macrohematuria and AKI, initially attributed to acute glomerulonephritis, two months after mitral valve surgery. Careful microscopic examination of the urinary sediment was a diriment diagnostic tool to differentiate acute renal failure caused by hemoglobinuria from hematuria in the course of acute glomerulonephritis, directing clinicians to investigate post-operative valvular dysfunction. From the literature review we can deduce that, notwithstanding new technologies in cardiac surgery, this rare form of AKI from intravascular hemolysis requires immediate nephrological attention and that the use of microscopic urinary sediment is decisive.

Keywords: hemoglobinuria, urinary sediment, gross hematuria, acute kidney injury (AKI), mitral valve surgery, hemolytic anemia

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Introduzione

L’emoglobinuria erroneamente acquisita come macroematuria, associata ad anemia emolitica, può essere causata da emolisi meccanica dopo chirurgia valvolare [1,2,3]. Vari fattori correlati alla procedura chirurgica o acquisiti successivamente, possono determinare emolisi quali il traumatismo meccanico subito dai globuli rossi per un’aumentata turbolenza di flusso attraverso una protesi cardiaca (shear stress forces), la deiscenza della sutura, esitante in paravalvular leak (PL), per endocarditi, difficoltà tecniche chirurgiche o il malfunzionamento del dispositivo valvolare. L’anemia emolitica intravascolare che ne consegue può essere clinicamente subacuta o manifestarsi, in un tempo variabile dall’intervento, con sintomi quali dispnea, ortopnea, cardiopalmo, astenia, urine ipercromiche e danno renale acuto (AKI) definito secondo le linee guida di Kidney Disease Improving Global Outcome KDIGO (incremento della creatinina sierica ≥0.3mg/dl in 48 o un incremento della creatinina sierica ≥1.5 volte il valore basale nei precedenti 7 giorni o un volume urinario <0.5ml/kg/h in 6 ore). Questa situazione, seppure rara [4,5,6,7], richiede rapida diagnosi differenziale onde orientare i clinici alla identificazione e risoluzione della causa eziologica.

Un attento esame delle urine rappresenta uno strumento diagnostico utile nel differenziare una macroematuria con AKI, causata da emoglobinuria, da un’ematuria a diversa eziologia [8,9,10,11], indirizzando il clinico verso il sospetto di una disfunzione valvolare post-operatoria.

Noi riportiamo il caso occorso alla nostra attenzione di un paziente affetto da macroematuria e AKI, insorta a due mesi da un intervento di riparazione valvolare mitralica complicato da insufficienza recidiva severa e anemia emolitica, analizzando l’importanza dello studio microscopico del sedimento urinario e del monitoraggio nefrologico anche alla luce della revisione della letteratura e delle nuove tecniche cardiochirurgiche.

 

Caso clinico

Un uomo di 55 anni giunge presso il reparto di Nefrologia, trasferito da una Divisione di Medicina, per macroematuria e astenia persistenti, anemia severa, AKI (stadio 1 sec. Acute Kidney Injury Network AKIN), incremento delle transaminasi, latticodeidrogenasi e bilirubina. L’anamnesi è negativa per malattie dell’apparato urinario, tabagismo e malattie ematologiche. Due mesi prima del ricovero, il paziente veniva sottoposto a intervento cardiochirurgico per insufficienza mitralica severa da prolasso del lembo anteriore mitralico (LAM). L’intervento consisteva in riparazione valvolare con anello protesico Sovering 32 e applicazione di due corde tendinee in ePTFE sul lembo anteriore in circolazione extracorporea. In decima giornata post-operatoria si presentava rialzo termico >38°C con associato versamento pericardico posteriore fino all’apice cardiaco, anemia (Hb 8,5 g/dl). Dopo esami colturali su sangue negativi, il versamento era quindi interpretato come infiammatorio-reattivo, veniva intrapresa terapia antibiotica empirica con cefazolina ed eseguite due emotrasfusioni in assenza di fonti di sanguinamento gastro-intestinale. Durante la degenza non veniva osservata contrazione della diuresi, la creatinina sierica si manteneva stabile con un incremento massimo fino a 1.17 mg/dl. Il paziente veniva dimesso dalla Divisione Cardiochirurgica con parziale correzione dell’anemia, funzione renale nella norma, microematuria (Tab. I) e avvio di terapia con warfarin con INR target di 3.0 per i primi tre mesi. Dopo due mesi, il paziente veniva nuovamente ospedalizzato presso una Divisione di Medicina per macroematuria, anemia severa (Hb 7,7 g/dl), leucocitosi (leucociti 19.220x µl) in assenza di significative alterazioni della formula e dello striscio periferico, aumento della velocità di eritrosedimentazione (48 1^ ora) e della proteina C reattiva (2,20 mg/dl) associate a incremento sierico di creatinina (1,60 mg/dl, eVFG 47,8 ml/min per 1.73m2), azotemia (84 mg/dl), lattato deidrogenasi (LDH) 2800 U/l, bilirubina totale (1,60 mg/dl), aspartato aminotransferasi (AST 229 UI/l), alanine aminotransferasi (ALT 127 UI/l). L’esame urine mostrava al dipstick albumina >300mg/dl, positività per sangue +++ (Hb >1mg/dl) con numerose emazie e cilindri granulari al sedimento. Nel sospetto di anemia autoimmune associata ad AKI, veniva eseguito Test di Coombs diretto e indiretto (negativo), TAOS (negativo), esame colturale su sangue e urine (negativi), dosaggio delle frazioni del complemento (nella norma), ricerca autoanticorpi (ANA, Ab anti DNA negativi).

L’ecografia renale mostrava reni di dimensioni normali (diametro longitudinale cm 11.3), lieve incremento dello spessore della corticale (12 mm) con normale ecogenicità. L’elettrocardiogramma (ECG) mostrava ritmo sinusale, all’ecocardiografia transtoracica (TTE) si documentava assenza di versamento pericardico e, all’ecocolor-doppler, presenza di un’insufficienza mitralica lieve che veniva ritenuta compatibile con gli esiti cardiochirurgici, anche in considerazione dell’assenza di sintomatologia cardiologica. Sulla base della presenza di ematuria, proteinuria e AKI e dell’esclusione di anemia autoimmune, veniva posta una diagnosi di “glomerulonefrite acuta”. Il paziente, dopo essere stato sottoposto a emotrasfusioni, veniva dimesso con terapia steroidea empirica. Dopo due giorni, per il persistere di macroematuria e comparsa di astenia, il paziente ritornava all’osservazione in urgenza e veniva inviato alla Divisione di Nefrologia per il riscontro di peggioramento funzionale renale.

All’ingresso il paziente risulta apiretico (TC 36°C), eupnoico (Sat. O2 in aria ambiente 99%), mostra subittero sclerale, all’auscultazione cardiaca è presente un soffio sistolico 2/6 parasternale sinistro, i valori pressori risultano nella norma (PA 140/60mmHg), la FC aumentata (94 bpm), fegato e milza nei limiti di norma. Il laboratorio (Tab. I) conferma anemia severa, AKI (AKIN1), incremento di bilirubina totale e indiretta, di AST, ALT e di LDH. Nessun altro marcatore di AKI (NGAL, Adrenomedullina, L-FABP, TIMP -2) viene ricercato. In considerazione dei segni laboratoristici di emolisi, viene effettuato esame dello striscio di sangue periferico, che non mostra schistociti, e dosaggio dell’aptoglobina che risulta ridotta. L’esame urine conferma intensa positività al dipstick per sangue +++ (Hb >1mg/dl) e albumina 300 mg/dl. L’esame del sedimento urinario in microscopia a contrasto di fase rivela una massiva presenza di cilindri emoglobinici e assenza di emazie. Una colorazione di Perls conferma la presenza di emosiderina nei cilindri e in granuli liberi (Fig. 1).

Sedimento urinario.
Figura 1: Sedimento urinario. A, B: Cilindri emoglobinici di colore brunastro e aspetto granulare. Assenza di emazie (Microscopia a contrasto di fase. Ingrandimento originale 400x). C, D: Colorazione di Perls: emosiderina, di colore blu/verde nei cilindri e in granuli sparsi (Microscopia in campo chiaro. Ingrandimento originale 400x)

Il quadro laboratoristico di anemia emolitica non immunomediata, l’assenza di un’anamnesi farmacologica compatibile con emolisi farmaco-indotta, l’emoglobinuria con cilindri emoglobinici e AKI inducono il sospetto clinico di emolisi meccanica intravascolare da disfunzione protesica (anello valvolare) in soggetto recentemente sottoposto a valvuloplastica mitralica. Nonostante le remore dei colleghi Cardiologi, basate sulla scarsa significatività dei dati dell’ecocardiogramma transtoracico, e in accordo con i consulenti Cardiochirurghi, il paziente viene sottoposto a Ecocardiogramma transesofageo (TEE) che documenta una disfunzione del lembo anteriore mitralico con rilevante insufficienza mitralica (3+/4+). Sulla base di ciò il paziente viene sottoposto a reintervento cardiochirurgico durante il quale viene riscontrata la presenza di due fissurazioni del lembo valvolare mitralico anteriore, reperto verosimilmente correlato all’aumento dei flussi ad alta velocità, responsabili dell’emolisi meccanica. Si procede a sostituzione valvolare mitralica con protesi meccanica Sorin Bicarbon 31. Nei giorni successivi non si verificano ulteriori episodi di “macroematuria” e dopo una settimana la funzione renale, la bilirubina totale, le transaminasi si normalizzano e si osserva una significativa riduzione dei valori di LDH e incremento dei livelli di Hb (Tab. I). Dopo 10 mesi il paziente risulta in benessere con normali valori di laboratorio.

Dati ematochimici Range di riferimento Dimissione da Cardiochirurgia Ingresso in Nefrologia Dimissione post-reintervento
Hb (g/dl)

[12.0-16.0]

10,4 7,7

9,9

Globuli rossi (x 106)

[4,00-5,20]

3,51 2,60

3,10

MCV (fl) [82,0-97,0] 84,5 82,5 92,5
Reticolociti (x1000) [5-12] // 35 29
Globuli bianchi (x103) [3,60-9,60] 12.260 19.220 (L 38,8% -N54%) 13.200
Piastrine (x1000/µL) [140-440] 180.000 160.000 178.000
Azotemia (mg/dl) [17-43] 41 84 26
Creatinina (mg/dl) [0,55-1,12] 0,98 1,65 1,04
Bilirubina (mg/dl)

Totale

Diretta

Indiretta

 

[0,30-1,20]
 

0,80

//

//

 

1,60

0,14

1,46

 

0,32

//

//

AST (UI/L) [0-35] 78 229 16
ALT (UI/L) [0-35] 89 127 18
LDH (UI/L) [0-247] 2201 3880 858
Aptoglobina mg/dl [30-200] // 20 //
C3/C4 (mg/dl) [90-180] [10-40] // 162/25 //
Test di Coombs diretto ed indiretto [Negativo] // Negativo //
VES (1^ ora) [1-25] 110 48 //
PCR (mg/dl) [0.0-0.5] 2,80 2,20 //
Esame urine
pH [5,5-7,5] 6.5 5.5 6.0
Peso Specifico [1.005-1.025] 1015 1010 1015
Bilirubina (mg/dl) [<0.5] 0.80 0.5 <0.5
Emoglobina (mg/dl) [<0.03] >1        +++ >1        +++ <0.03
Proteine (mg/dl) [<15] >300     +++ >300     +++ 15
Sedimento Rare emazie – Numerosi cilindri granulosi (emoglobinici)

– Emazie assenti

Nulla da segnalare
Tabella I: Andamento nel tempo dei parametri ematochimici

 

Discussione

Il punto di vista cardiochirurgico

L’emolisi intravascolare severa associata a disfunzione valvolare comporta emoglobinuria ed è una possibile complicanza della chirurgia valvolare mitralica [2,3,12]. L’emolisi meccanica si verifica soprattutto con le valvole di vecchia generazione e si manifesta a partire dal periodo post-operatorio fino ad anni dopo l’intervento (range 0.17-54 mesi) ed è associata ad anemia, presenza di schistociti, incremento della conta reticolocitaria, riduzione di aptoglobina, incremento di bilirubina indiretta e LDH [3,5,12].

L’anemia emolitica complicante la chirurgia valvolare cardiaca è stata descritta fin dagli anni ’60 e attribuita all’elevata turbolenza del flusso (shear stress force) attraverso la valvola protesica, alla mancanza di endotelio ricoprente la superficie protesica ruvida, alla deiscenza di una sutura e all’instaurarsi di un rigurgito paravalvolare (PL) [13]. La prevalenza di un rigurgito paravalvolare in un follow-up superiore a 10 anni dopo la sostituzione valvolare varia, secondo le casistiche, dal 2-17% nel caso di valvole meccaniche, al 9% nel caso di valvole biologiche [14,15], con una frequenza quasi doppia nella sostituzione della valvola mitralica rispetto a quella aortica. In assenza di endocardite, il decorso dei rigurgiti paravalvolari è benigno ma essi costituiscono la causa più frequente di anemia emolitica in questi pazienti [16]. L’incidenza dell’anemia emolitica correlata agli interventi di protesi valvolare si è ridotta nel tempo, grazie al miglioramento delle tecniche e dei materiali chirurgici, ma il recente ricorso a tecniche di sostituzione valvolare transcatetere TAVI [5] e sistemi di circolazione extracorporea di supporto alla funzione cardiaca e cardiopolmonare, ripropongono la tematica con un rinnovato interesse (Tab. II).

Sostituzione valvolare chirurgica (mitralica o aortica) – Zona di distacco della protesi (paravalvular leak) con abnorme flusso sanguigno ad alta velocità tra anello valvolare protesico e quello nativo (es: per deiscenza della sutura su anello nativo molto calcifico, endocardite, tecnica chirurgica sub ottimale)

– Disfunzione/deterioramento protesico con aumento dei gradienti pressori transvalvolari (es: trombosi/blocco di emidisco meccanico, degenerazione di protesi biologica, endocardite)

– Calibro protesico sottodimensionato

Riparazione valvolare mitralica – Zona di distacco dell’anello protesico valvolare

– Abnorme rigurgito residuo

– Materiale di sutura esuberante

Sostituzione valvolare aortica transcatetere – Zona di deiscenza paravalvolare

– Calibro protesico sottodimensionato

Assistenza ventricolare sinistra chirurgica/percutanea (sistemi di circolazione extracorporea) Shear stress (sforzo di taglio del flusso) correlato alla pompa

– Malposizionamento e/o malfunzionamento del dispositivo

Tabella II: Principali cause di emolisi  dopo chirurgia cardiaca (divisa per tipologia)

La severità dell’emolisi e della conseguente anemia prescinde dalle dimensioni degli orifici centrali di rigurgito e dalla presenza di PL [17] anche a seguito di TAVI e può variare da forme “asintomatiche” fino a forme severe, che causano la re-ospedalizzazione di questi pazienti. Nelle forme più severe di anemia emolitica meccanica e refrattarie alla terapia medica (basata sulla correzione del deficit di folati, supplementi di ferro, beta-bloccanti) viene raramente segnalata l’insufficienza renale.

Una recente casistica cinese [18] riporta che l’anemia emolitica meccanica severa compare più precocemente (entro i primi 3 mesi) dopo riparazione e più tardivamente (in media 10 anni) dopo sostituzione (con prevalenza delle valvole meccaniche rispetto alle biologiche) e l’AKI si presenta con un’incidenza fino al 44% in questa categoria di pazienti cardiochirurgici con anemia emolitica intrattabile.

 

Il punto di vista nefrologico

A due mesi dall’intervento di sostituzione valvolare mitralica il nostro paziente manifesta un’anemia severa, associata ad emissione di urine ipercromiche con sangue presente al dipstick in quantità +++ (Hb >1 mg/dl), microematuria modesta, incremento di LDH, bilirubina, reticolociti. Questo deve indurre a sospettare un’anemia emolitica e a ricercarne le cause in emoglobinopatie, tossine, farmaci, processi microangiopatici o processi autoimmuni complemento-mediato, traumatismi diretti sui globuli rossi (Fig. 2). Nell’anamnesi del paziente non risulta esposizione ai farmaci frequentemente associati ad emolisi, né infezioni in atto, risultano assenti emolisine (Test di Coombs negativo) e consumo del complemento, le piastrine sono nella norma, lo striscio periferico non evidenzia ellissociti, cellule falciformi né schistociti. Una prima valutazione del quadro clinico-laboratoristico del nostro paziente ha portato erroneamente i clinici a sospettare, per la presenza di macroematuria intermittente, microematuria e proteinuria, una glomerulonefrite con anemia non autoimmune, tralasciando una causa traumatica meccanica sui globuli rossi, con conseguente emolisi intravascolare per la quale ci si sarebbe attesa la presenza di schistociti.

Il test delle urine da noi eseguito ha rilevato elevata positività al dipstick per sangue e albumina. Il sedimento urinario in microscopia a contrasto di fase ha evidenziato un’elevata quantità di cilindri emoglobinici con tipico colore brunastro e aspetto granulare e nessun eritrocita intero o frammentato è stato identificato all’interno dei cilindri (Fig. 1). Una colorazione di Perls è stata utilizzata per identificare l’emosiderina nei cilindri e in granuli diffusi; tale colorazione è specifica per il ferro trivalente dell’emosiderina, con esaltazione del colore blu scuro, confermando la natura emoglobinica dei cilindri (Fig. 1).

L’emoglobinuria associata alla riduzione dei livelli di aptoglobina, conseguente al legame con emoglobina libera che viene rilasciata in circolo in eccesso, hanno confermato, nel nostro paziente, una diagnosi di emolisi intravascolare non microangiopatica né autoimmune. L’eziologia traumatica diretta, in un soggetto recentemente sottoposto a intervento di sostituzione valvolare mitralica, ha richiesto la conferma, all’ecocardiogramma transesofageo, di disfunzione valvolare nonostante la scarsa sintomatologia cardiaca, le aspecifiche alterazioni all’ecocardiogramma transtoracico, l’assenza di schistociti. Il danno renale va riportato all’eccesso di emoglobina libera che si dissocia dall’usuale forma tetramerica alla forma dimerica con sequestro di ossido nitrico, libera filtrazione attraverso i glomeruli e, superata la capacità di riassorbimento a livello dei tubuli prossimali, precipitazione nel lume dei tubuli. Pertanto, in corso di emolisi protratta, i meccanismi coinvolti sono tre: vasocostrizione causata dal sequestro di ossido nitrico, diretta citotossicità dell’emoglobina libera sull’epitelio del tubulo prossimale, interazione dell’emoglobina intratubulare con la proteina di Tamm-Horsfall con formazione di cilindri emoglobinici [19,20,21]. L’emoglobina viene assorbita dai recettori megalina-cubilina sulla superficie apicale dell’epitelio tubulare e si deposita nei tubuli prossimali. L’emoglobina intracellulare si dissocia in eme e globina e l’eme viene degradata dall’eme ossigenasi (HO). L’isoforma inducibile HO-1 aumenta rapidamente, accompagnata da un aumento della ferritina intracellulare. Queste reazioni intracellulari portano al legame del ferro con la ferritina, con danno mitocondriale, per compromissione dell’ossigenazione mitocondriale. Seguono apoptosi delle cellule epiteliali tubulari, stress ossidativo e rilascio di citochine pro-infiammatorie [20,21].

Se l’emolisi è limitata, il danno renale acuto si risolve con normalizzazione della funzione, mentre ripetuti episodi di emolisi severa possono portare a danno tubulare con depositi intracellulari di emosiderina e danno cronico con irreversibili lesioni quali atrofia tubulare e fibrosi interstiziale [12,22,23].

La nostra esperienza ci conferma che l’esame delle urine con l’osservazione microscopica del sedimento urinario (EUM), in particolare impiegando microscopio a contrasto di fase [24,25,26], rappresenta un eccellente indicatore di danno renale, se appropriatamente utilizzato da personale sanitario esperto e preparato. Infatti, la combinazione del risultato chimico-fisico delle urine con l’identificazione e la quantificazione di cellule, cilindri, cristalli consente di formulare precise ipotesi diagnostiche [11,25,26,27].

L’analisi degli elementi del sedimento urinario, naturalmente attraverso procedure standardizzate [11, 25,26], consente di comprendere se sia il glomerulo, l’interstizio e/o i tubuli a essere interessati al danno [11, 27,28,29]. Così acantociti (o eritrociti dismorfici) e cilindri eritrocitari in presenza di albuminuria sono tipicamente indicativi di lesione glomerulare, anche se cilindri eritrocitari sono stati individuati in corso di nefrite interstiziale acuta diagnosticata con biopsia renale [30]. Anche nell’insufficienza renale acuta il sedimento urinario offre supporto diagnostico indispensabile [8,11]. Alcuni Autori suggeriscono che, nei pazienti ospedalizzati con AKI, uno score ottenuto mediante il conteggio di cilindri granulari e cellule epiteliali tubulari renali possa aiutare a discriminare il danno prerenale dalla necrosi tubulare acuta con probabile valore diagnostico e prognostico, limitato dalla difficoltà d’identificazione di elementi quali cellule epiteliali tubulari. Necessario quindi standardizzare e formare personale sanitario perché l’interpretazione del sedimento urinario possa essere di valore clinico [31,32,33].

Uno studio basata sull’interpretazione dell’EUM di 26 pazienti con insufficienza renale acuta indica che l’analisi eseguita dal nefrologo, che riconosce un numero significativamente maggiore di elementi del sedimento (cellule tubulari, cilindri con cellule tubulari, cilindri granulosi ed eritrociti dismorfici), è superiore a quella eseguita nel laboratorio clinico nell’individuare la diagnosi più corretta [34]. Nel nostro caso, un’inadeguata osservazione dell’esame urine e del sedimento urinario ha portato all’erronea iniziale diagnosi di glomerulonefrite.

Peraltro, nei vari lavori, l’interpretazione dei sedimenti urinari varia di molto in affidabilità a seconda dell’osservatore [35,36]. Recentemente Palsson ha posto a confronto nefrologi esperti nell’interpretazione dei sedimenti urinari per l’identificazione della patologia renale di pazienti con diagnosi bioptica renale e ha osservato una sostanziale variabilità interpretativa: da scarsa concordanza per cilindri cellulari misti a elevata per cilindri leucocitari, cilindri eritrocitari e cellule epiteliali tubulari renali [37].

I numerosi sistemi automatizzati impiegati nei grandi laboratori hanno ridotto l’utilizzo della microscopia manuale, producendo immagini digitalizzate del sedimento urinario per analisi computerizzate. I più comunemente usati, IRIS iQ200, Sysmex UF-1000i, Cobas u701 e SediMax, consentono una rapida analisi di campioni di urina anche patologici. Tuttavia studi comparativi con la microscopia manuale hanno rilevato che gli analizzatori automatizzati, seppure con sensibilità e specificità diverse per i vari elementi del sedimento urinario, non sono affidabili nella diagnosi delle malattie renali come necrosi tubulare acuta, glomerulonefriti, vasculiti e nelle cristallurie patologiche [11, 38,39,40].

Infine, scarsa considerazione all’esame delle urine emerge dal riesame della letteratura riguardante l’ematuria macroscopica in corso di emolisi intravascolare severa associata a disfunzione valvolare. Alcuni autori descrivono “urine scure” prevalentemente da un punto di vista chimico fisico, senza altre precisazioni [6,7]. Nel caso clinico di Curtain, la valutazione dell’esame urine non risulta efficace: ingannati dal fatto che l’emoglobinuria determinava comunque positività per sangue all’esame chimico fisico, il paziente che si presentava con macroematuria veniva indirizzato in un primo momento verso una diagnosi nefro-urologica [4]. Nella review di Alkhouli et al. l’esame delle urine non viene riportato [5].

I dati urinari riscontrati nel nostro paziente rappresentano marcatori di preciso danno renale acuto . [8,11]. Infatti, nelle urine ipercromiche associate a glomerulonefrite acuta troviamo molti eritrociti, solitamente dismorfici, diversi tipi di cilindri tra cui quelli eritrocitari, leucociti e cellule tubulari. Diversamente, l’assenza di eritrociti con eme positivo al dipstik urinario e cilindri di emoglobina suggerisce una tossina endogena, come l’emoglobina libera [8,9,10]. La diagnosi errata di “glomerulonefrite” può essere spiegata da un esame inadeguato del sedimento urinario non effettuato da personale sanitario motivato e preparato [41,42].

Percorso diagnostico-terapeutico nel soggetto portatore di protesi cardiaca
Figura 2: Percorso diagnostico-terapeutico nel soggetto portatore di protesi cardiaca con anemia inspiegata, macroematuria ed AKI. Legenda: HUS: sindrome emolitico-uremica, PTT: tempo di tromboplastina parziale

 

Conclusioni

A fronte del costante miglioramento delle tecniche cardiochirurgiche, l’AKI da emolisi dopo chirurgia valvolare mitralica è una complicanza rara ma severa. Un’attenta valutazione microscopica del sedimento urinario può riconoscere la natura emolitica di un’ematuria post-cardiochirurgica, orientare il nefrologo alla corretta diagnosi e indirizzare il paziente all’eventuale terapia chirurgica risolutiva. Il caso qui riportato ci fa riflettere su come l’occhio umano, nella valutazione del sedimento urinario, sia ancora uno strumento diagnostico insostituibile, anche nell’era dell’ipertecnologia.

 

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Droghe d’abuso e rene

Abstract

Here we present a case of acute renal failure needing dialysis in a heroin addict patient chronically treated with Metadone.  This give us the opportunity to review the renal effects of the main drugs of abuse, highlighting the shift occured from the four “old sisters” (Marijuana, Cocaine, Heroin and Amphetamine) to the news synthetic drugs (chiefly  Synthetic  Cathinones and Cannabinoids), that poses problems due to  large diffusion, easy  procurement, legal  non-regulation and difficult analytical identification,  raising medical and forensic questions. From a Nephrological point of view is essential to take great care over the need to diagnose this kind of pathology and to widen the search trying anyway to recognize the substances potentially involved.

Key Words: Acute Kidney Injury; Acute renal failure; Illicit drugs; Rhabdomyolysis.

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Introduzione

Per definire i rapporti tra droghe di abuso e rene è  necessario innanzitutto caratterizzare e definire le proprietà delle sostanze di cui andiamo a trattare. Come vedremo per alcune di queste i confini tra farmaco e sostanza di abuso sono labili, definiti  talora soltanto dal setting di utilizzo della sostanza.

Cerchiamo allora per un primo inquadramento di utilizzare gli strumenti moderni di ricerca medica  che utilizziamo ogni volta che facciamo una ricerca bibliografica.

Se utilizziamo PubMed con la definizione di ingresso di “street drugs/recreational drugs” il vocabolario MESH ci restituirà “Illicit Drugs” e spiegherà che si tratta di “sostanze prodotte, ottenute  o vendute illegalmente”,  sottolineandone poi la frequente “grossolana  impurità fonte di tossicità inaspettate” [1].  Il termine è stato introdotto fin dal 1977, ma la voce è stata modificata recentemente  (2020) eliminando i riferimenti alle motivazioni che inducono all’ uso in precedenza riportate nella definizione, concentrandosi sulla illiceità di tali sostanze.  Il termine precisa inoltre che la natura illegale può scaturire anche dal fatto di essere farmaci forniti in assenza di prescrizione. Da questo punto di vista nella letteratura si può distinguere in effetti un utilizzo improprio (“misuse” di farmaci prescritti , ad esempio analgesici, in dosi non appropriate) da un abuso  (“abuse” cioè l’uso ai fini di ottenere un effetto psicotropo: euforia o alterato stato mentale o evitare la crisi di astinenza).

Il sito italiano dei Carabinieri, quindi di una capillare forza pubblica impegnata nella prevenzione e repressione del fenomeno, riporta la definizione WHO che definisce sostanze stupefacenti “sostanze di origine vegetale o sintetica che agendo sul sistema nervoso centrale provocano stati di dipendenza fisica e/o psichica” sottolineando quindi l’ effetto centrale ed i fenomeni di dipendenza e tolleranza [2]. A partire dall’ effetto sul SNC ne deriva la suddivisione in droghe deprimenti, stimolanti ed allucinogene (tabella 1).

OPPIACEI

STIMOLANTI DEPRESSIVI ALLUCINOGENI CANNABIS e derivati

Oppio

Cocaina

Barbiturici Mescalina Marijuana
Morfina Amfetamine Tranquillanti L.S.D. Hashish
Eroina Crack 2,5-Dimethoxy-4-methylamphetamine

(DOM)

Olio di hashish
Metadone Ecstasy o M.D.M.A.

Tabella 1 (modificata da http://www.carabinieri.it)

L’alcool etilico ha un ruolo di primo piano essendo una droga legale, socialmente accettata, con una diffusione amplissima ed una severa sequela di patologie principalmente a carico del SNC ed epatiche, ma anche cardiache e, con minore impatto e meno sottolineate, renali [3; 4].

 

Il caso clinico

Maschio di 37 anni seguito dal SERT in trattamento con Metadone.  A domicilio comparsa di febbre ed agitazione psicomotoria con possibile crisi comiziale che lo induce a presentarsi in Pronto Soccorso. Esegue TC cranica priva di reperti patologici. All’ EEG: discreti segni di sofferenza encefalica diffusa; assenza di grafoelementi irritativi tipici. Gli esami urgenti eseguiti evidenziano  glicemia 271 mg/dl, Urea 21 mg/dl, creatininemia 1,1 mg/dl; sodiemia 138 mEq/l, potassiemia  3,64 mEq/l;  bilirubina totale 0,52 mg/dl; AST (GOT)  22 U/l; ALT (GPT) 19 U/l; PCR 3,2 mg/l. Veniva inoltre eseguita una rachicentesi  (rivelatasi un poco indaginosa) che al esame chimico-fisico mostrava un liquor torbido, rosato;  glucosio 96 mg/dl, proteine 107 mg/dl, con 75/ul elementi nucleati per il 72% polinucleati e 28% mononucleati (insieme con la segnalazione di numerose emazie e possibili elementi figurati dal sangue per probabile contaminazione).  Il colturale era poi risultato negativo mentre la colorazione di Gram mostrava emazie (++) e leucociti (+). La Nested Multiplex PCR per batteri (Pneumococco, Meningococco, Streptococcus Agalactiae, Listeria, E.Coli, Haemofilus Influenzae), per virus (CMV, Enterovirus, Herpes Simplex 1 e 2, Human Herpesvirus 6, Human parechovirus, Varicella Zoster)  e Torula Neoformans era negativa.

Le sierologie per Borrelia e per HCV risultavano negative mentre del pattern per il Virus B della Epatite erano positivi soltanto gli anticorpi anti HBsAg ad alto titolo (858 mUI /ml), esito di verisimile vaccinazione.

Ricoverato in Reparto semiintensivo già il giorno seguente,  a diuresi conservata,  la creatininemia saliva rapidamente (5,45 mg/dl); Urea 65 mg/dl; AST (GOT) 133 U/l; ALT (GPT)  33 U/l; PCR 49,9 mg/l; Procalcitonina 0,81 ng/ml; CK totali 12615 U/l; Mioglobina 11414,5 ug/l. Il quadro era a questo punto suggestivo di una sepsi e diagnostico di rabdomiolisi associata inducendo ad iniziare una una CRRT isovolemica previo cateterismo venoso femorale. Un esame a fresco del sedimento urinario da parte del Nefrologo mostrava massiva cristalluria di urati con presenza di cellule tubulari molto danneggiate spesso raccolte a formare cilindri; l’esame chimico-fisico urinario mostrava marcata positività per  emoglobina in assenza di emazie.

Già in Pronto soccorso era stati eseguiti i dosaggi di Benzodiazepine urinarie (1264 ng/ml; coerenti con la terapia della crisi convulsiva), Metadone urinario (>1000 ng/ml; coerente con la terapia cronica in atto), Cannabinoidi urinari (>100 ng/ml; <50 negativo) mentre negative risultavano le ricerche urinarie di Oppiacei, Cocaina, Barbiturici e Anfetamine.

Il giorno seguente gli indici di miolisi apparivano in ulteriore incremento (CPK 75218 U/l; mioglobinemia 11414,5 ug/l; AST (GOT) 565 U/l) con quadro emodinamico stabile e diuresi attiva in terapia con diuretico.

In terza giornata proseguendo CRRT creatininemia 4,43 mg/dl; Urea 64 mg/dl; AST (GOT) 495 U/l; ALT (GPT) 127 U/l; CK Totali 49818 U/l; Mioglobinemia 6910 ug/l. PCR 25 mg/l. Hb 10,1 g/dl; GB 15000/ul.

In quinta giornata proseguendo terapia sostitutiva con HD intermittente veniva trasferito in Nefrologia  ed in 8^ giornata veniva sottoposto ad agobiopsia renale sx ecoguidata real time: la manovra era priva di complicanze.

Questa mostrava frustoli di parenchima renale comprendenti, nei vari livelli istologici esaminati, sino a 27 glomeruli con aspetti ischemici e congesti. Il quadro morfologico era dominato (Fig.1) da fenomeni di necrosi tubulare con aspetti rigenerativi, detriti cellulari endotubulari ed un intenso infiltrato tubulo/peritubulare linfo-monocitario ed eosinofilo in presenza di cilindri pigmentati (mioglobina).  Minima fibrosi interstiziale. I vasi arteriosi, specialmente quelli di piccolo calibro, presentano note di ispessimento parietale. L’esame tramite immunofluorescenza diretta (IFD) ha evidenziato alcuni aspetti aspecifici (deboli depositi capillari di IgA e focali deboli depositi capillari di C3 e IgM) ed è apparso negativo per C1q, C4, IgG e per le catene leggere (Kappa e Lambda). L’insieme dei reperti, anche in considerazione dei dati clinici, appare riferibile ad una necrosi tubulare acuta (esotossica) associata a mioglobinuria.

Seguiva una breve fase poliurica con miglioramento della funzione renale che consentiva la sospensione del trattamento dialitico e la rimozione del cvc femorale. Il decorso ulteriore era complicato da una broncopolmonite basale destra trattata la quale in 20^ giornata veniva dimesso con creatininemia 2,0 mg/dl. A 30 giorni dalla dimissione la creatininemia era 1,24 mg/dl e l’ esame urine era privo di alterazioni.

Il caso presentato è insieme classico di una frequente forma di tossicità renale in corso di abuso di sostanze psicotrope (NTA con cilindruria in corso di mioglobinuria) ma negative erano le ricerche delle droghe d’abuso più classiche coinvolte in questi quadri (Oppiacei, Cocaina, Anfetamine).

Cerchiamo prima di tutto di esaminare le sindromi renali associate all’abuso di droghe.

 

OPPIACEI:

Dalla incisione della capsula immatura del papavero da oppio (Papaver Somniferum), originario della Anatolia, si ottiene un lattice che si rapprende all’ aria formando una massa gommosa brunastra che può essere formata in pani o per ulteriore essicazione trasformata in polvere: è questo l’oppio grezzo il cui primo uso medico era stato il trattamento della dissenteria. L’ oppio grezzo può già essere fumato senza ulteriori trasformazioni e questo utilizzo si era diffuso principalmente in oriente nel XVIII° secolo; esso contiene circa una trentina di alcaloidi naturali, di cui il più potente è la morfina (estratta da Sertürner nel 1806). La sua azione è mediata dal legame a recettori specifici nel SNC (Recettori Oppioidi i cui normali ligandi sono i cosiddetti oppioidi endogeni: endorfine, encefaline e dinorfine) appartenenti a tre tipi diversi (m, il principale;  k e d). La morfina può essere sottoposta ad un processo chimico di acetilazione ottenendo la diacetil-morfina o Eroina che si caratterizza per la maggiore liposolubilità con più rapida penetrazione nel tessuto nervoso con intenso effetto psicotropo. Il Metadone, oppioide sintetico, è caratterizzato da efficacia per via orale analoga alla morfina e lunga durata di azione nella soppressione dei sintomi da astinenza; la crisi da astinenza di questo farmaco è a sua volta caratterizzata da sintomi più lievi ma di maggiore durata.  I farmaci morfinosimili inducono analgesia, sonnolenza, cambiamento del umore e obnubilazione; alcuni provocano euforia. La prima somministrazione di morfina può essere peraltro spiacevole associandosi a nausea e vomito. Sono caratterizzati da tolleranza e dipendenza fisica; la intossicazione acuta da coma, miosi pupillare e depressione respiratoria.

L’ Eroina, principale oppiaceo di abuso, non ha applicazioni terapeutiche; per la sua assunzione può essere sniffata, assunta per os, fumata, iniettata in vena da sola o associata alla cocaina, iniettata sottocute (skinpopping). Data la sua linea di produzione completamente illegale si caratterizza per la impurità sia chimica per la presenza di additivi ed adulteranti (mannitolo, saccarosio, glucosio, lattosio, caffeina etc.) che microbiologica con possibilità di trasmettere nel uso parenterale Epatite B e C, HIV, endocarditi batteriche e fungine, infezioni cutanee e sepsi da piogeni.

Le complicanze renali del uso di oppiacei sono numerose (tabella 2) e comprendono la Rabdomiolisi con insufficienza renale acuta in corso di mioglobinuria; questa è in genere determinata dalla perdita di coscienza con lunga permanenza a terra con ischemia dei muscoli, vasi muscolari e nervi sottoposti a pressione diretta.

Quadri renali associati con l’abuso parenterale di Eroina:

1)  Glomerulosclerosi Focale e Segmentaria (FSGS) 5) Nefrite interstiziale (anche granulomatosa)
2)  Glomerulonefrite Membrano Proliferativa (MPGN) 6) Amiloidosi
3)  Glomerulonefrite a lesioni minime 7) Vasculiti
4)  Glomerulonefrite a depositi mesangiali di IgA 8) IRA mioglobinurica
Tabella 2: Quadri renali segnalati in letteratura come associati al abuso parenterale di eroina

Tuttavia i quadri renali segnalati sono tanti e diversi e tra essi è interessante rivalutare la storia della glomerulonefrite associata (Heroin Associated Nephropathy o HAN), una forma  ampiamente proteinurica con sindrome nefrosica descritta per la prima volta nel 1970 [5]. Nell’abstract erano riportati tre casi (2 eroinomani ed un cocainomane) con apparenti lesioni minime; successivamente ad una seconda biopsia uno sviluppa una glomerulonefrite membranosa.

Le segnalazioni  successive mostrano tuttavia quadri di volta in volta diversi: GNMP con depositi di IgM e complemento, GN con aspetti di GN  acuta, GSFS, glomerulosclerosi  globali.

Dal punto di vista clinico quando strettamente definita si caratterizzava per una massiva proteinuria, più spesso con S. Nefrosica, che compariva  dopo protratto uso di eroina (anni). Si trattava di una forma resistente alla terapia immunosoppressiva, spesso con presenza all’ esordio di IRC e rapida evoluzione verso l’ uremia in 6-48 mesi.

In realtà nel tempo la descrizione della HAN deviava decisamente tra le due sponde del Atlantico.

Negli Stati Uniti viene segnalata con grande prevalenza in questo quadro una  GSFS; si tratta soprattutto di pazienti di razza nera [6]. Il quadro appare  privo di aspetti proliferativi, di solito senza depositi immuni ma talora con IgM e C3 focale e segmentario. Un ulteriore confondente viene ad essere in seguito la positività HIV.

In Europa viceversa a prevalere è una GNMP [7]; si tratta di pazienti di razza bianca, caratterizzati da positività per HCV, talora HBsAg ed HIV.

Nel tempo si è assistito alla scomparsa quasi completa alla fine degli anni ’80 dei casi di HAN. A ciò avrebbero contribuito l’ epidemia di HIV con l’ incremento di casi di HIVAN, le misure igieniche correlate all’ HIV stessa, la migliore purezza della eroina, il riconoscimento che le forme di GNMP in pazienti HCV + erano evidentemente correlate all’ infezione (crioglobulinemiche o meno che fossero) [8].

Dagli studi sperimentali effettuati nel tempo emerge che le cellule mesangiali  non sono in grado di metabolizzare l’ eroina [9]; tuttavia la morfina riduce l’ attività delle 72 kDa metalloproteinasi riducendo la degradazione della matrice mesangiale, stimola la proliferazione delle cellule mesangiali e la sintesi di collagene [10]. Riduce l’ efficacia della fagocitosi delle macromolecole ed aumenta la deposizione di IC nel mesangio [11].

Un’altra rara complicanza renale del abuso parenterale di oppiacei  severamente proteinurica e di solito con IRC evidente già all’ esordio è la Amiloidosi; si tratta di una Amiloidosi AA associata ad infezioni croniche,  soprattutto cutanee negli  “Skin Poppers”. La prognosi è pessima sia dal punto di vista del rene che per quanto riguarda la sopravvivenza complessiva [12] con il 65% dei pazienti in dialisi entro un mese dalla diagnosi ed una mortalità per sepsi vicina al 50% con una mediana di sopravvivenza di 19 mesi.

Un nuovo problema emergente nasce ora dalla prescrizione medica di farmaci psicotropi , benzodiazepine ma anche  oppiacei per il trattamento del dolore,  in pazienti anziani  che tende a trasformarsi successivamente in abuso [13]. Si tratta più spesso di donne anziane, che vivono sole con molteplici problemi di salute e spesso trattate con polifarmacia, talora con precedenti psichiatrici.

La riduzione del filtrato glomerulare in questo quadro può essere un fattore aggravante se si confronta l’uso dei FANS vs l’uso degli oppiacei, associato con un aumento delle ospedalizzazioni e della mortalità complessiva [14].

 

COCAINA:

Estratta dalle foglie di un arbusto sudamericano, più esattamente Boliviano,  (Erytroxylon Coca) è attualmente la droga più usata negli USA.

Si calcola che 23 milioni di americani l’abbiano provata almeno una volta; 3,6 milioni sarebbero i consumatori abituali. Uno studio sulla popolazione universitaria ha mostrato un 6% di users [15].

Possiamo distinguere due forme di Cocaina: la Cocaina Idrocloruro, solubile in acqua e instabile al calore, somministrabile per via orale, endovenosa e per inalazione e la Cocaina alcaloide (Freebase, Crack),  ottenuta per alcalinizzazione del sale,  non idrosolubile e stabile al calore che deve essere fumata. La prima inizia il suo effetto in 1-5 minuti e raggiunge il picco in 20-60 minuti mentre il Crack inizia il suo effetto in secondi raggiungendo il picco in un minuto.

La Cocaina agisce con effetto simpaticomimetico per blocco del reuptake di Dopamina per combinazione col recettore deputato al riassorbimento per cui il mediatore resta nello spazio sinaptico più a lungo prolungando così l’effetto dopaminergico sulla cellula postsinaptica [15].

L’attivazione simpatica si traduce in un effetto stimolante ed euforizzante.

Ne possono conseguire effetti collaterali importanti a livello sistemico (tachicardia, ipertensione arteriosa, tachipnea, ipertermia, midriasi, agitazione, delirio, reazioni psicotiche) Cardiaco (Scompenso ventricolare sx, Endocardite, Miocardite, dissecazione aortica, Infarto, aritmie, arresto cardiaco) Neurologico (agitazione, iperattività, TIA, Ictus, convulsioni)  Respiratorio (edema polmonare acuto, ipertensione polmonare, polmonite interstiziale, emorragie, infarti) del Tratto Gastroenterico (ischemia mesenterica, epatite, necrosi epatica) Vascolari (vasculiti, trombosi, tromboflebiti) e, non ultima, la Rabdomiolisi [16].

A livello Renale gli effetti della Cocaina sono mediati dal rilascio di catecolamine e dal incremento dello stress ossidativo che aumentano il fabbisogno metabolico mentre la contemporanea attivazione del RAS e del sistema delle endoteline e la inibizione della vasodilatazione indotta da Ossido Nitrico induce un vasospasmo e conseguente ischemia; su questo si sovrappone ed integra un effetto procoagulante e di aggregazione piastrinica attivati attraverso incremento del trombossano  e riduzione della antitrombina III.

La cocaina è in effetti un potente vasocostrittore che agisce attraverso la inibizione centrale dell’ uptake sinaptico di catecolamine, il blocco del re-uptake di noradrenalina nelle terminazioni periferiche ed il rilascio di catecolamine dalla midollare surrenale.

Non sorprende allora che nel quadro della tossicità acuta domini essenzialmente la insufficienza renale acuta in cui rabdomiolisi, ipertensione maligna e microangiopatia trombotica fanno la parte del leone anche se talora può esserci anche una più rara nefrite interstiziale acuta [17] a sostenere il quadro.

La possibilità del raro infarto renale deve essere sempre tenuta presente in questo setting,  annunciato da dolore lombare e/o al fianco, macroematuria  incremento della creatininemia e delle LDH [18; 19].

La rabdomiolisi da cocaina  presenta eziologia multifattoriale; il sospetto deve sorgere principalmente in presenza di ipertermia, convulsioni, agitazione o ottundimento del sensorio. La diagnosi si basa sul incremento degli enzimi muscolari (CPK, LDH) nel siero [19]; un’altra chiave diagnostica è il rilievo di positività degli stick urinari per l’emoglobina in assenza di globuli rossi al esame microscopico delle urine, che può corrispondere alla presenza di mioglobina.

Nella Insufficienza Renale Cronica l’uso di cocaina si associa peraltro a scarso controllo pressorio, progressione più rapida delle nefropatie con IRC, aumentata morbilità e mortalità, aumentata incidenza di infezioni nei dializzati [15]. E’ descritto un aumento della sclerosi/fibrosi a livello glomerulare che troverebbe giustificazione nella inibizione della sintesi della metalloproteinasi-2 con ridotta degradazione della matrice mesangiale, incremento dello stress ossidativo per riduzione del contenuto in glutatione nelle cellule renali in coltura e la attivazione del RAS con stimolo della produzione di TGF-b [20].

Infine la cocaina sembra accelerare l’aterogenesi sia a livello renale che a livello sistemico nell’animale da esperimento e nel uomo [15-17; 21-23].

 

CANNABIS:

Al  genere Cannabis appartengono piante di specie diverse (Cannabis Indica, Cannabis Sativa) (Figura 1)  che erano coltivate in passato per ottenerne fibre tessili (Canapa).

FIGURA 1 Coltivazione di Cannabis
Figura1: Coltivazione di Cannabis

Esistono numerose cultivar a diverso contenuto di TetraHidroCannabinolo (THC), che insieme al Cannabidiolo costituiscono i più abbondanti fitocannabinoidi;  dalla resina della pianta si ricava l’ Hashish, più potente, mentre dalle infiorescenze femminili si ottiene la Marijuana. Vengono più spesso fumate con completa combustione oppure riscaldate e vaporizzate, anche attraverso sigarette elettroniche, ed assorbite per via respiratoria ma possono anche essere assunte per ingestione con effetto più lento ma di maggior durata. Gli effetti dei fitocannabinoidi sono mediati da due diversi recettori: CB1 e CB2. Il THC, principale componente psicoattivo della cannabis,  è parziale agonista di entrambi [24]. Il rene presenta recettori CB1 e CB2 i cui effetti fisiologici sono poco conosciuti; CB1 è stato identificato nell’ uomo nelle cellule dei tubuli convoluto prossimale, distale e collettori mentre CB2 è stato identificato in coltura sulle cellule mesangiali, tubulari prossimali ed in alcuni casi sui podociti in coltura [25]. I cannabinoidi avrebbero inoltre un effetto vasodilatatore sulla vascolatura renale non mediato da un meccanismo recettoriale.

Da oltre 10 anni in Italia i medici possono prescrivere preparazioni magistrali contenenti sostanze attive vegetali a base di cannabis per uso medico da prepararsi in strutture preposte; dal 2007 è possibile l’importazione di diversi farmaci registrati altrove contenenti fitocannabinoidi. Dal 2014 lo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze produce una canapa indicata come FM2.   Non esistendo indicazioni autorizzate la prescrizione avviene sotto responsabilità del medico che deve raccogliere il consenso informato e indicare sulla ricetta le esigenze particolari che ne giustificano l’utilizzo. Come previsto dal Decreto Ministeriale del 9 novembre 2015 , la prescrizione di cannabis “a uso medico” in Italia è limitata al suo impegno nel dolore cronico principalmente neurogeno e quello associato a sclerosi multipla oltre che a lesioni del midollo spinale; alla nausea e vomito causati da chemioterapia, radioterapia, terapie per HIV; come stimolante dell’appetito nella cachessia, anoressia, perdita dell’appetito in pazienti oncologici o affetti da AIDS e nell’anoressia nervosa; effetto ipotensivo nel glaucoma resistente alle terapie abituali; riduzione dei movimenti involontari del corpo e facciali nella sindrome di Gilles de la Tourette [26].  Ne è stato anche preconizzato l’ utilizzo per trattare alcuni sintomi presenti nella insufficienza renale cronica terminale e per ridurre l’ utilizzo di oppioidi in questo quadro [27]. Quanto alla possibile patologia renale acuta o cronica nei consumatori abituali i dati sono al momento attuale non indicativi [28] se si escludono le forme in genere pre-renali secondarie alla peraltro rara “Cannabinoid Hyperemesis Syndrome” [29]. Perfino nel problematico campo del trapianto di rene né l’uso nel ricevente [30] né nel donatore vivente [31] pare avere effetti sulla sopravvivenza del paziente, del donatore o del rene trapiantato.

 

ALLUCINOGENI: LSD E PSILOBICINA:

Se la Dietilamide del Acido Lisergico  (LSD), potente serotoninergico, è attualmente studiata per le sue potenzialità di utilizzo come farmaco psichiatrico [32] tuttavia l’interesse nefrologico appare  trascurabile salvo una segnalazione di rabdomiolisi associata più al uso della camicia di forza come contenimento di uno stato di agitazione dissociativa che alla sostanza  in sé [33].

Più interessanti per il nefrologo appaiono i funghi del genere Psilocybes (Magic Mushrooms) di cui i più noti interessano le americhe essendo famoso lo Psilocybes Cubensis  un fungo sudamericano già conosciuto dagli Aztechi. Sono segnalati infatti casi di rabdomiolisi associata con l’assunzione [34, 35]. Bisogna sapere che in Italia esiste una varietà della specie, spontanea (Psilocybe Semilanceata ) o funghetto comune che ha le stesse proprietà.  Altri prodotti d’ abuso sono i solventi che, sniffati in colle, vernici etc. danno sintomi simili alla intossicazione alcoolica con anche brevi fenomeni allucinatorii. In particolare il Toluene è stato associato a numerose manifestazioni renali  ( principalmente interstiziali dalla Sindrome di Fanconi alla acidosi tubulare distale ma anche forme glomerulari proteinuriche e fino alla sindrome di Goodpasture) [36].

 

ANFETAMINE E ECSTASY:

L’anfetamina (MDA: 3,4 Metilen Dioxy Anfetamina) è un farmaco con proprietà anoressizzanti e psicostimolanti. Agonista indiretto del sistema catecolaminergico, agisce soprattutto a livello centrale inibendo la ricaptazione di noradrenalina e dopamina dalla fessura sinaptica. La sua azione si traduce quindi in una maggiore permanenza di neurotrasmettitore a livello sinaptico.

Molto simile (differisce dalla MDA soltanto per la presenza di un metile sul gruppo amminico) la MDMA  (3,4-metilenediossimetamfetamina),  più comunemente nota come Ecstasy è una metanfetamina dagli spiccati effetti eccitanti ed entactogeni (aumenta la socialità e la emotività), anche se non propriamente allucinogeni [37].

Sono farmaci di sintesi, assunti per via orale, spesso in “rave party” con balli di gruppo protratti; l’iperattività fisica in ambienti caldi può condurre ad ipertermia. Inoltre nell’animale da esperimento l’MDMA può dare febbre. Effetti indesiderati lievi sono anoressia, nausea, vomito, cefalea, trisma, e crampi. Più severi convulsioni, iperpiressia, disfunzione epatica, rabdomiolisi, coagulazione intravascolare disseminata ed IRA.

 

NUOVE DROGHE SINTETICHE: CATINONI E CANNABINOIDI:  

Il qat (Catha edulis), è una  pianta originaria dell’Etiopia diffusa nella penisola Arabica. La sua coltivazione e l’ uso sono molto presenti in Yemen.

Le foglie contengono un alcaloide (Catinone) dall’azione stimolante, che causa stati di eccitazione e di euforia, e provoca dipendenza. La sostanza, simil-anfetaminica, ha spiccato effetto psicotropo, euforizzante e spegne fame e fatica; ha anche un importante effetto analgesico.

I Catinoni sintetici [38] sono sostanze prodotte chimicamente che riproducono questi effetti; ne esistono un numero molto grande (Methcatinone, Methedrone, Methylone etc.) ed anzi per essere più chiari ne vengono sintetizzati continuamente di nuovi. Non sono conosciuti e quindi non sono formalmente illegali; vengono commercializzati per uso animale e comunque non umano, prodotti il più spesso in Asia e facilmente reperibili in Internet  indicati con nomi di fantasia o con nomi generici (Salt Baths). Il fatto di essere sostanze sempre nuove e diverse fa si che non siano comunemente dosate nei liquidi biologici.

La tossicità è per alcuni versi simile a quella delle anfetamine (tachicardia, ipertensione, agitazione psicomotoria, aggressività etc.) mentre a livello renale si possono avere incrementi della creatininemia con quadri di insufficienza renale acuta, iposodiemia, iperpotassiemia, iperuricemia; si può avere un danno muscoloscheletrico fino alla rabdomiolisi.

Allo stesso modo i cannabinoidi sintetici [39] sono anche essi prodotti chimicamente ed interagiscono con i recettori dei cannabinoidi con potenza simile o anche  di molto superiore al prodotto naturale ed hanno strutture diverse tali da non essere rilevati dagli abituali dosaggi. Sono indicati con nomi generici (legal Highs; Erbal Highgs; spices), talora con sigle (K2, K3) o nomi di fantasia e possono essere facilmente ottenuti in Internet, indicati il più spesso come misture di vegetali cui sono stati addizionati “non per uso umano” , che possono essere fumati ma anche come compresse, capsule o polveri ingeribili oppure liquidi da utilizzare nelle “sigarette elettroniche”  [40]. Se ne conoscono oltre 200 e se ne sintetizzano continuamente di nuovi; la loro diffusione è stata ampia soprattutto tra i giovani. Gli effetti sono spesso “individuali” dipendendo da dosi e vie di somministrazione. Comprendono sedazione, atassia, midriasi, tachicardia, euforia, agitazione psicomotoria ma anche allucinazioni, deliri, convulsioni, rabdomiolisi, depressione respiratoria, insufficienza renale acuta [41]. Ancora una volta i comuni esami tossicologici (compreso il dosaggio del THC) risultano negativi.

 

LA KETAMINA:

La Ketamina è un anestetico dissociativo che induce depressione del sistema talamo-corticale e attivazione del sistema limbico; la sua indicazione è principalmente per piccoli interventi  in cui induce una ridotta inibizione respiratoria con anche il mantenimento di riflessi protettivi delle vie aeree (specie uso pediatrico e veterinario).  L’uso è limitato dalla induzione nella fase di risveglio di uno stato sognante vivace (piacevole o spiacevole) fino a veri e propri stati allucinatorii. Ha effetti antidepressivi e sono in corso sperimentazioni per l’utilizzo in psichiatria e del tutto recentemente un suo enantiomero è stato infine approvato dalla FDA per l’ utilizzo nelle depressioni resistenti alle usuali terapie [42].

Con dosi inferiori a quelle per uso anestetico somministrate per via endovenosa, intramuscolare, attraverso la mucosa nasale o aggiunte al fumo può essere utilizzata come droga d’abuso per esaltare l’esperienza sessuale in rave parties e per ottenere effetti di estraniazione (K-hole) con sensazione di “uscita dal corpo” [43]. Gli effetti acuti della Ketamina includono tachicardia, ipertensione, aumento  della frequenza o depressione respiratoria, aumento delle secrezioni bronchiali, nausea e vomito. Può associarsi a rabdomiolisi inducendo ipertono muscolare e agitazione psicomotoria [44].  Nell’uso cronico presenta in particolare una tossicità gastroenterica probabilmente diretta  che si esprime con dolore epigastrico, dilatazione delle vie biliari e colestasi. Per il Nefrologo sono però soprattutto interessanti  i danni a carico del tratto urinario causati dal abuso cronico. Il primo report di una sindrome urologica risale al 2007 [45]; da allora numerosi sono i report in letteratura. I sintomi riportati comprendono disuria, pollchiuria, urgenza, incontinenza e macroematuria. La vescica è l’ organo più spesso coinvolto e la cistoscopia può evidenziare eritema, edema ed ulcerazioni mentre le biopsie possono mostrare infiltrati eosinofili ed infiltrazione di mastcellen. La radiologia può dimostrare una vescica di volume ridotto con parete ispessita con l’ infiammazione che si estende a livello perivescicale.A livello renale vi può essere evidenza di idronefrosi e insufficienza renale. Anche in questo caso prevale l’ ipotesi di una tossicità diretta del farmaco e/o dei metaboliti. Il tempo necessario sarebbe di 1-4 anni.

 

Tornando al caso clinico

Nel tentativo di chiarire il più possibile il quadro del nostro paziente abbiamo esteso i dosaggi alle droghe non comunemente ricercate.

Abbiamo inviato pertanto un campione urinario raccolto al inizio della nostra storia ad un laboratorio specializzato per la ricerca di Catinoni Sintetici; questa risultava negativa; il laboratorio però precisava nel suo referto che le analisi eseguite non potevano essere considerate esaustive per tutti i catinoni continuamente immessi sul mercato clandestino. Inoltre segnalava che nel contesto delle analisi eseguite era emersa invece la presenza di Ketamina e del suo metabolita Norketamina.

 

Conclusioni

Il caso presentato era paradigmatico di come sia mutato il quadro del abuso di sostanze a scopo voluttuario negli ultimi 20 anni; non più solo le sostanze note ben classificate e sottoposte a controlli che possiamo dosare facilmente nei nostri presidi  ma una pletora di nuove sostanze che sfuggono ai controlli e che non risultano nemmeno formalmente illegali. Il problema che ne scaturisce è enorme in quanto si continuano a dosare le quattro “vecchie sorelle”  ovvero Marijuana, Cocaina, Eroina e Anfetamine mancando così di poter rivelare le droghe di abuso più diffuse attualmente.

Se pensiamo soltanto  ai test di controllo obbligatori per molte professioni ci rendiamo conto di quanto sia pericolosa questa condizione di “invisibilità” delle droghe sintetiche. Oltretutto le droghe sintetiche possono rappresentare porte di ingresso a sindromi psichiatriche severe.

Naturalmente gli “abuser” sono il più delle volte consumatori di molteplici sostanze ed anche per questo in presenza di patologie suggestive non ci si deve fermare alle sostanze più “classiche”.

Dal punto di vista più strettamente nefrologico l’ invito deve essere a intensificare il più possibile le ricerche nei casi sospetti di nefrotossicità da sostanze d’abuso in quanto questi pazienti spesso sono esposti a sostanze diverse e molteplici sono i danni possibili correlati ad esse.

 

Aspetti di danno tubulare correlati con mioglobinuria
Figura 2: Aspetti di danno tubulare correlati con mioglobinuria. 1) cilindro ialino endotubulare con detriti cellulari ed assottigliamento di parete in presenza di aspetti infiammatori acuti tubulari e peritubulari. EE 20X. 2) infiltrato linfo-monocitario e granulocitario anche eosinofilo peritubulare con aggressione della parete del tubulo. PAS 40X. 3) cilindri granulari eosinofili (mioglobina) EE 40X. 4) danno tubulare con aree di rarefazione ed assottigliamento epiteliale ed altre di rigenerazione. PAS 40X

 

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