The Treatment of Acute Antibody-Mediated Rejection: Current State and Future Perspectives

Abstract

Despite the advances in the immunosuppressive therapies and improvements in short term allograft survival, Antibody-mediated rejection (AMR) still represents the leading cause of late allograft failure in kidney transplant recipients.
We present an insidious case of late active AMR that evolved into a severe chronic active antibody-mediated rejection, that we treated with a multidrug approach. Then, we review the current literature on the pathogenesis, diagnosis and treatment of AMR.
Antibody-mediated rejection (AMR) typically occurs when anti-HLA donor-specific antibodies (DSA) bind to vascular endothelial cells of the kidney graft. DSAs may preexist to transplantation (preformed DSA) or develop after transplantation (de novo DSA). Pathogenetic mechanisms of AMR involve complement-dependent, and -independent inflammatory pathways that are variably activated depending on antigen and antibody characteristics, or on whether rejection develops early (0-6 months) or late (beyond 6 months) post-transplantation. The Banff classification system categorizes AMR rejection into active antibody-mediated rejection, chronic active antibody-mediated rejection, and chronic (inactive) antibody-mediated rejection.
Currently, there are no approved therapies, treatment guidelines being based on low-quality evidence. Therefore, standard of care therapy is consensus-based. In early rejection, it is usually based on plasma exchange, intravenous immune globulin, anti-CD20 antibodies, while complement-inhibitor eculizumab is used in severe and/or refractory cases, treatments with. Recent evidence suggests that late AMR may be effectively treated with anti-CD38 therapy, which targets long lived plasma cells and NK cells.

Keywords: Kidney transplantation, Graft rejection, Graft rejection diagnosis, Graft rejection standard of care therapy, emerging drugs

 

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Caso clinico

Uomo di 44 anni sottoposto a trapianto di rene da donatore vivente (donatrice, la moglie) pre-emptive. La nefropatia di base era rene policistico autosomico dominante dell’adulto (ADPKD). Non aveva fattori di rischio immunologici, con un calculated Panel Reactive Antibody (cPRA) pre-trapianto pari a 0%, salvo 6 mismatch A/B/DR/DQ. Dopo aver ricevuto terapia di induzione con basiliximab e di mantenimento con tacrolimus, micofenolato mofetile (scarsamente tollerato) e metilprednisolone è stato dimesso in nona giornata post-trapianto con una creatinina alla dimissione pari a 1.3 mg/dl.

Undici mesi dopo il trapianto, dopo varie sospensioni del micofenolato mofetil legate ad intolleranza, e tentativi infruttuosi a causa di intolleranza di sostituzione con azatioprina ed everolimus, per cui il paziente è a lungo rimasto in terapia con solo tacrolimus e metilprednisolone a basse dosi, si è osservato un peggioramento della funzione renale (creatinina 2,2 mg/dl versus 1,3 mg/dl) associato al riscontro di DSA (anti-DQ7 e anti-DQA1, con Mean Fluorescence Intensity [MFI] ≈ 12000). Una prima biopsia evidenzia rigetto anticorpale acuto secondo Banff (t1 i0 iIFTA0 tIFTA0 ti2 v0 ptc3 C4d0 g3 ct0 ci0 cv1 ah0 cg0 mm0) associato a severa infiammazione microvascolare. Abbiamo pertanto trattato il paziente con tre boli di metilprednisolone endovenosi (ev) da 500 mg, sette sessioni di plasmaferesi, immunoglobuline ev ad alte dosi (2 g/kg) e l’anti-CD20 rituximab (375 mg/m2). Al termine del trattamento la creatinina ha cessato di aumentare, stabilizzandosi attorno a 2,0 mg/dl.

Diciassette mesi dopo (28 mesi post trapianto), la creatininemia ha mostrato un nuovo rialzo (2,7 mg/dl), quando la terapia immunosoppressiva di mantenimento era basata su steroide, tacrolimus ed everolimus. È stata ripetuta la biopsia del graft, che ha mostrato un quadro di rigetto anticorpale acuto cronico attivo (chronic aAMR) (t0 i0 i-IFTA1 ti1 v0 ptc 3 C4d0 g3 ct1 ci1 ah2 cg3 mm 0 secondo Banff). Pertanto, abbiamo intrapreso trattamento con tocilizumab (8 mg/kg ev per otto settimane, seguito da otto somministrazioni ogni due settimane e a seguire mensilmente).  A questo è seguita la stabilizzazione della funzione renale, pur in assenza di riduzione dei DSA. Diciotto mesi dopo (a quasi quattro anni di distanza dal trapianto) si è osservato un ulteriore rialzo della creatinina (3.6 mg/dl). Una terza biopsia ha confermato la diagnosi di rigetto anticorpale acuto cronico attivo (t0 i0 i-IFTA1 ti1 v0 ptc 3 C4d0 g3 ct1 ci1 cv1 ah2 cg3 mm0) in presenza di rialzo dei DSA (MFI DQ7, DQA1 ≈ 20000). Abbiamo sospeso allora il tocilizumab e avviato trattamento con daratunumab (16 mg/kg ev mensile) reintroducendo basse dosi di micofenolato al posto dell’everolimus. A ciò segue una immediata riduzione della creatinina, stabilizzata attorno a 2,5-2,6 mg/dl a cinque mesi dall’inizio del trattamento, in assenza però di una sensibile riduzione del livello degli anticorpi anti DSA.

Il rigetto anticorpo-mediato (AMR) si manifesta generalmente quando anticorpi circolanti anti-HLA donatore specifici (DSA) nel sangue del ricevente si legano ad antigeni del donatore presenti sulle cellule dell’endotelio vascolare del graft [1]. Nel caso dei trapianti AB0-incompatibili i DSA sono primariamente rappresentati dagli anticorpi anti-gruppo A/B. È controverso invece il ruolo di altri antigeni target espressi sulle cellule endoteliali (alcuni dei quali non sono alloantigeni ma autoanticorpi) come quelli contro il recettore di tipi 1 dell’angiotensina II e gli anticorpi anti-MICA (MHC class I chain-related gene A) [2]. A seconda delle caratteristiche dell’antigene e dell’anticorpo si possono attivare pattern diversi di risposta infiammatoria dipendenti o indipendenti dal complemento [3, 4]. I primi, si verificano più spesso nelle forme precoci (“early AMR”, 0-6 mesi dal trapianto), i secondi nelle forme tardive (“late AMR”, oltre sei mesi dal trapianto) [5].

Gli anticorpi anti-donatore specifici DSA possono essere presenti prima del trapianto (DSA preformati) o svilupparsi dopo il trapianto (DSA de novo).

L’AMR, nelle sue varie forme, rappresenta ancora la causa principale di perdita tardiva della funzione del graft. In circa la metà dei casi, è una forma “late” conseguenza della mancata aderenza terapeutica [6,7]. Considerando infatti il tempo intercorso tra il trapianto e l’insorgenza di rigetto gli studi dimostrano che la probabilità di sviluppare un rigetto anticorpale acuto entro il primo anno dal trapianto non supera il 10% mentre raggiunge circa il 30% negli anni successivi, avendo un andamento opposto rispetto al rigetto mediato da cellule T la cui diagnosi è rara nelle fasi tardive del trapianto e raggiunge una probabilità sino al 25% tra le sei settimane e i primi sei mesi dal trapianto [7, 8]. Inoltre, mentre il rigetto mediato da cellule T è generalmente un rigetto acuto, l’AMR, da un punto di vista epidemiologico è più frequentemente una forma “late”, che istologicamente si presenta come cronico-attivo.

Nel corso delle ultime decadi, grazie all’evoluzione della terapia immunosoppressiva (prevalentemente l’introduzione del tacrolimus e del micofenolato mofetil), l’incidenza del rigetto acuto si è ridotta molto: dall’80% degli anni ’60 sino a meno del 10% dei giorni nostri. Nel periodo 2018-2019, l’OPTN (Organ Procurement and Transplantation Network) riportava un’incidenza di solo 7% nel primo anno [8].

Le più recenti strategie terapeutiche hanno altresì migliorato la prognosi dell’early AMR, ma non avevano, fino agli anni più recenti, migliorato la prognosi di late AMR [5].

 

DSA preformati e rischio di AMR

Per i pazienti in lista di attesa di trapianto la presenza di anticorpi preformati circolanti diretti contro le molecole HLA rilevati, tramite metodica in fase solida Luminex, rappresenta il maggior biomarker disponibile per esplorare la memoria immunitaria verso alloantigeni. Non tutti gli anticorpi anti-HLA rilevati al Luminex sono considerati clinicamente rilevanti. Ad esempio, quelli non sviluppatisi a seguito di precedenti eventi sensibilizzanti, con bassi livelli di MFI (< 3000) e la cui presenza non persiste nel corso del tempo. In ogni caso, in Italia si usa un cutpoint di 3000 MFI per definire gli anticorpi anti-HLA significativi, e pertanto i loro antigeni target “proibiti” (un rene di un donatore cadavere la cui tipizzazione HLA mostra tali antigeni verrebbe definito HLA-incompatibile e pertanto non offerto al ricevente). Anche il calcolo del calculated Panel Reactive Antibody (cPRA), cioè la percentuale di donatori incompatibili, si fonda sul cutpoint di 3000 MFI. In Italia livelli elevati di cPRA associati ad una lunga permanenza in dialisi giustifica l’inscrizione a liste prioritarie di allocazione di organi. Quello che conta, per il rischio di AMR, non è però il cPRA in sé, ma invece la presenza/assenza di DSA preformati. Questo è stato ampiamente dimostrato recentemente grazie all’approfondimento patogenetico sulla memoria umorale dall’Eurotransplant Acceptable Mismatch program, dove, quando tramite studi di terzo livello si identificano i donatori verso i quali il paziente con alto cPRA non può sviluppare DSA, un c-PRA pre-trapianto elevato smette di essere un fattore di rischio di AMR [9].

Al fine di superare la mancanza di una definizione omogenea di rischio immunologico pre-trapianto nei confronti di uno specifico donatore (cadavere o vivente), il gruppo europeo ENGAGE ha proposto una categorizzazione del rischio di AMR post trapianto basato sull’integrazione della storia “immunologica” pregressa (intesa come pregressi trapianti e/o trasfusioni e/o gravidanza) con il test Luminex, e i crossmatch, che si fondano sull’uso dei linfociti del donatore [10]. In questa classificazione si definisce un rischio proibitivo e non percorribile per pazienti con DSA e crossmatch in citotossicità complemento mediata (CDC-XM) positivo, rischio intermedio in pazienti con DSA e crossmatch in citofluorimetria (FC-XM) positivo e rischio basso in pazienti senza DSA e con solo Luminex positivo [11]. Questo è stato retrospettivamente dimostrato nei pazienti sottoposti a desensibilizzazione presso l’Istituto John Hopkins per trapianto da vivente HLA incompatibile dove è riportata una perdita del graft a 5 anni nel 20% dei pazienti che avevano solo Luminex positivo (e negatività dei crossmatch) mentre si raggiungeva una perdita del graft di oltre il 40% in quelli che avevano CDC-XM positivo. Quest’ultimo gruppo di pazienti presentava anche una mortalità a 5 anni pari al 20% [12].

La stratificazione del rischio umorale del gruppo ENGAGE è stata raccomandata nelle recenti linee guida della Società Europea Trapianti di Organo ESOT [11].

Uno strumento aggiuntivo di stratificazione del rischio immunologico è il test Luminex che valuta la capacità dei DSA di legare il complemento (C1q o C3d) la cui positività è predittiva di un CDC-XM positivo e di un rischio di early AMR severo [13, 14].

 

La classificazione di Banff

Il gold standard per diagnosticare il rigetto acuto nel trapianto di rene è la biopsia renale la cui istologia viene interpretata usando la classificazione di Banff, entrato progressivamente in uso a partire dall’inizio degli anni ’90, e sottoposto a continui aggiornamenti nell’arco dei suoi 30 anni di storia [15].

La classificazione di Banff riconosce tre categorie principali di rigetto sulla base del meccanismo patogenetico: rigetto anticorpo-mediato, rigetto cellulo-mediato e lesioni borderline per rigetto cellulo-mediato.

Le varie forme sono distinte sulla base della presenza di lesioni istologiche elementari a cui il Banff attribuisce uno score semiquantitativo con l’obiettivo di aumentarne la riproducibilità inter-osservatore.

Se nel corso delle ultime revisioni i criteri diagnostici del rigetto cellulo-mediato hanno subito minime modifiche, per quanto riguarda il rigetto anticorpo-mediato le revisioni dei criteri sono state numerose e particolarmente significative e questo è stato principalmente dovuto alla maggior conoscenza della sua patogenesi e all’introduzione dei test di diagnostica molecolare [16].

Ad oggi i tre criteri per la diagnosi rigetto anticorpale acuto (secondo la classificazione BANFF del 2017) sono:

  1. evidenza istologica di un danno tissutale con uno o più delle seguenti caratteristiche:
    • infiammazione microvascolare (g>0 e/o ptc>0) in assenza di una glomerulonefrite ricorrente o de novo;
    • arterite intimale o transmurale (v>0);
    • microangiopatia trombotica non correlata ad altre cause;
    • danno tubulare acuto non correlato ad altre cause;
  2. evidenza di una corrente o pregressa interazione tra gli anticorpi con l’endotelio vascolare (deposito lineare del C4d sui capillari peritubulari) o presenza di una moderata infiammazione microvascolare (MIV, g+ptc > o uguale a 2) o l’aumentata espressione dei trascritti genici nella biopsia fortemente associati con la diagnosi di AMR;
  3. evidenza sierologica di presenza di anticorpi anti DSA o presenza di C4d staining o l’evidenza di validati trascritti genici per AMR.

Il rigetto anticorpale AMR cronico attivo è il risultato del danno anticorpale cronico e si diagnostica con gli stessi criteri dell’aAMR con associati segni di danno endoteliale cronico rappresentato dalla presenza di una membrana dei capillari peritubulari multistrato (cg) e la presenza di un ispessimento intimale arteriolare (cv) [17].

 

Cenni patogenetici del rigetto anticorpo-mediato

La patogenesi del AMR è il risultato del danno che si manifesta sull’endotelio microvascolare dovuto ai DSA e i meccanismi effettori del danno coinvolti nei casi precoci di rigetto possono essere diversi rispetto a quelli responsabili dei casi tardivi e/o cronici.

I principali determinanti antigenici del rigetto anticorpale sono le molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), che nell’uomo codificano le molecole HLA. Gli antigeni HLA possono essere distinti in due differenti classi: HLA di classe I (locus A, B e C), presenti su tutte le cellule nucleate, e HLA di classe II (locus DQ, DR e DP) espresse solo sulle cellule presentanti l’antigene (APC: cellule dendritiche (DC), macrofagi e cellule B). L’espressione di HLA di classe II può essere comunque indotta anche sulle cellule epiteliali ed endoteliali vascolari sotto l’azione di fattori pro-infiammatori [18].

Il rigetto iperacuto anticorpo-mediato è la reazione dovuta agli anticorpi anti DSA preformati considerati oggi proibitivi in quanto capaci di attivare in maniera massiva la cascata complementare (causando CDC-XM positivo). Diversi anni fa, quando non erano disponibili le tecniche di crossmatch questo tipo di rigetto si manifestava quasi immediatamente dopo la riperfusione del graft: l’attivazione massiva del complemento da parte degli anticorpi anti HLA causava immediata necrosi, emorragia e trombosi del graft, che richiedeva l’espianto immediato [19].

Quando i livelli di anticorpi anti-HLA non sono tali da produrre un’attivazione massiva del complemento si verificano gli eventi che conducono all’AMR classico nelle sue varie forme: nelle forme “early” acute con l’adesione dei leucociti neutrofili sui glomeruli responsabili della glomerulite, la marginazione dei neutrofili sui capillari peritubulari dilatatati, con/senza trombosi dei capillari peritubulari e l’ attivazione del complemento [19]. La frazione del complemento C4d, che non è attiva, ma è in grado di legare covalentemente l’endotelio dei capillari peritubulari, rappresenta un biomarker specifico di interazione DSA-endotelio.

Nelle forme meno acute, il microcircolo è invaso da monociti più che da neutrofili, le trombosi dei capillari glomerulari sono rare, e le cellule NK assumono un ruolo patogenetico fondamentale [20, 21].

Grazie allo sviluppo negli ultimi 10 anni delle tecniche di microarray e l’analisi dei geni coinvolti nel rigetto si è scoperto che una considerevole proporzione di rigetti AMR sono C4d negativi e anti HLA-DSA negativi aprendo il varco verso la conoscenza di meccanismi effettori di danno non mediati dal complemento [22–24]. Tra questi un ruolo patogenetico più importante negli anni è stato dato alle cellule Natural Killer (NK). Le cellule NK normalmente rappresentano circa il 5-10% dei linfociti circolanti e mediano le risposte immunitarie contro le cellule tumorali o le cellule infette. La loro attività citolitica si esplica con lisi diretta o con citotossicità cellulare anticorpo-dipendente (ADCC) attraverso il rilascio di citochine infiammatorie e chimiche come il granzima e la perforina [25]. Nella patogenesi del rigetto anticorpale è stato proposto un modello secondo cui il legame anticorpale DSA-endotelio vascolare rappresenterebbe un trigger per il reclutamento delle cellule NK. Le cellule NK hanno l’esclusiva capacità, attraverso l’interazione del recettore FcγRIII (CD16+) presente sulle cellule NK e gli anticorpi, di promuovere la citotossicità cellulare anticorpo dipendente (ADCC). Le stesse cellule NK possono aumentare la produzione di molecole HLA sulle cellule endoteliali attraverso il rilascio di citochine come IFN-γ e TNF-α che aggrava il danno immuno-mediato attraverso un aumento del numero di antigeni target per gli stessi anticorpi [26, 27].

Recenti modelli sperimentali di analisi delle biopsie hanno dimostrato l’importante ruolo delle cellule NK nel rigetto cronico anticorpo-mediato. Usando infatti dati di microarray sono stati individuati circa 503 geni alterati con una quota significativa per quelli del pathway NK correlato sottolineando il ruolo patogenetico di queste cellule in questo tipo di rigetto [28].

Le cellule NK esprimono una ampia varietà di recettori inibitori e attivatori e tra questi di particolare rilievo sono i KIRs (killer cell immunoglobulin-like receptors). Questi possono modificare le attività delle cellule NK controllando che rimangano inattive o, al contrario, diventino cellule effettrici che provocano citotossicità e citolisi della cellula bersaglio. Alcuni studi, comunque allo stato attuale non confermati, hanno dimostrato che il mismatch tra KIRs e il loro natural ligando HLA di classe I (“missing self”) esercita una forte influenza sull’outcome del trapianto indipendentemente dalla presenza o assenza di DSA [25].

Sempre più evidenze suggeriscono l’importanza delle cellule B non solo nella patogenesi del rigetto anticorpale acuto, ma anche nel rigetto mediato da cellule T, e ancor di più, nel late AMR. Le cellule B non solo agiscono da effettori ma possono modulare o regolare negativamente la risposta immune. La comprensione del delicato e complesso processo immunologico che porta alla produzione anticorpale nei pazienti sensibilizzati così come in quelli naïve è di fondamentale importanza per capire la varietà di presentazione dei quadri di rigetto AMR e le possibili opzioni terapeutiche [1].

In assenza dell’interazione con le cellule T follicular helper (Tfh) all’interno dei centri germinativi, le cellule B si differenziano in plasmablasti di breve durata capaci di produrre anticorpi di bassa affinità. Al contrario, l’interazione con le cellule Tfh nei centri germinativi produce la memoria immunitaria anticorpo-mediata che è alla base della sensibilizzazione dei candidati al trapianto e contribuisce al late AMR. Le cellule B attivate nel centro si trasformano in cellule B di memoria, plasmacellule che migrano in particolari nicchie favorevoli nel midollo osseo dove sono in grado di sopravvivere per decenni producendo anticorpi anti-HLA ad alta affinità. Queste ultime, identificate dalla positività al CD 138, sono considerate le cellule cardine della memoria anticorpo-mediata [29]. Varie interazioni all’interno delle nicchie del midollo osseo determinano la loro lungo-sopravvivenza, quali varie integrine, le cellule stromali e mesenchimali, l’IL-6 e il CXCl-12 [30].

 

Trattamento standard del rigetto acuto anticorpale precoce o tardivo

Standard of care dell’early AMR

Il trattamento ottimale del rigetto anticorpale acuto ad oggi è ancora non ben definito in quanto basato solo su ampie case series e su un numero molto limitato di trials randomizzati. A ciò si aggiunge l’evoluzione continua dei criteri diagnostici, l’incompleta comprensione dei meccanismi patogenetici, la mancata distinzione nelle casistiche pubblicate tra rigetti precoci o tardivi e presenza di anticorpi anti DSA preformati o de novo post trapianto, tutti fattori che possono avere un impatto significativo sulla prognosi [8]. Il trattamento standard del rigetto anticorpale acuto si basa su un approccio multifarmacologico che ha l’immediato obiettivo di rimuovere prontamente gli anticorpi presenti nel siero dei riceventi di trapianto di rene, impedirne il rebound e favorire l’immunomodulazione della risposta immune e in particolare della risposta B-cellulare [31]. Così come suggerito dal gruppo di lavoro di esperti della società trapiantologica nel 2019 l’approccio terapeutico andrà differenziato sulla base dei seguenti elementi: tempo di insorgenza dal trapianto (rigetto precoce e tardivo), presenza di DSA preesistenti o de novo e caratteristiche istologiche al momento della diagnosi (AMR cronico o attivo) [1].

Il trattamento dell’AMR attivo raccomandato dalle linee guida KDIGO del 2009 e confermato nel 2019 nel Transplantation Society Working Group Expert Consensus prevede l’avvio di un ciclo di plasmaferesi (PEX) (giornaliere o a giorni alterni per un totale di 6) e la somministrazione di immunoglobuline ev (IVIG) alla dose di 100 mg/kg dopo ogni PEX o ad alte dosi (2 g/kg) alla fine del ciclo di PEX [1, 32].

Tale approccio deriva dal protocollo del Cedars-Sinai Medical Center pubblicato da Jordan nel 2010 che prevedeva l’immediata rimozione degli anticorpi tramite cinque sedute di plasmaferesi eseguite a giorni alterni con rimpiazzo del volume plasmatico in parte con plasma fresco e in parte con albumina. Terminato il ciclo di plasmaferesi seguiva la somministrazione di IVIG ad alte dosi (2 g/kg per una massima dose di 140 g) e a seguire una singola somministrazione di Rituximab, anticorpo monoclonale anti-CD 20 [33].

Le IVIG sono riconosciute come importanti regolatrici dell’infiammazione e dell’immunità. I meccanismi di azione non sono ben definiti ma è dimostrata sperimentalmente la loro capacità di inibire le risposte B-cellulari attraverso la loro porzione Fc che lega il frammento Fc del recettore IgG2b sulle cellule B, di causare apoptosi attraverso il loro legame con il CD22 sulle cellule B mature e di inibire l’attivazione del complemento attraverso l’eliminazione diretta e potente delle anafilatossine (es. C3b) [34].

Il rituximab (RTX) è un anticorpo monoclonale anti CD-20; questo antigene è espresso sulle cellule B ma non sulle plasmacellule mature. La regione variabile del RTX legandosi al CD 20 porta alla morte cellulare attraverso tre meccanismi diversi: ADCC, citotossicità complemento-mediata CDC e attraverso l’apoptosi cellulo-mediata. Il RTX causa una sostenuta deplezione delle cellule B circolanti per un periodo compreso tra i sei e dodici mesi ed è in grado di ridurre in parte la popolazione B cellulare nella milza e nei linfonodi. Il farmaco fu inizialmente usato nel trattamento dei rigetti refrattari basandosi sulla dimostrazione della presenza di infiltrati di cellule B intrarenali considerati a lungo un fattore di rischio per la steroido-resistenza e quindi associati a peggior prognosi. Le cellule B infatti non solo agiscono come precursori di plasmacellule producenti anticorpi ma anche come cellule presentanti l’antigene che producono segnali costimolatori per le cellule T esitando anche nella produzione di citochine infiammatorie direttamente responsabili di danno cellulare [35]. Pertanto, il RTX non solo permette di attenuare la risposta immune anticorpo-mediata (sebbene non agisca sulle plasmacellule di lunga durata) ma anche indirettamente sopprimere la risposta immunitaria mediata dalle cellule T [36].

Nonostante il suo frequente impiego nei centri trapianto nel trattamento del rigetto AMR, ci sono limitate evidenze scientifiche a supporto della sua efficacia. Da una recente review sistematica della letteratura che ha incluso 9 studi sull’AMR e 7 sul cAMR è emerso che il RTX può avere qualche beneficio sulle forme acute pur mancando tuttavia di dati di alta qualità ma, al contrario, non ha alcun effetto beneficio sull’outcome nel rigetto AMR cronico attivo [36].

Gli stessi dati sono stati confermati nella recente metanalisi di Wan et al su studi controllati che esplorano il trattamento dell’AMR dove è emerso che lo standard of care nel trattamento è rappresentato da PEX + IVIG seppur con deboli evidenze scientifiche e che l’uso del RTX non si associa ad una differenza significativa sulla sopravvivenza del graft a breve termine [37].

Pertanto, nella raccomandazione delle società trapiantologiche e nelle più recenti revisioni della letteratura pubblicate lo standard of care nell’AMR precoce o tardivo in presenza di anticorpi anti DSA preesistenti al trapianto così come nel caso di AMR tardivo con DSA de novo è rappresentato da PEX + IVIG associato in tutti i casi ad ottimizzazione della terapia immunosoppressiva standard e a trattamento specifico di un eventuale contestuale forma di rigetto cellulo-mediato. Il RTX è considerato un trattamento aggiuntivo da valutare caso per caso [1, 38].

Inibitori del complemento

L’attivazione della via classica del complemento rappresenta uno dei meccanismi effettori principali nell’AMR e negli anni molto interesse ha rivestito l’inibizione del complemento come target terapeutico. I target terapeutici oggetto di studio sono la frazione complementare C5, il C3 e il C1q. L’eculizumab è un anticorpo monoclonale anti-C5 che blocca la cascata complementare terminale. È stato impiegato in modo promettente in alcuni trial randomizzati nella prevenzione del AMR in trapianti da cadavere e da vivente in pazienti con crossmatch positivo con risultati promettenti sulla sopravvivenza del graft a breve termine sebbene ad oggi non ci siano risultati altresì positivi su dati a lungo termine (incidenza di cAMR e perdita del graft) [39, 40]. In numerosi report, è stato descritto il suo uso nel trattamento del rigetto AMR precoce e refrattario [41]. Nell’unico studio randomizzato e controllato disponibile che valuta l’efficacia del farmaco somministrato per una durata di sei mesi non sono emerse differenze significative e nessun beneficio a lungo termine sulla funzione del graft [42]. Tuttavia, l’eculizumab era stato usato in circa la metà dei soggetti randomizzati al gruppo di controllo e, comunque, numericamente la sopravvivenza del graft era di 20% superiore nel gruppo che era stato randomizzato ad eculizumab.

Altri inibitori del complemento sono stati testati in studi pilota: il C1 esterasi inibitore (Cinryze) e il C1 inibitore con risultati non conclusivi [43, 44].

Un trial clinico di fase III che esplorava l’uso del C1 inibitore nel trattamento dell’AMR è stato prematuramente interrotto per inefficacia (NCT02547220), ma uno studio di fase II che prevede l’uso di un anticorpo monoclonale anti-C1s è in corso (NCT05156710). Altre promettenti molecole in studio sono il C3 inibitore (CP40 appartenente alla famiglia della COMPSTATINA) e gli inibitori del fattore B e del fattore D [45].

Imlifidase

L’Imlifidase (Hansa Biopharma AB) è un enzima che degrada le IgG derivato dallo Streptococco Pyogenes (IdeS). Si tratta di un’endopeptidasi capace di rompere i ponti di solfuro tra la frazione Fab e il frammento Fc inibendo la citotossicità complemento mediata e la citotossicità dipendente da anticorpo [46].

Si tratta del primo farmaco approvato dall’FDA senza uno studio randomizzato per la desensibilizzazione pre-trapianto in pazienti iperimmuni in quanto conduce con la scomparsa degli anticorpi anti DSA preesistenti alla negativizzazione nell’arco di poche ore dalla somministrazione (6-8 h) del crossmatch permettendo il trapianto. Tuttavia, dopo 7-10 giorni dalla sua somministrazione si verifica un rebound anticorpale e si sviluppano anticorpi anti IdeS che impediscono il riutilizzo del farmaco.

In questo scenario appare plausibile che, nell’ambito del rigetto AMR, potrebbe essere esplorata la possibilità di utilizzo del farmaco in aggiunta ad altre terapie per ridurre i DSA a lungo termine rispettando tuttavia specifici intervalli di somministrazione che tengano conto della capacità del farmaco di rompere tutte le IgG e quindi della possibilità di annullare l’effetto di altri farmaci comunemente impiegati nel trattamento (es RTX, eculizumab, IVIG) [47].

Bortezomib

Il Bortezomib, un inibitore del proteosoma usato nel trattamento del mieloma multiplo è stato impiegato nel trattamento dell’AMR attivo per la sua capacità di indurre apoptosi delle plasmacellule. Tuttavia, nell’unico trial disponibile (BORTEJECT Trial) pubblicato, il suo impiego non si è associato ad alcun miglioramento della funzione renale, della sopravvivenza del graft e dei livelli di DSA, ma si associava a significativi effetti collaterali gastrointestinali ed ematologici [48].

Ciclofosfamide

La ciclofosfamide è comunemente impiegata nel trattamento delle malattie autoimmuni (e.g. vasculiti, lupus). Il suo possibile impiego nel trattamento dell’AMR è stato valutato su 13 pazienti con diagnosi di rigetto AMR sottoposti a trattamento con PEX + IVIG e 6 somministrazioni ev di ciclofosfamide (15 mg/kg) ad intervalli di 3 settimane. Alla fine del trattamento la sopravvivenza del graft era del 77% e la funzione renale del graft era significativamente migliorata, inoltre, il trattamento era stato relativamente sicuro [49]. Tuttavia, non essendoci ulteriori dati a supporto del suo impiego non se ne consiglia l’uso.

Trattamento del late AMR

Standard of care

Il rigetto cronico attivo è un processo patologico dovuto alla tossicità anticorpale diretta o indiretta che porta a un rimodellamento del graft e a un danno cronico dell’endotelio.

Questo tipo di rigetto poco risponde alle attuali strategie terapeutiche usate per le forme attive precoci o tardive e ad oggi rappresenta la sfida terapeutica più difficile da affrontare per i clinici che si occupano di trapianto. L’obiettivo della terapia in questo caso dovrebbe essere quello di stabilizzare o ridurre il grado di declino della funzione renale, stabilizzare il danno istologico, ridurre la proteinuria e ridurre i livelli di DSA. Tuttavia, evidenze recenti dimostrano il ruolo attivo delle cellule NK nel causare il danno, indipendentemente dalla presenza di DSA [50-52].

Lo standard of care attuale raccomandato nel Consensus è quello di ottimizzare la terapia immunosoppressiva con la reintroduzione dello steroide se il paziente segue un regime steroid-free e il controllo dei fattori di rischio [1].

L’uso di IVIG e PEX con o senza RTX non ha dimostrato alcun miglioramento dell’outcome.

Tuttavia, un approccio multifarmacologico potrebbe essere impiegato avvalendosi di nuovi ed emergenti farmaci che hanno come target alcuni elementi patogenetici. Dopo un iniziale entusiasmo sul ruolo dell’inibizione dell’IL-6, che ha un’importanza nell’attivazione delle cellule T e nella maturazione delle cellule B, ora l’attenzione si è spostata sugli anticorpi anti CD-38. 

Inibizione IL-6

L’interleuchina 6 è una citochina pleiotropica multifunzionale che riveste un ruolo fondamentale nella patogenesi del rigetto AMR. IL6 previene l’apoptosi delle cellule B attivate e promuove lo sviluppo e la maturazione delle cellule B in plasmacellule che producono anti DSA; attiva e induce la proliferazione delle cellule T e, in presenza di interleuchina 2, induce la differenziazione delle cellule T mature e immature in cellule citotossiche [53]. Inoltre, è una importante regolatrice della risposta infiammatoria acuta attivando le cellule endoteliali e promuovendo il danno vascolare [54]. Tutto questo ha reso questa citochina un target terapeutico attrattivo nell’ambito del rigetto. Esistono due farmaci attualmente testati: il tocilizumab, un anticorpo monoclonale diretto contro il recettore dell’IL6 e il clazakizumab, anticorpo monoclonale diretto controllo l’IL6.

Il tocilizumab è stato inizialmente impiegato nel trattamento dei rigetti anticorpali refrattari alla terapia standard mostrando un miglioramento dello score microvascolare alle biopsie di controllo e una significativa riduzione dei DSA con stabilizzazione della funzione del graft a tre anni [55]. Tuttavia, altri studi non hanno dimostrato tale efficacia [56].

Di recente il tocilizumab (alla dose di 8 mg/kg ev mensili, massima dose di 800 mg) è stato impiegato nel trattamento del rigetto cronico attivo anticorpo mediato. Lavacca et al hanno trattato 15 pazienti con diagnosi di cAMR e li hanno seguiti per una media di 20 mesi. Nonostante la maggior parte dei pazienti presentasse alla diagnosi una glomerulopatia cronica avanzata (cg3) eGFR e proteinuria si sono stabilizzate durante il follow-up; nelle biopsie protocollari si è osservata una riduzione del danno microvascolare e anche i livelli di DSA si sono ridotti sensibilmente [57]. Questo effetto positivo è stato descritto in numerosi case report, tuttavia, mancano ad oggi trial di impiego del farmaco nelle fasi precoci del rigetto cronico attivo.

Il clazakizumab (somministrato alla dose 12.5-25 mg sottocute mensilmente per circa 6-12 mesi) è stato oggetto di uno studio randomizzato controllato di fase 2 nel trattamento del rigetto AMR cronico attivo in pazienti che non avevano storia di diverticolite o di malattie infiammatorie intestinali [58]. Dopo un periodo di 12 settimane che ha previsto la somministrazione mensile di 25 mg sottocute del farmaco o del placebo (10 pazienti per gruppo) tutti i soggetti arruolati hanno ricevuto il farmaco per un periodo in media di 40 settimane. Nella prima fase del trial si è assistito ad una riduzione dei DSA per i pazienti trattati ma non si sono osservate nelle biopsie significativi cambiamenti; interessanti, tuttavia, sono stati i risultati dopo 51 settimane di trattamento in quanto si è assistito, oltre ad una ulteriore riduzione dei DSA, soprattutto ad una significativa riduzione dello score di rigetto e dei depositi di C4d. Il farmaco è stato ben tollerato sebbene ci siano stati due casi di diverticolite perforata nei pazienti trattati con clazakizumab [58]. Per esplorare l’efficacia del clazakizumab e consentire l’approvazione da parte dell’Food Drug Administration (FDA) dell’uso del clazakizumab nel trattamento del rigetto anticorpale cronico attivo era in corso il trial IMAGINE (Interleukin-6 Blockade Modifying Antibody-mediated Graft Injury and Estimated Glomerular Filtration Rate Decline) (NCT03744910) uno studio di fase III che usava come endpoint surrogato il declino del filtrato stimato dopo un anno di terapia [54, 59]. Questo studio è però stato interrotto precocemente per inefficacia [52].

Anti-CD38 daratumumab e felzartamab

Il Daratumumab è un anticorpo monoclonale umano IgG1k che si lega al recettore CD38 e inibisce lo sviluppo delle cellule immunitarie che lo esprimono in particolare plasmacellule e cellule NK [60]. Nei modelli sperimentali animali si è osservato che il farmaco porta a riduzione degli anticorpi, riduzione dei plasmablasti e ritardo nell’insorgenza del rigetto sebbene un rapido rebound anticorpale sia stato osservato al termine del trattamento.  Il farmaco è somministrato alla dose di 16 mg/kg ev settimanalmente per otto settimane e poi ogni due settimane per altre otto somministrazioni e a seguire mensilmente. Ad oggi sono disponibili solo pochi case report in letteratura che descrivono il suo impiego nel rigetto. Dorberer et al ne hanno descritto l’impiego in un paziente con diagnosi di rigetto cronico anticorpale attivo osservando a distanza di tre mesi dall’avvio stabilizzazione della funzione renale, scomparsa dei DSA e miglioramento dell’infiammazione microvascolare [61].

Pertanto, il daratumumab potrebbe essere una promettente strategia per ridurre le plasmacellule; tuttavia, ha diversi effetti immunitari fuori target, tra cui la riduzione delle cellule t regolatorie CD38+ e anche delle cellule B regolatorie portando ad un aumentato rischio di rigetto cellulo-mediato [62].

Di recente è stato pubblicato il risultato di trial di fase II sull’uso di un altro anticorpo anti-CD38 il felzartamab nel rigetto anticorpale cronico attivo [63]. Si tratta di un anticorpo umanizzato IgG1 anti-CD38. In questo trial l’obiettivo principale dello studio è stato quello di stabilire il profilo di sicurezza e gli effetti collaterali del farmaco mentre obiettivi secondari sono stati la riduzione dei livelli di DSA e dell’infiammazione microvascolare. Dei 22 pazienti arruolati 11 hanno ricevuto nove infusioni endovenose settimanali di felzartamab (dose 16 mg/kg ev) per 4 settimane e poi una volta al mese per 5 mesi. Nello studio il farmaco ha mostrato un buon profilo di sicurezza e la risoluzione del quadro di rigetto è stata osservata nel 70% nei pazienti trattati (20% nel gruppo placebo). Tuttavia, un paziente ha sviluppato un rigetto cellulo-mediato probabilmente legato all’effetto del farmaco sulle cellule T-reg e dopo l’interruzione del farmaco 3 dei 9 pazienti trattati con il farmaco hanno ripresentato un quadro di rigetto anticorpale [63]. Il risultato positivo di questo piccolo trial esplorativo apre la strada ad ulteriori studi che potrebbero consentire la validazione dell’uso di questo farmaco nel trattamento del rigetto AMR cronico attivo [64].

 

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