Numero Speciale - In depth review

New strategies for prevention and early diagnosis of iodinated contrast-induced nephropathy: a systematic review

Abstract

Iodinated contrast-induced nephropathy is one of the most feared complications of percutaneous coronary interventions and is associated with increased cardio-vascular mortality and a faster progression towards end stage renal disease. The effects of the iodinated contrast medium on intra-renal hemodynamics and its direct cytotoxic action on proximal tubular cells contribute synergistically to the pathophysiology of renal damage. Since the therapeutic options are extremely limited, the rapid identification of risk factors and the timely implementation of preventive strategies are mandatory to reduce the incidence of iodinated contrast-induced nephropathy. To date, the criteria for defining and staging contrast medium nephropathy are still based on the increase of serum creatinine and/or contraction of diuresis, which are lacking in specificity and therefore do not allow early diagnosis. The aim of this review is to report the latest evidence on the pathophysiological mechanisms that contribute to renal damage by iodinated contrast medium, on the risk stratification tools and on the new early biomarkers of contrast-induced nephropathy, while also focusing on the most validated prevention strategies.

 

Keywords: contrast medium, nephropathy, risk factors, early diagnosis, prevention

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Introduzione

La nefropatia da mezzo di contrasto iodato (Contrast Induced Nephropathy – CIN) rappresenta la terza causa di danno renale acuto (Acute Kidney Injury – AKI) acquisita durante un ricovero ospedaliero. La CIN ha un impatto nettamente sfavorevole sull’outcome del paziente, in quanto si associa ad un’elevata incidenza di eventi cardio-vascolari, una ridotta sopravvivenza sia nel breve che nel medio-lungo termine e a un prolungamento dei tempi di ospedalizzazione, con importanti ripercussioni sulla spesa sanitaria. Un recente studio retrospettivo condotto su 11.249 pazienti sottoposti ad angiografia coronarica ha inoltre dimostrato che lo sviluppo di CIN correla con una progressione più rapida verso l’insufficienza renale cronica [1,2]. Questi dati dipendono non solo dal numero sempre più crescente di procedure radiologiche eseguite per fini diagnostici e/o terapeutici, ma soprattutto dalle caratteristiche demografiche dell’utenza che beneficia di tali procedure: nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di pazienti anziani affetti da una o più comorbilità, (ad es., scompenso cardiaco cronico, ipertensione arteriosa, diabete mellito, malattia renale cronica – MRC – preesistente, etc.,), che correlano con un aumentato rischio di CIN rispetto alla popolazione generale [3]. Sebbene l’associazione tra esposizione a mezzo di contrasto (MDC) e tossicità renale sia nota dagli anni ’60, ad oggi non vi è accordo in letteratura sulle modalità di definizione e stadiazione della CIN, che si basano ancora su parametri, quali la creatininemia e la diuresi, privi di specificità e che non consentono una diagnosi precoce. Negli ultimi anni il tema della tossicità renale da MDC è stato oggetto di nuovi studi in ambito nefrologico, cardiologico e radiologico, che hanno consentito di acquisire importanti conoscenze sulla fisiopatologia, i fattori di rischio e le strategie di prevenzione della CIN. Lo scopo della presente review è stato quello di riesaminare le ultime evidenze sui meccanismi fisiopatologici che concorrono al danno renale da MDC, sugli strumenti di stratificazione del rischio e sui nuovi biomarkers precoci di CIN, focalizzando altresì l’attenzione sulle strategie preventive maggiormente validate in letteratura.

 

Definizione

In letteratura non esiste un consenso unanime riguardo i criteri di definizione della CIN. Sulla scorta dei risultati ottenuti da Harjai et al. [4], che hanno indagato su quale definizione correlasse maggiormente con il rischio di eventi avversi cardiovascolari maggiori e di morte per tutte le cause a 6 mesi dall’esecuzione di un’arteriografia cardiaca, è stata proposta la definizione di CIN come il peggioramento acuto della funzionalità renale che determina un aumento della creatininemia ≥0.5 mg/dl o ≥25% del valore di partenza a distanza di 48-72 ore dall’esposizione ad un mezzo di contrasto iodato. Gli stessi Autori sottolineavano la necessità di escludere le altre potenziali cause del peggioramento acuto della funzionalità renale prima di attribuirne la causa al MDC. In realtà, nei vari studi pubblicati in letteratura la diagnosi di CIN è stata formulata applicando criteri diversi tra di loro in termini di aumento della creatininemia rispetto al valore pre-MDC, con l’ovvia conseguenza di ottenere un andamento dei tassi di incidenza inversamente proporzionale all’entità della variazione della creatininemia utilizzata per la diagnosi. Inoltre, non vi è uniformità riguardo il tempo intercorso tra la prima determinazione della creatininemia e la somministrazione del MDC, nonché sulla durata del monitoraggio post-MDC della funzionalità renale, che oscilla da poche ore a due settimane [5]. Al fine di standardizzare i metodi di diagnosi e di stadiazione dell’AKI, le più recenti linee guida KDIGO [6] suggeriscono di applicare i criteri RIFLE e AKIN [7,8] per tutte le forme di AKI, indipendentemente dall’eziologia (Tabella I).

 

Tabella I: Criteri KDIGO per la diagnosi e la stadiazione dell’AKI

STADIO INCREMENTO DELLA CREATININA SIERICA DIURESI
1 ▪ 1.5-1.9 volte il valore basale

OPPURE

▪ ≥0.3 mg/dl (≥26.5 mmol/l) rispetto al valore basale

▪ <0.5 ml/kg/h per 6-12 ore
2 ▪ 2.0-2.9 volte il valore basale ▪ <0.5 ml/kg/h per ≥12 ore
3 ▪ 3.0 volte il valore basale

OPPURE

▪ ≥4 mg/dl (≥26.5 mmol/l)

OPPURE

▪ Inizio della terapia sostitutiva

OPPURE

▪ Riduzione del GFR <35 ml/min/1.73 m2 nei soggetti <18 anni

▪ 0.3 ml/kg/h per ≥24 ore

OPPURE

▪ Anuria ≥12 ore

Nonostante tutti gli sforzi finora profusi, l’impossibilità a stabilire con certezza il nesso di causalità tra esposizione a MDC e tossicità renale rimane ancora il vero tallone di Achille della Nefrologia in tema di CIN. Poiché la maggior parte dei trials non ha incluso un gruppo controllo, non è stato possibile stimare il rischio standard di AKI nei pazienti non esposti al MDC. In letteratura, tuttavia, numerosi studi dimostrano che una variazione considerevole della creatininemia durante un ricovero ospedaliero può verificarsi anche in assenza di esposizione al MDC. È quindi verosimile che una percentuale di pazienti venga catalogata erroneamente come CIN in quanto sviluppa un AKI per cause del tutto diverse dall’esposizione al MDC, quali ad esempio una complicanza clinica insorta durante la degenza (ad esempio sepsi, scompenso cardiaco), un aggravamento della patologia per la quale è stata posta indicazione alla procedura con MDC (occlusione intestinale, aneurisma dell’aorta addominale, embolia polmonare ecc) o l’insorgenza di complicanze durante la procedura stessa (ipotensione arteriosa, deplezione di volume, aritmie, ateroembolismo renale, infarto miocardico, emorragia) [5,9]. Il Contrast Media Safety Committee (CMSC) della Società Europea di Radiologia Urogenitale (European Society of Urogenital Radiology – ESUR) ha recentemente proposto un restyling della terminologia, che prevede l’abbandono dell’acronimo CIN in favore di due nuove espressioni, riportate sul più recente manuale sui MDC dell’America College of Radiology [10]:

  • Post-contrast acute kidney injury (PC-AKI): include tutti gli episodi di AKI occorsi entro le 48 ore dalla somministrazione endovascolare di un MDC, pertanto descrive una diagnosi correlativa;
  • Contrast-induced acute kidney injury (CI-AKI): fa riferimento solamente alle forme di AKI in cui è possibile dimostrare un nesso causale tra il MDC e la tossicità renale.

Nella pratica clinica, la distinzione tra PC-AKI e CI-AKI risulta di difficile attuazione. La concentrazione sierica della creatinina non correla solamente con l’entità del filtrato glomerulare, ma è influenzata anche da fattori non renali (età, sesso, massa muscolare scheletrica, stato di idratazione) che la rendono un marcatore non specifico per CI-AKI. Inoltre, la cinetica della creatinina sierica è molto lenta: essa inizia ad aumentare entro i primi 3 giorni dall’esposizione al MDC, raggiunge un picco di concentrazione entro il quinto giorno e rientra generalmente al valore basale nell’arco di 10-21 giorni, non consentendo pertanto una diagnosi precoce [11].

 

Nuovi biomarkers

I limiti legati alla definizione di CI-AKI basata solamente sulle oscillazioni della creatininemia ha spinto molti Autori a ricercare nuovi marcatori più precoci e sensibili di nefrotossicità da MDC.

La cistatina C è una proteina codificata dal gene CST3, appartenente alla famiglia delle cistein proteasi. Poiché la sua concentrazione sierica non risente della massa muscolare, dell’età e del sesso del paziente, essa rappresenta una valida alternativa alla creatinina per la misurazione del GFR, soprattutto nella popolazione anziana. Nello studio di Briguori et al. [12], condotto su 410 pazienti sottoposti ad arteriografia coronarica e/o periferica e/o ad angioplastica, è stato dimostrato che l’aumento del 10% dei valori plasmatici di cistatina C a 24 ore dall’esposizione al MDC è suggestivo per CI-AKI al pari dell’aumento della creatinina sierica ≥0.3 mg/dl dopo 48 ore. Analogamente, una recente metanalisi, avente come obiettivo quello di stabilire l’esatto timing per la determinazione della cistatina C sierica, ha confermato che una latenza temporale di 24 ore rispetto alla somministrazione del MDC garantisce un’accuratezza diagnostica ottimale [13]. Lo studio di Nozue et al. ha inoltre stabilito che una concentrazione sierica di cistatina C >1.26 mg/L prima del MDC predice il CI-AKI con sensibilità e specificità del 75% e del 73%, rispettivamente [14].

Neutrophil Gelatinase-Associated Lipocalin (NGAL) è una proteina sintetizzata dai neutrofili a seguito dell’attivazione dei recettori toll-like (TLR), con l’obiettivo di legare il ferro sottraendolo ai batteri ed inibendone la crescita. Successivamente si è scoperto che le cellule tubulari renali producono NGAL in risposta a molteplici fattori di stress e/o danno cellulare. Dallo studio di Akrawinthawong et al. [15] è emerso che i valori pre-procedurali di NGAL sono più alti nei pazienti con GFR più basso e che il delta di incremento post-MDC di NGAL rispecchia tale proporzionalità inversa rispetto al GFR di partenza; è inoltre emerso che il raddoppio dei valori di NGAL rispetto al basale costituisce un criterio affidabile di CI-AKI al pari dei criteri KDIGO. Haase et al. [16] hanno dimostrato che, in assenza di alterazioni della creatinina sierica, pazienti con aumento di NGAL possono avere un AKI subclinico e prognosi peggiore rispetto ai pazienti con valori normali. Più recentemente, Nusca et al. hanno riportato che i valori di NGAL post-MDC mostrano una forte correlazione positiva con l’aumento della creatininemia; in particolare, un aumento di NGAL sierico >96 ng/ml dopo 6 ore dall’esposizione al MDC predice l’insorgenza di CI-AKI con una sensibilità del 53% e una specificità del 74% [17]. Occorre tuttavia tener presente che aumenti di NGAL sono stati riscontrati in altre patologie quali artrite reumatoide, ipertiroidismo e ridotta tolleranza glucidica, pertanto la poca specificità e sensibilità possono costituire un limite al suo utilizzo come marker di CI-AKI.

Kidney Injury Molecule-1 (KIM-1) è un recettore transmembrana della fosfatidilserina ampiamente espressa sulle cellule del tubulo contorto prossimale. A seguito di un danno tubulare renale, il dominio extracellulare di KIM-1 si separa dal dominio transmembranario per azione di enzimi proteolitici ed è rilasciato nelle urine. Grazie alle sue proprietà biologiche, KIM-1 è stato oggetto di studio come biomarker urinario precoce di danno tubulare in numerosi scenari clinici, quali diabete mellito, scompenso cardiaco congestizio, necrosi tubulare acuta e disfunzione del graft nei pazienti portatori di trapianto renale [18,19]. In un recente lavoro, Liao et al. hanno dimostrato che nei pazienti che sviluppano un CI-AKI dopo arteriografia coronarica, i valori urinari di KIM-1 aumentano significativamente rispetto al basale già dopo 6 ore dall’esposizione al MDC, raggiungono un picco a 12-24 ore per poi ridursi dopo 48 ore, con una differenza statisticamente significativa rispetto al gruppo controllo dei pazienti che non sviluppano CI-AKI [20].

N-Acetyl-b-Glucosaminidase (NAG) è un enzima lisosomiale normalmente escreto nelle urine come conseguenza del normale processo di esocitosi da parte delle cellule tubulari prossimali. Elevati livelli urinari di NAG sono stati riscontrati in pazienti esposti a metalli pesanti, solventi, e/o aminoglicosidi, nonché in casi di glomerulopatie compresa la nefropatia diabetica [21]. Sulla base dei risultati di Ren et al, l’aumento della concentrazione urinaria di NAG in corso di CI-AKI è consensuale all’aumento della creatininemia, ma mostra un picco di attività enzimatica più precoce rispetto ad essa, aumentando del 50% rispetto al valore basale già dopo 24 ore dall’esposizione al MDC [22].

Liver-type Fatty Acid-Binding Protein (L-FABP) è una proteina espressa principalmente nelle cellule epatiche, dove è coinvolta nel metabolismo degli acidi grassi a lunga catena e nel loro trasporto dalla membrana plasmatica verso i siti di ossidazione (perossisomi, mitocondri). L-FABP è iperespresso nelle cellule tubulari prossimali dopo un insulto ischemico. Valori urinari di L-FABP ≥24.5 µg/gCr prima del MDC sembrerebbero rappresentare un fattore predittivo indipendente di CI-AKI, mentre l’entità dell’incremento dei suoi valori dopo un’ora dal MDC è espressione di danno renale e correla con il volume di MDC somministrato [14].

La β2-microglobulina è una proteina plasmatica presente ad alta concentrazione sulla superficie delle cellule del sistema immunitario come costituente degli antigeni del sistema HLA. Dai risultati dei lavori pubblicati in letteratura si evince che valori di β2-microglobulina al baseline >2.8 mg/L predicono il CI-AKI in modo equiparabile alla cistatina C, con sensibilità e specificità del 75% e dell’80% rispettivamente [14,23].

Nel 2019, il gruppo di Mamoulakis et al. [24] ha dimostrato che l’esposizione al MDC determina un incremento dei valori ematici di dimetilarginina simmetrica-asimmetrica (Symmetric/Asymmetric DimethylArginine, SDMA-ADMA) con una cinetica molto rapida nelle prime 24 ore e un lento declino a partire dalle 48 successive al MDC, senza mai ritornare ai valori di partenza a differenza del gruppo controllo. Questi risultati confermano che le fluttuazioni di SDMA-ADMA rappresentano marcatori assoluti di disfunzione renale correlata al MDC in quanto espressione di danno ipossico-ischemico.

Tra gli altri biomarkers oggetto di studio occorre ricordare l’IL-18, i cui livelli urinari aumentati predicono il CI-AKI con 24 ore di anticipo rispetto alla creatininemia e correlano con un rischio elevato di eventi avversi maggiori cardio-vascolari dopo angiografia cardiaca [25], e la calprotectina urinaria, che può essere di ausilio nella diagnosi differenziale tra AKI pre-renale e parenchimale [26]. Per contro, un recente studio non ha mostrato differenze statisticamente significative di concentrazione urinaria di Tissue Inhibitor of MetalloProteinase 2 (TIMP-2) e Insulin-like Growth Factor Binding Protein 7 (IGFBP-7) prima e dopo TC con MDC in pazienti critici, lasciando supporre che la nefrotossicità da MDC non interferisca con l’attività dei biomarcatori renali di arresto del ciclo cellulare [27].

 

Patogenesi

Nonostante i significativi progressi ottenuti nell’ambito della ricerca sul CI-AKI, i meccanismi fisiopatologici che concorrono al danno renale da MDC restano ancora oggi non del tutto chiariti. Sulla scorta delle più recenti evidenze scientifiche, è stato elaborato un modello eziopatogenetico multifattoriale, in cui gli effetti del MDC sull’emodinamica intra-renale e la sua azione citotossica diretta sulle cellule tubulari prossimali sembrerebbero agire in modo sinergico.

Il sovvertimento primitivo dell’emodinamica renale spiega perché nelle prime fasi del CI-AKI si registri un declino del GFR a fronte di una funzione tubulare pressoché conservata. Una volta immesso nel torrente circolatorio, il MDC rilascia atomi liberi di iodio che alterano l’omeostasi dell’endotelio glomerulare in virtù di uno sbilanciamento tra molecole ad azione vasodilatativa (ossido nitrico, prostaglandina E2, bradichinina) e vasocostrittiva (endotelina 1, adenosina, angiotensina II, trombossano A2) in favore di queste ultime. L’insulto ipossico-ischemico che ne deriva si ripercuote soprattutto sulla midollare renale, dove i meccanismi di trasporto tubulare e il basso flusso ematico nei vasa recta determinano una ridotta tensione di ossigeno rispetto alla corticale già in condizioni fisiologiche [28]. L’ipoperfusione della midollare è ulteriormente aggravata dalla differenza di osmolalità tra il MDC e i tessuti circostanti. Una volta giunto al dotto collettore midollare, il MDC incontra un ambiente iperosmolare per effetto del riassorbimento di acqua mediato dalle acquaporine. Ciò determina una maggiore viscosità del fluido tubulare e la compressione dei vasi venosi per effetto dell’aumento delle pressioni intra-tubulare e interstiziale, con ulteriore rallentamento del flusso ematico [29].

Alcuni studi in vivo e in vitro supportano l’ipotesi che il MDC sia in grado di esercitare un’azione citotossica diretta. A seguito dell’internalizzazione del MDC mediante endocitosi, le cellule tubulari prossimali vanno incontro a rigonfiamento, vacuolizzazione, appiattimento e perdita dei microvilli fino all’apoptosi. Lo sbilanciamento energetico che ne deriva promuove il rilascio di radicali liberi e di altre specie reattive dell’ossigeno (ROS), aumenta lo stress ossidativo e accelera il consumo di ossido nitrico, aggravando ulteriormente il danno ipossico-ischemico [30]. Il rilascio di proteine intracitoplasmatiche nel lume tubulare rallenta il flusso urinario, prolungando il tempo di contatto tra il MDC e le cellule epiteliali tubulari.

 

Fattori di rischio

La più grave condizione clinica di rischio di CI-AKI è rappresentata dalla IRC pre-esistente. Nello studio di Tsai et al., condotto su 985.737 pazienti sottoposti ad angiografia cardiaca percutanea, è emerso che le incidenze di CI-AKI e di CI-AKI con necessità di dialisi aumentano significativamente al ridursi del GFR di partenza, passando dal 5.2% e dallo 0.07% nei soggetti con funzione renale normale al 26.6% e al 4.3% nei pazienti con eGFR <30 ml/min/1.73 m2, rispettivamente. I pazienti con eGFR <30 ml/min/1.73 m2 e infarto acuto del miocardio con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI) costituiscono il sottogruppo a maggior rischio, con incidenza di CI-AKI del 36.9% e di CI-AKI con necessità di dialisi del 7.2% [31]. Una recente metanalisi ha inoltre dimostrato una associazione statisticamente significativa tra CI-AKI e altre condizioni riconosciute come fattori di rischio per lo sviluppo di IRC, quali diabete mellito, neoplasia ed età >65 anni [32]. In atto non è stato individuato un valore soglia di eGFR al di sotto del quale il rischio di CI-AKI possa considerarsi realmente aumentato. Le più recenti linee guida ESUR e KDIGO [6,33] raccomandano di utilizzare la formula CKD-EPI [34] per la misura del GFR e di adottare strategie di prevenzione di CI-AKI in presenza di un eGFR <45 ml/min/1.73 m2.

Le condizioni emodinamiche del paziente al momento dell’esposizione al MDC giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo di CI-AKI. Lo studio di Chong et al. [35] ha mostrato come l’incidenza di CI-AKI sia significativamente più elevata nei pazienti con sindrome coronarica acuta sottoposti ad angiografia cardiaca in urgenza (8.2%) rispetto ai pazienti sottoposti a coronarografia in elezione (4.3%), probabilmente perché in regime di urgenza spesso non vi è il tempo necessario per un’adeguata profilassi. Nello studio di Dangas et al, parametri quali ipotensione peri-procedurale, ipovolemia vera o efficace, basso ematocrito, edema polmonare, contropulsatore aortico e frazione di eiezione <40% hanno mostrato il più alto potere predittivo di CI-AKI su un campione di 7200 pazienti sottoposti ad angiografia cardiaca percutanea [36]. Numerosi studi (per lo più non controllati) sembrano infine supportare l’ipotesi di un possibile ruolo predisponente al CI-AKI di iperuricemia, sesso femminile, anemia, infiammazione, sanguinamento peri-procedurale, iperglicemia, elevati livelli di N-terminal pro-B-type natriuretic peptide (NT-proBNP) e iperomocisteinemia [3743].

Accanto ai fattori “intrinseci”, ovvero legati al paziente, occorre tenere in considerazione anche gli aspetti strettamente correlati alla procedura. È stato ampiamente dimostrato che la tossicità renale e sistemica del MDC è proporzionale alla sua osmolalità, la quale a sua volta dipende dal grado di solubilità per dissociazione elettrolitica. L’avvento dei MDC non-ionici a bassa osmolalità (LOCM) e degli agenti iso-osmolari (IOCM) ha ridotto drasticamente l’incidenza di eventi avversi grazie ad una minore interazione con le proteine plasmatiche e le membrane cellulari rispetto ai MDC ionici ad elevata osmolalità (HOCM) di vecchia generazione [44]. Il fattore di rischio legato alla procedura più importante e più facilmente quantificabile riguarda la dose di MDC, che a sua volta è funzione della via di somministrazione utilizzata. L’incidenza media di CI-AKI nella popolazione generale dei pazienti sottoposti ad arteriografia cardiaca si attesta al 2% nei pazienti che non presentano fattori di rischio noti, mentre raggiunge il 45% nei pazienti diabetici e/o affetti da IRC con eGFR <60 ml/min/1.73 m2 fino ad arrivare al 90% nei pazienti con uremia terminale [45,46]. Per contro, nel caso di somministrazione di MDC per via endovenosa i tassi di incidenza del CI-AKI si riducono notevolmente, al punto da risultare sovrapponibili a quelli dell’AKI per tutte le cause nella popolazione non esposta a MDC [47,48]. L’ipotesi più accreditata è che la via intra-arteriosa aumenti il rischio di nefrotossicità a causa dell’esposizione brusca e improvvisa ad una quantità di MDC più concentrata. Ad oggi non è stato individuata una dose soglia di rischio per CI-AKI. L’indice di Cigarroa [49] propone di individualizzare la dose in funzione del peso corporeo e della creatininemia del paziente, secondo la formula: peso corporeo (in kg) x 5/sCr. Le linee guida della Società Europea di Cardiologia (ESC) e dell’Associazione Europea di Cardiochirurgia Toracica (EACTS) suggeriscono una dose massima non superiore ai 4 ml/kg, o comunque inferiore a 350 ml, oppure un rapporto tra volume totale di MDC ed eGFR inferiore a 3.4 [50,51]. I risultati dello studio di Liu et al. [52] dimostrano un’associazione tra il rapporto volume di MDC/clearance della creatinina >2.44 e rischio di CI-AKI. Le linee guida ESUR [33] raccomandano di attendere non meno di 48-72 ore prima di ripetere l’angiografia cardiaca e di mantenere il rapporto tra dose di MDC (in grammi di iodio) e eGFR assoluto (in ml/min/1,73 m2) inferiore a 1.1 o il rapporto tra volume di MDC (in ml) e eGFR (in ml/min/1,73 m2) sotto 3.0 quando si utilizza una concentrazione di MDC di 350 mg/ml. Recentemente sono stati introdotti in commercio nuovi dispositivi di iniezione automatica del MDC, sebbene il loro ruolo nel ridurre il rischio di CI-AKI non sia stato ancora dimostrato [53].

Numerosi farmaci, quali anti-infiammatori non steroidei, alcuni antibiotici e chemioterapici, sono riconosciuti quali potenziali agenti eziologici di AKI parenchimale, tuttavia non vi sono evidenze scientifiche sufficienti a raccomandarne la sospensione prima dell’esposizione al MDC. Lo studio CAPTAIN [54], ha indagato l’utilità della sospensione degli ACE inibitori e dei sartani come prevenzione del CI-AKI in 208 pazienti con IRC sottoposti ad angiografia cardiaca. I risultati hanno mostrato un tasso di incidenza globale di CI-AKI superiore nel gruppo dei pazienti che hanno continuato la terapia rispetto a chi l’ha sospesa (18.4% vs 10.9%); tuttavia, tale differenza non ha raggiunto la significatività statistica nei sottogruppi stratificati per età, diabete e score di rischio, pertanto non vi è sufficiente evidenza per raccomandarne la sospensione. Numerosi studi hanno infine dimostrato che l’uso della metformina nei pazienti diabetici che si sottopongono ad angiografia coronarica o a TC con MDC intravenoso non si associa ad un aumentato rischio di CI-AKI e di acidosi lattica [55,56]; tuttavia, le linee guida dell’American Society of Radiology ne raccomandano la sospensione in caso di CI-AKI o di eGFR <30 ml/min/1.73 m2 [10]. I fattori di rischio per CI-AKI sono riassunti nella Tabella II.

 

Tabella II: Fattori di rischio per lo sviluppo di CI-AKI

LEGATI AL PAZIENTE
▪ IRC pre-esistente ▪ Iperuricemia
▪ Diabete mellito ▪ Sesso femminile
▪ Età >65 anni ▪ Anemia
▪ Ipotensione arteriosa ▪ Infiammazione
▪ Ipovolemia ▪ Sanguinamento
▪ Basso ematocrito ▪ Iperglicemia
▪ Edema polmonare ▪ NT-proBNP elevato
▪ Contropulsatore aortico ▪ Iperomocisteinemia
▪ FE <40%  
LEGATI ALLA PROCEDURA
▪ Osmolalità del MDC ▪ Procedura in urgenza vs in elezione
▪ Dose del MDC ▪ Ripetizione della procedura <48-72 ore
▪ Via di somministrazione del MDC  
LEGATI ALLA TERAPIA FARMACOLOGICA
▪ FANS ▪ ACEi-ARBs (?)
▪ Antibiotici (aminiglicosidi) ▪ Metformina (?)
▪ Chemioterapici (cisplatino)  

Prevenzione e management

Le opzioni terapeutiche per il trattamento del CI-AKI sono estremamente limitate, pertanto è indispensabile identificare i fattori di rischio e approntare tempestivamente delle strategie di prevenzione. Numerosi Autori [5759] hanno sviluppato e validato degli scores, in cui si attribuisce al paziente un punteggio in base alla presenza o meno di uno o più fattori di rischio per lo sviluppo di CI-AKI e/o di CI-AKI richiedente dialisi. Tuttavia, tali scores sono stati elaborati su popolazioni di pazienti sottoposti ad angiografia cardiaca e pertanto il loro utilizzo nei pazienti esposti a MDC intravenoso tende a sovrastimare il rischio di CI-AKI. Inoltre, essi includono variabili (ad esempio il volume di MDC somministrato) che possono essere conosciute solo dopo aver eseguito la procedura, limitando così il loro utilizzo come strumenti preventivi. Ulteriori studi sono necessari al fine di stabilire il reale valore predittivo di tali strumenti [60].

L’idratazione costituisce la principale strategia di prevenzione del CI-AKI. La soluzione salina isotonica (sodio cloruro 0.9%) e il sodio bicarbonato 1.4% costituiscono i cristalloidi più studiati. Il razionale del loro utilizzo è quello di espandere il volume extracellulare al fine di contrastare la vasocostrizione dovuta al MDC, aumentare il flusso urinario e accelerare il transito del MDC idrosolubile lungo il tubulo renale, riducendone l’effetto citotossico; inoltre, l’alcalinizzazione contribuisce a ridurre la formazione dei ROS. Molti studi pubblicati in letteratura dimostrano che la soluzione salina isotonica e il sodio bicarbonato sono parimenti efficaci nel prevenire il CI-AKI rispetto al placebo, senza tuttavia evidenziare una chiara superiorità dell’una rispetto all’altra in termini di incidenza di CI-AKI, dialisi, riduzione persistente del GFR e morte [6165]. Il dato interessante è che gli studi che dimostrano una maggiore efficacia del sodio bicarbonato sono accomunati da un protocollo di infusione rapida come quello proposto da Merten et al. [66] (bolo di 3 ml/kg/h per un’ora prima della procedura, seguiti da un’infusione di 1 ml/kg/h per 6 ore dopo l’esposizione al MDC), mentre i protocolli di prevenzione che utilizzano la soluzione salina isotonica considerano più efficace una dose di 1-1.5 mL/kg/h a partire da 6-12 ore prima della somministrazione del MDC e per le successive 6- 24 ore. Da questo dato si può quindi dedurre che il sodio bicarbonato risulti più utile della soluzione salina isotonica quando non c’è tempo di eseguire un’idratazione prolungata, ossia nelle procedure in emergenza, grazie alla capacità di correggere rapidamente l’acidosi metabolica e l’ipovolemia circolatoria, condizioni che più facilmente si associano agli eventi cardiaci acuti e che possono contribuire al danno renale. [67]. Occorre tuttavia sottolineare che non tutti gli Autori concordano sull’efficacia dell’espansione del volume extracellulare: in un recente trial, infatti, Nijssen et al. concludono che l’idratazione endovenosa non migliora i tassi di incidenza di CI-AKI rispetto al gruppo di pazienti non sottoposti a profilassi, gravando pertanto inutilmente sui costi di ospedalizzazione [68]. In atto, le linee guida [6,69] suggeriscono di utilizzare il sodio bicarbonato e la soluzione salina isotonica in modo equiparabile nei pazienti ad alto rischio di CI-AKI, mentre l’idratazione mediante il solo intake orale di fluidi non è raccomandata in quanto non supportata da una chiara evidenza scientifica. Viene inoltre suggerito il ricorso ad uno schema di infusione individualizzato per tipo di soluzione, volume e durata nei pazienti con IRC e/o insufficienza cardiaca severe al fine di prevenire l’eccessiva espansione del volume extra-cellulare [70,71]. In tale ottica, nella pratica clinica di molte unità di terapia intensiva coronarica si fa ricorso al sistema RenalGuard, un apparecchio capace di infondere automaticamente una quantità di liquidi pari alla quantità di urina prodotta dal paziente. In questo modo è possibile forzare farmacologicamente la diuresi mediante furosemide e contemporaneamente reintegrare la volemia, prevenendo sia l’ipovolemia indotta dal diuretico sia l’ipervolemia da idratazione forzata. A tal proposito, è stata pubblicata una recente metanalisi che conferma l’efficacia del sistema RenalGuard nel ridurre il rischio di CI-AKI, eventi avversi maggiori e necessità di ricorso alla dialisi nei pazienti con IRC sottoposti a coronarografia [72].

Sulla base dell’assunto che l’incremento della diuresi riduce la tossicità diretta da contatto del MDC sulle cellule tubulari renali, alcuni trials hanno sperimentato protocolli alternativi di prevenzione del CI-AKI, combinando l’idratazione con l’uso di diuretici al fine di forzare la diuresi ed evitare il sovraccarico volemico [7375]. Sebbene tali studi abbiano mostrato una riduzione del tasso di CI-AKI rispetto agli schemi di idratazione convenzionali, la loro eterogeneità in termini di popolazione arruolata e di protocolli di idratazione utilizzati rende i risultati difficilmente comparabili. Al momento non vi è una forte evidenza a favore del ricorso alla diuresi forzata.

Numerosi farmaci sono stati testati per la prevenzione del CI-AKI, con risultati controversi. La N-acetilcisteina (NAc) esercita un’azione antiossidante protettiva nei confronti dei ROS e induce un effetto vasodilatativo che contrasta la vasocostrizione da MDC attraverso la stabilizzazione dell’ossido nitrico tissutale. Tepel et al. [76] hanno per primi dimostrato che la NAc, associata all’idratazione, è efficace nella riduzione del CI-AKI in un gruppo di 83 pazienti con insufficienza renale moderata/severa sottoposti a TAC con MDC. I risultati positivi di alcuni studi e meta-analisi iniziali non sono stati confermati in studi randomizzati, probabilmente anche a causa della diversa posologia prescritta: sembrerebbe infatti che dosi di NAc di 2400-6000 mg/die garantiscano una riduzione significativa del rischio di CI-AKI rispetto a dosi inferiori [77]. L’uso di N-acetilcisteina (NAc) in combinazione con l’infusione di cristalloidi è raccomandato dalle linee guida KDIGO [6] e da quelle dell’American College of Cardiology Foundation/American Heart Association (ACCF/AHA) [78]. I risultati dei trials e delle metanalisi più recenti sembrano tuttavia non dimostrarne un ruolo protettivo nei pazienti sottoposti ad angiografia e a TC con MDC endovenoso, anche in combinazione con soluzione salina o sodio bicarbonato [79,80].

Le statine hanno dimostrato di possedere numerosi effetti pleiotropici in grado di attenuare gli effetti tossici del MDC. Esse riducono l’espressione dei recettori dell’angiotensina e la sintesi di endotelina, aumentano la biodisponibilità di ossido nitrico e limitano la produzione di ROS; inoltre, esse sono in grado di inibire in vitro l’endocitosi nelle cellule tubulari renali mediante l’inibizione dell’enzima idrossimetilglutaril-CoA (HMG-CoA) reduttasi [81]. Alcuni Autori hanno dimostrato che la somministrazione al momento dell’ospedalizzazione di rosuvastatina 40 mg o di atorvastatina 80 mg in pazienti con sindrome coronarica acuta candidati ad angiografia cardiaca riduce significativamente l’incidenza di CI-AKI [82,83]. Altri studi invece concludono che la riduzione del tasso di CI-AKI nei pazienti trattati con statina + idratazione non sia significativa rispetto alla sola idratazione nei pazienti che non assumevano la statina, mentre la significatività statistica è stata osservata solo nei casi in cui la statina veniva aggiunta all’idratazione e alla NAc orale [84]. Sulla base dei dati disponibili in letteratura, le statine sembrerebbero più efficaci nei pazienti naïve con sindrome coronarica acuta e con elevati valori di proteina C reattiva. In questo scenario, infatti, l’azione antiossidante e di inibizione dell’endocitosi del MDC a livello tubulare appare più marcata; per contro, i pazienti già in trattamento con statina al momento dell’esposizione al MDC sono meno responsivi, probabilmente perché hanno sviluppato un meccanismo di tolleranza nei confronti di tali effetti [85]. In atto non esistono raccomandazioni circa l’utilizzo delle statine come profilassi del CI-AKI.

Due recenti metanalisi hanno indagato il possibile ruolo della teofillina come profilassi del CI-AKI, evidenziandone un tendenziale ma non significativo effetto nefroprotettivo [86,87]. Tale effetto sembrerebbe essere più evidente quando la teofillina viene aggiunta ad altri regimi preventivi standardizzati, in particolare infusione di soluzione salina 0.9% o sodio bicarbonato [88,89]. I possibili effetti collaterali sul sistema cardio-vascolare limitano l’uso della teofillina nella pratica clinica e le attuali linee guida non ne raccomandano l’utilizzo per la profilassi del CI-AKI.

Alcuni studi inizialmente avevano fornito risultati promettenti sull’utilizzo dell’acido ascorbico come profilassi del CI-AKI [90]. La maggioranza dei trials e delle metanalisi pubblicati sull’argomento hanno invece confutato tale ipotesi dimostrando che l’acido ascorbico, sia da solo che in combinazione con NAc o pentossifillina, non dà alcun beneficio sulla prevenzione del CI-AKI rispetto all’idratazione standard [91].

Le misure preventive finora descritte sono state testate su pazienti con eGFR tra 59 e 40 ml/min/1.73 m2, mentre pochi studi hanno arruolato pazienti con IRC severa, per i quali la nefrotossicità da MDC rappresenta un rischio di peggioramento ulteriore e di ingresso in dialisi. Sulla base della nota capacità dell’emodialisi intermittente di rimuovere fino al 90% del MCD in una singola seduta, alcuni studi hanno valutato l’utilità delle metodiche dialitiche sulla prevenzione del CI-AKI. L’unica metanalisi sull’argomento ha preso in considerazione 11 studi per un totale di 1010 pazienti con IRC stadio 3-5 sottoposti a trattamento angiografico o a studio TC con MDC endovenoso. I pazienti che hanno eseguito un trattamento emodialitico peri-procedurale (emodialisi intermittente in 8 studi, emofiltrazione o emodiafiltrazione negli altri 3 studi) hanno registrato una incidenza di CI-AKI del 23.3% rispetto al 21.2% dei pazienti trattati con terapia medica convenzionale, dimostrando che la dialisi non apporta alcun beneficio statisticamente significativo [92]. Rispetto alle metodiche intermittenti, l’emofiltrazione veno-venosa continua (CVV-H) ha fornito risultati migliori. Marenzi et al. [93] hanno reclutato 92 pazienti con GFR <30 ml/min/1.73 m2 sottoposti a coronarografia, a cui era stata somministrata soluzione salina pre-MDC, al fine di confrontare tre diversi protocolli di prevenzione del CI-AKI. Gli Autori hanno dimostrato che i pazienti sottoposti a CVV-H 6 ore prima e 18-24 ore dopo la procedura presentavano un minor tasso di CI-AKI (3%) rispetto al gruppo trattato solo nelle 18-24 ore successive alla procedura (26%) e al gruppo controllo che ha proseguito solo l’idratazione (40%). Guastoni et al. [94] hanno proposto un protocollo post-procedura che prevedeva una CVV-H in prediluizione di 6 ore con concomitante somministrazione di 2000 ml di soluzione salina e ultrafiltrazione tale da ottenere un bilancio dei fluidi in pareggio; erano inoltre previste l’idratazione peri procedurale per via endovenosa e la somministrazione di NAc. Su un totale di 53 pazienti arruolati sottoposti a coronarografia sia in elezione che in urgenza, gli Autori hanno dimostrato che la CVV-H della durata di 6 ore è in grado di rimuovere la stessa quantità di MDC rispetto a una durata di 12 ore, riportando un’incidenza globale di CI-AKI del 7.5%. I benefici della CVV-H possono dipendere dalla peculiarità del trattamento, che garantisce un’ottimale idratazione pre-procedurale e una maggiore stabilita emodinamica durante la procedura rispetto all’emodialisi convenzionale.

In sintesi, le evidenze sul rapporto rischio-beneficio nell’utilizzo dell’emodialisi intermittente per la prevenzione del CI-AKI in pazienti con IRC grave sono di bassa qualità e di incerto significato, mentre sembrano riconoscere un possibile ruolo alle tecniche convettive continue, soprattutto se combinate con altre strategie preventive. Le linee guida, tuttavia, non raccomandano il ricorso alle tecniche dialitiche per la prevenzione del CI-AKI. Analogamente, nei pazienti già in trattamento sostitutivo non è ritenuto necessario programmare la dialisi subito dopo l’esposizione al MDC, a meno che l’intento sia quello di minimizzare il sovraccarico volemico.

 

Conclusioni

Il CI-AKI costituisce una seria complicanza per i pazienti sottoposti a procedure diagnostiche e/o interventistiche che prevedono l’utilizzo del MDC, sebbene la sua incidenza appaia sovrastimata.

L’individuazione dei pazienti a rischio, la correzione dell’instabilità emodinamica peri-procedurale e la sospensione dei farmaci nefrotossici costituiscono passaggi indispensabili per ridurre il rischio di CI-AKI.

L’espansione del volume extracellulare mediante infusione di cristalloidi e l’utilizzo del più basso volume possibile di MDC rappresentano le uniche misure preventive di comprovata efficacia in letteratura. L’utilizzo di un modello di prevenzione integrato, che includa anche la somministrazione pre-procedurale di NAc orale ad alte dosi, l’uso delle statine nei pazienti naïve e la sospensione dei farmaci bloccanti il sistema renina-angiotensina-aldosterone nel periodo peri-procedurale potrebbe condurre ad una riduzione più significativa dell’incidenza di CI-AKI nei soggetti ad alto rischio, sebbene ulteriori trials clinici randomizzati siano necessari per dimostrarlo.

L’emofiltrazione continua post-procedurale costituisce un’opzione interessante per i pazienti con IRC severa sottoposti a interventi coronarici invasivi non elettivi, ma la carenza di trials clinici randomizzati rende in atto tale strategia poco praticabile.

NGAL ha fornito i risultati più promettenti come marcatore precoce e sensibile di nefrotossicità da MDC e il suo utilizzo nella pratica clinica può costituire uno strumento aggiuntivo per la diagnosi e la prevenzione del CI-AKI. Ulteriori studi sono necessari al fine di validare l’utilizzo dei nuovi biomarkers come fattori predittivi di recupero della funzione renale o di evoluzione verso l’uremia terminale nel periodo di monitoraggio post-MDC.

 

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