Gennaio Febbraio 2020 - Nefrologo in corsia

Primary hyperoxaluria: case report and therapeutic perspectives

Abstract

Primary hyperoxaluria (PH) is a rare genetic disorder with autosomal recessive transmission, characterized by high endogenous production and markedly excessive urinary excretion of oxalate (Ox). It causes the accumulation of calcium oxide crystals in organs and tissues including bones, heart, arteries, skin and kidneys, where it may cause oxalo-calcic nephrolithiasis, nephrocalcinosis and chronic renal failure. Some forms are secondary to enteric diseases, drugs or dietetic substances, while three primitive forms, caused by various enzymatic defects, are currently known: PH1, PH2 and PH3.

An early diagnosis, with the aid of biochemical and genetic investigations, helps prevent complications and establish a therapeutic strategy that often includes liver and liver-kidney transplantation, improving the prognosis of these patients.

In this work we describe the clinical case of a patient with PH1 undergoing extracorporeal hemodialysis treatment and we report the latest research results that could change the life of patients with PH.

 

Keywords: primitive hyperoxaluria, PH, nephrocalcinosis, chronic renal failure

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Caso clinico

In questo lavoro descriviamo il caso clinico di una donna di 61 anni di razza caucasica che, 12 anni fa, veniva in consulenza direttamente dal Pronto Soccorso del nostro ospedale con un quadro di insufficienza renale cronica (IRC) terminale. L’anamnesi familiare era positiva per ossalosi renale: un fratello della paziente era infatti deceduto all’età di 33 anni per nefropatia da ossalato di calcio (come da referto della composizione chimica del calcolo), trattata con terapia emodialitica intervallata da due trapianti di rene sia da donatore vivente (la madre), che da donatore cadavere.

La paziente riferiva che all’età di 23 anni, in concomitanza con la prima gravidanza, aveva avuto un episodio di colica renale destra, con successiva espulsione di un calcolo che non era stato analizzato; negli anni successivi si erano verificati solo episodi di cistiti ricorrenti. All’età di 45 anni era stata sottoposta ad intervento di exeresi di polipi uterini, senza che le fosse riferita la condizione di IRC.

Nel 2007, all’età di 48 anni, la paziente veniva ricoverata d’urgenza per anoressia, vomito, ipertensione arteriosa severa in corso di grave scompenso cardiaco e con indici di funzionalità renale indicativi per inizio di terapia sostitutiva: e-GFR 5 ml/min, grave acidosi metabolica ed iperpotassiemia all’emogasanalisi (EGA). Tra il 2007 ed il 2009 la paziente veniva sottoposta a tre interventi di confezionamento di FAV per trombosi dell’accesso vascolare e, dal 2009 in poi, dializzava con catetere venoso centrale, tipo Tesio, posizionato in vena giugulare destra. Nello stesso periodo, le veniva più volte chiesto di sottoporsi ad analisi genetica anche in preparazione di un eventuale trapianto.

Solo nel febbraio del 2010, presso la Genetica Medica dell’Ospedale di Orbassano (TO), veniva posta diagnosi di Iperossaluria primitiva di tipo 1 (PH1) dopo l’esecuzione di un’analisi genetico-molecolare del gene AGXT che mostrava mutazione in omozigosi per polimorfismi dell’aplotipo major del gene (c.283_285dupGAG) con inserzione di tripletta GAG e duplicazione dell’aminoacido Glutammato in posizione 95 p.Glu95dup.

Una idonea strategia di trapianto d’organo evidenziava, dunque, i seguenti limiti:

  • paziente portatrice di mutazione rara della quale non disponiamo di correlazioni genotipo-fenotipo;
  • andamento della PH1 molto più severo nel fratello;
  • inizio del trattamento emodialitico in età relativamente tardiva (48 anni);
  • mancanza di dati attendibili sull’entità della sintesi endogena e sull’estensione dei depositi di ossalato (Ox).

Eppure, veniva proposto alla paziente un trapianto combinato fegato-rene e/o doppio trapianto di rene, ma non era possibile iniziare l’iter diagnostico per l’immissione in lista trapianto a causa del rifiuto a rilasciare il consenso [1].

Al fine di poter migliorare la clearance degli Ox, e per garantire una migliore sopravvivenza, la paziente praticava trattamento emodialitico (HD) con metodica mista (emodiafiltrazione), tenendo conto del fatto che i comuni schemi dialitici non sono in grado di rimuovere l’Ox generato nelle 24 ore e che vengono suggeriti schemi dialitici giornalieri o combinati di HD e dialisi peritoneale [2]. Venivano eseguite ulteriori indagini volte a valutare la presenza di Ox a livello sistemico, tra questi il fundo oculare e una Rx sistemica ossea, risultati nella norma, mentre una visita dermatologica evidenziava lesioni cutanee sospette per depositi di Ox.

Dopo circa sette anni dall’inizio della terapia dialitica la paziente presentava una grave calcifilassi a livello degli arti inferiori, potenzialmente secondaria all’età dialitica, alla terapia farmacologica e ad una condizione di grave malnutrizione. Come noto, la calcifilassi, rappresenta una sindrome caratterizzata da calcificazioni ad evoluzione necrotica nella tonaca media delle arteriole cutanee. La patogenesi è multifattoriale, riconoscendo fattori di rischio classici (età, sesso maschile, familiarità, tabagismo, ipertensione arteriosa, dislipidemia) e altri tipici della nefropatia (età dialitica, anemia, alterazioni dell’equilibrio acido-base e del metabolismo calcio-fosforo). Da un punto di vista biochimico, il meccanismo della calcificazione è complesso poiché è modulato da enzimi e proteine, sia sistemiche che locali, che trasformano le cellule muscolari lisce della parete vasale in cellule ossee. Il trattamento di questa grave complicanza comprende la sospensione della vitamina D, per ridurre l’assorbimento intestinale di calcio, la sospensione del Warfarin che, inibendo la vitamina K, faciliterebbe le calcificazioni vascolari, e l’uso di Calciomimetici.

Tuttavia nella nostra paziente questi approcci terapeutici, combinati ad una terapia personalizzata focalizzata sia sull’aspetto nutrizionale (integrazione della dieta con ulteriori 40 gr di proteine contenute in prodotti a basso contenuto di fosforo e di potassio) che sul dolore (analgesici oppiacei a cpr e tramadolo fl sc, oltre a integratori tipo nicetile) non sono serviti a migliorare la sintomatologia e i segni cutanei, soprattutto alle gambe, per la presenza di depositi calcifici bilaterali polistrutturali (Fig. 1).

Circa tre anni fa, dopo aver ottenuto idoneo consenso scritto dalla paziente, è stata chiesta al Comitato Etico della nostra Azienda l’autorizzazione all’uso “off label” del tiosolfato di sodio (STS), la cui indicazione è quella di antidoto nell’avvelenamento da cianuri e di profilassi nella nefropatia da cisplatino, come ulteriore terapia per la calcifilassi.

In letteratura si riporta che, già nel 1987, Yatzidis fu il primo a trattare con STS le calcificazioni tumorali in corso di IRC [3]; poi, nel 2004, Cicone dimostrò che l’uso di STS in corso di calcifilassi era in grado di migliorare il dolore e le lesioni cutanee [4]. Visti i notevoli benefici legati all’uso di STS, molti gruppi hanno trattato la calcifilassi con dosi variabili del farmaco, da 5 a 25 g in soluzione fisiologica 250 ml ev, 30-60 minuti dalla fine della dialisi. L’azione del STS, oltre all’attività chelante, si basa su diversi meccanismi d’azione:

  • induzione dell’acidosi metabolica che promuove la calciuria nei pazienti con buona diuresi residua, realizzando un bilancio negativo del calcio;
  • capacità antiossidante con riduzione dei radicali liberi di ossigeno a livello tissutale e miglioramento dell’infiammazione;
  • migliore disponibilità di inibitori locali della calcificazione tipo fetuina A e osteoprotegerina [57].

Nel caso in questione, ottenuta l’autorizzazione dal Comitato Etico, si è iniziata la somministrazione di 10 g di STS a fine dialisi in 250 ml di soluzione fisiologica (dosaggi più elevati provocavano nausea alla paziente). Questa terapia ha contribuito a “cristallizzare” i danni dovuti alla calcifilassi, anche se la grave malnutrizione e lo stato cachettico hanno condotto la paziente all’exitus, dopo oltre 12 anni di terapia emodialitica.

 

Iperossaluria

L’ossalato rappresenta un prodotto terminale del metabolismo intermedio, così poco solubile che 7 mg del suo sale di calcio sono in grado di saturare un litro di acqua. In condizioni normali, la concentrazione di Ox è di 1-3 µmol/l e la produzione giornaliera corrisponde a quella escreta con le urine: 0,5 mmol/24 ore, pari a 45 mg/die.

Alcune condizioni patologiche provocano una elevata concentrazione sierica di Ox (HOx) con aumento della sua escrezione urinaria che, progressivamente, porta a insufficienza renale cronica terminale [8,9]. Le HOx comprendono sia forme primitive (PH) che secondarie. Le PH conosciute sono tre:

  • La PH di tipo 1 (PH1), con incidenza variabile tra 1/333.000 e 1/1.000.000, è causata da mutazioni nel gene AGXT localizzato in posizione 2q37.3. Questo gene produce la proteina AGT (L-alanina-gliossilatoamino transferasi) un enzima epatico che si occupa della detossificazione dal gliossilato convertendolo in glicina (Fig. 2). L’aumento del pool di gliossilato causa sia aumento di glicolato, senza specifiche conseguenze patologiche, che di Ox, scarsamente solubile e causa di PH1. I segni clinici della malattia sono variabili e spaziano dalla nefrolitiasi alla nefrocalcinosi fino all’insufficienza renale cronica terminale. Il quadro clinico di esordio è eterogeneo: comprende forme neonatali gravi, forme ad esordio infantile, forme che, nell’adolescenza, causano episodi di urolitiasi ricorrente, fino a forme ad esordio tardivo, in età adulta, caratterizzate da calcolosi renale con infezioni delle vie urinarie, disuria, ematuria e quadri di insufficienza renale acuta di tipo ostruttivo [1012]. In corso di PH1, l’Ox in eccesso si accumula e cristallizza anche nelle ossa, negli occhi, nella pelle e nel cuore. La metà dei pazienti arriva all’IRC entro i 15 anni di età e oltre l’80% raggiunge lo stadio di uremia terminale entro i 30 anni di vita.
  • La PH di tipo 2 (PH2), più rara, è secondaria a deficit dell’enzima gliossilato reduttasi/idrossipiruvato reduttasi (GR/HPR), localizzato in posizione 9q12. Essa è distinguibile dalla PH1 in base ai dati biochimici. Presenta una forma ad esordio infantile con episodi di nefrolitiasi ricorrente, nefrocalcinosi e IRC terminale e la terapia si basa essenzialmente sull’idratazione e sull’alcalinizzazione delle urine [13-16].
  • La PH di tipo 3 (PH3) è causata dalla mancanza dell’enzima4-idrossi-2-ossoglutarato aldolasi 1 (HOGA1) per mutazione di un gene localizzato in posizione 10q24.1. Questa forma rappresenta quella con maggiore incidenza dopo la PH1; si può osservare una remissione dei sintomi in età adulta, anche se l’esordio può essere molto precoce [17].

 Le forme secondarie comprendono:

  • HOx enteriche che rappresentano complicanze di altre patologie:morbo di Crohn, ileoresezione, pancreatite cronica, disbiosi intestinale (sindrome da eccessiva crescita batterica), forme iatrogene post-chirurgiche (chirurgia bariatrica), che alterano il meccanismo di assorbimento dell’Ox a livello intestinale [1822].
  • HOx da farmaci o tossici, come quelle da acido ascorbico, xilitolo e glicole etilenico.
  • HOx idiopatiche o dietetiche che si verificano in corso di diete a basso apporto di calcio ed elevato introito di alimenti, soprattutto vegetali ricchi di Ox. Normalmente l’introito giornaliero di Ox può variare fra i 100 e 200 mg e il suo assorbimento intestinale si può modificare in una relazione inversa rispetto al contenuto di calcio della dieta (variabile tra 200 e 1200 mg/die). Infatti, l’assorbimento frazionale di Ox, in genere <10%, aumenta fino ad oltre il 20% quando l’introito di calcio è prossimo ai 200 mg/die [23,24].

 

Diagnosi

Dosando l’ossalato ed il glicolato su urine e plasma si può confermare il sospetto clinico di PH, ma uno studio genetico è necessario per differenziare le tre forme di PH [25]. Clinicamente esse condividono il deposito di Ox in vari organi e tessuti con grave coinvolgimento renale (nefrocalcinosi, calcolosi renale, IRC), cardiovascolare (difetti della conduzione, calcificazioni vascolari diffuse), disturbi della vista (depositi retinici di colore marrone) e formazione di noduli cutanei e alle articolazioni (Tab. 1).

 

Terapia della Iperossaluria

Quando la funzione renale residua è ancora presente i pazienti necessitano di iperidratazione e di dieta a basso contenuto di sale per ridurre la concentrazione urinaria di calcio. Spesso vengono prescritti sali di citrato e supplementi di fosfati per ridurre la precipitazione di calcio; anche l’idroclorotiazide, che riduce il contenuto di calcio nelle urine, può essere utile (Tab. 2).

In alcuni casi selezionati, supplementi di vitamina B6 (piridossina) aiutano a ridurre la produzione di Ox nel fegato. Nei casi più gravi, a rapida progressione verso l’IRC terminale, si suggerisce un inizio molto precoce della terapia sostitutiva, utilizzando tecniche dialitiche miste, diffusivo-convettive, anche giornaliere, allo scopo di prevenire la sovrasaturazione plasmatica degli Ox (v.n.<30 µmol/L). Il trapianto combinato di fegato-rene rappresenta invece l’unica strategia per combattere la PH.

Tra le nuove strategie terapeutiche vanno riportate:

  1. Oxalobacter formigenes [26]
  2. Trasferimento genico di AGXT
  3. Chaperoning chimico
  4. Substrate reduction therapy [27]
  5. Lumasiran [28]

 

Lumasiran: il futuro è già presente?

Il lumasiran, precedentemente noto come ALN-GO1, somministrato per via sottocutanea, è stato utilizzato per ridurre i livelli epatici dell’enzima glicolato ossidasi, substrato necessario per la produzione di Ox (Fig. 2).

Grazie all’uso di una tecnica chiamata small interfering RNA (siRNA) è stato indotto un silenziamento del gene che codifica per la Glicolato-Ossidasi (GO), con conseguente riduzione della ossidazione a gliossilato. La somministrazione sottocutanea di ALN-GO1 nel ratto ha indotto una riduzione stabile e dose dipendente degli ossalati urinari. Risultati analoghi sono stati ottenuti mediante la somministrazione orale di un composto tiadiazolico capace di inibire la GO con riduzione del 30-50% degli ossalati urinari in ratti knock-out per AGT [9,27].

Presto saranno resi noti i principali dati dello studio pilota di fase III ILLUMINATE-A, che dovrebbe terminare nel maggio del 2024 e che ha arruolato 30 partecipanti di età superiore ai 6 anni. L’endpoint primario consiste nella variazione percentuale di ossalato urinario delle 24h, partendo dal basale e fino al sesto mese. I dati presentati all’ISN di Melbourne nel mese di aprile del 2019 hanno dimostrato che il farmaco è in grado di poter ridurre del 72% l’ossalato urinario e del 77% il rapporto tra ossalato urinario delle 24h e creatinina in tutte le coorti (20 pazienti trattati con dosaggi variabili da 1 a 3 mg/Kg al mese e fino a 3 mg/Kg ogni 3 mesi). Anche a 28 giorni dall’ultima dose, la riduzione media rispetto al basale dell’ossalato urinario era del 66%. Sono stati segnalati eventi avversi minori in 12 dei 18 pazienti (in tre casi si trattava di lievi reazioni al sito di iniezione), ma non è stato mai necessario interrompere il trattamento. Le riduzioni costanti e durature dell’ossalato urinario e il profilo di sicurezza complessivo di lumasiran sono incoraggianti (https://www.osservatoriomalattierare.it/iperossaluria-primitiva/15531-iperossaluria-di-tipo-1-raggiunti-tutti-gli-endpoint-nello-studio-di-fase-iii-su-lumasiran). A breve saranno avviati altri due trial di fase III (ILLUMINATE B e C) che arruoleranno bambini con età inferiore ai 6 anni.

Anche per le forme secondarie si sta valutando il potenziale della molecola ALLN-177, una terapia enzimatica somministrata per via orale capace di ridurre l’escrezione di ossalato urinario.

 

Conclusioni

La malattia cutanea associata a iperossaluria primitiva si manifesta spesso con complicanze vascolari come livedo, acrocianosi e cancrena periferica, mentre quella secondaria provoca più frequentemente una lieve malattia cutanea a causa della deposizione extravascolare, con conseguente papule o noduli acrale o facciale; infine, la calcifilassi si manifesta clinicamente come aree violacee e reticolate della necrosi cutanea ed escara, principalmente delle estremità [29]. L’evenienza di calcifilassi in corso di IRC in fase conservativa non è frequente: ha una prevalenza inferiore all’1%, rispetto al 4% nei pazienti emodializzati [30,31]. Una recente revisione sistematica della letteratura (case reports, case series e studi di coorte) sulla calcifilassi nella IRC, ha dimostrato che solo il 15.7% di 692 pazienti non era in trattamento sostitutivo [32] e quindi una reale incidenza della calcifilassi negli stadi precoci della IRC rimane ancora sconosciuta [33].

Nel caso della nostra paziente non è stato possibile associare la calcifilassi alla malattia genetica PH1. Del resto, anche la funzione biologica dell’Ox non è stata chiaramente identificata: esso rappresenta un prodotto finale, endogeno, del normale metabolismo cellulare, ma esiste anche una quota esogena proveniente dal tratto gastrointestinale. Gli esseri umani non hanno la capacità di digerire questa sostanza, normalmente eliminata per via renale. Al momento non esiste una terapia farmacologica approvata per nessuna delle forme di PH e le opzioni di trattamento esistenti non sono risolutive. Però, nonostante la rarità della malattia (da 1 a 9 casi su un milione), la ricerca è molto attiva e il lumasiran potrebbe diventare il primo trattamento approvato per la PH1. Se i risultati degli studi saranno confermati, l’azienda farmaceutica produttrice del farmaco potrebbe presentare alla Food and Drug Administration americana una richiesta di nuovo farmaco (New Drug Application, NDA) già all’inizio del 2020, offrendo ai pazienti una opzione concreta di cura.

 

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