Marzo Aprile 2019 - Nefrologo in corsia

Infected hepatic cyst in ADPKD patient in peritoneal dialysis

Abstract

Renal and hepatic cysts infections are among the most important infectious complications of ADPKD and often require hospitalization. Liver cysts are even more complex than renal cysts and their diagnosis and treatment are quite controversial.

We report the case of a 58-year-old patient with ADPKD undergoing peritoneal dialysis treatment. He presented fever and severe asthenia and was diagnosed with a hepatic cyst infection. Given the presence of the peritoneal catheter, and in order to facilitate the targeted treatment of the infection, we administered antibiotics (ceftazidime and teicoplanin) in the bags used for peritoneal dialysis exchanges for 4 weeks, obtaining the complete disappearance of symptoms and laboratory and ultrasound alterations.

Intraperitoneal antibiotics administration in the treatment of infected hepatic cysts represents an effective and safe therapeutic alternative, never described in literature so far.

 

Keywords: ADPKD, ESRD, Infected hepatic cyst, peritoneal dialysis

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Introduzione

L’ADPKD è la più comune malattia ereditaria renale a trasmissione autosomico dominante, nonchè la quarta causa di End Stage Renal Disease (ESRD), ed ha un’incidenza variabile tra 1:500 e 1:1000 individui. Nell’85% dei casi è caratterizzata dalla presenza di mutazioni del gene PKD1 e nel 15% dei casi del gene PKD2, codificanti rispettivamente per la Podocina 1 e Podocina 2, che portano alla formazione di cisti, principalmente a livello renale ed epatico. Molti pazienti sono asintomatici nelle fasi iniziali, e presentano poi sintomi quali macroematuria, proteinuria, coliche renali, insufficienza renale cronica, sintomi da ingombro addominale, manifestazioni cardiovascolari (ipertensione, ipertrofia del ventricolo sinistro, prolasso della valvola mitrale, aneurismi), infezioni del tratto genitourinario, carcinoma renale e diverticolosi [16]. Le principali complicanze sono le emorragie e le infezioni delle cisti [7].

 

Caso clinico

Riportiamo il caso clinico di un paziente di 58 anni, affetto da insufficienza renale cronica (CKD) Stadio 5 (estimated Glomerular Filtration Rate: 9 ml/min/1,73 m2) secondaria a malattia del rene policistico dell’adulto (ADPKD). Il paziente aveva posizionato il catetere peritoneale nel giugno 2017, senza però iniziare la dialisi, ed effettuava dei lavaggi del catetere di Tenckhoff ogni due giorni per mantenere la pervietà dell’accesso. Alla visita di controllo mensile effettuata a gennaio 2018 riferiva comparsa di malessere, con episodi di nausea accompagnati a conati di vomito e dolore addominale. A causa di tale sintomatologia, e visto il peggioramento degli indici di funzione renale, si è deciso di cominciare il trattamento dialitico, caricando in addome 1 sacca di Glucosio 1,36% da 2 L per 4 ore, in modo da migliorare la depurazione ematica ed analizzare il liquido peritoneale al fine di escludere la presenza di una peritonite. All’ispezione, l’effluente scaricato appariva limpido; inoltre, sia la conta leucocitaria sia la coltura del liquido peritoneale risultavano negative. Agli esami ematochimici, invece, emergeva un quadro infettivo: un importante innalzamento della proteina C reattiva (PCR: 319 mg/L; v.n. <5 mg/L), in assenza di neutrofilia ma in presenza di linfocitopenia (550/mm3). Questo parametro ci ha spinto a indagare su una possibile infezione virale, con esito negativo. Nel corso della giornata, il paziente ha poi presentato la comparsa di febbre (fino a 38,5°C), trattata con 1000 mg di Paracetamolo. Nel sospetto di una possibile rottura di cisti renale o epatica è stata effettuata una TC addominale senza mezzo di contrasto che ha escluso la presenza di emorragie (Figura 1).

Dopo tre giorni, vista la persistenza della sintomatologia addominale, abbiamo ripetuto una conta leucocitaria nel dialisato, che ha dimostrato la presenza di 20 globuli bianchi (GB) per campo. Nel sospetto di un focolaio infettivo batterico, è stata iniziata una terapia per os con ciprofloxacina, che ha dato un temporaneo miglioramento della sintomatologia. Dopo altri tre giorni, visti i valori alterati di gammaglutammiltransferasi (γGT 108 U/L), fosfatasi alcalina (ALP 289 U/L), bilirubina (bilirubina diretta 0,83 mg/dL) e CA 19.9 (250 U/ml), nonostante le transaminasi fossero nella norma (AST 44 U/L; ALT 36 U/L), abbiamo effettuato un’ecografia dell’addome, che ha evidenziato la presenza di una cisti di 11 cm nel lobo destro del fegato, la quale presentava contenuto corpuscolato e materiale ecogeno riferibile a setti ispessiti endolume (pattern finemente granulare intracistico) (Figura 2A).

Dopo aver diagnosticato l’infezione della cisti epatica nel nostro paziente, la terapia antibiotica è stata modificata con Levofloxacina 250 mg 1 cp/die + Piperacilllina sodica/Tazobactam sodico 2g/0,25 1 fl x 2 volte/die per 7 giorni, al termine dei quali, però, si è riscontrata la comparsa di importante neutrofilia (90%). Nonostante il liquido fosse limpido, abbiamo ripetuto una conta leucocitaria del dialisato che mostrava 1000 GB/ml (>50% neutrofili). L’esame colturale del liquido peritoneale appariva negativo, ma la sintomatologia rimaneva la stessa e l’ecografia effettuata cinque giorni dopo mostrava una situazione invariata (Figura 2B).

Sospettando una peritonite associata ad infezione di cisti epatica, abbiamo prescritto una terapia antibiotica empirica in sacca di dialisi peritoneale: Ceftazidime 2 g + Teicoplanina 400 mg (dose da carico), proseguendo poi con Ceftazidime 1 g ½ fiala + Teicoplanina 200 mg ½ fiala per 2 volte/die in sacca di Glucosata 1,36% da tenere in addome 6 ore per 21 giorni. Pochi giorni dopo abbiamo deciso di sostituire una delle sacche di Glucosata 1,36% con dell’Icodestrina 7,5% per aumentare la sosta dell’antibiotico in addome. Dopo due giorni dall’inizio della terapia si è evidenziato un calo della PCR e dei GB, con la scomparsa dei GB nel dialisato. L’ecografia di controllo effettuata sette giorni dopo mostrava un sensibile miglioramento (Figura 2C).

Terminata la terapia antibiotica intraperitoneale, nonostante la normalizzazione dei parametri clinici, laboratoristici e di diagnostica strumentale, abbiamo continuato la terapia antibiotica profilattica per os con 250 mg/die di Levofloxacina per 15 giorni. Tale trattamento ha portato ad una completa risoluzione della sintomatologia e ad una normalizzazione dei parametri ematochimici (Tabella 1); l’ecografia mostrava una completa normalizzazione del quadro (Figura 2D).

 

Complicanze infettive dell’ADPKD: epidemiologia, diagnosi e trattamento

Le infezioni di cisti renali ed epatiche sono tra le più importanti complicanze infettive dell’ADPKD; spesso conducono all’ospedalizzazione (15% dei ricoveri in pazienti con ADPKD) e necessitano di trattamento invasivo [810]. Le cisti epatiche risultano più complesse rispetto a quelle renali. L’incidenza di infezioni è di 0,01 episodi/paziente/anno e tra i fattori predisponenti troviamo l’età, il sesso femminile e la recente esecuzione di esami invasivi del tratto genitourinario [7]. La diagnosi e il trattamento sono ancora abbastanza controversi [11]. Prima di sospettare un’infezione delle cisti si deve escludere la presenza di altri possibili focolai infettivi. Clinicamente il paziente potrebbe presentare febbre (generalmente con T >38,5° per più di 3 giorni) e dolore aspecifico addominale vicino alla sede renale o epatica. Agli esami ematochimici alcuni markers dell’infiammazione potrebbero risultare positivi: elevati valori di PCR (>50 mg/L) e leucocitosi neutrofila (GB >10 x109/L) [1113]. La presenza di emocolture positive, associate alla refrattarietà al trattamento antibiotico con Ampicillina e Aminoglicosidi (antibiotici con scarsa capacità di penetrazione nelle cisti), possono orientare verso la diagnosi di infezione della cisti epatica, anche se più spesso le emocolture sono negative. Nella maggior parte dei casi di infezione delle cisti epatiche abbiamo un lieve rialzo della fosfatasi alcalina e delle GGT, senza alterazione degli enzimi biliari se non nei casi associati a colangite [11, 12]. Nei pazienti asintomatici, però, gli esami di funzionalità epatica risultano normali. Caratteristico è l’aumento del valore del marker tumorale CA 19-9 [14]; esso risulta però abbastanza aspecifico, poichè lo si trova alterato solamente nel 40% di questi pazienti.

Nel sospetto di cisti epatica infetta, sono utili l’ecografia, la TC, la RM e la18F-FDG PET/CT. Solitamente la TC e la RM vengono prescritte quando si ha il sospetto di una cisti infetta accompagnata da un’emorragia, ma sono esami che hanno una scarsa specificità. In caso di cisti infetta in corso di ADPKD, l’ecografia evidenzia un pattern finemente granulare intracistico o una configurazione simile a vescicole; la TC rivela un contenuto cistico di aumentata densità, presenza di bolle d’aria intracistiche e ispessimento della parete cistica; alla RM vengono evidenziate delle immagini ad alta densità sia in T1 che in T2 e in DWI. Nel 93% dei casi, però, riusciamo ad arrivare ad una diagnosi definitiva solamente attraverso la 18F-FDG PET/CT, che è l’esame più sensibile e specifico. Un’altra strategia per poter giungere ad una diagnosi certa di cisti infetta in paziente con ADPKD è l’aspirazione del liquido intracistico della cisti complicata, che dimostri la presenza di GB o batteri al proprio interno [8, 10, 12, 13, 15]. È stato così identificato un mix di manifestazioni cliniche, indagini laboratoristiche e strumentali che possano aiutarci a raggiungere una diagnosi senza l’utilizzo di tecniche invasive [16].

Il trattamento della cisti epatica infetta prevede la somministrazione di antibiotici endovena, l’aspirazione del liquido infetto, lavaggi con soluzione fisiologica e infusione di antibiotici intracistici, fino alla resezione chirurgica nei casi più gravi. Solitamente, a causa della difficoltà nell’identificare il patogeno responsabile dell’infezione, viene prescritta una terapia empirica. Gli antibiotici hanno una diversa permeabilità all’interno della cisti: quelli idrosolubili (come penicilline e cefalosporine) hanno difficoltà a diffondersi dentro la cisti, mentre quelli liposolubili (come fluorochinolonici, tetracicline, vancomicina e trimetoprim-sulfametossazolo, che però viene sconsigliato in pazienti in ESRD) hanno una migliore penetrazione. Viene perciò preferito l’uso di questi ultimi, anche se proteggono principalmente da infezioni da Gram+. I fluorochinoloni, nonostante l’alta resistenza [8, 11, 13], sono gli antibiotici di prima scelta nel trattamento di questa complicanza; solitamente la percentuale di resistenza è maggiore quando le dimensioni della cisti infetta superano i 5 cm [8]. La terapia va continuata fino alla remissione dei sintomi e alla normalizzazione degli esami di laboratorio (almeno 4-6 settimane) [13].

Il drenaggio percutaneo con lavaggio con soluzione fisiologica della cisti o drenaggio chirurgico, invece, sono tecniche usate più raramente, quando persiste una importante sintomatologia clinica dopo due settimane di antibioticoterapia appropriata [11, 13].

 

Discussione

Secondo quanto descritto dal French Language Peritoneal Dialysis Registry [17, 18], solo nel 10% dei casi si usa la Dialisi Peritoneale (DP) per il trattamento sostitutivo dei pazienti affetti da ADPKD. A causa del paventato rischio di complicanze che si possono verificare scegliendo la DP, quali leakage, ernie, peritoniti, infezioni di cisti, inadeguatezza dialitica, viene spesso preferita l’emodialisi (in Spagna 84% vs 15%) [19]. In realtà, diversi studi hanno dimostrato che non vi sono differenze significative di frequenza delle complicanze tra i pazienti con diagnosi di ADPKD e i pazienti con altre glomerulopatie, ad eccezione del rischio di sviluppare ernie che è in effetti doppio nei pazienti con ADPKD [17, 18, 20, 21]. La maggior parte di questi studi, tuttavia, è priva dei dati riguardanti il volume dei reni. È stato dimostrato che la sopravvivenza generale del paziente e la sopravvivenza della metodica risultano invariate tra i pazienti in DP affetti da ADPKD e non [18, 21, 23]. Un altro tema controverso in letteratura riguarda le cause del fallimento della metodica: secondo Janeiro et al. sono direttamente correlati all’ADPKD [22]; in uno studio francese basato sul French Language Peritoneal Dialysis Registry, invece, è stato sì evidenziato un rischio elevato di cambio di metodica dialitica dopo 3-5 anni nei pazienti con ADPKD, che però non risulta significativo rispetto agli altri pazienti trattati mediante peritoneale [18]. Questo significa che il cambio di metodica è probabilmente dovuto ad alterazioni della membrana peritoneale, ad infezioni, o a problemi psicosociali, piuttosto che alla condizione di ADPKD.

Altri studi evidenziano come l’epatomegalia e l’elevato volume renale limitino l’efficacia della DP in quanto riducono l’area della membrana peritoneale che può partecipare agli scambi [24]. Per tale motivo, l’ADPKD è considerata una controindicazione relativamente alla DP, nonostante non aumentino nè il rischio di sviluppare peritoniti nè il rischio di morte [1718].

Attualmente le infezioni delle cisti sono la seconda causa di morte nei pazienti con ADPKD. I patogeni maggiormente responsabili di queste infezioni sono E. Coli, Klebsiella spp ed Enterococcus spp, ma talvolta si tratta di infezioni polimicrobiche [12, 13]. Arrivare ad una diagnosi risulta complesso perchè spesso il paziente manifesta un quadro clinico-laboratoristico sfumato e aspecifico che allontana da una corretta diagnosi [11]; anche nella nostra esperienza, descritta sopra, ci siamo scontrati con queste difficoltà.

Non esistono linee guida nè dati in letteratura che indichino come curare una cisti epatica infetta in corso di CKD Stadio 5, secondaria ad ADPKD, in dialisi peritoneale. Nel caso clinico riportato abbiamo osservato una traslocazione dei batteri dalla cisti epatica infetta al peritoneo: la conta leucocitaria del dialisato si è infatti positivizzata fino a 1000 GB/mL, nonostante non sia stato isolato il patogeno. Per raggiungere una diagnosi ci siamo riferiti alla classificazione di Sallée [8, 16] che prendeva in considerazione diversi parametri: febbre, dolore addominale, aumento della PCR e assenza di emorragie intracistiche alla TC (Tabella 2).

Abbiamo poi valutato l’andamento del CA 19.9 (Tabella 1) che è un parametro utile per monitorare la risposta al trattamento. Una volta esclusa l’emorragia, attraverso TC addominale senza mezzo di contrasto, abbiamo valutato l’andamento della complicanza ecograficamente, evitando un’ulteriore esposizione al mezzo di contrasto. Infatti, trattandosi di un paziente in corso di trattamento dialitico peritoneale incrementale, era necessario non danneggiare la funzione renale residua attraverso l’uso del mezzo di contrasto e di una dose troppo elevata di antibiotico; d’altra parte, si correva anche il rischio che l’antibiotico somministrato per via sistemica non riuscisse a raggiungere concentrazioni intracistiche sufficienti per debellare l’infezione. Nella somministrazione degli antibiotici intraperitoneali si è preferito impiegare dosaggi di teicoplanina e ceftazidime superiori a quelli normalmente indicati per il trattamento di una peritonite, al fine di assicurare una sufficiente penetrazione nella cisti epatica infetta. Purtroppo, non ci è stato possibile effettuare il monitoraggio della teicoplaninemia nel corso della somministrazione intraperitoneale dell’antibiotico, che sarebbe potuto essere di grande utilità per casi futuri.

L’aspirazione della cisti infetta permetterebbe di accertare la diagnosi e di identificare il patogeno responsabile dell’infezione ma è una procedura che nella maggior parte dei casi è troppo rischioso praticare: spesso, infatti, risulta difficile individuare precisamente la cisti infetta o eseguire tecnicamente l’agoaspirato. La 18F-FDG PET/CT permette di arrivare facilmente alla diagnosi ma, poichè è un’indagine molto costosa e con lunghe liste d’attesa, non è sempre possibile effettuarla. Si preferisce ricorrere ad indagini meno costose, ma anche meno precise, quali l’ecografia, la TC e la RMN. Risulta fondamentale anche la creazione di un team multidisciplinare formato da nefrologi e radiologi che tenga sotto stretto follow up il paziente [810, 12]. La difficoltà nell’individuare il patogeno crea problemi nella scelta della terapia antibiotica: infatti, se da una parte è necessario scegliere dei farmaci che raggiungano l’interno della cisti (come fluorochinoloni, trimetroprim-sulfametossazolo, vancomicina e clindamicina), dall’altra bisogna valutare la sensibilità del patogeno e spesso, come nel caso del nostro paziente, questo non è possibile. Nella maggior parte delle strutture, pur in presenza di una radiologia interventistica e di personale formato, si evita questa via a causa degli alti costi e rischi della procedura, preferendo quindi instaurare una terapia antibiotica empirica che vada a coprire sia lo spettro dei Gram+, che quello dei Gram. Nel caso in cui la febbre persista dopo 2 settimane, è necessario percorrere la strada del drenaggio chirurgico o percutaneo. La terapia può richiedere anche una durata di diversi mesi per la risoluzione completa dell’infezione.

Nel caso descritto qui non è stato possibile effettuare l’agoaspirazione della cisti, con conseguente isolamento e coltura del patogeno ed antibiogramma, che ci avrebbe permesso di iniziare una terapia antibiotica mirata. Abbiamo quindi provato a trattare l’infezione attraverso la via intraperitoneale, un’opzione mai descritta finora in letteratura. Speravamo infatti che, attraverso questa via, una maggiore concentrazione locale di antibiotico potesse raggiungere il sito d’infezione, riducendo il rischio di effetti collaterali di tipo sistemico. Il nostro obiettivo era evitare una somministrazione di importanti quantità di antibiotico per via sistemica, ben sapendo che solo una piccola quantità sarebbe riuscita a raggiungere l’interno della cisti epatica con una concentrazione adeguata per sconfiggere l’infezione.

 

Conclusioni

Le manifestazioni cliniche, insieme alle indagini laboratoristiche e strumentali, possono aiutarci a raggiungere una diagnosi di infezione di cisti renali o epatiche senza l’utilizzo di tecniche invasive. Sebbene la dialisi peritoneale non sia generalmente il trattamento sostitutivo di prima scelta (le si preferisce l’emodialisi nella maggior parte dei centri), in questo caso si è rivelata estremamente utile per il trattamento dell’infezione della cisti epatica. Infatti, nonostante il trattamento convenzionale preveda lunghe terapie endovenose, il nostro caso clinico ha dimostrato che la somministrazione intraperitoneale di antibiotico è un’alternativa sicura ed efficace alla via endovenosa per trattare le infezioni delle cisti epatiche nelle sezioni del fegato ricoperte dal peritoneo (Figura 3). Nel caso specifico l’evoluzione è stata monitorata con frequenti ecografie addominali che hanno mostrato una brillante risoluzione alla fine del trattamento.

 

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