Settembre Ottobre 2024 - In depth review

Thrombosis in Hemodialysis Tunnelled Central Venous Catheters: From Pathogenesis to Therapeutic Strategies

Abstract

Central venous catheter-related thrombosis is a frequent non-infectious complication, typically associated with catheter dysfunction and hemodialysis inadequacy. Central venous catheters (CVCs) are categorized into non-tunnelled and tunnelled types, wherein the choice depends on patient’s clinical conditions and the diagnostic and therapeutic workup. Tunnelled CVCs (tCVCs) are sought whenever an arteriovenous fistula is unfeasible or as primary access in patients with poor prognosis.
Dysfunction is defined as the inability to maintain adequate blood flow within the prescribed dialytic session.
Amongst non-infectious complications causing tCVC malfunctioning, thrombosis is the most frequent, and it is further classified into intrinsic (being endoluminal, pericatheter or fibrin sleeve-associated thrombosis) and extrinsic forms (including mural and atrial thrombosis).
Diagnosis requires imaging tests like chest X-ray or abdominal X-ray, echocardiography, dynamic catheterography and computed tomography.
Pharmacological treatment involves use of local thrombolytic agents. In case of extrinsic thrombosis, systemic anticoagulation is mandatory, occasionally requiring tCVC replacement.
Prevention of thrombotic complications includes adequate positioning and appropriate use of the tCVC, with anticoagulant/antimicrobial-based locking solutions playing a crucial role in this context. In cases of extrinsic thrombosis, treatment options vary based on thrombus size, ranging from a conservative approach availing of systemic anticoagulation to surgical interventions like thrombectomy or thrombus aspiration, possibly associated with tCVC removal.
In conclusion, late dysfunction of tCVCs is primarily due to thrombosis, thus requiring diagnostic imaging and specific drug therapies. Prevention is crucial to minimize complications.

Keywords: Central venous catheter, thrombosis vascular accesses, hemodialysis

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Introduzione

La trombosi del catetere venoso centrale (CVC), insieme alla stenosi venosa e alla disfunzione meccanica, rientra tra le complicanze non infettive, il più delle volte tardive, del CVC ed è associata a malfunzionamento, bassi flussi ematici e inadeguatezza dialitica [1]. Si tratta di una complicanza tra le più frequenti nella comune pratica clinica di emodialisi. Pertanto, compito essenziale del team degli accessi vascolari è quello di prevenire, riconoscere e trattare tempestivamente le cause del malfunzionamento, in particolare la trombosi del CVC, spesso associata ad eventi fatali. Il nefrologo utilizza due tipologie di CVC: i non tunnellizzati (ntCVC), detti anche cateteri temporanei, non cuffiati, il cui utilizzo è limitato a un massimo di 15 giorni dal posizionamento e i cateteri tunnellizzati (tCVC), cuffiati, adatti a un uso più prolungato in assenza di accessi vascolari alternativi. La scelta del tipo di catetere è determinata dalle condizioni cliniche generali del paziente e dalla valutazione prognostica effettuata in prima istanza. Generalmente, si ricorre al tCVC come accesso vascolare (AV) di scelta qualora non vi sia un patrimonio vascolare adeguato all’allestimento di una fistola arterovenosa (FAV) nativa o protesica, oppure come prima opzione in presenza di controindicazioni al confezionamento di un AV alternativo (e.g. scompenso cardiaco di grado severo) o nei casi in cui l’aspettativa di vita sia inferiore a un anno. Il ntCVC, invece, viene prevalentemente utilizzato nell’ambito del trattamento dell’insufficienza renale acuta, nei pazienti late referral in caso di urgenza all’avvio a terapia dialitica o, per brevi periodi, come bridge in attesa della maturazione dell’AV definitivo. Occorre ricordare che, come suggerito dalle linee guida KDOQI, i ntCVC devono essere tenuti in situ per un periodo di tempo non superiore alle due settimane a causa dell’elevato rischio di infezioni, specialmente se posizionati in vena femorale e in soggetti obesi [2]. In questa Review metteremo a fuoco gli aspetti patogenetici, clinici e terapeutici peculiari della trombosi correlata al tCVC per emodialisi.

 

Prevalenza dei tCVC

Secondo i dati dello studio Dialysis Outcomes and Practice Patterns Study (DOPPS), pubblicati nel 2015, nei pazienti prevalenti, cioè in emodialisi da più di tre mesi, i tCVC rappresentavano mediamente il 17-18% di tutti gli AV a livello globale, pur con notevoli differenze tra i Paesi partecipanti allo studio. La prevalenza variava dall’1-1,5% del Giappone, all’11% dell’Australia/Nuova Zelanda, al 15% di USA e Germania, al 16% dell’Inghilterra, il 25% dell’Italia, fino a un 45% del Canada [3]. Nel più recente report annuale del United States Renal Data System (USRDS) del 2023 (con dati relativi al 2021) è evidente come si stia assistendo a un aumento significativo della prevalenza di pazienti avviati ad emodialisi con un CVC, raggiungendo valori pari al 23% [4]. Diverse sono le ragioni che possono spiegare questo incremento e le ampie differenze riscontrate tra i diversi Paesi. Di certo, l’invecchiamento della popolazione e la crescente prevalenza di comorbidità, il diverso modello organizzativo, come pure la politica dei trapianti di rene e i problemi culturali, hanno contributo in modo significativo nella scelta dell’AV. Riguardo alla situazione italiana, una recente indagine condotta dal Gruppo di Progetto degli Accessi Vascolari della Società Italiana di Nefrologia, che ha riguardato 161 centri per un totale di 15.499 pazienti, ha confermato il trend in incremento della prevalenza dei tCVC, con percentuali che raggiungono mediamente il 34,5% e differenze tra i vari centri che oscillano dal 19% al 46% [5].

 

Fisiopatologia della trombosi del CVC

La patogenesi della trombosi si basa sulla cosiddetta triade di Virchow, i cui elementi sono rappresentati dal danno endoteliale, la stasi e l’ipercoagulabilità. La trombogenesi è favorita dal danno endoteliale, secondario al trauma vascolare causato dall’inserimento del CVC, da condizioni di ipercoagulabilità, quali stati trombofilici, infiammazione, neoplasie, o sepsi, e dalla stasi ematica (ad es. ristagno di sangue nel tip del CVC per la dispersione della locking solution nel torrente circolatorio, uso del CVC per infusione di fluidi e anche per la particolare emodinamica atriale o all’interno dello stesso CVC) [6]. Di recente, alcuni modelli di fluidodinamica computazionale relativi alla circolazione nell’atrio destro hanno dimostrato come le linee di flusso provenienti dalla vena cava superiore e inferiore generino aree a elevata vorticità con rallentamenti del flusso ematico, tali da favorire l’attivazione e l’aggregazione piastrinica, con la successiva formazione di trombi pericatetere [7]. Altri pattern di flusso all’interno dello stesso CVC, in particolare a livello del tip e dei fori laterali, possono favorire il processo trombotico [8]. Nella trombosi intrinseca indotta dal fibrin sheath/sleeve, quest’ultimo è un vero e proprio tessuto formato da cellule e collagene che riveste l’intero catetere. Dopo l’inserimento del CVC e il danno iniziale della parete vascolare, segue una fase infiammatoria caratterizzata dalla trans-differenziazione fenotipica delle cellule muscolari lisce attivate, che acquisiscono capacità sintetica con la formazione di ponti di fibrina, adesione piastrinica ed infiltrati di neutrofili e monociti. In tal modo, si genera un tessuto misto pauci-cellulare composto da matrice extracellulare, fibroblasti, collagene e cellule muscolari lisce ed endoteliali. Tale tessuto riveste progressivamente il CVC per tutta la sua lunghezza entro un mese dal posizionamento dello stesso [9, 10].

 

La disfunzione trombotica nel tCVC

Le linee guida spagnole [11] definiscono la disfunzione del CVC come l’impossibilità di ottenere o mantenere un flusso ematico adeguato (flusso della pompa sangue non inferiore a 300 ml/min).  Le linee guida KDOQI pubblicate nel 2019, invece, contrariamente alle precedenti del 2006, non fanno riferimento a un valore target di flusso ematico, ma si limitano a definire la disfunzione come l’impossibilità di mantenere il flusso di sangue extracorporeo richiesto per una dialisi adeguata, senza necessità di prolungare la durata del trattamento [2]. Nella pratica clinica, la performance del CVC viene valutata sulla base di parametri operativi quali il flusso della pompa sangue, la pressione arteriosa di aspirazione (negativa) e la pressione venosa di rientro (positiva). Il costante monitoraggio delle singole variazioni e, soprattutto, del trend di questi parametri, permette di identificare tempestivamente la disfunzione del dispositivo. Il malfunzionamento del CVC può manifestarsi precocemente, subito dopo il posizionamento, già nel corso della prima dialisi o nella prima settimana; o più tardivamente, dopo mesi o anni nei quali la performance e i flussi ematici sono stati adeguati. Il tempo di insorgenza può orientare la diagnosi. Nel primo caso si tratta quasi sempre di complicanze di natura meccanica, kinking o errati posizionamenti del tip; mentre, nel secondo caso si tratta tipicamente di complicanze trombotiche. Altre volte, il malfunzionamento tardivo dipende da stenosi venose centrali o da migrazioni del tip.

Le trombosi del CVC sono classificabili in intrinseche, quali la trombosi endoluminale, la trombosi pericatetere e la trombosi secondaria a fibrin sleeve, ed estrinseche, quindi la trombosi murale o atriale (Figura 1) [11, 12], sebbene siano possibili sovrapposizioni tra le diverse forme (Figura 2).

È importante notare come, nei primi due anni dal posizionamento del tCVC, oltre un terzo dei pazienti necessiti di re-interventi per disfunzioni secondarie a problemi di inflow/outflow del dispositivo [13].

La posizione corretta del tip è un fattore cruciale per il buon funzionamento del CVC, benché rappresenti contestualmente un fattore predisponente per l’insorgenza di complicanze trombotiche. Quando il tip è localizzato in vena cava superiore, il CVC generalmente avrà un basso flusso ematico, un’elevata pressione arteriosa di aspirazione, un elevato rischio di stenosi e di trombosi intrinseca. Qualora sia localizzato nella giunzione cavo-atriale (sede consigliata per i ntCVC), il flusso ematico potrebbe essere adeguato, malgrado persista il rischio di stenosi venosa e di trombosi intrinseca, associandosi, inoltre, al rischio di trombosi atriale. Nel caso in cui, invece, il tip sia localizzato a metà dell’atrio destro (sede consigliata per i tCVC) il flusso sarà adeguato, ma al rischio di trombosi intrinseca, si aggiungerà l’elevato rischio di trombosi atriale correlata al CVC, definita come catheter-related right atrial thrombosis (CRAT) [14]. Si tratta di una grave complicanza non rara, riportata intorno al 5,4-12,5% secondo le casistiche, certamente sottostimata per le difficoltà diagnostiche, con un rischio di embolia polmonare del 14% e di mortalità del 18,3% [15].

Figura 1. Classificazione delle trombosi dei CVC (da ref.11, modificato).
Figura 1. Classificazione delle trombosi dei CVC (da ref.11, modificato).
Figura 2. CVC con fibrin sleeve e trombosi estrinseca della punta.
Figura 2. CVC con fibrin sleeve e trombosi estrinseca della punta.

 

La diagnosi

Nella pratica clinica, la trombosi può essere sospettata ogni qual volta si manifesti un malfunzionamento tardivo.

Le trombosi intrinseche si manifestano con l’impossibilità di infondere o aspirare sangue dal CVC; due forme peculiari di trombosi pericatetere e trombosi secondaria a fibrin sleeve, rispettivamente, sono rappresentate dalla trombosi del tip e la presenza del fibrin tail; entrambe possono dare luogo a un meccanismo a valvola che permette la restituzione, ma non l’aspirazione di sangue. Le trombosi estrinseche, invece, possono manifestarsi talvolta con fuoriuscita dei liquidi iniettati dall’exit site, dolore e progressiva riduzione della performance del CVC [11].

Il percorso diagnostico strumentale prevede in prima istanza l’esecuzione dell’Rx torace o, nel caso di un CVC in vena femorale, l’Rx addome per escludere l’eventuale migrazione o dislocazione del tip. L’ecocardiografia con visualizzazione del tip nell’atrio destro può essere di aiuto nei casi di trombosi murale o di CRAT. La cateterografia con somministrazione del mezzo di contrasto in entrambi i lumi del CVC permette, nel caso di risalita del contrasto all’interno della guaina (effetto “a camicia”), di diagnosticare la presenza del fibrin sleeve (Figura 3)In ultimo, la tomografia computerizzata (TC) offre una visione panoramica delle vene centrali, utile a diagnosticare l’eventuale presenza di stenosi, trombosi venosa o trombosi atriale [6, 11].

Cateterografia di CVC con fibrin sleeve senza mezzo di contrasto
Figura 3. A) Cateterografia di CVC con fibrin sleeve senza mezzo di contrasto. B) Cateterografia di CVC con fibrin sleeve dopo somministrazione di mezzo di contrasto.

 

Terapia

Prima di ricorrere ai farmaci trombolitici, può essere utile effettuare lavaggi rapidi e vigorosi di entrambi i lumi del CVC con soluzione fisiologica. Il più delle volte, la pressione di infusione è sufficiente a rimuovere piccoli trombi, consentendo il ripristino del flusso. Talvolta, nei casi di deplezione del volume, può essere utile mettere il paziente in posizione di Trendelenburg. L’inversione delle linee ematiche può fungere da soluzione temporanea per completare la seduta dialitica, benché occorra sempre valutare l’entità del ricircolo e ricercarne le cause.

La terapia fibrinolitica è l’approccio farmacologico di prima scelta nelle trombosi intrinseche e può essere effettuata con diverse modalità, secondo protocolli raccomandati dalle principali linee guida [2, 11]. L’urochinasi ad alte concentrazioni (50.000 UI/ml) può essere usato per il riempimento di entrambi i lumi del CVC all’inizio della seduta emodialitica. Il farmaco deve stazionare per almeno 30-90 minuti; si deve poi lavare vigorosamente il CVC con soluzione fisiologica. La procedura si ripete in caso di insuccesso e al termine del trattamento dialitico si può effettuare un ulteriore riempimento del CVC con urochinasi come locking solution. Lo stesso farmaco può essere somministrato anche durante la seduta fino a 250.000 UI diluito in 250 ml di soluzione fisiologica. In alternativa, è possibile utilizzare l’attivatore tissutale ricombinante del plasminogeno (rtPA o alteplase) 2 mg per lume, con un tempo di stazionamento di 30-120 minuti. L’rtPA può essere somministrato anche a piccoli boli ogni 10 minuti per 3 volte (push method) o mediante infusione continua di 2,5 mg in 50 ml di soluzione fisiologica in 3 ore [2, 11]. Nonostante la superiorità trombolitica dell’rtPA rispetto all’urochinasi, il costo più elevato e le difficoltà di approvvigionamento ne inficiano l’utilizzo sistematico a livello nazionale. Tra i nuovi agenti ricombinanti, meritevole di menzione è la reteplase, un attivatore del plasminogeno ricombinante di terza generazione con tempi di stazionamento inferiori e tassi di clearance del CVC che raggiungono il 95% dopo una singola somministrazione [16, 17].

Qualora la causa della disfunzione sia ascrivibile alla presenza di fibrin sleeve, nell’80% dei casi la sola terapia farmacologica non sarà risolutiva nel lungo termine, rendendo necessario il ricorso a procedure meccaniche invasive quali il riposizionamento del CVC associato ad angioplastica o stripping della guaina, oppure all’inserimento di un nuovo CVC in altra sede [2, 21].

Nel caso di trombosi estrinseca (trombi murali o atriali), l’anticoagulazione sistemica rappresenta la prima linea di trattamento, benché non vi sia consenso in letteratura sulla sua durata che varia da 8 giorni a oltre 6 mesi [16]. Tuttavia, nei casi a basso rischio di embolizzazione (trombi < 1 cm, non flottanti, in assenza di infezione) è sufficiente la sorveglianza mediante ecocardiografia ogni 3 mesi. Nei casi con rischio moderato o elevato (trombi < 2 cm, oppure < 6 cm) vi è indicazione all’avvio di terapia trombolitica, seguita da terapia anticoagulante sistemica con warfarin (I.N.R. compreso tra 2-3) per 6 mesi o fino a completa dissoluzione del trombo. Per trombi di dimensioni superiori a 6 cm vige l’indicazione all’approccio chirurgico mediante trombectomia o tromboaspirazione. La rimozione del CVC è suggerita solo nei casi di inutilizzo, malfunzionamento non suscettibile di trattamento o persistente, sussistenza di controindicazioni assolute alla terapia anticoagulante sistemica, oppure in caso di quadri trombotici potenzialmente fatali [16].

Nei casi di CRAT in cui il CVC rappresenti l’unica via di accesso al torrente circolatorio, in assenza di accessi vascolari alternativi, è mandatorio optare per una terapia conservativa. Questa include la profilassi antibiotica, l’anticoagulazione sistemica con eparina e successiva embricazione con antagonisti della vitamina K (VKA), mantenendo l’I.N.R. tra 2,5 e 3 in associazione all’uso di un agente trombolitico (e.g. urochinasi 50.000 UI) come locking solution del CVC. La terapia può essere modulata in base ai risultati del follow-up con ecocardiogramma utile alla valutazione dell’eventuale risoluzione del trombo (Figura 4) [18].

Voluminoso trombo atriale in paziente con infezione del CVC e lieve versamento pericardico
Figura 4. A) Voluminoso trombo atriale in paziente con infezione del CVC e lieve versamento pericardico. B) Completa risoluzione del trombo dopo 6 mesi di terapia con antagonisti della vitamina K.

 

Prevenzione

La prevenzione della trombosi sia intrinseca che estrinseca del CVC inizia dalla scelta del catetere più appropriato per il paziente e dal suo corretto utilizzo. Per limitare i danni endoteliali e il rischio trombotico, il calibro del CVC non dovrebbe superare il 30% del calibro del vaso [19]; inoltre, l’utilizzo del device deve riguardare esclusivamente il trattamento dialitico, con lavaggio flush-and-lock al termine della seduta e messa in posa di locking solution [20]. Sono disponibili in commercio numerose soluzioni lock contenenti farmaci ad attività anticoagulante e/o antimicrobica. Tra le più comunemente utilizzate troviamo: l’eparina, il citrato 4%, l’urochinasi, il sodio bicarbonato e la taurolidina. Le linee guida KDOQI rimandano al giudizio del clinico la scelta di usare eparina o citrato; suggeriscono, inoltre, una profilassi monosettimanale con rtPA come soluzione lock per la prevenzione del malfunzionamento. È sconsigliato, invece, l’uso di anticoagulanti sistemici al solo scopo di migliorare la pervietà del CVC [2].

 

Conclusioni

La disfunzione tardiva del tCVC è abitualmente causata da trombosi intrinseca o estrinseca, più raramente è dovuta a stenosi venose centrali o alla migrazione del tip. Fattori legati al paziente (trombofilia, infiammazione, patologie oncologiche, sepsi) e fattori legati al CVC (posizione del tip, uso inappropriato del CVC) giocano un ruolo cruciale nella trombogenesi. La diagnosi non è sempre agevole e necessita talvolta di esami strumentali quali l’Rx torace o addome, l’ecocardiografia, la cateterografia e la TC. La terapia prevede l’uso di fibrinolitici loco-regionali per le trombosi intrinseche; nelle forme estrinseche, invece, è necessario avvalersi di farmaci trombolitici locali in associazione con anticoagulanti sistemici, talvolta ricorrendo alla sostituzione del CVC. Nei casi di fibrin sleeve si deve procedere al riposizionamento del CVC, con angioplastica o stripping della guaina di fibrina, oppure all’inserimento in altra sede. La prevenzione si effettua con locking solution con effetto anticoagulante o fibrinolitico.

 

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