Marzo Aprile 2024 - Editorial

The Medical Art Towards New Paradigms

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Medicina e salute sono termini di un binomio inscindibilmente legato alla vita, chiusa tra l’alfa del travaglio fisico della nascita (ce lo ricordano i versi leopardiani: “Nasce l’uomo a fatica ed è rischio di morte il nascimento”) e l’omega del travaglio fisico della morte.

La medicina, in definitiva, è campo dal quale nessun umano può dirsi estraneo. Foucault perciò ha potuto scrivere: Di qui il posto determinante della medicina nell’architettura d’insieme delle scienze umane [1].

Ciò spiega perché di essa, non della sua pratica, ma del modo d’intenderla possano occuparsene anche non medici. D’altronde lo studio dei fini e dei metodi di una disciplina ha il nome di epistemologia, che è una branca della filosofia.

Ma proprio in questo essere la medicina strettamente connessa alla vita umana risiede la problematicità nel definirne l’essenza.

La letteratura, che è specchio della vita, offre un campionario sconfinato di capitoli intorno a medici e medicina.

Una delle più icastiche descrizioni del rapporto medico-paziente è nella prima pagina delle Memorie di Adriano di Margherita Yourcenar. Di fronte al suo medico, che visitandolo mostra sincera ‘compassione’, cercando di dissimulare la gravità del caso, l’imperatore avverte comunque l’inedita sensazione d’impotenza e dice di sentirsi ridotto a puro aggregato di carne e sangue e perciò spogliato della dignità non solo d’imperatore, ma finanche di uomo.

In questa scena, anche oltre le parole, si può scorgere l’intera gamma di sentimenti che animano il complesso e difficile rapporto medico-paziente.  C’è, implicita, l’ansiosa attesa del verdetto, la fiducia nel medico, unita alla consapevolezza dei limiti della scienza e l’implicito invito ad evitare quello che chiamiamo accanimento terapeutico. Ma su tutto sovrasta, con valenza universale, il sentimento d’oggettiva minorità e impotenza del paziente di fronte al medico.

Quest’insieme di situazioni e sensazioni è il brodo di coltura in cui si sviluppa la diffidenza e la non rara sorda ostilità del paziente verso il medico, alimentata di volta in volta da quel sottile, inconfessato sentimento di delusione rispetto alle mancate aspettative salvifiche o da quell’altrettanto sottile sentimento d’invidia verso la posizione dominante del medico a fronte della propria oggettiva debolezza.

È opinione non peregrina che la nota iatrofobia di Petrarca nascesse proprio da quest’ultimo sentimento.

Nel nostro tempo la fallace idea che ai progressi della medicina debba immancabilmente corrispondere il risultato positivo va incrementando il senso di delusione del paziente o dei familiari quando i risultati non sono pari alle attese. In tal caso, dell’insuccesso si va sempre più affermando l’idea che responsabile debba essere ritenuto il medico. Da qui la violenza fisica verso di lui praticata in contesti in cui abitualmente ci si fa giustizia da soli, ma da qui anche la sempre più frequente pretesa di giustizia legale nei Tribunali, perché sembra che la casualità sia ormai bandita e che la colpa professionale sia presunta sempre e comunque, con conseguenze negative che si manifestano, tra l’altro, nel sempre più ridotto accesso ad alcune scuole di specializzazione e nella fuga dai reparti di prima linea.

In letteratura, tra gli autori che hanno dedicato alla medicina grande attenzione critica, va ricordato senz’altro Michel de Montaigne che, con la sua penna pungente, ha messo a fuoco le questioni di fondo intorno alla medicina.

Dalla convinzione che la medicina sia fondata su di un approccio esperienziale e che l’esperienza, per quanto ricca e varia possa essere, non di rado finisce per rivelarsi impotente rispetto all’assoluta singolarità della specifica malattia, che è specchio dell’assoluta singolarità del paziente concreto, Montaigne fa discendere il convincimento che, in definitiva, sia il caso a far da padrone nelle scelte mediche, più di quanto si creda. Scrive infatti:

Al medico si presentano tante malattie e tante circostanze, ma la sua esperienza non gli consente di giungere a risultati certi, perché il senno umano non consente orientarsi… Quando poi sia avvenuta la guarigione, come può esser certo che non sia stato perché il male aveva fatto il suo corso, o un effetto del caso, o l’azione di qualche altra cosa che egli abbia mangiato o bevuto o toccato quel giorno, o il merito delle preghiere di sua nonna? E quante volte occorrerebbe riannodare la lunga catena di casi e coincidenze per poterne dedurre una regola? E che accadrà se un altro ha fatto delle esperienze contrarie? [2].

Con queste riflessioni lo scettico Montaigne evoca la questione nodale, l’essenza stessa della medicina, fondata realmente sulla casistica e quindi sul probabilismo, che può conoscere, e di fatto conosce, eccezioni.

Pensieri non dissimili da quelli espressi già duemila anni fa da Aulo Cornelio Celso:

Esser la medicina arte congetturale; ed esser proprio della congettura, che, mentre il più delle volte corrisponde, talvolta pure fallisca [3].

A conferma di questo dato, negli ultimi tempi è fiorita una letteratura sul fenomeno delle guarigioni oncologiche spontanee che contraddicono appunto le casistiche consolidate.

Dal Cinquecento e fino ai giorni nostri lo statuto della medicina è stato questo criticato da Montaigne, naturalmente con una progressiva riduzione dell’incidenza del caso nelle decisioni e quindi nei risultati.

Infatti nel nostro tempo col susseguirsi di rivoluzioni scientifiche l’approccio empirico della medicina sta evolvendo in temini di sempre maggiore scientificità. Sono tanti e tutti straordinari i progressi che vediamo realizzarsi sotto i nostri occhi. Basterebbe ricordare la diagnostica per immagini e le endoscopie che consentono il miracolo di vedere e penetrare fin nei più reconditi anfratti di ogni organo e tutto quanto va disvelando lo studio del microbiota.

Altra innovazione, quasi fantascientifica, è quella della creazione degli organoidi. Finora per testare farmaci ci avvalevamo di modelli animali, prevalentemente topi, che hanno un genoma simile al nostro per circa il 95%. Oggi è possibile replicare in 3D, da cellule del paziente, un suo specifico organo su cui verificare l’efficacia di farmaci esistenti o, in funzione delle cui caratteristiche, realizzare farmaci, o vaccini, ad hoc.

Ma alcune grandi rivoluzioni in particolare stanno stravolgendo dalle fondamenta metodi d’indagine e approcci terapeutici e quindi lo statuto stesso della medicina.

La prima è la rivoluzione genetica che dopo un lungo percorso iniziato ai primi del Novecento, proseguito intorno alla metà del secolo con la scoperta della doppia elica ha portato al sequenziamento dell’intero genoma umano. Grazie alla genomica strutturale ormai conosciamo di quanti e quali geni è fatto il nostro corpo, anche se non sappiamo ancora quale sia la specifica funzione della gran parte di essi e soprattutto quale siano le modalità e gli effetti dell’interazione tra loro, compito proprio di quella branca definita genomica funzionale. La genetica medica negli ultimi dieci anni ha consentito di identificare oltre mille nuove malattie e centinaia di nuovi geni-malattia [4].

Altra rivoluzione importante è quella delle cosiddette scienze omiche, capaci di offrire completezza e pienezza informativa anche sui più minuti sistemi biologici.

Capitolo in inarrestabile evoluzione è quello dell’intelligenza artificiale con le sue infinite applicazioni in campo medico.

Tutte queste straordinarie innovazioni sono a loro volta debitrici verso la rivoluzione dei big data, con la possibilità di processare e offrire una straordinaria quantità di dati.

Ma se per qualche tempo ci si era illusi che la genetica potesse affermarsi come campo di leggi certe, l’epigenetica ha provveduto a far svanire i sogni del rigore deterministico, aprendo nuovi orizzonti [5, 6].

Si potrebbe in proposito richiamare quanto di ancor più sconvolgente si è realizzato nella fisica dell’ultimo secolo che ha mandato in soffitta il tradizionale approccio deterministico per affermare quello quantistico-probabilistico.

Volgendo lo sguardo al passato, possiamo ben dire che l’epigenetica ha dato dignità scientifica ad un’intuizione presente già nella saggezza ippocratica.

In un testo del Corpus hippocraticum, Sull’antica medicina, è infatti scritto:

È necessario per ogni medico lo studio della natura umana; e se egli vuole compiere il proprio dovere, ha bisogno di sapere in quali rapporti trovasi l’uomo coi suoi cibi, le sue bevande e con tutto il suo genere di vita, e quale influenza esercita ciascuna cosa sull’altra [7].

Tutto ciò consente di approfondire sempre più la condizione del singolo paziente, sicché non più la malattia come categoria astratta è al centro della medicina, ma lo è sempre più il malato nella sua specifica singolarità.

Ciò dimostra che Montaigne aveva colto il focus logico del problema. Certo esagerava, ma forse a quel tempo neanche tanto, nell’affermare che, nell’approccio probabilistico, era il caso che il più delle volte la faceva da padrone nella medicina.

Il combinato di tutte queste rivoluzioni ha consentito l’approdo a quella che viene definita medicina personalizzata (nella versione americana pare che si prediliga l’espressione medicina di precisione, anche se non manca chi individua sottili differenze di senso tra le due espressioni).

Medicina personalizzata, dunque, nuovo modo d’intendere l’antica arte medica, perché fonda prevenzione e cura non solo sull’individuazione delle caratteristiche genotipiche del singolo, ma anche sulla necessità di conoscere e studiare lo specifico stile di vita del singolo paziente e il contesto ambientale in cui è immerso.

Naturalmente tutto ciò richiede un adeguamento tecnologico delle strutture sanitarie sperabilmente generalizzato e, ovviamente, trascina con sé la questione economica e sociale dei costi. Non è facile allo stato fare previsioni puntuali, né questa è la sede idonea. Sul piatto della bilancia si dovrà comunque mettere il costo, pesante in termini economici e sociali, delle terapie somministrate senza successo per l’oggettiva incapacità di aggredire la specifica condizione patologica del singolo paziente.

Poiché però ogni medaglia ha il suo rovescio, in questa medicina si annidano non pochi pericoli.

Nell’ultimo quarto del secolo scorso sono stati pubblicati due libri che possono ormai essere considerati due classici: La nemesi medica, sottotitolo L’espropriazione della salute di Ivan Illich e Il medico nell’età della tecnica di Karl Jaspers [8, 9]. Entrambi quarant’anni fa paventarono il pericolo dello schiacciamento del medico sotto l’imponenza degli apparati. A mala pena si intravedeva allora l’alba delle ricordate rivoluzioni, ma l’acume di questi due filosofi riuscì comunque a prefigurare, unitamente ai tanti vantaggi, anche i molti rischi derivanti dall’annunciato travolgente sviluppo scientifico e tecnologico.

E quei rischi stanno purtroppo prendendo corpo. Innovazioni, che ieri avremmo definito fantascientifiche, sono già realtà e minacciano di trasformare il medico in una rotella di ingranaggi sempre più complessi e di renderlo un iperspecialista, onnisciente sul particolare, ma ignorante sul tutto dell’uomo.

Si va facendo sempre concreto il rischio che la personalizzazione della medicina più che all’attenzione alla totalità dell’individuo possa ridursi all’attenzione e alla cura di sue parti specifiche.

Facendo ricorso a due espressioni sempre più utilizzate nel linguaggio medico, Evidence based medicine (EBM) e Narrative based medicine (NBM), c’è il rischio che quest’ultima, cioè il diretto rapporto medico paziente, l’attento ascolto della narrazione di quest’ultimo, resti sacrificato e come schiacciato dall’evidenza ‘scientifica’ indotta dalle straordinarie capacità strumentali a disposizione del medico.

Superato l’antico paradigma della medicina come attività esclusivamente esperienziale che traeva regole dall’astrazione casistica, c’è il rischio che la novità della decantata medicina personalizzata si traduca nell’attenzione soltanto a specifiche parti del corpo del paziente, con la conseguenza che, per altra via, l’uomo nella sua complessa unicità scompaia anche dai nuovi orizzonti della medicina.

Nell’eterno rincorrere l’ottimizzazione della formazione medica si sente spesso invocare la necessità di dare spazio al carattere interpretativo-dialogico della pratica medica. Invocazione pienamente accolta in un antico ordinamento dell’Italia meridionale. Un illuminato sovrano, Federico II, nella sua celebre Costituzione del 1231, affermando di voler proteggere i sudditi dall’imperizia dei medici, impose un molto lungo percorso formativo per renderli non solo esperti nella clinica e nella chirurgia, ma pronti all’ascolto del paziente e capaci di assumere le decisioni con adeguato vaglio critico: prescrisse perciò che gli studenti di medicina, prima di passare alle materie professionalizzanti, dovessero studiare logica per un triennio.

Questa sua rigorosa prescrizione mirava a rendere possibile quel ponderato giudizio personale del medico in ordine alle misure da adottare, già prescritto oltre mille anni prima da Ippocrate nel suo giuramento.

Proprio perché nell’esercizio della medicina è fondamentale la sintesi del medico, nutrita di tanti elementi: scienza, esperienza, ascolto, ma anche intuito (quante volte non si è sentito lodare “l’intuito” del medico?), la medicina non è solo ma anche arte.

In conclusione, il nuovo paradigma che si sta lodevolmente imponendo, può elevare il medico ad altezze inimmaginabili, grazie alla potenza degli apparati scientifici. Ma il risvolto è che questi stessi apparati possono fagocitarlo, comprimendone e finanche annullandone la capacità di ascolto del paziente rendendolo automa deresponsabilizzato.

Il bilanciamento e la neutralizzazione dei rischi insiti nell’inarrestabile accrescimento del sapere scientifico sono nella perenne stabilità del pensiero filosofico, da sempre rivolto all’uomo, alla sua essenza e al mistero della vita. Questa antica verità fu espressa con particolare trepidazione e sgomento da Benedetto Croce, all’indomani del bombardamento atomico di Hiroshima del 6 agosto 1945:

A parare il pericolo, e a trarre dalle scoperte scientifiche il bene che possono dare, si richiede … un maggiore avanzamento dell’intelletto, della fede morale, dello spirito religioso e, in una parola, dell’anima umana [10].

Ci sono tre parole, attribuite a Ippocrate, e richiamate da Karl Jaspers nel libro ricordato, che ancora oggi sono in grado di suggerire icasticamente al medico il senso della sua professione e insieme della specifica eticità della stessa: iatros philosophos isoteos, che si può intendere così: il medico, quando si fa anche filosofo, acquista una potenza divina!

 

Bibliografia

  1. Foucault M. Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico. Torino: Einaudi; 1969.
  2. de Montaigne M. Saggi. Milano: Bompiani; 2012.
  3. Celso AC. De Medicina. Firenze: Sansoni; 1904.
  4. Dallapiccola B. Traslazione della rivoluzione genetica nella pratica clinica. In: AA.VV., editor. L’unità delle due culture. Saveria Mannelli: Rubbettino; 2023.
  5. Di Lauro R. Nuovi concetti o cambi di paradigma in genetica ed evoluzione? In: AA.VV., editor. L’unità delle due culture. Saveria Mannelli: Rubbettino; 2023.
  6. Altucci L. Epigenetica: la scienza, l’ambiente e la memoria. In: AA.VV., L’unità delle due culture. Saveria Mannelli: Rubbettino; 2023.
  7. Covotti A. Medici e filosofi del V secolo. Napoli: Stab. Tip. Sangiovanni; 1916.
  8. I Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Mondadori 1977 (1976)
  9. Jaspers K. Il medico nell’età della tecnica. Milano: Raffaello Cortina; 1991.
  10. Croce B. La disgregazione dell’atomo e la vita dell’uomo. Il Risorgimento. 1945.