Marzo Aprile 2020 - Le nostre storie: vite di nefrologi

A life devoted to nephrology

Abstract

This paper by Mauro Sasdelli describes the dawn and the development of nephrology first in Bologna, where Sasdelli studied in the nineteen-sixties, and later in Arezzo; the author tells us of the dedication, the enthusiasm, the hard work of all involved, but also of their conflicts and banter. The paper describes the important contributions to nephrology made by prominent personalities such as Domenico Campanacci, Vittorio Bonomini and Pietro Zucchelli, not only at a local level but also more broadly. Finally, text and images of this “personal history” can also be read as the integration of an article published on this same journal in 2016, “The dawn of Nephrology and Dialysis in Bologna with Vittorio Bonomini and Pietro Zucchelli” (Giornale Italiano di Nefrologia, vol. 33, n. 4).

 

Keywords: history of nephrology, history of Italian nephrology, history of the Italian Society of Nephrology

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Introduzione

di Giovanni B. Fogazzi

Questo articolo, scritto da Mauro Sasdelli, descrive la nascita e lo sviluppo della nefrologia a Bologna (a partire dai primi anni ‘60 del secolo scorso) e poi ad Arezzo, così come sono stati vissuti in prima persona dall’autore, con grande dedizione, entusiasmo e molto lavoro, ma anche – come il lettore noterà – con spirito critico e allegria. Dallo scritto emerge inoltre l’importante contributo che forti personalità quali Domenico Campanacci, Vittorio Bonomini e Pietro Zucchelli diedero alla nostra specialità, non solo a livello locale. Infine, mi piace ricordare che questa “storia personale” va ad integrarsi, come testo e iconografia, con l’articolo pubblicato su questo stesso giornale nel 2016, “L’alba della Nefrologia e Dialisi a Bologna con Vittorio Bonomini e Pietro Zucchelli” (Giornale Italiano di Nefrologia, vol. 33, n. 4) [1].

Una vita dedicata alla nefrologia

Nel 1963 entrai come studente nell’Istituto di Patologia Medica dell’Università di Bologna diretto dal prof. Domenico Campanacci (1898-1986). Ero iscritto al 3° anno di medicina e gli studenti più anziani mi avevano consigliato di frequentare quell’istituto perché sarebbe stato più facile superare l’esame. Insieme a me entrarono altri studenti che, anni dopo, si sarebbero tutti dedicati alla nefrologia: Maurizio Fusaroli, Alberto Albertazzi, Alba Vangelista e Renata Caudarella.

La sezione di nefrologia era guidata da Vittorio Bonomini che aveva creato il laboratorio dedicato allo studio della fisiopatologia renale. Facevano parte della sezione Pietro Zucchelli, che svolgeva le funzioni di vice-capo ed era un grande esperto di metabolismo idroelettrolitico e acido-base, Vittorio Mioli che seguiva come un’ombra Bonomini, e Giampaolo Dalmastri, che poi divenne il medico della squadra di calcio del Bologna nell’anno in cui vinse lo scudetto. Tutti, tranne Bonomini, erano assistenti volontari.

La sezione di nefrologia era composta da tre stanze: in una c’era lo studio di Bonomini, una era dedicata al laboratorio e fungeva da studio per i medici e gli studenti e una era riservata agli esami delle urine, che venivano effettuati da un tecnico.

 

Fig. 1: Campanacci durante una lezione agli studenti. Terzo e quarto da sinistra rispettivamente Bonomini e Zucchelli

 

Il grande Maestro era Campanacci (Fig. 1), che era un personaggio affascinante dall’eloquio brillante, intercalato da citazioni letterarie, anche in latino (“natura nil facit per saltum”; “observatio et ratio”), e anche da detti e proverbi popolari, spesso in dialetto toscano. Era nato in una frazione vicino a Cortona, in provincia di Arezzo (a quel tempo, chi l’avrebbe mai detto che un giorno sarei finito a fare il primario di nefrologia vicino al suo paese natale!). Aveva, come si diceva allora, un grande occhio clinico, che derivava dalla solida preparazione e dal continuo aggiornamento, con al centro sempre l’interesse per il malato. Aveva scritto un trattato di Patologia Medica in 4 volumi [2], che era stato adottato da molte università italiane, e dirigeva la prestigiosa rivista “Il Giornale di Clinica Medica”. Era un “barone”, come si chiamavano allora i direttori di cattedra che avevano un enorme potere, sempre circondato dal suo gruppo di cortigiani, di cui poteva decidere le sorti nel bene o nel male. Nonostante questa sua superiorità, derivante dal ruolo che ricopriva, era semplice ed empatico ed era adorato dai suoi allievi. La sua idea geniale era stata di riconoscere che la medicina era diventata così complessa che non poteva esistere un medico “tuttologo”, depositario di tutto il sapere scientifico. Un concetto che negli anni ‘50 del secolo scorso non era accettato in ambito universitario, in quanto i baroni non ammettevano che qualcuno mettesse in dubbio la loro sapienza. Campanacci inviò i suoi medici all’estero, dove dovevano approfondire le loro conoscenze in una branca della medicina, anche se tutti dovevano avere profonde basi nella medicina interna. Favorì in tal modo la nascita nel suo istituto di diverse sezioni specialistiche, quali cardiologia, pneumologia, ematologia, gastroenterologia, endocrinologia, allergologia, nefrologia, medicina del lavoro, angiologia, e altre ancora.

Vittorio Bonomini era venuto da Parma al seguito del Maestro e aveva creato la sezione di Nefrologia. È stato il mio maestro per la nefrologia clinica: era un accentratore, dava ordini e non ammetteva replica. Si soffermava poco sui particolari, ma voleva, come diceva “arrivare al sodo”. Era il nefrologo dell’istituto, ma conosceva molto bene la medicina interna. Era un ottimo clinico e un insegnante brillante. Al di fuori della medicina aveva due passioni: il calcio, sia come giocatore sia come tifoso del Bologna, e il tiro a volo. Era un bravo tiratore e diventò il medico della squadra italiana di tiro a volo alle Olimpiadi del 1984 e del 1992.

Il suo vice era Pietro Zucchelli: serio, coi capelli arruffati (Campanacci lo aveva sopranominato “Jimmy Fontana”, un cantante molto famoso in quegli anni), gran lavoratore, sempre indaffarato. Con la calcolatrice in mano riempiva fogli di formule da cui traeva grafici e tabelle incomprensibili per tutti fuorché per lui. Gestiva il laboratorio, eseguendo in prima persona gli esami. Era il principe dei test funzionali, di cui nessuno conosceva gli autori tanto che sospettavamo che li avesse inventati lui, e solo lui sapeva interpretare i dati.

 

Fig. 2: Mauro Sasdelli nel laboratorio di Nefrologia (1964)

 

Il compito di noi studenti era eseguire gli esami di laboratorio (Fig. 2) e aiutare i medici in reparto. Si lavorava e si studiava in istituto, dove avevamo l’opportunità di seguire la visita dei grandi maestri, un modo formidabile per imparare la clinica sul malato. Erano ricoverati pazienti affetti da tutte le patologie, mentre i pazienti nefrologici erano scarsi e la diagnosi di uremia era una condanna a morte senza speranza. Il gruppo effettuava ricerche soprattutto sulla fisiopatologia renale, sulla diagnosi bioptica delle nefropatie e sugli effetti dei nuovi diuretici. Per studiare nuovi farmaci si utilizzavano pazienti ricoverati, senza chiedere il loro consenso né specificare a cosa servisse il farmaco. Mi diedero l’incarico di provare un nuovo diuretico, la furosemide, che dovevo iniettare endovena a dosi crescenti e raccogliere le urine ogni ora per 6 ore consecutive per lo studio del rapporto dose-risposta [3]. Una paziente mi chiese cosa le avevo iniettato, risposi che era una vitamina. Mi disse: “Sa che ho urinato tanto e sto molto meglio!”. Al terzo giorno le infermiere mi fecero notare che aveva urinato 6 litri in 24 ore: la paziente mi chiese di darle il nome della vitamina che aveva effetti così portentosi! Si lavorava tutti i giorni, medici e studenti a stretto contatto di gomito, senza orari o cartellini marcatempo con grande entusiasmo e impegno, ma anche con divertimento: Bonomini e Mioli erano grandi raccontatori di barzellette e frequenti erano le cene organizzate da Bonomini, a cui non si poteva mancare. Eravamo piccoli ingranaggi in una macchina da guerra, dove dovevamo essere umili e scattare ad eseguire gli ordini dei professori. Chi non si adeguava veniva allontanato, ma se lavoravi senza fare domande o porre problemi, potevi sperare che il megadirettore Campanacci avrebbe favorito la tua carriera.

Così ho vissuto quegli anni da studente in un ambiente stimolante e coinvolgente, a contatto con tanti maestri prestigiosi, al tempo stesso paternalistico e autoreferenziale, competitivo fino all’ esasperazione, dove il centro del mondo era l’istituto, il sapere scientifico era il vangelo e la carriera il massimo fine, con il rischio di perdere il contatto con il mondo esterno e gli affetti familiari. Ma io e Fusaroli avevamo le contromisure per non farci travolgere dalla vita ospedaliera, mantenendo la nostra personalità, le nostre idee, i nostri amori. E la valvola di sfogo era la “Goliardia” che io ho vissuto intensamente.

Nel 1963 tramite una donazione privata, arrivò in Istituto dall’America una macchina misteriosa della ditta Scribner-Sweden, chiamata “rene artificiale”, e cominciarono le prime emodialisi (Fig. 3) [1]. Noi giovani studenti partecipammo così alla nascita della dialisi, della cui importanza nessuno allora si rese conto: era nato il Centro di Dialisi dell’Ospedale S. Orsola (Fig. 4).

 

Fig. 3: Da sinistra: Bonomini, Zucchelli e Mioli durante le prime emodialisi (1964) (fotografia gentilmente fornita da Sergio Stefoni)

 

Fig. 4: Una sala dialisi del S. Orsola nel 1970 equipaggiata con i monitor Dasco e i filtri di Kiil (fotografia gentilmente fornita da Sergio Stefoni)

 

Fig. 5: Mauro Sasdelli al termine della discussione della tesi di laurea con Bonomini (1966)

 

Nel 1966 arrivai alla laurea. La mia tesi, che avevo preparato con Zucchelli e discusso con Bonomini, aveva come argomento il cateterismo bilaterale degli ureteri (noto come test di Howard) per la diagnosi dell’ipertensione renovascolare (Fig. 5). Nello stesso anno la tesi venne pubblicata [4]. Dopo la laurea, a 25 anni, ebbi la sospirata nomina ad assistente volontario della Patologia Medica (a zero lire). Lavoravo 10-12 ore al giorno e avevo la responsabilità di una sala di degenza dove facevo la visita e i prelievi. Poi andavo in laboratorio ad eseguire gli esami, tenevo lezioni ed esercitazioni per gli studenti, facevo i turni presso il “rene artificiale” e le guardie di notte e nei festivi: entravo il sabato mattina e uscivo il lunedì sera. Spesso la domenica mattina verso le sette sentivo bussare alla porta della stanza del medico di guardia. Era il direttore Campanacci che voleva iniziare la visita. Il portiere rapidamente telefonava a tutti i medici e in poco tempo, come d’incanto, l’istituto si riempiva: aiuti e assistenti, giovani e vecchi erano presenti.

La visita era il momento topico dell’attività dell’istituto, dove si decidevano le sorti e il futuro di noi assistenti. Ogni giorno arrivava in visita il capo-reparto che era un medico più anziano, libero docente e quindi professore, il quale discuteva il caso, suggeriva gli esami e l’eventuale terapia. Una volta la settimana passava in visita l’aiuto primario, Bruno Magnani, personaggio austero ed estremamente pignolo che metteva soggezione: ogni visita era un esame. La lettura dell’anamnesi, che doveva essere battuta a macchina, era l’incipit dove ogni frase veniva valutata, soppesata, discussa: i verbi, le virgole e i punti erano di fondamentale importanza. Arrivava poi il momento dell’esame obbiettivo, dove l’interrogatorio si faceva incalzante: il battito del polso radiale era “magnus”o”parvus”? I rumori alle basi polmonari erano crepitii o sfregamenti? Com’era il primo tono? C’era un soffio? E il secondo tono? (La diagnosi di valvulopatia veniva fatta con il fonendo e poi confermata con il fonocardiogramma). Ogni esame richiesto doveva essere giustificato dal sospetto diagnostico; sulla terapia per ogni farmaco si apriva un dibattito sulle indicazioni e controindicazioni e Magnani, che era un cardiologo, non perdonava sulle differenti indicazioni dello strofanto e della digitale. Nello scompenso cardiaco erano ancora in uso le sanguisughe che venivano prese da un vaso e messe sulla schiena del paziente.

Quando veniva in visita Campanacci, anche se lui ti faceva sentire a tuo agio, mi emozionavo a leggere l’anamnesi davanti a una marea di medici, infermieri e studenti. La visita dei pazienti era accuratissima dalla testa ai piedi; per l’auscultazione cardiaca usava uno stetoscopio di legno e, per quella polmonare, l’orecchio appoggiato direttamente al torace del paziente. Rimanevo estasiato ascoltando le sue dotte e geniali osservazioni che venivano completate dai vari specialisti dell’istituto. Lui poi traeva le conclusioni, poneva una diagnosi e suggeriva la terapia. Era veramente un personaggio eccezionale e carismatico.

Finita la visita, c’era la cerimonia dell’uscita del direttore dall’istituto. Pian piano da ogni stanza uscivano tutti e si formava un lungo corteo che vedeva davanti la capo-sala, gli aiuti, poi i medici anziani e via via tutti gli altri in un ordine gerarchico perfetto fino agli studenti, che chiudevano il corteo. Ognuno sapeva esattamente qual fosse il suo posto e non si sarebbe mai sognato di sgomitare perché sarebbe stato severamente redarguito. Campanacci impartiva le sue direttive e poi passava alle facezie (era un grande raccontatore di barzellette) per cui quelli vicini a lui ridevano. Quelli che come me erano distanti, non sentivano cosa dicesse e chiedevano informazioni a chi stava davanti ma, come nei sommergibili, queste arrivavano spesso distorte o frammentarie. Infine, il corteo usciva nel piazzale dell’istituto dove c’era l’auto del direttore nel suo posto riservato, davanti al muro. L’aiuto gli apriva lo sportello, lui si sedeva, ma continuava a chiacchierare e tutti circondavano la macchina. Dopo parecchi minuti, che sembravano non finire mai, specie nei giorni di pioggia o di freddo in quanto eravamo tutti con il solo camice addosso, il direttore ingranava la marcia. A quel punto avveniva il fuggi-fuggi generale: quasi sempre ingranava quella in avanti per cui l’auto andava a sbattere contro il muro, che era già screpolato per i numerosi colpi ricevuti in precedenza; poi, grattando, ingranava la retromarcia e andava a sbattere contro la rete di recinzione, e infine partiva rombando (Fig. 6). A quel punto tutti rientravano nelle loro stanze, felici e contenti di aver partecipato a un rito riservato a pochi eletti.

 

Fig. 6: Vignetta umoristica sulla partenza di Campanacci dall‘istituto di Patologia Medica

 

Dopo un anno venni chiamato nello studio del direttore: era seduto dietro alla sua scrivania di mogano e io ero emozionatissimo. Con fare amichevole mi disse “Caro Capecchi, mi vorrei complimentare per il lavoro svolto…” L’aiuto intervenne suggerendo “Professore, si chiama Sasdelli!” Ebbe un attimo di esitazione, ma continuò, annunciandomi che mi avrebbe mandato come premio per due mesi a fare il medico alle Terme di Brisighella in Romagna, di cui lui era il direttore scientifico. Quando uscii ero la felicità in persona, mi sembrava di volare: lui mi aveva parlato, anche se non era sicuro della mia identità, mi aveva premiato e avrei guadagnato i miei primi soldi! In realtà, di nascosto, mi arrangiavo già, sostituendo i medici della mutua quando andavano in ferie o erano in malattia, compreso Dalmastri che era spesso in trasferta con la squadra di calcio del Bologna, e poi facevo lezioni private di patologia medica agli studenti americani che a Bologna erano numerosissimi.

Nel 1965 mi iscrissi alla SIN e partecipai al congresso di Parma. Eravamo non più di cento e qui conobbi i grandi padri della Nefrologia italiana: Antonio Vercellone, Alberto Amerio, Enrico Fiaschi, Luigi Migone, Gabriele Monasterio e Carmelo Giordano. Eravamo una grande famiglia e ci conoscevamo tutti. Da allora ho partecipato a tutti i congressi nazionali della SIN fino alla mia pensione (Fig. 7).

 

Fig. 7: Congresso SIN di Bari 1972: Pietro Zucchelli in prima fila vicino a Claudio Ponticelli, in seconda fila Mauro Sasdelli e Antonio Santoro, in terza fila Luigi Catizone ed Ezio Degli Esposti.

 

Nel 1968 Campanacci andò in pensione e io e Fusaroli seguimmo Zucchelli all’Ospedale Malpighi di Bologna, dove aprimmo il nuovo Servizio di Nefrologia e Dialisi, inserito allora nella Divisione di Urologia diretta dal prof. Francesco Corrado. Zucchelli venne assunto come aiuto, io e Fusaroli come assistenti di urologia. Gli altri rimasero con Bonomini al S. Orsola.

Zucchelli era un ottimo clinico e l’ospedale era la sua vita ma non aveva un carattere facile, era un capo carismatico, dispotico, comandava ed esigeva obbedienza. Al mattino, per circa un’ora, era insopportabile: arrivava in ospedale alle sette e si metteva sulla porta ad aspettarci, urlando “Ben arrivato”. Per evitarlo, era meglio stargli alla larga e ritornare quando si era calmato; dopo diventava un angioletto, sorridente e allegro. Aveva un solo hobby, la pesca in fiume e in mare, nel quale cercò di coinvolgerci ma senza successo. Il problema era che partiva alle 4 del mattino, orario per tutti noi impossibile.

Nei primi anni ‘70 mi recai a Lione dal prof. Jules Traeger e, nel laboratorio del suo collaboratore Jean-Pierre Revillard, appresi le metodiche di studio delle proteinurie e i test per lo studio dei linfociti B e T. Al ritorno, insieme ai laboratoristi del Malpighi, mettemmo a punto le tecniche per lo studio della selettività delle proteinurie [5] e lo studio dei linfociti T mediante l’incorporazione di timidina tritiata in risposta a vari mitogeni e la conta dei linfociti B e T con la tecnica delle rosette. Così pubblicammo vari lavori [6-8], uno dei quali lo presentai al congresso internazionale di Nefrologia di Firenze del 1975. Io conoscevo un inglese scolastico e quando, al termine della mia presentazione, un australiano prima e un americano poi mi fecero delle domande, non capii e risposi: “I agree”. Subito dopo, Zucchelli, Fusaroli e io assumemmo un’insegnate d’inglese ma, se dopo alcuni mesi Zucchelli parlava inglese, io ero invece più interessato all’insegnante che era veramente carina. Mollai le lezioni e ripiegai sull’inglese delle canzoni dei Beatles, ma anche lì con poco successo.

Nel 1974 Bonomini istituì a Bologna la scuola di specializzazione in Nefrologia e mi ammise direttamente alla tesi senza dare nessun esame. Nel 1978 iniziarono le partenze dal Malpighi. A Udine cercavano un primario: andai a vedere l’ospedale, che era molto bello, ma incappai in una giornata nebbiosa e fredda e la dialisi era in un seminterrato per cui decisi di aspettare. Poi, alla fine dell’anno, Zucchelli mi disse che c’era un posto da primario per l’ospedale di Arezzo, città che non conoscevo. In un giorno di sole, io e mia moglie visitammo la città e rimanemmo colpiti dalla bellezza del paesaggio toscano, circondati da colline piene di olivi e cipressi. L’ospedale, classificato “generale di prima categoria” aveva circa 700 letti ed erano presenti tutte le principali specialità mediche e chirurgiche. Era diviso in due edifici: il Santa Maria Sopra i Ponti e il Garbasso, nato come sanatorio dell’INPS e poi tramutato in Ente Ospedaliero, nel quale si svolgevano attività specialistiche pneumologiche, compresa la chirurgia toracica. Le due strutture costituivano nel loro complesso una realtà di servizi sanitari fortemente qualificante per la città e la provincia. Gli ospedali erano vecchi e fatiscenti ma era in funzione una Divisione di nefrologia nata nel 1972 con 10 posti dialisi, 10 letti di degenza e un laboratorio annesso. Il primario Nicola Gargano era morto improvvisamente nel 1976 ed avevano bisogno di un nuovo primario che prendesse le redini della Divisione. Il direttore sanitario mi disse di non preoccuparmi della vetustà dell’ospedale perché era in progetto la costruzione di uno nuovo; mi fece anche vedere il plastico anche se poi, in realtà, il nuovo ospedale entrò in funzione 12 anni dopo. Comunicai la mia disponibilità a partecipare al concorso, che venne bandito in poco tempo e si svolse a Bologna. La commissione d’esame aveva come presidente Bonomini e io (caso strano!) risultai vincitore.

 

Fig. 8: Mauro Sasdelli in sala Emodialisi ad Arezzo (primi anni ’80)

 

Così nel gennaio 1979 assunsi il mio ruolo di Primario nella Divisione di nefrologia e dialisi dell’ospedale di Arezzo (Fig. 8). I primi furono anni difficili. I consigli dei sanitari avevano una durata infinita perché tutti i primari prendevano la parola, si compiacevano del loro discorso, dicevano tutto e il contrario di tutto e alla fine si concludeva che niente andava bene ed era tutto da rifare (come diceva Bartali), ma nessuno proponeva una soluzione dei problemi. La città era piccola, i servizi scarsi, la vita notturna assente, ma le distanze erano brevi e il costo della vita era ridotto, anche perché i pazienti mi regalavano uova, verdura, funghi, salumi e animali vari: conigli, polli, anatre, pezzi di cinghiale. Io non conoscevo nessuno, ma tutti mi conoscevano: ero un primario dell’ospedale ed ero una persona importante. Con me la gente era gentile, ero riverito e in poco tempo venni accolto nei circoli esclusivi della città. Mia moglie per due anni rifiutò di trasferirsi ad Arezzo e allora facevo il pendolare con Bologna. Quando si decise, con grande sacrificio, anche perché avevamo due bimbi piccoli e tutti i parenti erano a Bologna, quei primi anni furono per lei molto duri; poi scoprì la campagna, si innamorò degli olivi e dell’olio extravergine, della carne chianina e del pane insipido e non volle più muoversi da Arezzo.

In ospedale iniziai la mia attività con 3 medici che negli anni aumentarono fino a 10. Introdussi la biopsia renale, inviando i vetrini per la lettura alla dott.ssa Silvia Casanova del Malpighi a Bologna, mentre l’immunofluorescenza veniva eseguita da un mio assistente, Paolo Candi. Aprii 4 centri ad assistenza limitata negli ospedali della provincia, così da soddisfare tutte le richieste di posti dialisi, attivai la dialisi peritoneale e l’emodialisi domiciliare, introdussi le varie tecniche ad alta efficienza in emodialisi e la plasmaferesi, indirizzai il laboratorio verso lo studio dell’immunologia e della calcolosi renale, presi contatto con vari centri di trapianto renale in Italia e all’estero per favorire il trapianto ai nostri pazienti. Il mio aiuto Enrico Vagnoli divenne un abile chirurgo che allestiva tutte le fistole per i nostri pazienti. Mediante le ricerche del nostro laboratorio e la collaborazione con i centri nefrologici più importanti (Fig. 9). la nostra partecipazione con relazioni e comunicazioni ai principali congressi italiani e internazionali divenne sempre più frequente. L’attività scientifica si concretizzò in 160 pubblicazioni, di cui alcune in prestigiose riviste [911]; organizzai anche corsi di aggiornamento locali e nazionali (Fig. 10).

 

Fig. 9: Juan P. Bosch (terzo da sinistra), nefrologo del Mount Sinai di New York in visita ad Arezzo (1981)

 

Fig. 10: Congreso SIN ad Arezzo “Aids e Rene” (1990): da sinistra Mauro Sasdelli, Vittorio Bonomini, Francesco Paolo Schena, Adalberto Sessa, Alba Vangelista, Tullio Bertani e Giovanni Barbiano di Belgioioso. Non siamo riusciti ad identificare l’ultima persona sulla destra. Se avete informazioni in merito, non esitate a farcelo sapere.

 

Insomma, Arezzo diventò un centro dove la nefrologia era esercitata come branca della medicina interna al massimo livello e dove venivano praticate tutte le tecniche più moderne di dialisi. Nel 1987 il clinico medico di Siena Carlo Gennari istituì la scuola di specializzazione in Nefrologia e, non avendo alcuna esperienza in materia, si appoggiò completamente alla Nefrologia di Siena, diretta da Nicola Di Paolo, e alla Nefrologia di Arezzo. Così Arezzo divenne una sede universitaria di Siena, dove svolgevo la didattica e la pratica clinica inserendo nell’insegnamento i miei collaboratori. Nel 1988 entrai come membro del consiglio direttivo della Società Italiana di Nefrologia (SIN) sotto la presidenza di Vittorio Bonomini. Nel 1999 venni eletto presidente della sezione Tosco-Ligure-Emiliano-Romagnola della SIN. A livello della USL della provincia di Arezzo, ho avuto vari incarichi: presidente della commissione di disciplina, membro della commissione regionale sulla dialisi, direttore della rivista degli Ordini dei Medici e della USL “Il Cesalpino”, membro del comitato etico sperimentazione farmaci e infine nel 2004 fui nominato direttore del Dipartimento di Area Critica (con il compito di coordinare le rianimazioni della provincia) e di Nefrologia.

Campanacci lo rincontrai a Bologna negli anni ‘80 e gli dissi che ero diventato primario ad Arezzo. Il suo volto si illuminò e aumentai a dismisura nella sua considerazione: era sempre stato molto legato alla sua terra d’origine. A tavola aveva conservato gusti toscani: mangiava pane toscano, amava le “pulezze” (cime di rape), la ribollita, i fagioli cannellini e alcuni salumi come la “finocchiona” preparati alla toscana, che gli forniva un amico di Terontola che macellava ogni anno per lui un maiale. Circa una volta al mese veniva a trovare la moglie, che era sepolta nel cimitero vicino a Cortona, e mi chiese di accompagnarlo: lo andavo a prendere in stazione e lo portavo al cimitero. Mi sentivo onorato perché, anche se era in pensione, per me era sempre il grande Maestro. Ogni volta mi ricordava che ero stato uno dei suoi allievi prediletti (che brutti scherzi fa la memoria!) ed era contentissimo che fossi andato a fare il primario nella sua terra natale. Campanacci è morto nel 1986 a 88 anni ed è sepolto nel cimitero vicino alla moglie e a un figlio. I suoi insegnamenti sono stati tramandati dai suoi allievi, che hanno ottenuto posti di prestigio occupando cattedre e primariati in tutta Italia. Ogni anno i suoi allievi, chiamati “Campanacciani” e di cui mi onoro di far parte, si riuniscono nel ricordo del Maestro e pubblicano una rivista “Medicina e cultura” che raccoglie i contributi loro e dei loro allievi che continuano la tradizione della Scuola (Fig. 11). Nel 1995 il comune di Arezzo, dietro mia richiesta, gli ha intitolato una via e così il suo nome rimarrà tra i grandi di questa terra.

 

Fig. 11: Copertina de “I Campanacciani. Antologia di una Scuola di Medicina”

 

Fig. 12: Ricordo di Bonomini  (Il Resto del Carlino, 28 ottobre 2008)

 

Fig. 13: Ricordo di Zucchelli (Il Resto di Carlino, 12 aprile 2011)

 

Zucchelli andò in pensione nel 2001, sostituito da Antonio Santoro. Non riuscì mai ad accettare la perdita del lavoro in ospedale. Pur continuando l’attività libero professionale nel suo ambulatorio privato, era come un leone in gabbia. Per alleviare la sua solitudine, lo feci inserire tra gli insegnati della scuola di specializzazione in Nefrologia di Siena e nel comitato etico di Arezzo [12]. Bonomini è morto nel 2008 (Fig. 12) e Zucchelli nel 2011 (Fig. 13) e la loro opera prosegue in tutti i loro allievi, che hanno a loro volta conseguito posizioni di prestigio.

Io sono andato in pensione nel 2009, dopo 40 anni di lavoro, di cui 10 trascorsi a Bologna e 30 ad Arezzo, tutti in Nefrologia e a tempo pieno. La cerimonia di addio è stata organizzata in ospedale, davanti alle autorità, nello spirito ironico e beffardo della sana tradizione goliardica (Fig. 14). Questo è un ricordo affettuoso per una generazione di grandi medici quando la medicina aveva la M maiuscola e il malato inteso come corpo e anima era al centro dell’interesse.

 

Fig. 14: Ospedale di Arezzo 2009: Sasdelli (secondo da destra) alla cerimonia goliardica per il suo pensionamento

 

Così Campanacci scriveva 60 anni fa: “l’atto più importante dell’arte medica è il rapporto singolare con l’uomo malato, pressato dal dolore, dalla paura, dall’istinto di conservazione, dalla preoccupazione per l’attività interrotta e per la famiglia, che si rivolge al medico come al salvatore e chiede aiuto con tutte le forze. Il medico deve svolgere la sua opera di soccorso facendo appello alla propria educazione etica e tecnica, alla propria pazienza, al proprio spirito di sacrificio e di carità. Noi medici purtroppo non riusciamo sempre a guarire, ma possiamo almeno consolare e lenire le sofferenze dei nostri simili”.

 

 

Bibliografia

  1. Sasdelli M, L’alba della Nefrologia e Dialisi a Bologna con Vittorio Bonomini e Pietro Zucchelli. G Ital Nefrol 2016; 33(4):1-15.
  2. Campanacci D. Manuale di Patologia Medica. Torino, Minerva Medica, 1967.
  3. Zucchelli P, Mioli V, Migliori V, Sasdelli M. Contributo allo studio dell’attività diuretica del Furosemide. Min Nefrol 1965; 12:195-203.
  4. Zucchelli P, Sasdelli M, Fusaroli M. Possibilità e limiti dello studio funzionale ed emodinamico renale per la diagnosi differenziale dell’ipertensione da nefropatia unilaterale, Giorn Clin Med 1967; 68:801-21.
  5. Sasdelli M, Rovinetti A, Zuccalà A, Toschi P, Fabbri L. Lo studio delle proteine urinarie nella pratica nefrologica. Terapia 1974; 59:200-16.
  6. Sasdelli M, Santoro A, Cesari D, Cagnoli L, Zucchelli P. La glomerulonefrite membranoproliferativa. Studio clinico, biologico ed istologico in 31 casi. Min Nefrol 1975; 22:109-18.
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  8. Sasdelli M, Cagnoli l, Candi P, Mandreoli M, Beltrandi E, Zucchelli P. Cell mediated immunity in idiopathic glomerulonephritis. Clin Exp Immunol 1981; 46:27-34.
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  10. Ponticelli C, Zucchelli P, Imbasciati E, Cagnoli L, Pozzi C, Passerini P, Grassi C, Limido D, Pasquali S, Volpini T, Sasdelli M, Locatelli F. Controlled trial of methylprednisolone and chlorambucil in idiopathic membranous nephropathy. N Engl J Med 1984; 310:946-50.
  11. Zucchelli P, Zuccalà A, Borghi M, Fusaroli M, Sasdelli M, Stallone C, Sanna G, Gaggi R, Degli Esposti E. Comparison of calcium channel blockers and ACE-I in the progression of renal insufficiency. Contrib Nephrol 1990; 81:225-63.
  12. Sasdelli Mauro ricorda Pietro Zucchelli. In: FP Schena, GB Fogazzi. Interviste con la storia della Nefrologia Italiana. Milano, Wichtig, 2016: pp. 201-08.