Ruolo delle opinioni del Nefrologo e dei fattori strutturali nella scelta del trattamento dialitico ‒ Risultati di un Questionario del Gruppo di Dialisi Peritoneale

Abstract

Obiettivi. L’utilizzo della dialisi peritoneale (DP) dipende da fattori economici, strutturali e organizzativi. L’opinione del nefrologo è che la DP sia utilizzata meno di quel che si dovrebbe. In Italia la DP non viene effettuata nei Centri privati, ma nemmeno in circa un terzo dei Centri Pubblici. Lo scopo di questo studio è stato quello di indagare le opinioni dei nefrologi sulla DP nei soli Centri pubblici, annullando così l’influenza dei fattori economici.
Materiali e metodi. L’indagine è stata effettuata mediante un questionario on-line (Qs) di 26 domande inviato ai 325 Centri pubblici non pediatrici. Sono state indagate le caratteristiche dei Centri e dei nefrologi intervistati e le opinioni su diversi aspetti della scelta e sulla DP. Hanno risposto 454 nefrologi di 270 Centri di cui 205 (370 Qs) utilizzano la DP (DP-SI), 36 (42 Qs) no (DP-NO) e 29 (42 Qs) che non utilizzano la DP ma inviano i pazienti che ne hanno indicazione ad altri Centri (DP-TRASF).
Risultati. I Centri DP-NO e DP-TRASF sono significativamente più piccoli e con maggiore disponibilità di posti letto di HD. Nei Centri DP-SI la presenza di un percorso predialitico e di infermieri dedicati alla sola DP sono associati a un suo maggiore utilizzo.
I nefrologi dei Centri DP-NO valutano la DP in modo più negativo in termini sia di fattori clinici che non clinici. In particolare la convinzione che più del 40% dei pazienti possa effettuare sia la DP che la HD differisce tra i nefrologi dei centri DP-SI (28,6%), DP-TRASF (45,2%) e DP-NO (74,3%). Allo stesso modo, la convinzione che la DP possa essere utilizzata come primo trattamento in più del 30% dei casi differisce tra i nefrologi dei centri DP-SI (49,2%), DP-TRASF (33,3%) e DP-NO (14,3%).
Conclusioni. L’utilizzo della DP nei Centri pubblici è condizionato da fattori strutturali e organizzativi ma anche dal parere del nefrologo sull’utilizzo e sull’efficacia della tecnica.

 

 

Graphical abstract

 

Parole chiave: Dialisi Peritoneale, Emodialisi, Selezione del trattamento dialitico, Opinioni del medico, Malattia Renale Cronica

Introduzione

L’utilizzo della dialisi peritoneale (DP) nel mondo è limitato a una prevalenza di circa il 10% [1]. È noto da tempo [2] come l’utilizzo della DP nei diversi Paesi dipenda da fattori estranei al paziente, quali la tipologia del Sistema Sanitario Nazionale e il rapporto tra settore pubblico e privato di ogni singolo Paese, i rimborsi previsti per l’emodialisi (HD) e la DP, il grado di sviluppo materiale e sociale e il costo del lavoro rispetto ai materiali [2 – 5].  In assenza di barriere economiche e strutturali esistono altri fattori quali il tipo di referral (early o late), la disponibilità di programmi educativi strutturati per i pazienti affetti da CKD, l’addestramento alla DP durante gli studi e la disponibilità di programmi di DP assistita che sono in grado di influenzare l’utilizzo della DP ma che pesuppongono un sistema favorevole a questa metodica.

Per l’Italia, un contributo significativo alla comprensione dei fattori che influenzano l’utilizzo della DP è stato dato dal Censimento della Società Italiana di Nefrologia (SIN) relativo allo stato della dialisi in Italia nel 2004 [5], dalla cui analisi era emerso che i fattori che influenzavano negativamente l’utilizzo della DP erano la presenza di Centri privati (che non utilizzano la DP), il numero di postazioni disponibili per HD rispetto ai pazienti in trattamento emodialitico e una ridotta dimensione del Centro (valutata mediante il numero di pazienti prevalenti in dialisi). Tuttavia, anche considerando solo i Centri pubblici, si evidenziava una notevole variabilità nell’utilizzo della DP con Centri di dimensioni globali modeste ma con programmi di DP relativamente ampi e Centri di grandi dimensioni senza o con ridotti programmi di DP. Tale variabilità suggeriva che vi fossero altri fattori in grado di influenzare l’utilizzo della DP quali il cosiddetto “parere del medico”, la cui importanza è stata evidenziato da Hingwala [6].

Le numerose ricerche [7 – 16] che in passato hanno indagato il ruolo dei medici sulla scelta del trattamento dialitico, evidenziano una notevole discrepanza tra le loro opinioni, in genere favorevoli alla DP, e il reale impiego della DP nel loro Paese, talora marginale. Tali studi presentano spesso un bias di selezione in quanto limitati a Nefrologi che utilizzano in qualche modo la DP.

Obiettivi dello studio

Allo scopo di indagare “l’opinione del medico sulla DP e sulla scelta del trattamento” e il suo eventuale ruolo nel reale utilizzo della DP nel Centro, nel 2006-2007 l’allora Gruppo di Studio della Dialisi Peritoneale (GSDP) della SIN ideò e realizzò una ricerca, sotto forma di un questionario (Qs), limitata ai soli Centri Pubblici per ridurre il più possibile l’influenza dei fattori economici sui risultati ma coinvolgendo anche i Centri che non utilizzavano la DP.

Lo scopo principale dello studio era quello di confrontare le opinioni riguardo alla DP e alla scelta del trattamento, analizzando la prospettiva dei Nefrologi che lavorano in Centri che utilizzano la DP e quelli che non la utilizzano.

Dal momento che la situazione della DP a distanza di 20 anni dal primo Censimento SIN è rimasta sostanzialmente la stessa l’attuale Gruppo di Progetto della DP ha deciso di allegare all’analisi dei dati del Censimento 2022 i risultati di questa indagine, mai pubblicata, ma che per il livello approfondito di analisi e il numero di Nefrologi coinvolti, rimane, oltre che valida, unica nel suo genere.

 

Materiali e metodi

Reclutamento dei centri

Lo studio è stato condotto mediante un questionario (Qs) somministrato on-line, inviato a tutti i Centri Dialisi Pubblici non pediatrici. Diretto a tutti i Nefrologi del Centro, se ne raccomandava la compilazione di almeno 1 per Centro. La compilazione on-line del Qs è stata effettuata tra gennaio e ottobre 2007 e incentivata in occasione dei Congressi e Convegni tenutisi nel periodo. I risultati sono stati parzialmente presentati ai Congressi e Convegni dell’epoca ma non sono mai stati pubblicati.

L’elenco dei Centri dialisi eligibili per l’indagine è stato ricavato dal Censimento SIN relativo al 2004 [5] (Cens-SIN-2004). In sintesi, il Cens-SIN-2004 aveva documentato la presenza in Italia di 658 Centri Dialisi. Dopo esclusione dei Centri privati e dei Centri pediatrici rimanevano 346 Centri a cui è stato inviato il questionario. Tuttavia, di questi 346 Centri ve ne erano 15 a “statuto speciale” (Centri di ricerca) e 6 non avevano pazienti in trattamento dialitico per cui non sono stati considerati. Quindi, come per il Cens-SIN-2004, in questa analisi sono stati considerati i 325 Centri pubblici, non pediatrici, a statuto ordinario e con incidenza in dialisi, DP o HD, diversa da zero. Per quanto riguarda i Nefrologi in questa analisi sono stati considerati solo i medici “strutturati” escludendo “specializzandi” e “medici non strutturati frequentatori”.

Ripartizione dei centri

Nel Cens-SIN-2004 la ripartizione tra Centri che non utilizzavano la DP e Centri che la utilizzavano era stata effettuata in base all’incidenza in DP diversa o uguale a 0, rispettivamente: i Centri che non la utilizzavano erano risultati 116 e quelli che la utilizzavano 209. Nel Qs è stato nuovamente chiesto se il Centro di appartenenza dell’intervistato avesse o meno un programma di DP: dei 270 (83,1%) Centri che hanno risposto 65 non risultavano utilizzare la DP. Tuttavia, di questi 65 ve ne erano 6 che erano stati classificati come Centri che utilizzavano la DP nel 2004 mentre dei 205 che dichiaravano di avere un programma di DP ve ne erano 13 classificati nel 2004 come Centri che non la utilizzavano. Ricordiamo che la classificazione del 2004 si basava sull’incidenza in DP, criterio che ad oggi non ci è sembrato più corretto. Abbiamo pertanto ri-classificato i Centri del Cens-SIN-2004 tenendo conto anche della prevalenza al 31/12/2004 e confrontando i dati con quelli del Censimento GSDP del 2005 [17] e degli anni successivi ove necessario. Dopo la ri-classificazione i casi di discordanza si sono ridotti a 4 Centri che effettivamente avevano cessato il programma di DP e a 6 Centri che lo avevano avviato dopo il 2004.

Nelle discussioni dell’epoca era inoltre emersa una realtà più articolata della semplice distinzione tra Centri che utilizzano o non utilizzano la DP. Infatti tra i Centri che non utilizzavano la DP ve ne erano alcuni che inviavano i pazienti con indicazione alla DP (clinica o per scelta) ad altri Centri. Di questa distinzione, non considerata nel Cens-SIN-2004, se ne è tenuto conto nel Qs differenziando i Centri in Centri che utilizzano la DP (Centri DP-SI), Centri che non utilizzano la DP ma inviano i pazienti che ne hanno indicazione ad altri Centri (Centri DP-TRASF) e Centri che non la considerano in nessun modo (Centri DP-NO).

In conclusione, dei 325 Centri considerati 270 hanno partecipato all’indagine con almeno 1 Qs. Di questi 205 erano Centri DP-SI, 36 erano Centri DP-NO e 29 erano Centri DP-TRASF. Non hanno risposto al Qs 55 Centri di cui 11 classificati nel 2004 come Centri DP-SI e 44 come Centri DP-NO anche se, non avendo risposto al Qs, non se ne conosce realmente lo stato al momento dell’indagine.

Lo studio non riguardava in alcun modo pazienti ma medici, la cui partecipazione è stata volontaria.

Il questionario e i campi di indagine

Il Qs era composto da 26 domande ripartite in 2 parti. Nella prima parte venivano definite le caratteristiche del Nefrologo intervistato e del Centro in cui operava, nella seconda venivano indagate le opinioni del Nefrologo sulla validità della DP e sui fattori che possono influenzare la scelta del trattamento dialitico.

 

Parte 1°

Caratteristiche del Nefrologo

Le caratteristiche del Nefrologo considerate sono state: 1) la formazione ricevuta sulla DP nel percorso di studi; 2) l’esperienza realmente maturata con la DP (nessuna, occasionale e discontinua, continua per un periodo inferiore oppure superiore ai 3 anni); 3) il ruolo gerarchico all’interno del Centro (primario/direttore, responsabile di Struttura Operativa Semplice, medico strutturato); 4) il tempo lavorativo dedicato alla dialisi (non si occupa di dialisi; <25%; tra 25-50% ; tra 50-75%; >75% dell’orario lavorativo) e, in una scala da 1 a 5 (dove 1 è solo HD, 3 HD e DP in parti uguali, 5 solo DP), quanto tempo è dedicato alla HD e quanto alla DP; 5) il coinvolgimento nella scelta del trattamento dialitico (si/no) e, se sì, con quali compiti (informazione, valutazione clinica, valutazione socio-attitudinale) e con che grado di coinvolgimento valutato con una scala da 1 (poco) a 5 (molto).

Caratteristiche del Centro

Le caratteristiche del Centro considerato sono state: 1) l’esistenza di un programma strutturato di scelta del trattamento dialitico (non solo clinico, ma anche educativo e informativo); 2) le attività svolte dagli infermieri che si occupano della DP (predialisi, attività ambulatoriale, degenza, HD) per i Centri DP-SI; 3) la percentuale di pazienti early referral; 4) un giudizio sul grado di informazione che i pazienti early referral ricevono nel proprio Centro sulle diverse metodiche dialitiche; 5) i ruoli professionali coinvolti nel proprio Centro nella scelta del trattamento (responsabile del reparto, medico HD, medico PD, infermiere HD, infermiere PD, infermieri con altre funzioni, psicologo). Per quest’ultima domanda l’intervistato doveva esprimere anche una opinione sul peso che le figure coinvolte avevano sulla scelta della metodica valutandolo con una scala da 1 (trascurabile) a 5 (decisivo). Per le prime tre domande (esistenza di un programma strutturato di scelta del trattamento dialitico, attività svolte dagli infermieri di DP e percentuale di early referral), nei Centri in cui ha risposto più di un Nefrologo, non sempre le risposte concordavano. In caso di discordanza il valore da attribuire al Centro è stato determinato in scala gerachica (in ordine: risposta del Direttore se disponibile, del responsabile SOS se disponibile, del medico con maggior coinvolgimento nell’attività dialitica e infine, se rimaneva discordanza, della maggioranza). Per la percentuale di early referral, trattandosi di dato numerico, la discordanza è risultata eccessiva, per cui in questa analisi non è stata considerata.

Per le ultime due domande (informazione fornita ai pazienti e peso delle diverse figure professionali nel proprio Centro), trattandosi più di opinioni che di valori obiettivi, le risposte sono state considerate singolarmente e non aggiustate in un solo valore per Centro.

 

Parte 2°

Questa parte è stata divisa in tre sottogruppi di domande. Nella prima è stata indagata l’opinione del medico sui fattori generali che possono influenzare la scelta del trattamento ‒ tra cui la validità della metodica ‒ nella seconda l’opinione su alcune condizioni, cliniche e non, dei singoli pazienti e nella terza sul drop out e sulla durata della DP.

Fattori generali NON legati al paziente

I fattori generali dei quali l’intervistato doveva dare una valutazione personale sono stati: 1) il peso, valutato in una scala da 1 (nessuno) a 5 (decisivo), che hanno sulla scelta del trattamento per pazienti senza indicazioni/contro-indicazioni obbligate alla HD o alla DP, il medico, l’infermiere, il paziente, i familiari e gli altri pazienti in RRT. Questa valutazione è stata chiesta sia per pazienti senza sia con barriere all’autogestione della DP; 2) la percentuale ritenuta ottimale di utilizzo della DP graduata da <10% a >50%; 3) se nella scelta della metodica ci si senta condizionati dal rischio di peritonite; 4) Il confronto con la HD sia dell’efficienza dialitica che della sopravvivenza della DP; 5) quanto il costo complessivo del trattamento, la carenza di infermieri, la vicinanza dei Centri privati, la dimensione limitata del Centro (numero di pazienti prevalenti in dialisi) e il tasso di occupazione delle postazioni di HD possono incidere sulla scelta valutandoli con una scala da 1 (molto a favore della HD) a 5 (molto a favore della DP); 6) il peso che i seguenti incentivi possono avere nel favorire l’utilizzo della DP: rimborso economico per il caregiver di pazienti con barriere non idonei all’autogestione della DP (DP assistita), sviluppo della tecnologia di assistenza a distanza (telemedicina), supporto infermieristico telefonico full time (H24) per i pazienti in DP, supporto infermieristico domiciliare per i pazienti in DP, incentivo economico alle Strutture Assistenziali Residenziali (RSA) per assistere i pazienti in DP. Il giudizio era espresso mediante una scala da 1 (nessun peso) a 5 (peso elevato).

Fattori legati al paziente

In questa parte sono indagate le opinioni su alcune condizioni specifiche dei pazienti che possono rappresentare una indicazione o controindicazione alla DP. In dettaglio: 1) giudizio sulla percentuale di pazienti eligibili a entrambe le metodiche; 2) giudizio sul ruolo dei fattori clinici e non clinici associati al paziente ed elencati nella Tabella 1 (l’intervistato doveva esprimere un giudizio su ciascuno dei fattori elencati con una scala da 1 a 5 secondo i seguenti criteri: 1 = indicazione elevata alla HD; 2 = indicazione moderata alla HD; 3 = indicazione indifferente a HD o DP; 4 = indicazione moderata alla DP; 5 = indicazione elevata alla DP).

FATTORI CLINICI FATTORI NON CLINICI
Insufficienza cardiaca congestizia Motivazione all’autogestione
Cardiopatia ischemica Età tra 65 e 75 anni
Diabete Età > 75 anni
Obesità (BMI > 30) Non autosufficiente con caregiver disponibile
Malnutrizione (BMI < 20) Vivere da soli
Diverticolosi estesa oltre il sigma Immagine corporea in pazienti < 50 anni
Nefropatia policistica Attività lavorativa
Flessibilità nello stile di vita e tempo libero
Qualità della vita
Tabella 1. Fattori clinici e non clinici sulla cui influenza nella scelta è stato chiesto un giudizio ai partecipanti.

Durata della DP / Drop Out

In quest’ultima parte l’intervistato doveva dare un giudizio: 1) sulla durata della DP; 2) sulla percentuale annua di drop out ritenuta “fisiologica”; 3) se il drop out alla HD potesse essere influenzato dal numero di pazienti in trattamento.

Analisi

Le risposte sono state ripartite nei 3 tipi di Centro e confrontate tra loro con il metodo del chi quadrato o test non parametrici dove indicato. I risultati sono stati considerati significativi per p<0,05 fino a 0,00001.

 

Risultati

Centri e nefrologi partecipanti

Complessivamente il Qs è stato compilato da 454 Nefrologi di 270 Centri (83,1% dei 325 Centri pubblici considerati) con una adesione media di 1,68 Nefrologi per Centro, superiore nei Centri DP-SI (Tabella 2). La percentuale di risposte tra i Centri DP-SI (205 Centri su 216 = 94,9%) è stata significativamente più alta rispetto a quella degli altri Centri (65 Centri su 109 = 59,6%) (p<0,00001). Dei Centri che non utilizzano la DP, 29 inviano i candidati alla DP ad altri Centri. Il numero e le percentuali dei Centri che hanno risposto e dei Qs completati sono riportati in Tabella 2 e in Figura 1.

CENTRI / Qs DP-SI DP-TRASF DP-NO TOTALE
Centri (Cens-SIN-2004)* 209 116 325
Qs-Centri ** 216 109 325
Qs-Centri partecipanti *** 205 29 36 270
Nefrologi 370 42 42 454
Qs per Centro 1,80 1,45 1,17 1,68
Tabella 2. Dei 325 Centri Pubblici risultanti dal Censimento SIN del 2004, in 270 almeno un nefrologo ha risposto al Qs. L’adesione al Censimento è stata significativamente superiore nei Centri che utilizzano la DP.
* Centri (Cens-SIN-2004) riporta la ripartizione dei Centri come risultata dal Censimento SIN 2004 [5]. La distinzione, all’interno del gruppo di 116 Centri pubblici che non utilizzavano la DP, di un sottogruppo di Centri che per la DP si “appoggiano” ad altri Centri all’epoca non era stata considerata. Ricordiamo che tale classificazione era basata sull’utilizzo della DP per i pazienti incidenti. La ripartizione dei Centri nel Qs è lievemente differente per le ragioni riportate nei Materiali e metodi.
** “Qs Centri” sono i Centri riclassificati secondo I criteri riportati nei Materiali e metodi
*** “Qs Centri partecipanti” sono i Centri che hanno prtecipato all’indagine con almeno 1 questionario compilato
Figura 1. Adesione all’indagine dei Centri con almeno 1 Qs compilato.
Figura 1. Adesione all’indagine dei Centri con almeno 1 Qs compilato. Al centro la ripartizione dei 325 Centri pubblici, non pediatrici e a statuto ordinario. A destra l’adesione al Qs tra i 216 Centri che utilizzavano la DP e a sinistra l’adesione tra i 109 che non la utilizzavano.

La Tabella 3 (rappresentata in Figura 3) riporta le caratteristiche dei 270 Centri partecipanti ricavate dai dati del Cens-SIN 2004. Il tasso di occupazione dei posti letto HD e le dimensioni del Centro (pazienti HD + PD) erano superiori (p<0,0001) nei Centri DP-SI rispetto agli altri, mentre non vi sono differenze significative tra i Centri DP-NO e DP-TRASF (Qs-SI in Tabella 3). Il confronto con i Centri che non hanno risposto non è risultato significativamente diverso (Qs-NO in Tabella 3 e in Figura 2).

CENTRI DP INCIDENZA (HD+DP) PREVALENZA (HD+DP) pz HD/PL
TUTTI NO 109 11,9±9,4 50,0±35,3 2,9±0,9
SI 216 28,7±18,4 116,1±65,9 3,4±0,8
Qs SI NO 36 11,4±7,4 48,9±29,9 3,0±1,0
TRASF 29 11,7±9,9 54,4±36,5 2,9±0,7
SI 205 28,9±18,5 116,6±65,8 3,4±0,8
    p<0,0001 p<0,0001 p<0,0001
   
Qs NO NO 44 12,5±10,6 47,8±39 2,9±1,0
SI 11 25,6±16,1 106,9±69,4 3,4±0,8
Tabella 3. Caratteristiche generali (ricavate dal Cens-SIN-2004) dei 270 Centri che hanno risposto al Qs (Qs-SI) e dei 55 Centri che non hanno risposto (Qs-NO). Il confronto tra Centri DP-SI e Centri DP-NO e DP-TRASF è risultato significativo ma non quello tra Centri DP-NO e DP-TRASF così come quello tra Qs-SI e Qs-NO.
Figura 2. Incidenza e prevalenza globali in dialisi (HD + DP) e pazienti prevalenti in HD per posto letto o stazione di HD.
Figura 2. Incidenza e prevalenza globali in dialisi (HD + DP) e pazienti prevalenti in HD per posto letto o stazione di HD. I dati sono ripartiti in Centri DP-SI e Centri che non utilizzano la DP (NO), in questo caso sia che non considerino la DP sia che trasferiscano i candidati alla DP ad altri Centri. Le stesse variabili sono state considerate per tutti i Centri (TUTTI) e confrontando i Centri che hanno aderito all’indagine (Qs SI) oppure no (Qs NO). Per quelli che hanno aderito sono stati considerati separatamente tra i Centri NO quelli che trasferiscono (TRASF) e quelli che non la considerano affatto (NO). Tale distinzione ovviamente non era possibile per i Centri che non hanno aderito. Come si vede, tra i Centri aderenti, non vi era differenza tra i Centri DP-NO e Centri DP-TRASF. I dati sono quelli riportati nel Cens-SIN-2004, relativi appunto all’anno 2004.

Ripartendo i Centri in funzione delle loro dimensioni e della percentuale di utilizzo della DP (Tabella  4) al 31/12/2004 il 17,5% dei Centri pur avendo un ampio programma di dialisi non effettua la DP o la utilizza in meno del 10% dei pazienti, d’altra parte il 13,8% dei Centri pur avendo dimensioni ridotte la utilizza in una percentuale significativa di pazienti. Riguardo alle 4 macroaree italiane di appartenenza l’analisi del del Cens-SIN-2004 aveva mostrato come nelle regioni in cui maggiore era il numero di Centri privati minore era l’utilizzo della DP. Alla presenza di Centri privati erano attribuibili anche le minori dimensioni dei Centri pubblici in tali regioni. Pur essendo mantenuta la relazione tra dimensioni e utilizzo della DP i Centri che utilizzano la DP al Sud sono più piccoli ma con percentuali di pazienti in DP superiore per verosimile compenso all’effetto dei Centri privati e al maggior numero di Centri che non utilizzano la DP. Tali osservazioni sono riassunte nella Tabella 5 e in Figura 3. L’appartenenza geografica dei Centri che hanno partecipato al Qs è riportata in Figura 4.

La ri-classificazione al momento dell’indagine non era possibile per la mancanza dei dati di prevalenza al 2007 per cui l’unica variabile considerata rimane la tipologia del Centro come definita sopra.

PREVALENZA (%) DELLA DP
0 <10% 10-<20% ≥20%
CENTRI 102 74 76 73
PAZIENTI IN DIALISI ≤45 81 18,2 3,4 1,8 1,5
46-80 83 7,7 7,4 4,3 6,2
81-130 80 4,3 5,8 6,5 8,0
>130 81 1,2 6,2 10,8 6,8
Tabella 4. Ripartizione dei Centri in funzione delle dimensioni (quartili del numero complessivo di dializzati per Centro) e della prevalenza percentuale della DP al 31/12/2004.
NORD CENTRO SUD ISOLE TUTTI
CENTRI (numero) 116 72 93 44 325
HD (pz prevalenti) 13.951 5.509 4.911 1.959 26.330
DP (pz prevalenti) 2.368 785 761 286 4.200
DIMENSIONI (PZ/CENTRO) 140,7 87,4 61,0 51,0 93,9
% DP 14,5 12,5 13,4 12,7 13,8
CENTRI DP-NO/DP-TRASF 17 26 38 21 102
% di TUTTI i Centri 14,7 36,1 40,9 47,7 31,4
HD (pz prevalenti) 1.432 1.479 1.214 813 4.938
DP (pz prevalenti) 0 0 0 0 0
DIMENSIONI (PZ/CENTRO) 84,2 56,9 31,9 38,7 48,4
% DP 0 0 0 0 0
CENTRI DP-SI 99 46 55 23 223
% di TUTTI i Centri 85,3 63,9 59,1 52,3 68,6
HD (pz prevalenti) 12.519 4.030 3.697 1.146 21.392
DP (pz prevalenti) 2.368 785 761 286 4.200
DIMENSIONI (PZ/CENTRO) 150,4 104,7 81,1 62,3 95,9
% DP 15,9 16,3 17,1 20,0 16,4
Tabella 5. Caratteristiche dei Centri ripartiti per macroarea di appartenenza e distinti in Centri che non utilizzano la DP (DP-NO e DP-TRASF non erano distinti nel Cens-SIN-2004) e che la utilizzano (DP-SI). I dati sono ricavati dal Cens-SIN-2004 e quindi riferiti al 2004 e non all’epoca dell’indagine (2007).
Figura 3. Ripartizione dei 325 Centri nelle 4 macroaree italiane secondo la definizione
Figura 3. Ripartizione dei 325 Centri nelle 4 macroaree italiane secondo la definizione ISTAT (NORD = Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia Romagna, Liguria – CENTRO = Toscana, Marche, Umbria, Lazio – SUD = Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria – ISOLE = Sicilia, Sardegna). A sinistra (A) e dimensioni medie dei Centri e la prevalenza percentuale della DP (sostanzialmente simile). Al centro (B) in alto la percentuale di Centri che non utilizzano la DP (in nero) e in basso le dimensioni medie dei Centri che utilizzano (grigio) e non utilizzano la DP (nero). Come si vede i Centri che non utilizzano la DP hanno sempre dimensioni inferiori rispetto a quelli che la utilizzano nella stessa macroarea, ma dal NORD alle ISOLE diminuiscono gradualmente. Per cui se vale il principio che minori sono le dimensioni del Centro e minore è l’utilizzo della DP tuttavia, a destra (C), se si considerano solo i Centri che fanno la DP si vede come i Centri del SUD e delle ISOLE pur avendo dimensioni inferiori utilizzano la DP in misura maggiore.
Ripartizione dei Centri nelle quattro macroaree italiane.
Figura 4. Ripartizione dei Centri nelle quattro macroaree italiane. A sinistra (A) sul totale dei 270 Centri aderenti e a destra (B) sul totale dei 325 Centri eligibili. Qs-SI e Qs-NO sono riferiti ai Centri che hanno aderito (con almeno 1 partecipante) o non all’indagine.

 

PARTE 1° – CARATTERISTICHE DEL NEFROLOGO INTERVISTATO E DEL CENTRO DI APPARTENENZA

Caratteristiche del Nefrologo

Le caratteristiche generali dei Nefrologi partecipanti sono riportate in Tabella 6. Tra i tre tipi di Centro non vi sono differenze significative per il genere (per i 2/3 maschile) e l’età, sovrapponibili, mentre l’area geografica sede del Centro di appartenenza dell’intervistato (p<0,0001) riflette la distribuzione dei Centri e l’utilizzo della DP già analizzata nel Cens-SIN-2004 (Figure 2 e 3) [5].

 

CENTRI

(tipo, numero)

NEFROLOGI
(numero)
FEMMINE
(%)
ETÀ MEDIA
(anni ± DS)
NORD
(%)
CENTRO
(%)
SUD
(%)
ISOLE
(%)
DP-NO 36 42 38,1 50,8±6,4 14,3 26,2 31,0 28,6
DP-TRASF 29 42 33,3 51,0±5,4 7,1 7,1 47,6 38,1
DP-SI 205 370 34,1 51,2±6,8 46,5 18,1 19,7 15,7
TUTTI 270 454 34,4 51,2±6,6 39,9 17,8 23,3 18,9
Tabella 6. Caratteristiche generali dei 454 Nefrologi che hanno risposto al Qs.

Ruolo gerarchico. Riguardo al ruolo gerarchico degli intervistati il 20,9% riveste un ruolo apicale (Direttore, Primario, responsabile di UO), il 19,6% di Responsabile SOS (verosimilmente ma non necessariamente di DP). Non sono stati considerati nella presente analisi specializzandi e medici frequentatori non strutturati, all’epoca dello studio presenti esclusivamente nei Centri Universitari. Rispetto ai Centri, nel 29,3% di questi ha partecipato il Direttore/Primario o Responsabile dell’UO di Nefrologia e Dialisi, nel 23,3% il Responsabile SOS e nel 5,9% entrambi (Tabella 7). Complessivamente quindi nel 58,5% dei Centri ha partecipato il Direttore e/o un Responsabile di SOS.

In Tabella 7 sono riportate anche età e genere secondo i diversi ruoli gerarchici.

RUOLO % DP-NO DP-TRASF DP-SI ETÀ FEMMINE (%)
PRIMARIO 95 20,9 38,1 28,6 18,1 53,3±5,7 11,6
SOS 89 19,6 7,1 14,3 21,6 53,5±4,2 30,3
STRUTTURATO 270 59,5 54,8 57,1 60,3 48,6±6,3 43,7
TUTTI 42 42 370 51,2±6,6 34,4
p<0,01 p<0,00001 p<0,00001
Tabella 7. Ruolo gerarchico dei 454 partecipanti all’indagine.

Formazione ed esperienza. La maggioranza dichiarava di non avere o di avere ricevuto una preparazione alla DP insufficiente (score “1” o “2”) nel corso degli studi. Curiosamente la percentuale dei Nefrologi senza o con scarsa preparazione alla DP (somma delle percentuali “Nessuna”, “1”, “2” riportate in Tabella 8) aumenta significativamente dai Centri DP-NO (38,0%) ai Centri DP-TRASF (47,5%) fino ai Centri DP-SI (57,6%) (Tabella 8 e Figura 5-A).

In senso opposto varia, in questo caso secondo le attese, l’esperienza con la DP (Tabella 9) che ovviamente risulta significativamente maggiore e con continuità nei Centri DP-SI rispetto gli altri. In particolare una esperienza con la DP superiore ai 3 anni è stata acquisita dal 16,7% dei Nefrologi dei Centri DP-NO, dal 26,2% nei Centri DP-TRASF e dal 65,1% nei Centri DP-SI (Tabella 9) (Figura 5-B).

 

Insufficiente Idonea alla gestione
Nessuna 1 2 3 4 5
DP-NO 19,0 7,1 11,9 28,6 11,9 21,4
DP-TRASF 33,3 7,1 7,1 21,4 14,3 16,7
DP-SI 39,5 7,3 10,8 15,1 8,9 18,4
ALL 37,0 7,3 10,6 17,0 9,7 18,5
p<0,04
Tabella 8. Preparazione ricevuta durante gli studi sulla DP.
      Continua
Nessuna Discontinua <3 anni >3 anni
DP-NO 40,5 26,2 16,7 16,7
DP-TRASF 35,7 19,0 19,0 26,2
DP-SI 6,5 20,3 8,1 65,1
TUTTI 12,3 20,7 9,9 57,0
Tabella 9. Esperienza maturata con la DP dei 454 partecipanti (p<0,0001).
Figura 5. Caratteristiche del Nefrologo partecipante allo studio
Figura 5. Caratteristiche del Nefrologo partecipante allo studio. A) Formazione sulla DP ricevuta nel corso degli studi (curiosamente la percentuale di quelli che non hanno ricevuto alcuna formazione aumenta dai Centri DP-NO ai Centri DP-SI). B) Esperienza di DP superiore ai 3 anni maturata secondo il ruolo gerarchico dei 454 Nefrologi intervistati.

Attività lavorativa. Per quanto riguarda il settore di attività lavorativa sostanzialmente quasi tutti gli intervistati (97,0%) si occupavano di dialisi. In dettaglio se ne occupavano per più del 50% dell’orario lavorativo il 71,4% degli appartenenti ai Centri DP-NO, il 76,2% di quelli dei Centri DP-TRASF e il 64,4% di quelli dei Centri DP-SI.

Se per i Centri che non utilizzano la DP l’attività dialitica può considerarsi rivolta solo alla HD, nei Centri DP-SI la percentuale di coloro che si occupano prevalentemente o esclusivamente della DP è il 28,6% (106 di 370 Nefrologi) e quelli che vi si dedicano per più del 50% del proprio tempo lavorativo il 18,6% (69 di 370 Nefrologi) (Tabella 10).

0 < 25% 26 – 50% 51 – 75% > 75%
NO 0 0 28,6 26,2 45,2
TRASF 0 11,9 11,9 21,4 54,8
SI 3,0 10,0 22,7 29,5 34,9
solo HD 1,4 0,3 1,1 4,6
prevalent. HD 1,9 3,5 4,6 7,0
HD e DP 4,3 11,4 14,3 14,1
prevalent. DP 1,1 4,6 6,5 5,4
solo DP 1,4 3,0 3,0 3,8
TUTTI 2,4 9,3 22,2 28,4 37,7
Tabella 10. Impegno dialitico – le differenze tra i tre tipi di Centro non sono significative. La modalità nella cui gestione il Nefrologo è coinvolto riguarda ovviamente solo i Centri DP-SI.

Impegno nella scelta del trattamento dialitico. Globalmente il 94,7% (430 intervistati) si sente coinvolto nel processo di scelta del trattamento dialitico senza differenze significative tra i tre tipi di Centri (Tabella 11), anche per quanto riguarda l’entità del coinvolgimento (in una scala da 1, “poco”, a 5, “molto”: DP-NO 3,7 ± 1,1; DP-NO-TRASF 4,2 ± 1,2; DP-SI 3,7 ± 1,4; p = NS).

Rispetto ai 3 aspetti del processo di scelta (informazione, valutazione clinica e valutazione attitudinale) la maggioranza dei medici dei Centri che non utilizzano la DP si sente coinvolta nell’informazione (Tabella 11). Considerando solo gli intervistati coinvolti nel processo di informazione la verifica dei contenuti mostra come il 42,1% degli appartenenti ai Centri DP-NO dichiara di informare su entrambe le metodiche, che, anche se inferiore al 75,0% di quelli dei Centri DP-TRASF e all’84,5% dei Centri DP-SI, non era un dato atteso considerando che si tratta di Centri che non utilizzano e non inviano ad altri Centri gli eventuali candidati alla DP (Figura 6). Il numero di attività svolte nel processo di scelta è riportato in Tabella 12.

VALUTAZIONE
Non coinvolto Informazione Clinica Attitudinale
DP-NO 2,4 90,5 28,6 28,6
DP-TRASF 4,8 85,7 59,5 52,4
DP-SI 5,7 73,2 78,9 68,4
TUTTI 5,3 76,0 72,5 63,2
Tabella 11. Impegno nel processo di scelta del trattamento dialitico – le differenze tra i tre tipi di Centro non sono significative solo per la percentuale dei coinvolti “in un qualche modo” ma anche per quanto riguarda il grado in cui ci si sente coinvolti in questo aspetto. Signficative sono invece le differenze per quanto riguarda la modalità del coinvolgimento (informazione, valutazione clinica e valutazione socio-attitudinale). Il diverso impegno nelle tre attività è invece atteso: nei Centri in cui non si utilizza la DP è naturale che valutazione clinica, per la ricerca di eventuali indicazioni o controindicazioni alla DP, e ancor di più attitudinale (idoneità all’autogestione) siano trascurabili.
ATTIVITÀ SVOLTE
CENTRI 0 1 2 3
DP-NO 2,4 69,0 7,1 21,4
DP-TRASF 4,8 40,5 7,1 47,6
DP-SI 5,7 23,0 16,5 54,9
TUTTI 5,3 28,9 14,8 51,1
p<0,0001
24 131 67 232
GRADO 0 3,7±1,2 3,8±1,0 4,1±1,1
Tabella 12. Impegno nella scelta del trattamento dialitico. I numeri indicano le attività svolte nel processo di scelta del trattamento. Tali attività sono l’informazione, la valutazione clinica e la valutazione socio-attitudinale. Come si vede il 51,1% (prevalentemente nei Centri DP-SI) riferisce di essere coinvolto in tutte e 3 le attività con un impegno medio-elevato.
Figura 6. Coinvolgimento nella scelta del trattamento dialitico.
Figura 6. Coinvolgimento nella scelta del trattamento dialitico. A) Percentuali dei 430 intervistati coinvolti nei settori della valutazione (informazione sulle metodiche disponibili, valutazione clinica e socio-attitudinale) – B) Per i 345 Nefrologi coinvolti nell’informazione, la/le metodiche illustrate dall’intervistato al paziente. Come si vede più del 40% dei Nefrologi dei Centri DP-NO dichiara di informare anche sulla DP.

Caratteristiche del Centro di appartenenza

Le risposte a questa parte dell’indagine possono essere considerate in alcuni casi delle opinioni, come verrà specificato nei singoli aspetti. Per alcune domande, in alcuni Centri nei quali ha partecipato più di un Nefrologo, sono emerse valutazioni discordanti tra i Nefrologi di uno stesso Centro. Tali casi sono stati risolti come riportato nei “Materiali e metodi”.

Percorso di scelta del trattamento dialitico. L’esistenza di un percorso di predialisi aumenta dal 47,2% dei Centri DP-NO al 55,2% dei Centri DP-TRASF fino al 73,2% dei 205 Centri DP-SI (p<0,00005) (Figura 7). Dei 97 Centri con più di un Qs in 61 Centri (62,9% – 3,1 Qs per Centro) tutti i partecipanti danno una risposta concorde mentre nei rimanenti 36 Centri (37,1% – 2,6 Qs per Centro) vi è almeno una risposta che non concorda con quelle degli altri Nefrologi dello stesso Centro. In 6 di questi 36 Centri la risposta del primario o responsabile SOS non concorda con quella della maggioranza, in particolare in 1 caso per il Primario/Direttore non esiste alcun percorso mentre la maggioranza lo conferma ed in 5 casi il contrario.

Figura 7. Presenza di un percorso strutturato (con personale dedicato e con un programma di valutazione pre-definito) nei diversi tipi di Centro.
Figura 7. Presenza di un percorso strutturato (con personale dedicato e con un programma di valutazione pre-definito) nei diversi tipi di Centro.

Altre attività svolte dall’infermiere di DP. Dei 205 Centri che effettuano la DP solo in 26 (12,7%) l’infermiere si occupa esclusivamente di DP mentre delle attività considerate (predialisi, attività ambulatoriale, degenza e HD) una, due, tre o tutte e quattro sono a carico dell’infermiere di DP rispettivamente nel 45,4% (93 Centri), 28,8% (59 Centri), 10,7% (22 Centri) e 2,4% (5 Centri) dei rimanenti 244 Centri (Figura 8 A). L’attività principale nella quale è coinvolto l’infermiere di DP è il predialisi (Figura 8). Le dimensioni del programma di DP sono inversamente proporzionali al numero di “altre attività” (Figura 9).

Figura 8. Altre attività svolte dagli infermieri che si occupano di DP.
Figura 8. Altre attività svolte dagli infermieri che si occupano di DP. I dati sono riferiti ovviamente ai 205 Centri DP-SI. A) Numero di altre attività svolte (solo nel 13% dei Centri gli infermieri si occupano esclusivamente della DP). B) Tipo di attività svolte sul totale delle “altre attività”.
. Il numero di “altre attività” svolte dagli infermieri di DP aumenta al diminuire dei pazienti in trattamento con la DP.
Figura 9. Il numero di “altre attività” svolte dagli infermieri di DP aumenta al diminuire dei pazienti in trattamento con la DP. Ovviamente il grafico può anche essere letto in senso inverso, maggiore è il numero di altre attività svolte e minore è il numero di pazienti in DP.

Completezza dell’informazione fornita ai pazienti (opinione). I pazienti incidenti in HD sono informati adeguatamente sulla HD ma in maniera insufficiente sulla DP in tutti e tre i tipi di Centro anche se, per quest’ultima, il grado migliora passando dai Centri DP-NO ai Centri DP-SI (Tabella 13). Per i pazienti incidenti in DP il grado di informazione sulle due metodiche è equivalente (non considerati ovviamente i Centri DP-NP) (Tabella 13). Il risultato non cambia se si considerano le risposte fornite dai medici coinvolti nelle attività dialitiche per più del 50% del loro tempo lavorativo.

INCIDENTI IN HD INCIDENTI IN DP
INFORMAZIONE FORNITA HD DP HD DP
NO 4,4 2,8
NO-INVIO 4,4 3,3 3,0 3,2
SI 4,2 3,7 4,3 4,7
TUTTI 4,2 3,6 4,0 4,3
N.S. p<0,00005 p<0,00001 p<0,00001
Tabella 13. Informazione fornita ai pazienti incidenti early referral. Score variabile tra 1 e 5 (“1”= nessuna;  ”2”= scarsa; ”3”= sufficiente; ”4”= buona; ”5”= idonea alla scelta).

“Le figure professionali ritenute determinanti nel proprio Centro per la scelta rimangono il Primario e il Medico della HD per tutti i Centri mentre il Medico e l’Infermiere di DP hanno un peso ma solo nei Centri DP-SI (Figura 10)”. Il Primario è riconosciuto avere un ruolo decisivo anche se con un peso diverso secondo il ruolo dell’intervistato (Figura 11).

Le differenze relative al Medico e Infermiere di DP
Figura 10. Giudizio sul peso che ha (in ordine, da sinistra verso destra) il Primario (Direttore o Responsabile di Unità Operativa), il Medico che si occupa di HD, il Medico che si occupa della DP, un Medico che non si occupa di Dialisi, l’Infermiere della HD, l’Infermiere di DP, un infermiere che non si occupa direttamente di dialisi e infine lo Psicologo. Le differenze relative al Medico e Infermiere di DP sono quelle attese, come atteso è il giudizio sovrapponibile tra Centri DP-NO e Centri DP-TRASF. Sul ruolo del Primario concordano gli intervistati di tutti e tre i tipi di Centro.
Figura 11. Il giudizio sul ruolo del Primario nella scelta secondo il ruolo dell’intervistato
Figura 11. Il giudizio sul ruolo del Primario nella scelta secondo il ruolo dell’intervistato (Primario, Responsabile di SOS o Medico strutturato). Il peso è espresso come media (± DS) degli score del peso attribuito dalle tre figure professionali al Primario (score da 0, nessun peso, a 5, decisivo).

 

PARTE 2° – LE OPINIONI DEL NEFROLOGO

Fattori generali indipendenti dal paziente

Peso di diverse figure, tra cui paziente e familiari, nei pazienti autosufficienti e NON autosufficienti. Complessivamente (considerando insieme i tre tipi di Centro) il “peso” attribuito a Medico e infermiere è lo stesso sia che il paziente sia autosufficiente sia che non lo sia. Come atteso, il “peso” sulla scelta attribuito al paziente è maggiore se questo è autosufficiente rispetto al caso in cui non lo sia mentre per quelli non autosufficienti lo ha il familiare, in quest’ultimo caso superiore persino a quello del medico (Figura 12). Il ruolo di altri pazienti è minore e molto scarso per i pazienti non autosufficienti.

L’appartenenza ai diversi Centri si evidenza nel giudizio espresso sull’importanza dell’infermiere, del paziente e dei familiari (Figure 13 e 14). Per i pazienti autosufficienti gli intervistati dei Centri DP-SI assegnano un ruolo significativamente maggiore, rispetto gli altri Centri, a tutte e tre queste figure (Figura 13). Per i pazienti NON autosufficienti la differenza tra Centri DP-SI e gli altri riguarda solo infermiere e familiare (Figura 14).

trattamento dialitico in pazienti autosufficienti o con necessità di caregiver per la DP
Figura 12. Giudizio globale (tutti i Centri) sul ruolo che le principali figure coinvolte hanno sulla scelta del trattamento dialitico in pazienti autosufficienti o con necessità di caregiver per la DP. Il valore è lo score medio (in questo caso la scala è da 1, assente o irrilevante, a 5, decisivo).
Figura 13. Giudizio, ripartito secondo il tipo di Centro
Figura 13. Giudizio, ripartito secondo il tipo di Centro, sul peso che le principali figure coinvolte hanno sulla scelta del trattamento dialitico in pazienti autosufficienti. Il valore è lo score medio (in questo caso la scala è da 1, assente o irrilevante, a 5, decisivo).
Figura 14. Giudizio, ripartito secondo il tipo di Centro
Figura 14. Giudizio, ripartito secondo il tipo di Centro, sul peso che le principali figure coinvolte hanno sulla scelta del trattamento dialitico per pazienti NON autosufficienti (necessità di caregiver per la DP). Il valore è lo score medio (in questo caso la scala è da 1, assente o irrilevante, a 5, decisivo).

Percentuale ottimale di DP. Le risposte relative alla percentuale ritenuta ottimale confermano l’importanza del tipo di Centro in cui lavora il Nefrologo (Tabella 14). Chi lavora in Centri che non utilizzano la DP esprime percentuali significativamente inferiori come valore ottimale di utilizzo della DP rispetti agli altri. La percentuale non cambia se si considerano solo i 350 Nefrologi occupati per più del 50% del loro tempo dalla dialisi e i primari (Figura 15).

% OTTIMALE NO TRASF SI
≤ 10 21,4 2,4 0,3
tra 11 e 20 28,6 31,0 19,5
21 – 30 35,7 33,3 31,1
31 – 40 7,1 11,9 28,6
41 – 50 7,1 21,4 13,8
> 50 0,0 0,0 6,8
Tabella 14. Valutazione della percentuale di pazienti in dialisi con la DP ritenuta ottimale (p<0,00001).
Figura 15. Percentuale ottimale di utilizzo della DP secondo i Nefrologi dei diversi tipi di Centro
Figura 15. Percentuale ottimale di utilizzo della DP secondo i Nefrologi dei diversi tipi di Centro. In B sono stati considerati solo i 350 Nefrologi con elevato impegno nella dialisi (più del 50% del tempo lavorativo dedicato alla dialisi). Tra A e B non vi sono differenze statisticamente significative.

Il timore della peritonite. Dei 454 intervistati 24 non sono stati considerati in quanto non coinvolti in alcun modo nel processo di scelta del trattamento. Riferiscono di essere condizionati dalla paura della peritonite il 48,8%, il 19,5% e il 15,5% rispettivamente dei Nefrologi dei Centri DP-NO, DP-TRASF e DP-SI (Tabella 15). Considerando solo chi ha una esperienza di DP di oltre 3 anni la differenza non è più significativa ma il ridotto numero di intervistati con esperienza >3 anni nei Centri DP-NO e DP-TRASF (complessivamente 16 su 82), per quanto suggestivo, non consente di trarre conclusioni sicure al riguardo, mentre nei Centri DP-SI non vi è differenza significativa tra chi ha una esperienza di DP maggiore o minore di 3 anni (Figura 16).

TIMORE PERITONITE NO TRASF SI
NO 21 32 295
SI 20 8 54
Tabella 15. Il timore della peritonite diminuisce dai Centri DP-NO (48,8%) ai Centri DP-TRASF (20,0%) e DP-SI (15,5%).
Influenza del timore della peritonite nel percorso di scelta.
Figura 16. Influenza del timore della peritonite nel percorso di scelta. Considerati i 430 Nefrologi coinvolti nella scelta. A) Tutti i partecipanti. B) Ripartizione in funzione dell’esperienza minore o superiore a 3 anni.

Validità della metodica: adeguatezza. In Tabella 16 sono riportate le percentuali dei diversi giudizi espressi dagli intervistati circa la validità dell’adeguatezza depurativa della DP rispetto alla HD. La maggioranza nei Centri DP-NO la ritiene inferiore mentre nei Centri DP-TRASF e DP-SI la maggioranza la ritiene uguale o superiore (Figura 17). Il risultato non cambia se si considerano solo gli intervistati con alto coinvolgimento nel percorso di scelta del trattamento.

ADEGUATEZZA DIALITICA SOPRAVVIVENZA
CENTRI INFERIORE UGUALE SUPERIORE INFERIORE UGUALE SUPERIORE
NO 57,1 40,5 2,4 45,2 47,6 7,1
TRASF 35,7 45,2 19,0 21,4 54,8 23,8
SI 25,7 61,4 13,0 14,1 64,9 21,1
TUTTI 29,5 57,9 12,6 17,6 62,3 20,0
Tabella 16. Valutazione della validità della DP rispetto alla HD. Entrambe valutate in manidera significativamente diversa nei tre tipi di <Centro (adeguatezza dialitica p<0,0005 – sopravvvenza p<0,00002).
Valutazione dell’adeguatezza dialitica e della sopravvivenza in DP rispetto alla HD.
Figura 17. Valutazione dell’adeguatezza dialitica e della sopravvivenza in DP rispetto alla HD.

Validità della metodica: sopravvivenza. I risultati per la sopravvivenza sono simili a quelli dell’adeguatezza anche se meno accentuati (Tabella 16) (Figura 17). La maggioranza dei partecipanti la ritiene uguale in tutti e tre i tipi di Centro ma nei Centri DP-NO sono pochi di meno quelli che la ritengono peggiore (47,6% uguale – 45,2% peggiore). L’inverso si riscontra tra i Centri DP-SI (uguale 64,9% – peggiore 14,1%) e la valutazione è intermedia nei Centri NO-TRASF (uguale 54,8% – peggiore 28,1%).  Il risultato non cambia se si considerano solo i 300 intervistati con alto coinvolgimento dialitico (sopravvivenza inferiore: NO = 43,3% – TRASF = 21,9% – SI = 13,0%; sopravvivenza uguale: NO = 53,3% – TRASF = 50,0% – SI = 64,3%).

Fattori strutturali condizionanti l’utilizzo della DP. Dei cinque fattori considerati (costi, carenza di infermieri, vicinanza di Centri privati, dimensioni globali del Centro ridotte, esubero di posti letto di HD) la maggioranza in tutte le tre tipologie di Centro concorda che siano fattori favorevoli per la HD la presenza di Centri privati nelle vicinanze, le dimensioni ridotte del Centro e l’esubero dei posti letto (Tabella 17) (Figure 18 e 19). Per quanto riguarda i costi la maggioranza degli appartenenti ai Centri DP-NO li considera un fattore non importante mentre nei Centri DP-TRASF e DP-SI li considera un’indicazione alla DP. Tale differente giudizio sui costi non è più significativo se si considerano solo i Nefrologi ad alto coinvolgimento. Il giudizio espresso sulla carenza degli infermieri come fattore condizionante una metodica è simile a quello dei costi: la maggioranza (38,1%) nei Centri DP-NO la ritiene un fattore non determinante mentre nei Centri DP-TRASF e DP-SI (rispettivamente il 61,9% e 66,8%) è considerata una indicazione alla DP sia globalmente che dai soli Nefrologi ad alto coinvolgimento dialitico. Nei Centri DP-NO comunque più di un quarto degli intervistati (26,1%) la ritiene una indicazione alla HD.

INDICAZIONE ALLA HD (1 – 2); INDIFFERENTE (3); INDICAZIONE ALLA DP (4 – 5)
  1 2 3 4 5
COSTI (p<0,05)
NO 4,8 4,8 59,5 23,8 7,1
TRASF 7,1 4,8 28,6 33,3 26,2
SI 3,0 3,8 36,2 26,8 30,3
TUTTI 3,5 4,0 37,7 27,1 27,8
CARENZA INFERMIERI (p<0,0001)
NO 11,9 14,3 38,1 26,2 9,5
TRASF 14,3 7,1 16,7 42,9 19,0
SI 3,0 5,7 24,6 33,8 33,0
TUTTI 4,8 6,6 25,1 33,9 29,5
VICINANZA CENTRI PRIVATI (N.S.)
NO 47,6 14,3 38,1 0,0 0,0
TRASF 28,6 19,0 42,9 7,1 2,4
SI 33,5 12,2 43,5 5,4 5,4
TUTTI 34,4 13,0 43,0 5,1 4,6
DIMENSIONI RIDOTTE DEL CENTRO (N.S.)
NO 28,6 23,8 31,0 14,3 2,4
TRASF 33,3 9,5 35,7 14,3 7,1
SI 18,1 22,4 35,7 14,1 9,7
TUTTI 20,5 21,4 35,2 14,1 8,8
ESUBERO POSTI LETTO DI HD (N.S.)
NO 54,8 16,7 23,8 2,4 2,4
TRASF 38,1 19,0 28,6 7,1 7,1
SI 36,2 17,6 33,5 6,2 6,5
TUTTI 38,1 17,6 32,2 5,9 6,2
Tabella 17. Valutazione, come indicazione alla DP od alla HD, dei fattori strutturali riportati in Tabella. Se si considerano solo gli intervistati (300) con alto coinvolgimento nel percorso di scelta (dati non riportati) la differenza riguardo il giudizio sui costi tra i tre tipi di Centro non è più significativa.
Valutazione globale (454 Nefrologi) dell’indicazione alla DP o alla HD graduata
Figura 18. Valutazione globale (454 Nefrologi) dell’indicazione alla DP o alla HD graduata da 1 a 5 di ciascuno dei fattori strutturali soprariportati.
Valutazione dell’indicazione alla DP od alla HD
Figura 19. Valutazione dell’indicazione alla DP od alla HD graduata da 1 a 5 di ciascuno dei fattori strutturali soprariportati. I partecipanti sono stati ripartiti in funzione del tipo di Centro di appartenenza.

Possibili incentivi alla DP. La maggioranza degli intervistati (Figura 20) (Tabella 18) valuta positivamente tutti e cinque gli incentivi considerati. L’analisi per i tipi di Centro mostra differenze significative per il sostegno economico alla DP assistita, la telemedicina e l’applicazione di incentivi economici alle RSA disponibili a gestire la DP ma mentre il sostegno economico alla DP assistita e alle RSA è caldeggiato dagli appartenenti ai Centri DP-TRASF e DP-SI, la telemedicina dai Centri DP-NO (Figura 21).

da nessuna importanza (1) a peso rilevante (5)
  1 2 3 4 5
SOSTEGNO ECONOMICO PER L’ASSISTENZA (p<0,00001)
NO 33,3 16,7 16,7 21,4 11,9
TRASF 14,3 4,8 28,6 26,2 26,2
SI 4,9 6,8 15,4 28,4 44,6
TUTTI 8,4 7,5 16,7 27,5 39,9
TELEMEDICINA (p<0,0005)
NO 7,1 7,1 14,3 54,8 16,7
TRASF 2,4 7,1 31,0 31,0 28,6
SI 11,1 17,0 26,2 25,9 19,7
TUTTI 9,9 15,2 25,6 29,1 20,3
SUPPORTO TELEFONICO INFERMIERISTICO H24 (N.S.)
NO 2,4 4,8 14,3 57,1 21,4
TRASF 0,0 7,1 16,7 38,1 38,1
SI 3,2 9,2 17,0 34,1 36,5
TUTTI 2,9 8,6 16,7 36,6 35,2
SUPPORTO INFERMIERISTICO DOMICILIARE (N.S.)
NO 4,8 4,8 16,7 40,5 33,3
TRASF 0,0 2,4 14,3 38,1 45,2
SI 2,4 3,8 9,7 29,5 54,6
TUTTI 2,4 3,7 10,8 31,3 51,8
SOSTEGNO ECONOMICO PER LE RSA (p<0,0005)
NO 7,1 4,8 28,6 42,9 16,7
TRASF 2,4 7,1 19,0 33,3 38,1
SI 3,5 4,9 10,8 26,5 54,3
TUTTI 3,7 5,1 13,2 28,6 49,3
Tabella 18. Valutazione del peso che gli incentivi alla DP riportati in Tabella hanno sulla scelta della DP secondo i Nefrologi ripartiti per tipo di Centro.
Opinione sull’efficacia di diverse iniziative generalmente considerate incentivi alla DP
Figura 20. Opinione sull’efficacia di diverse iniziative generalmente considerate incentivi alla DP: sostegno economico destinato al Caregiver dell’eventuale DP assistita; Telemedicina; Supporto Infermieristico telefonico H24; Supporto infermieristico domiciliare; Sostegno economico per le RSA disposte ad ospitare e gestire pazienti in DP. Tutti gli intervistati considerati insieme (454 Nefrologi).
. Opinione dei Nefrologi sull’efficacia di diverse iniziative generalmente considerate
Figura 21. Opinione dei Nefrologi sull’efficacia di diverse iniziative generalmente considerate incentivi alla DP ripartiti in funzione del Centro di appartenenza.

Fattori generali dipendenti dal paziente

Rappresenta l’insieme delle più comuni indicazioni e controindicazioni, cliniche e socio-attitudinali, alla DP che vengono di norma valutate durante il percorso predialitico.

Percentuale di pazienti senza alcun condizionamento. La percentuale di pazienti early referral e liberi di scegliere tra HD e DP è valutata in maniera significativamente differente secondo il tipo di Centro di appartenenza (Tabella 19). In particolare mentre per i Centri DP-NO il 92,8% ritiene sia meno del 50%, il 47,6% degli intervistati dei Centri DP-SI ritiene sia superiore al 50% dei pazienti incidenti (Figura 22), considerando poi solo i 300 intervistati con alto coinvolgimento nell’attività dialitica il risultato non cambia (rispettivamente il 96,7% e il 48,3%).

≤40% 40-50% 50-60% 60-70% ≥70%
NO 71,4 21,4 4,8 0,0 2,4
NO-INVIO 54,8 23,8 9,5 4,8 7,1
SI 25,7 26,8 21,1 14,1 12,4
TUTTI 32,6 26,0 18,5 11,9 11,0
Tabella 19. Percentuale di pazienti liberi di scegliere la modalità dialitica (p<0,00001).
Opinione sulla percentuale di pazienti senza alcun condizionamento clinico o sociale
Figura 22. Opinione sulla percentuale di pazienti senza alcun condizionamento clinico o sociale e che possono pertanto scegliere tra DP ed HD sul totale degli incidenti in dialisi (p<0,00001).

Particolari condizioni cliniche. In Figura 23 è riportato il confronto delle valutazioni date dagli appartenenti ai Centri DP-NO e DP-TRASF considerati insieme (82 intervistati) con quelle degli appartenenti ai Centri DP-SI (370 intervistati) considerando insieme le indicazioni elevate o moderate alla HD (risposte 1 e 2) e alla DP (risposte 4 e 5). Sulla cardiopatia ischemica (CAD), la malnutrizione e la diverticolosi le risposte, indicazione alla DP per la CAD e controindicazione alla DP per BMI<20 e diverticolosi estesa oltre il sigma, non sono risultate significativamente differenti tra i diversi tipi di Centro. Opposte valutazioni sono state date dalla maggioranza degli intervistati invece per l’insufficienza cardiaca (indicazione per i Centri DP-SI e controindicazione o indifferente per i Centri DP-NO/TRASF) e la nefropatia policistica (controindicazione per i Centri DP-NO/TRASF e indifferente per i Centri DP-SI) (Figura 24). Riguardo al diabete mellito (DM) tipo 2 nei Centri DP-NO/TRASF tra quelli che lo ritengono indifferente o una indicazione alla DP questi ultimi (indifferente 41,7% – indicazione 35,7%) sono in proporzione superiore rispetto agli appartenenti ai Centri DP-SI (indifferente 52,4% – indicazione 21,9%). Anche per l’obesità, giudicata da oltre il 75% in entrambi i gruppi una controindicazione alla DP la quota di quelli che la ritengono indifferente è superiore tra i Centri NO/TRASF (17,9% vs 8,4%). Il confronto tra Centri NO e Centri TRASF è risultato significativamente diverso solo per la Nefropatia policistica (Figura 24), per tutte le altre condizioni la valutazione tra Centri NO e Centri TRASF non è risultata significativamente diversa.

I risultati dettagliati per tutti e tre i tipi di Centro con le risposte graduate da 1 a 5 sono riportati in Tabella 20.

INDICAZIONE ALLA HD (1 – 2); INDIFFERENTE (3); INDICAZIONE ALLA DP (4 – 5)
  1 2 3 4 5
INSUFFICIENZA CARDIACA CONGESTIZIA (p<0,005)
NO 28,6 14,3 16,7 33,3 7,1
TRASF 23,8 14,3 19,0 31,0 11,9
SI 11,1 10,8 17,6 29,2 31,4
TUTTI 13,9 11,5 17,6 29,7 27,3
CARDIOPATIA ISCHEMICA (p<0,0005)
NO 14,3 7,1 26,2 45,2 7,1
TRASF 2,4 4,8 21,4 52,4 19,0
SI 1,6 5,4 30,0 38,9 24,1
TUTTI 2,9 5,5 28,9 40,7 22,0
DIABETE (p<0,01)
NO 14,3 11,9 47,6 23,8 2,4
TRASF 7,1 11,9 35,7 31,0 14,3
SI 5,1 20,5 52,4 15,9 5,9
TUTTI 6,2 18,9 50,4 18,1 6,4
OBESITÀ – BMI>30 kg/mq (N.S.)
NO 57,1 16,7 21,4 4,8 0,0
TRASF 50,0 33,3 14,3 0,0 2,4
SI 52,4 35,1 8,4 3,2 0,8
TUTTI 52,6 33,3 10,1 3,1 0,9
MALNUTRIZIONE – BMI<20 Kg/mq (p<0,05)
NO 38,1 14,3 9,5 35,7 2,4
TRASF 31,0 23,8 19,0 14,3 11,9
SI 24,1 23,2 25,7 19,7 7,3
TUTTI 26,0 22,5 23,6 20,7 7,3
DIVERTICOLOSI DIFFUSA OLTRE IL SIGMA (p<0,01)
NO 57,1 16,7 21,4 0,0 4,8
TRASF 66,7 19,0 7,1 2,4 4,8
SI 41,9 35,9 17,3 3,5 1,4
TUTTI 45,6 32,6 16,7 3,1 2,0
APKD (p<0,00001)
NO 35,7 23,8 35,7 0,0 4,8
TRASF 50,0 33,3 11,9 0,0 4,8
SI 15,4 25,7 50,3 5,9 2,7
TUTTI 20,5 26,2 45,4 4,8 3,1
Tabella 20. Valutazione dettagliata dei singoli fattori clinici (in percentuale) su cui è stata richiesta l’opinione del Nefrologo.
Valutazione dei principali fattori clinici che possono condizionare la scelta del trattamento.
Figura 23. Valutazione dei principali fattori clinici che possono condizionare la scelta del trattamento. «CHF» Insufficienza Cardiaca Congestizia; 2. «CAD» Cardiopatia Ischemica; 3. «DM» Diabete Mellito tipo 2; 4. «BMI>30» Obesità; 5. «BMI<20» Malnutrizione; 6. «Diverticolosi» è intesa come diverticolosi estesa oltre il sigma; 7. «ADPKD» Nefropatia Policistica. NOTE – Gli intervistati dei Centri NO e TRASF (82) sono stati considerati insieme e confrontati con quelli dei Centri SI-DP (370).
Nefropatia policistica e cardiopatia congestizia nel giudizio degli intervistati ripartiti per tipo di Centro.
Figura 24. Nefropatia policistica e cardiopatia congestizia nel giudizio degli intervistati ripartiti per tipo di Centro.

Particolari condizioni sociali (fattori legati al paziente NON clinici). In Figura 25 e Figura 26 è riportato il confronto delle valutazioni date dagli appartenenti ai Centri DP-NO e DP-TRASF considerati insieme (82 intervistati) con quelle degli appartenenti ai Centri DP-SI (370 intervistati) considerando insieme le indicazioni elevate o moderate alla HD (risposte 1 e 2) e alla DP (risposte 4 e 5). Gli intervistati concordano (p = N.S.) che motivazione alla autogestione, attività lavorativa, esigenza di avere degli orari per la dialisi flessibili e, nel caso di pazienti NON autonomi ma con un caregiver disponibile rappresentano tutte indicazioni alla DP così come una ridotta aderenza alla terapia (NON compliance) sia una indicazione valida alla HD. Il giudizio è invece significativamente diverso tra i tre gruppi per quanto riguarda l’importanza dell’immagine corporea, l’età, la qualità della vita e il vivere soli. In particolare per l’immagine corporea il 52,4% nei Centri DP-NO/TRASF la ritiene una indicazione alla HD mentre il 62,7% nei Centri DP-SI la ritiene una indicazione alla DP o indifferente (p<0,05); per la qualità della vita se il 51,2% nei Centri DP-NO/TRASF la ritiene una indicazione alla DP questa percentuale sale al 67,3% nei Centri DP-SI (p<0,01); per una età compresa tra 65 e 75 anni il 15,5% e il 50,0% nei Centri DP-NO/TRASF la ritiene rispettivamente una indicazione alla HD o indifferente mentre nei Centri DP-SI tali percentuali sono rispettivamente il 4,1% e il 57,3% (p<0,0005); per una età > 75 anni la differenza è più marcata: nei Centri DP-NO/TRASF tale condizione è ritenuta una indicazione alla HD dal 48,8% degli intervistati contro il 24,3% nei Centri DP-SI (p<0,00005); infine il vivere soli è una indicazione alla HD per il 78,6% nei Centri DP-NO/TRASF contro il 51,6% nei Centri DP-SI (p<0,00005).

Condizioni NON cliniche valutate secondo il grado di indicazione alla HD o alla DP
Figura 25. Condizioni NON cliniche valutate secondo il grado di indicazione alla HD o alla DP. «MOTIVAZ. AUTOGEST.»: paziente motivato ad autogestire la dialisi; «FLESSIBILITA’» degli orari; «Q of L»: Qualità della Vita; «NON COMPLIANCE»: ridotta aderenza alle prescrizioni. NOTE – Gli intervistati dei Centri DP-NO e DP-TRASF (84) sono stati considerati insieme e confrontati con quelli dei Centri DP-SI (370).
Condizioni NON cliniche valutate secondo il grado di indicazione alla HD o alla DP.
Figura 26. Condizioni NON cliniche valutate secondo il grado di indicazione alla HD o alla DP. «ASSIST-DP» paziente NON autonomo con necessità di Caregiver (CG) che è disponibile. NOTE – Gli intervistati dei Centri NO e TRASF (82) sono stati considerati insieme e confrontati con quelli dei Centri SI-DP (370).

Per tutte le condizioni NON cliniche considerate la valutazione tra Centri DP-NO e Centri DP-TRASF non è risultata significativamente diversa. I risultati dettagliati per tutti e tre i tipi di Centro con le risposte graduate da 1 a 5 sono riportati in Tabella 21. L’analisi limitata ai 300 Nefrologi con alto coinvolgimento nelle attività dialitiche ha mostrato risultati sovrapponibili a quelli riportati in Tabella 21.

INDICAZIONE ALLA HD (1 – 2); INDIFFERENTE (3); INDICAZIONE ALLA DP (4 – 5)
  1 2 3 4 5
MOTIVAZIONE ALL’AUTOGESTIONE (p<0,00001)
NO 2,4 0,0 0,0 64,3 33,3
TRASF 0,0 0,0 4,8 31,0 64,3
SI 0,8 0,5 2,4 13,0 83,2
TUTTI 0,9 0,4 2,4 19,4 76,9
ETÀ TRA 65 E 75 ANNI (p<0,0005)
NO 7,1 9,5 57,1 21,4 4,8
TRASF 4,8 9,5 42,9 35,7 7,1
SI 0,3 3,8 57,3 25,9 12,7
TUTTI 1,3 4,8 55,9 26,4 11,5
ETÀ > 75 ANNI (p<0,00001)
NO 40,5 11,9 19,0 21,4 7,1
TRASF 21,4 23,8 23,8 14,3 16,7
SI 5,1 19,2 40,0 24,6 11,1
TUTTI 9,9 18,9 36,6 23,3 11,2
NON AUTONOMO CON CAREGIVER DISPONIBILE (p<0,005)
NO 11,9 7,1 11,9 61,9 7,1
TRASF 19,0 4,8 19,0 40,5 16,7
SI 8,6 6,2 10,3 40,5 34,3
TUTTI 9,9 6,2 11,2 42,5 30,2
VIVE SOLO/A (p<0,005)
NO 50,0 26,2 21,4 0,0 2,4
TRASF 42,9 38,1 11,9 4,8 2,4
SI 25,1 26,5 40,3 5,4 2,7
TUTTI 29,1 27,5 35,9 4,8 2,6
IMMAGINE CORPOREA (p<0,05)
NO 26,2 31,0 35,7 7,1 0,0
TRASF 23,8 23,8 40,5 9,5 2,4
SI 8,6 28,6 50,3 9,2 3,2
TUTTI 11,7 28,4 48,0 9,0 2,9
LAVORO (p<0,05)
NO 2,4 4,8 19,0 59,5 14,3
TRASF 2,4 4,8 19,0 38,1 35,7
SI 1,6 1,9 17,3 33,5 45,7
TUTTI 1,8 2,4 17,6 36,3 41,9
FLESSIBILITÀ DEGLI ORARI (p<0,005)
NO 7,1 0,0 14,3 61,9 16,7
TRASF 0,0 2,4 14,3 47,6 35,7
SI 1,4 0,5 10,8 34,3 53,0
TUTTI 1,8 0,7 11,5 38,1 48,0
QUALITÀ DELLA VITA (p<0,00001)
NO 2,4 2,4 47,6 45,2 2,4
TRASF 0,0 11,9 33,3 40,5 14,3
SI 1,4 1,9 29,5 28,6 38,6
TUTTI 1,3 2,9 31,5 31,3 33,0
NON COMPLIANCE (p= N.S.)
NO 71,4 11,9 14,3 2,4 0,0
TRASF 66,7 14,3 11,9 4,8 2,4
SI 67,6 17,0 12,2 1,6 1,6
TUTTI 67,8 16,3 12,3 2,0 1,5
Tabella 21. Valutazione dettagliata dei singoli fattori NON clinici (in percentuale) su cui è stata richiesta l’opinione del Nefrologo.

Durata della DP e drop out alla HD

Durata della DP. Alla domanda se il drop out dalla DP fosse da considerare un evento probabile dopo 2, 4 o 5 anni oppure se la DP non abbia un limite temporale definibile a priori le risposte sono risultate significativamente diverse come riportato in Tabella 22. Tuttavia la differenza non riguarda la ripartizione tra chi crede che abbia una durata predeterminata e chi no (p = N.S.) ma nella stima che della durata fanno chi la crede determinata (Figura 27). La stessa analisi limitata ai 300 intervistati con alto coinvolgimento nelle attività dialitiche non è risultata significativa.

2 anni 3 anni 5 anni INDEFINITA
NO 14,3 19,0 19,0 47,6
TRASF 2,4 21,4 19,0 57,1
SI 2,7 11,6 30,5 55,1
TUTTI 3,7 13,2 28,4 54,6
Tabella 22. Durata della DP.
La durata della DP nell’opinione degli intervistati ripartiti secondo il tipo di Centro.
Figura 27. La durata della DP nell’opinione degli intervistati ripartiti secondo il tipo di Centro.

Durata della DP e dimensioni del programma DP. La maggioranza degli intervistati (63,7%) ritiene che le dimensioni del programma DP del Centro (pazienti globalmente trattati e/o in trattamento) non abbia influenza sulla percentuale di drop out alla HD (Figura 28-A) senza significative differenze tra i tre tipi di Centro (stesso risultato anche considerando solo i 300 ad alto impegno dialitico).

 La risposta relativa al tasso di drop annuo è simile a quella sulla durata della DP (A).
Figura 28. La risposta relativa al tasso di drop annuo è simile a quella sulla durata della DP (A). In B l’opinione del Nefrologo, secondo il Centro di appartenenza, sull’influenza che le dimensioni del programma di DP può avere sul drop out.

Percentuale di drop out annuo. Anche a questa domanda gli intervistati hanno risposto in modo simile tra i tre tipi di Centro (Figura 28-B). Complessivamente il 48,9% ritiene non vi sia una percentuale fisiologica di drop out mentre tra i rimanenti il 17,6% e il 19,6% ritiene sia, rispettivamente, inferiore al 6% o tra il 6 e il 10%.

 

Interesse per l’argomento

Alla domanda se “In futuro, desideri essere informato sui risultati di questo questionario e su eventuali nuove iniziative che potranno seguire a questa?” complessivamente il 91,6% ha manifestato interesse anche se con una differenza fortemente significativa tra i tipi di Centro. Infatti mentre quasi tutti gli appartenenti ai Centri DP-SI (98,6%) sono interessati tra i Centri DP-NO la percentuale degli interessati scende al 47,6% (Figura 29).

Figura 29. La risposta a questa domanda, considerata più di cortesia che di inchiesta, può essere un indicatore dell’interesse dell’intervistato per la DP.
Figura 29. La risposta a questa domanda, considerata più di cortesia che di inchiesta, può essere un indicatore dell’interesse dell’intervistato per la DP.

 

Discussione

Il Cens-SIN-2004 aveva mostrato l’importanza dei fattori strutturali (estensione dei Centri privati, dimensioni del Centro e tasso di occupazione delle stazioni di HD) nell’utilizzo della DP: i Centri che non utilizzano la DP sono più piccoli, hanno un minor tasso di occupazione dei posti letto di HD e sono situati in regioni in cui numerosi sono i Centri Dialisi privati. Se contassero solo i fattori strutturali il giudizio sulla DP non sarebbe diverso tra chi utilizza la DP e chi non la utilizza mentre invece le opinioni sono risultate significativamente differenti secondo l’appartenenza a un Centro piuttosto che un altro: negativo per chi non la utilizza e positivo per chi la utilizza.

Dal momento che in genere la scelta della sede di lavoro precede l’esperienza lavorativa sembra che l’opinione che si ha sulla DP sia determinata dall’esperienza maturata con la metodica, confermando l’importanza dei fattori strutturali sull’utilizzo della metodica. Tuttavia la presenza di Centri che inviano i candidati alla DP (Centri DP-TRASF) ad altri Centri e che hanno le stesse caratteristiche strutturali dei Centri che non considerano affatto la DP per dimensioni (ridotte) e occupazione dei posti letto di HD (minore) ma opinioni favorevoli alla DP dimostra che oltre ai fattori strutturali anche l’opinione sulla metodica ha importanza.

In sintesi l’utilizzo della DP nei Centri pubblici italiani sembra il risultato di un equilibrio tra fattori strutturali e opinioni in cui però queste ultime sono, ma solo in parte, condizionate dai primi dal momento che l’esperienza maturata con la DP ne migliora il giudizio.

Discutiamo in dettaglio i principali risultati dello studio riassunti nella Tabella 23.

Caratteristiche dei Nefrologi e dei loro Centri

Per quanto riguarda i Nefrologi, fra i tre tipi di Centro l’unica differenza significativa riguarda, come naturale, l’esperienza con la DP mentre caratteristiche anagrafiche, preparazione e impegno lavorativo in dialisi, grado di coinvolgimento nella scelta del trattamento sono sostanzialmente simili. I Centri che hanno partecipato all’indagine non sono significativamente differenti da quelli che non hanno partecipato. Tra i tre tipi di Centro la differenza principale riguarda la presenza di un percorso strutturato di scelta del trattamento, che, rispetto ai Centri DP-SI è minore nei Centri DP-NO e intermedio nei Centri DP-TRASF. In accordo a tale dato è la percentuale di coloro che sono coinvolti in tutte e 3 le componenti della scelta (informazione, valutazione clinica e valutazione socio-attitudinale). Se ciò concorda con la natura del Centro (dove non si effettua la DP non si pone il problema della scelta), il grado di coinvolgimento di chi si definisce coinvolto nella scelta è medio-elevato in tutti e tre i tipi di Centro. Tale contraddizione potrebbe essere espressione di una impostazione culturale differente per cui nei Centri DP-NO la scelta è ridotta sostanzialmente all’informazione. Stranamente però anche nei Centri DP-NO i pazienti incidenti in HD vengono comunque informati sulla DP seppure in maniera meno che sufficiente. Tuttavia la differenza, sempre  per quanto riguarda l’informazione fornita ai pazienti incidenti in HD, tra Centri DP-NO e DP-SI non è rilevante (rispettivamente 2,8 vs 3,7 in una scala da 1 a 5). Dal momento che la domanda sull’informazione fornita era riferita ai pazienti early referral ma non specificava l’assenza di controindicazioni alla DP è possibile che queste, logicamente più numerose nei pazienti incidenti in HD dei Centri DP-SI, influenzino l’informazione (la presenza di controindicazioni alla DP è ritenuta nella pratica quotidiana un motivo che rende “non necessario” informare il paziente su questa metodica).

Le opinioni: i protagonisti della scelta

In accordo a quanto detto sopra, la percentuale di pazienti che potrebbero fare sia la DP che la HD (senza controindicazioni) è valutata in maniera nettamente diversa dai Nefrologi dei tre tipi di Centro in accordo con quanto detto prima. Se la scelta è influenzata dagli operatori sanitari, per quanto riguarda il proprio Centro, tutti riconoscono il ruolo determinante del Direttore mentre il peso di altre figure quali il medico o l’infermiere di DP e lo psicologo dipendono ovviamente dal tipo di Centro e disponibilità del Servizio. Interessante è il ruolo dello psicologo, rilevante solo nei Centri DP-SI, indicatore di un percorso di scelta più articolato in questi Centri. Per quanto riguarda il ruolo in generale del medico, dell’infermiere, del paziente, dei familiari e degli altri pazienti tutti concordano sul ruolo determinante del medico, importante del paziente o dei familiari a seconda che il paziente sia autosufficiente oppure no, e irrilevante degli altri pazienti.  La differenza principale tra i tre tipi di Centro riguarda la valutazione del ruolo dell’infermiere che è visto NON marginale solo dal 14,3% dei Nefrologi dei Centri DP-NO rispetto al 60,5% dei Centri DP-SI.

Le opinioni: la validità della metodica, la percentuale ottimale e il drop out

Anche il giudizio sull’adeguatezza e sulla sopravvivenza della DP rispetto alla HD è notevolmente differente nei tre tipi di Centro: peggiori per i Centri DP-NO, uguali o migliori della HD nei Centri DP-SI. Circa la metà ritiene che la DP non abbia una durata predefinita, senza differenze tra i Centri, tuttavia della restante metà la percentuale di coloro che le danno una durata massima di 2 o 3 anni rispetto a 5 anni è significativamente superiore tra i Centri DP-NO. È quindi naturale che solo il 14,3% nei Centri DP-NO giudichi ottimale una percentuale di pazienti trattati con la DP superiore al 30% mentre il 21,4% collochi questa percentuale al di sotto del 10% a differenza degli altri Centri. Tuttavia, sempre nei Centri DP-NO coloro che valutano ottimale una percentuale di pazienti trattati con la DP tra il 10% e il 30% (percentuale reale della DP nei Centri DP-SI) [18] sia il 64,3%. Per tale aspetto, come per diversi altri, la valutazione data dai Nefrologi dei Centri DP-TRASF è simile a quella dei Centri DP-SI.

Le opinioni: fattori generali che condizionano la scelta del trattamento

Il timore della peritonite è maggiormente sentito nei Centri DP-NO, minimo nei Centri DP-SI e intermedio nei Centri DP-TRASF. Interessante il riscontro che, considerando solo gli intervistati con un’esperienza con la DP > 3 anni, tale differenza non sia più significativa. Le dimensioni del Centro, la minor pressione sui posti letto di HD e la vicinanza dei Centri privati sono riconosciuti essere fattori che favoriscono o indicano l’utilizzo della HD senza differenze significative tra i Centri mentre i costi e la carenza degli infermieri sono indicazioni alla DP nei Centri DP-SI e DP-TRASF ma non nei Centri DP-NO nei quali anzi rappresentano per la maggioranza una indicazione alla HD o non hanno alcuna importanza. Questo dato può essere giustificato dalla differente prospettiva che hanno i Nefrologi dei diversi tipi di Centro. Infatti se il rapporto infermieri/pazienti è nettamente favorevole alla DP e quindi la carenza degli infermieri dovrebbe rappresentarne un incentivo, nei Centri DP-NO la prospettiva è però quella di chi deve avviare un programma di DP e, come noto, l’investimento iniziale comporta sempre un maggior consumo di risorse piuttosto che un risparmio, evidente solo a programma avviato.

Le opinioni: fattori specifici dei pazienti che condizionano la scelta del trattamento

Mentre tutti sostanzialmente concordano che diverticolosi e obesità siano una indicazione alla HD, che la malattia coronarica sia una indicazione alla DP e che malnutrizione e diabete siano indifferenti, discordante è il giudizio sulla cardiopatia congestizia (indicazione netta alla DP nei Centri DP-SI) e la nefropatia policistica (indicazione netta alla HD nei Centri DP-SI e DP-TRASF). Per i fattori non clinici tutti concordano che la motivazione all’autogestione, l’essere impegnati da un’attività lavorativa, la necessità di orari flessibili siano tutte indicazioni alla DP mentre la scarsa compliance lo sia per la HD. Le differenze riguardano l’immagine corporea, considerata una indicazione alla HD nei Centri DP-NO e DP-TRASF mentre il 50% la considera indifferente nei Centri DP-SI e la Qualità della vita è giudicata da tutti nettamente migliore in DP ma maggiormente nei Centri DP-SI. Per quanto riguarda l’età tra 65 e 75 anni, la maggioranza la considera indifferente o una indicazione alla DP mentre differente tra i Centri è la valutazione di una età superiore a 75 anni e il vivere soli. Un’età >75 anni per la maggioranza nei Centri DP-NO è una indicazione alla HD ma non nei Centri DP-SI, mentre se il vivere soli rappresenta per tutti una indicazione alla HD lo è molto di più nei Centri DP-NO; tuttavia se il paziente non è autosufficiente e ha un caregiver disponibile la DP è riconosciuta da tutti il trattamento indicato. Per quanto riguarda i possibili incentivi alla DP il sostegno economico al caregiver o alla RSA è valutato maggiormente importante nei Centri DP-SI mentre, curiosamente, la telemedicina e l’innovazione tecnologica lo sono per gli intervistati dei Centri DP-NO.

DP-NO DP-TRASF DP-SI
CARATTERISTICHE DEL NEFROLOGO
esistenza di un percorso di scelta strutturato (SI, %) 47,2 55,2 73,2
coinvolgimento in tutte e tre le attività del predialisi (%) 21,4 47,6 54,9
Nefrologi con esperienza in DP >3 anni (%) 16,7 26,2 65,1
informazione fornita ai pz in HD sulla DP (score da 1 a 5) 2,8 3,3 3,7
LA SCELTA – I PROTAGONISTI
percentuale >40% dei pz incidenti che potrebbero fare la DP (%) 28,6 45,2 74,3
ruolo dell’infermiere nella scelta NON marginale (%) 14,3 31,0 60,5
IL VALORE DELLA DP
adeguatezza dialitica inferiore alla HD (%) 57,1 35,7 25,7
sopravvivenza inferiore alla HD (%) 45,2 21,4 14,1
drop out atteso a 2 o 3 anni (%) 33,3 23,9 14,3
percentuale ottimale di pazienti trattati con la DP >30% 14,3 33,3 49,2
percentuale ottimale di pazienti trattati con la DP <10% 21,4 2,4 0,3
FATTORI CHE CONDIZIONANO LA SCELTA – indicazioni alla DP
costi (%) 41,0 59,5 57,0
carenza degli infermieri (%) 35,7 61,9 66,8
insufficienza cardiaca congestizia (%) 40,4 42,9 60,6
Qualità della Vita (%) 47,6 54,8 67,2
paziente non autonomo con caregiver disponibile (%) 69,0 57,2 84,8
FATTORI CHE CONDIZIONANO LA SCELTA – indicazioni alla HD
età > 75 anni (%) 52,4 45,2 24,3
vivere soli (%) 76,2 81,0 51,6
ADPKD 59,5 83,3 41,1
Body Image indicazione a HD 57,2 47,6 37,2
timore della peritonite 48,8 20,0 15,5
Tabella 23. Riassunto delle principali differenze (considerate solo quelle significative) di opinione tra i Nefrologi dei tre tipi di Centro.

 

Limiti dello studio

Lo studio presenta diversi limiti. I dati sono stati rianalizzati dopo diversi anni dalla loro raccolta per cui è possibile che non siano stati messi in evidenza o discussi alcuni riscontri legati all’epoca in cui si è svolta. I dati di prevalenza e incidenza sono riferiti al 2004 e non all’anno dello studio. Infine i partecipanti sono stati selezionati in base a una adesione volontaria. Tuttavia la numerosità del campione, l’inclusione di un numero consistente di Nefrologi che non prescrivono la DP e i diversi aspetti considerati ne rappresentano un indubbio punto di forza.

 

Conclusioni

Lo studio conferma l’importanza dell’opinione o l’esistenza di un “pregiudizio” del Nefrologo legato al tipo Centro in cui lavora. Nei Centri in cui la DP non è effettuata rispetto ai Centri che la utilizzano il giudizio sulla DP è più negativo, un percorso predialitico di scelta è meno presente e semplificato alla sola informazione e la percentuale di pazienti da trattare con la DP giudicata ottimale è minore. Tuttavia anche in tali Centri il giudizio è comunque variabile (non tutti la pensano allo stesso modo), condizionato dall’esperienza che il Nefrologo ha con la DP e, su diversi aspetti specifici, può essere addirittura positivo. Tutto ciò insieme all’esistenza di Centri che pur non effettuando la DP inviano i pazienti che possono averne indicazione ad altri Centri, messa in evidenza per la prima volta da questo studio, suggerisce che l’utilizzo della DP dipenda dalla combinazione di fattori strutturali (dimensioni, privato circostante e posti letto di HD) e opinioni, condizionate però in parte dai primi.

 

Bibliografia

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Infezione da West Nile Virus e malattia renale: descrizione di due pazienti in dialisi peritoneale e revisione della letteratura

Abstract

Il virus del Nilo occidentale (WNV), un arbovirus a RNA, è trasmesso dagli uccelli selvatici e veicolato da zecche e zanzare. Ha avuto un’ampia diffusione in tutto il mondo e non si trasmette da uomo a uomo. Può dare sintomi clinici solo in una minoranza di soggetti infetti come febbre, mal di testa, stanchezza muscolare, disturbi visivi, sonnolenza, convulsioni e paralisi muscolare; nei casi più gravi anche un’encefalite potenzialmente fatale. In letteratura sono presenti pochi casi di infezione da WNV in pazienti con malattie renali: qui riportiamo la nostra esperienza su due pazienti in dialisi peritoneale infetti da WNV con una revisione della letteratura.

Parole chiave: infezione da West Nile virus, malattia renale cronica, end-stage kidney failure, dialisi peritoneale, trapianto rene

Introduzione

Il virus del Nilo occidentale (West Nile VirusWNV) (Figura 1), un arbovirus a RNA, fu isolato per la prima volta in Uganda nel 1937 e in seguito si è diffuso in Europa, Asia e Australia. Nel 1996, la prima grande epidemia europea si è verificata in Romania, seguita successivamente da diverse epidemie in vari paesi dell’Eurasia, dove i virus sono attualmente endemici. Nel 1999, il WNV ha raggiunto il continente nordamericano, dove negli USA si è diffuso rapidamente diventando endemico con circa 3 milioni di individui infetti nel 2010 (780.000 che hanno manifestato la malattia) [1, 2].

Il WNV si manifesta in due distinti gruppi, l’1 e il 2, con ceppi diversi, ed è ospite di uccelli selvatici; è veicolato da zecche e zanzare e non si trasmette da uomo a uomo.

La potenziale trasmissione per via orale in un uccello predatore può spiegare la diffusione relativamente rapida del WNV, così come di altri flavivirus caratterizzati da modelli di trasmissione simili [3].

In meno dell’1% dei casi, il WNV può provocare manifestazioni neurologiche, caratterizzate da una mortalità del 10% con meningite, encefalite, paralisi flaccida acuta simile alla poliomielite e sindrome simile a Guillain-Barré. I fattori di rischio associati a peggior prognosi sono la malattia renale cronica (MRC), il cancro, l’abuso di alcol, l’ipertensione, il diabete, l’età avanzata e l’immunosoppressione [4].

Il WNV può essere trovato dopo l’infezione in vari tessuti quali cervello, linfonodi, milza e reni: il virus è stato costantemente rilevato nelle urine di pazienti durante l’infezione acuta, persistendo per un tempo più lungo rispetto al sangue. La presenza di antigeni WNV è stata rilevata anche nel rene nelle autopsie di pazienti trapiantati colpiti da WNV [5]. 

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Revisione ed esempio pratico dell’utilizzo del propensity score: confronto tra dieta ipoproteica e dieta mediterranea in pazienti affetti da malattia renale cronica

Abstract

Sebbene gli studi clinici randomizzati rappresentino il gold standard per confrontare due o più trattamenti, non si può ignorare l’impatto degli studi osservazionali. Ovviamente questi ultimi vengono condotti su un campione non bilanciato, per cui possono emergere differenze tra i gruppi confrontati. Queste differenze potrebbero avere un impatto sull’associazione stimata tra allocation e outcome. Per evitarlo, dovrebbero essere applicati alcuni metodi nell’analisi della coorte osservazionale.
Il propensity score (PS) può essere considerato come un valore che riassume e bilancia le variabili conosciute. Esso ha l’obiettivo di regolare o bilanciare la probabilità di ricevere un gruppo di assegnazione specifico e potrebbe essere utilizzato per abbinare, stratificare, ponderare ed eseguire un adeguamento per le covariate. Il PS viene calcolato con una regressione logistica, utilizzando i gruppi di assegnazione come variabile dipendente. Grazie al PS, calcoliamo la probabilità di essere assegnati a un gruppo e possiamo abbinare i pazienti ottenendo due gruppi bilanciati. In questo modo si darà origine ad una analisi su due gruppi ben bilanciati.
Abbiamo confrontato la dieta a basso contenuto proteico (LPD) e la dieta mediterranea nei pazienti affetti da malattia renale cronica (CKD) e li abbiamo analizzati utilizzando i metodi del PS. La terapia nutrizionale è fondamentale per la prevenzione, la progressione e il trattamento della malattia renale cronica e delle sue complicanze. Un approccio individualizzato e graduale è essenziale per garantire un’alta aderenza ai modelli nutrizionali e raggiungere gli obiettivi terapeutici. Qual è il miglior regime alimentare è ancora oggetto di discussione. Nel nostro esempio, l’analisi non bilanciata ha mostrato una significativa conservazione della funzione renale nella LPD, ma questa correlazione è stata contestata dopo l’analisi del PS.
In conclusione, sebbene l’analisi non abbinata abbia mostrato differenze tra le due diete, dopo l’analisi del propensity score non sono state rilevate differenze. Se non è possibile eseguire uno studio clinico randomizzato, bilanciare il propensity score consente di equilibrare il campione ed evitare risultati distorti.

Parole chiave: malattia renale cronica, dieta ipoproteica, matching, dieta mediterranea, terapia nutrizionale, propensity score, studi clinici randomizzati

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Introduction

Clinical investigations are mainly categorized in observational and interventional studies, the latter including randomized controlled trials (RCT) [1]. Comparative effectiveness studies belong to the family of observational studies and aim to compare two active treatments to identify which one is more efficient in improving the time course of a disease or reducing the risk of a given condition in real life (i.e., in a context different from an RCT) [2]. From this perspective, this type of study design differs from RCTs because the latter specifically contemplate ‘no intervention’ (i.e., the placebo arm).

Treatments are candidates to be investigated by a study of comparative effectiveness only when the same treatment was proved to be effective versus a control in an RCT. The main reason why these studies are considered with caution by the scientific community is the lack of randomization, which implies that the results of these studies are prone to a peculiar type of bias called ‘confounding by indication’ [3]. In a given treatment-outcome pathway, a confounder is a variable that is associated with the treatment (i.e., it differs between the study arms). It is not an effect of the treatment, does not lie in the causal pathway between the treatment and the outcome, and represents a risk factor for the outcome. In real life, a confounder can increase, reduce, or definitely obscure the true effect of treatment on an outcome. Despite these challenges, observational studies of effectiveness offer opportunities to examine questions impossible to be investigated by RCTs [4]. First, they can be used to examine the effectiveness of medication that has already obtained marketing authorization and for which funding for further trials may be limited. Second, they can allow the examination of effectiveness for rare treatment indications. Third, a large observational study can be more representative of a clinical population and less prone to selection bias than a trial.

In observational studies of effectiveness, common methods used to adjust to confounding are multiple regression models [5], the use of instrumental variables [6], and the propensity score (PS) [7]. Briefly, multiple regression analyses are performed by including in the model all variables that meet the criteria to be considered as confounders. An instrument is a variable that predicts exposure, but conditional on exposure shows no independent association with the study outcome. As an example, we can consider an observational multicenter study that evaluates how different treatments can affect a clinical outcome. The facility allocation can be considered as the result of a ‘natural experiment’ by simulating a randomization. In this manuscript, we describe an efficient statistical technique used by researchers to mitigate the problem of confounding in observational studies of effectiveness.

 

Propensity score

The propensity score (PS) was described in 1983. This method allows adjusting or balancing for the probability to receive a specific allocation group, an estimation of the likelihood of being in one or in another group in relation to a set of covariates [8]. PS could be used to match, stratify, weight, and perform a covariate adjustment. If the outcome is a binary variable, matching has less bias than stratification or covariate adjustment, as in a time-dependent outcome both matching and Inverse Probability of Treatment Weighting (IPTW) are less biased than stratification or covariate adjustment. PS is calculated with a logistic regression, using allocation groups as outcome. Thanks to this method, we can compute the probability of confounder variables to be allocated in one group. Since PS has no limits of variables, it can be used in small samples and for rare diseases [9], unlike multivariate regression.

Matching

Matching with PS methods allows us to compare one or more patients with the same allocation probability, so it follows that matched patients have similar features, decreasing bias. This method consists of matching cases of two or more groups on the basis of similar predicted PS, thus allowing the comparison of groups with an equal distribution of confounders (covariate balance) [10, 11]. Imaging having two groups of patients, at first, we need to compute PS, corresponding to the probability of receiving allocation in group A, for each one of them [12]. By doing this, a binomial logistic regression is performed to select, among the study variables, those associated with the allocation variable. Patients with the same PS value are thus compared. Minimizing the differences between patients, and comparing homogeneous groups, confounding is reduced.

Stratification

The stratification by PS follows the matching methods. Strata will be created between subjects with similar PS of treatments. The Stratification method removes about 90% of bias due to covariate imbalance [13].

Formally, stratification by PS can be resumed as follows:

  • choosing variables included in the PS model among personal data, comorbidities, laboratory data, and variables clinically related to outcome
  • estimating PS value for each subject, with logistic regression using allocation as the dependent variable
  • calculating the Cumulative Distribution Function for each subject, able to define the distribution also in a discrete and binomial variable
  • ranking population based on PS value, dividing the whole sample into quartiles, tertiles, deciles, etc., based on PS values
  • assessing balance for each of the K (K is the indicator of the treatment group), analyzing the baseline features
  • retaining the PS value ordering that creates strata with the best covariate balance and conducting a stratified outcome analysis to estimate ATE or ATT [14].

The number of strata can be evaluated based on the number of covariates (2×covariates – 1) with groups of more than ten subjects [15]. In a large observational study, Cernaro V. et al. [16], on behalf of the Workgroup of the Sicilian Registry of Nephrology, analyzed the impact of convective dialysis on mortality and cardiovascular mortality. They performed Cox Regression analysis with incremental multivariate models but, although the independent impact of convective dialysis on mortality, many other variables were related to the outcome.

Thus, as highlighted in their methods section, PS stratification was computed to perform a sensitivity analysis [17]. PS was computed through a multivariate logistic regression model including age, gender, ethnicity, arterial hypertension, diabetes mellitus, and cardiac diseases. Then, the whole sample was divided into quartiles (based on PS value) and survival analyses computed in the whole sample were repeated. These latter results confirmed the independent impact of the treatment, but in subsamples that are theoretically more homogenous because PS value was computed on the bases of the possible confounding.

Inverse Probability of Treatment Weighting (IPTW) Estimation

IPTW analyses aimed to create a weighted sample in which the distribution of each confounding variable was the same between the compared groups [18]. Patients will be allocated the reciprocal of the PS value: each patient of the treated group receives the weight of 1/PS and each patient of the untreated group receives the weight of 1/(1-PS). A treated patient with a low PS value enters in the analysis with a high weighting because he is considered likely an untreated patient in terms of comorbidities, so a valid comparison can be made between the two [19]. Practically, in the analysis, each patient is evaluated as many times as their IPTW is.  A treated patient with a PS of 0.1 will weigh 1/0.1=10 and will be considered in the analysis ten times. Similarly, a treated patient with high PS, for example 0.8, will weigh 1/0.8=1.25 and it will be considered in the analysis 1.25 times. Moreover, IPTW was at the basis of the Marginal Structured Models, a multistep estimation procedure designed to control confounding variables at different time points in longitudinal studies [20]. IPTW method is not robust against the outliers.

Covariate adjustment

This method uses the PS values as a covariate in a linear regression analysis. Even if there is no significant association between the covariates used to compute PS value and the outcome, the use of PS value as a covariate allows us to approximate the effect of each of the aforementioned covariates [21].

 

Practical example

To explain these methods, we will use a dataset containing 75 non-randomized patients with CKD stage III-IV.

All the remaining patients gave written consent to data processing for research purposes in respect of privacy. Ethical approval was not necessary according to National Code on Clinical Trials declaration and according to Italian ministerial rules of September 6, 2002 n°6, because our observation derives from a real-life retrospective study.

Patients were followed up for one year.  40 patients followed an LPD, defined by a protein intake of 0.6 g/kg/day (Group A), and 35 patients were subjected to the Mediterranean diet (Group B). The allocation, according to the real-life observation design, was based on dietician suggestions, patient’ habits, and adherence abilities, which were evaluated during the baseline visit.  Supplementary Table 1 and Table 2 summarized the details about the quantity and the nature of both diet regimens. Laboratory data were collected at the baseline visit (T0) and the annual follow-up (T1), as follows: serum urea (mg/dl), serum creatinine(mg/dl), serum phosphorous (mg/dl), serum sodium (mmol/l), serum potassium (mmol/l), white blood cells (WBC) (cc/mmc).

The groups had significant differences in BMI (28.7 [25.0, 34.7] vs 26.4 [24.0, 28.0], p=0.02), age (68 ± 9 vs 74 + 13, p=0.04), and basal creatinine clearance (33 [25, 44] vs 27 [21, 36], p=0.03). Baseline features were summed up in Table 1.

Variable Whole sample Group A (n= 40) Group B (n= 35) p
Age (years) 71 ± 11 68 ± 9 74 + 13 0.04
Sex (M/F) 45/55 40/60 49/51 0.32
BMI (kg/mq) 27.4 [24.2 – 30] 28.7 [25.0 – 34.7] 26.4 [24.0 – 28.0] 0.02
Clearance (ml/min) 31 [23 – 41] 33 [25 – 44] 27 [21- 36] 0.03
Serum Urea (mg/dl) 73 [64 -102] 75 [65 -99] 73 [60 -121] 0.84
Serum creatinine (mg/dl) 1.8 [1.5 – 2.5] 1.7 [1.4 – 2.4] 2.0 [1.6 – 2.7] 0.03
Serum sodium (mmol/L) 141 ±3.3 4.7 [4.5 – 5.0] 4.4 [4.9 – 5.2] 0.40
Serum Potassium (mmol/l) 4.74 ± 0.58 4.72 ± 0.53 4.76 ± 0.64 0.68
Serum phosphorous (mg/dl) 3.8 [3.6 – 4.1] 3.7 [3.5 – 4.0] 3.8 [3.7 – 4.3] 0.35
WBC (cc/mmc) 7744 ± 1824 7575 ± 1947 7932 ±1683 0.46
Delta_Clearance -3.50/ 0.00/ 4.00 -0.25/ 1.00/ 7.25 -5.50/-2.00/ 2.00 0.001
Table 1. Baseline features of whole sample and into the two groups. Body mass index (BMI); White blood cells (WBC).

An unadjusted model with GLM for repeated measures showed a significant effect on creatinine clearance of the Mediterranean diet compared to LPD, with an estimate marginal mean of -9.98 ml/min [95% CI], 15.6/, 4.3]. Adjusted model for age, BMI and sex (Table 2) appeared to confirm this significance in the between-group mean in the joint mean difference (‒9.34, 95%CI ‒15.44/ ‒3.24) (Table 2).

Variable F p 2
Mediterranean diet vs low protein diet ‒9.34 0.003 0.119
Sex (Male vs female) 2.71 0.104 0.038
Age (years) 0.08 0.780 0.001
BMI (kg/m2) 0.04 0.947 0.000
Table 2. Between-group mean in the joint mean differences: Adjusted GLM model for repeated measures. Body mass index (BMI).

Due to the non-randomized study design and the unbalanced groups, we decided to implement the analysis with the PS matching. We computed PS value using the treatment as dependent variable of the logistic regression, and graphically evaluated it (Figure 1). The PS values were not equally distributed between the two groups. Carrying on with the matching, choosing a caliper of 0.2, 20 patients from group A were paired with 20 patients from group B (Table 3). Unmatched patients are excluded from the analysis, reducing sample’s size. This reduction of the patients admitted in the analysis is one of the major limitations of the matching.

Analyzing the standardized means of the baseline features before and after the matching, a better balance between the two groups could be shown (Figures 2a and 2b).

GLM for repeated measures performed in the matched sample did not show significant differences between the two groups (2.737, 95%CI –4.328/9.803). Also using the covariate adjustment, that uses the whole sample, the not significant relationship between the two treatments and the clearance progression was confirmed in the GLM for repeated measures including treatment and ps-value (-3.314, 95%CI -8.524/1.897).

Figure 1. Propensity score distribution before the matching.
Figure 1. Propensity score distribution before the matching.
Group A Group B PS value group A PS value group B
1 48 0.5728 0.5990
2 56 0.5029 0.4885
3 43 0.7979 0.8133
4 53 0.2244 0.2236
5 41 0.8256 0.8244
6 65 0.2370 0.2436
8 49 0.7872 0.7496
9 47 0.7313 0.7068
10 52 0.2709 0.2670
11 66 0.5662 0.5339
12 68 0.6588 0.6768
14 71 0.6731 0.6888
15 75 0.1971 0.2084
16 39 0.6640 0.6990
18 63 0.3849 0.3833
19 55 0.4595 0.6256
21 67 0.6014 0.6256
26 45 0.4350 0.4386
27 42 0.2674 0.2947
31 60 0.4544 0.4280
Table 3. Groups composition based on Propensity Score Matching.
Figure 2a. Balance of the covariate before and after the Matching.
Figure 2a. Balance of the covariate before and after the Matching.
Figure 2b. Propensity score distribution after the Matching.
Figure 2b. Propensity score distribution after the Matching.

 

Usefulness of propensity score

A few RCTs were conducted on ERSD patients due to high costs and their difficult organization. In these cases, a well-structured comparative effectiveness study could be done to generate hypothesis or to add results to existing RCT. For Example, Chan KE et al. conducted a large observational study including more than 10000 patients, the study’s population and structure were modeled on 4D study’s methods, using the same eligibility criteria, endpoints, and similar timeline. To reduce bias caused by known and unknown variables, patients were initially matched in statin-group and control-group based on similar lipid profiles and years of dialytic treatment. Subsequently, a logistic model was performed to compute the probability of receiving the therapy, also all Cox analyses were weighted using the IPTW methods. Differently from the unmatched baseline analysis, the baseline characteristic computed after propensity scoring showed two well-balanced groups. At the outcome analysis, all HRs computed in this observational study were compared with the HRs showed in the 4D Study, and no significant differences were found between these two studies (Figure 1). Furthermore, RCTs are often smaller than observational studies, due to the stronger inclusion criteria and the higher costs than observational design. As shown in Figure 1, PS methods computed in a big sample, allowed to find a smaller confidence interval compared to 4D RCT, without significant differences in anyone outcome.

Through these comparisons, although RCTs were the lowest-biased studies, we can speculate about the effective validity of observational comparative studies using PS methods to reduce biases.

 

Limitation of propensity score methods

PS is applicable when the treatment assignment is neglectable, with unknown and unmeasured confounders. Furthermore, PS value > 0 is necessary. According to G. et Lepeyre-Mestre M. [22], propensity score methods is not very able to reduce selection bias, information bias and instrumental bias. Despite PS reducing inhomogeneity between groups, some unconsidered variables can exist, hence residual bias should be taken into account in the interpretation of results and in the critical appraisal of the study [23].

Leisman D.E. et al., resumed ten “Pearls and Pitfalls” about the use of matching method [24]. They highlighted problems regarding the reduction of sample size: the number of cases does not represent the whole sample because every unpaired subject is excluded from the analysis.  This can impair the external validity of the study, reducing its applicability. Consequently, the power of the study should be computed on the balanced sample, excluding the unmatched patients. Indeed, the analysis reflects the matched sample, losing information about the excluded cases. However, no patients were excluded by the analysis using the covariate adjustment and the IPTW. We highlighted that, similarly to our sample, no significant differences between matching and covariate adjustment were found. However, can be useful performing more PS methods, to compare the results. Furthermore, machine learning methods can be used to compute PS, and they reduce the variability of the PS.

Last but not least, a limitation of these methods is the inability to detect interaction variables. In correlated subgroup effects, these variables could indeed invalidate the PS model and should be excluded from it [25].

 

Discussion

Our analysis seemed to show a slow CKD progression in patients treated with LPD compared to patients treated with Mediterranean diet. However, the unbalanced covariate distribution between the two groups must be highlighted. Conversely to classic analysis, our result showed no difference between the two groups in matched sample, where the two groups were well balanced.

Healthy dietary habits are essential to contrast the progression of chronic diseases such as CKD and the risk factors related to its development. A tailored diet that follows patients’ eating habits can enhance compliance with nutritional therapy, improving the conservative management of CKD patients.

In patients with renal impairment, optimal eating is crucial, representing a high-impact modifiable lifestyle factor for the primary prevention of CKD progression [26], and it avoids the dysregulation of fluid status, pH, electrolytes [27, 29], chronic metabolic acidosis [30], all factors that should be corrected by an adequate dietary regimen and balanced supplementation of the missing nutrients.

Nutritional therapy can be useful to slow CKD progression and delay ESRD with a consistent improvement of the patient’s quality of life [31]. LPD should be started from GFR <30 ml/min, with a protein intake below 0.8 mg/kg/die, and it shown slower CKD progression and reduction of the mortality [32]. Rhee et al. (2018) [33] in their meta-analysis of randomized controlled trials (RCTs) found that the risk of progression to ESRD was significantly lower in patients with LPD regimens than those with higher‐protein diets, with serum bicarbonate augmentation. Notwithstanding its restrictions, LPD does not seem to impair the quality of life of CKD patients. The study of Piccoli et al. (2020) [34] on 422 CKD patients with stages III-V demonstrated that moderately protein-restricted diets (0.6 g/kg/day) guaranteed good compliance to therapy, with a median dietary satisfaction of 4 on a 1-5 scale with a minimal dropout.

The Mediterranean diet is a nutritious regimen first proposed by Keys in the mid-1980s that has been demonstrated to exert a favourable action on inflammation, CKD, cardiovascular health, and overall mortality [35, 37]. Different studies demonstrated a tight link between CKD prevention and Mediterranean diet regimen [38, 39]. How the Mediterranean diet exerts kidney protection is still under debate, and the anti-inflammatory and antioxidant effects were suggested [40, 41]. Moreover, tighter adherence to a healthy plant-based diet was associated with a slower eGFR decrease [42].

Asghari et al. (2017) [43] showed, in a six-year follow-up study, that adherence to the Mediterranean diet is associated with a reduced risk of 50% of incident CKD. These results are in line with the ones from the Northern Manhattan Study. In this cohort of patients, the patients with relatively preserved renal function and high adherence to the Mediterranean diet experienced an approximate 50% decreased odds for incidence of eGFR<60 ml/min/1.73m2.

The effectiveness of LPD compared to the Mediterranean diet is still a matter of debate. Mediterranean diet is characterized by free fat, abundant vegetables, legumes, fresh fruits, cereals, moderate wine consumption, low milk and milk products, low meat/animal products, and frequent fish. Moreover, both the Mediterranean diet and LPD are effective in the modulation of gut microbiota, reducing protein-bound uremic toxins levels, especially in patients suffering from moderate to advanced CKD.

Davis et al. (2015) [44] tried to define nutrient content and range of servings for the Mediterranean diet, analysing the variations in the quantity of this diet components in recent literature. The Mediterranean diet’s positive effects are not only limited to metabolic influence, but the conviviality, culinary and physical activity exerts a beneficial effect on mental health, ameliorating body homeostasis and reactivity to the chronic disease [45].

A diet regimen feasible in different settings is essential for adherence to nutritional therapy. Different dietetic strategies have been investigated over the years, but which is the best nutritional regimen remains controversial. Kim et al. analysed the data of 4343 incident CKD patients, during a median follow-up of 24 years and showed that higher adherence to a balanced diet was linked to a lower risk of CKD progression.

In conclusion, although our previous analysis showed differences between the two diets, after propensity match no differences were detected, as well as after the covariate adjustment methods. In the study of Hu et al. (2021) [46] adherence to healthy nutritional patterns was associated with lower risk for renal impairment progression and all-cause mortality in CKD patients. Thus, based on our results and according to the literature, the Mediterranean diet should be a good choice for patients who are not compliant with a low-protein diet, without a significant increase of CKD progression risk [47].

 

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Gestione del paziente nefrectomizzato per neoplasia renale

Abstract

Il cancro del rene è uno dei tumori più comuni a livello globale, classificandosi rispettivamente al 9° e 14° posto tra gli uomini e le donne. I progressi nelle tecniche diagnostiche hanno consentito interventi più precoci e potenzialmente meno invasivi. Tuttavia, questo progresso rappresenta una sfida nella gestione dei tumori a bassa malignità precedentemente non diagnosticati. Per orientarsi nei percorsi di trattamento, è essenziale una profonda comprensione della relazione bidirezionale tra malattia renale cronica (CKD) e carcinoma a cellule renali (RCC), influenzata da fattori di rischio come l’ipertensione e l’obesità.
Il dibattito tra nefrectomia parziale (PN) e radicale (RN) continua ad essere alimentato da un ricco corpus di studi negli ultimi due decenni, mirati a determinare i benefici precisi della preservazione della funzione renale e della sopravvivenza globale. Tuttavia, il monitoraggio a lungo termine rimane inadeguato. C’è un urgente bisogno di una maggiore vigilanza clinica, sollecitando meticolose valutazioni periodiche che includano sia l’eGFR che il rapporto albumina-creatinina urinaria, per identificare precocemente potenziali peggioramenti.
Inoltre, il parenchima renale non neoplastico richiede pari attenzione, spesso messo in secondo piano dalla valutazione della massa tumorale. È necessaria un’analisi sfumata per identificare una serie di nefropatie che guidano strategie terapeutiche più efficaci. Una strategia collaborativa che riunisce nefrologi, urologi, radiologi nucleari, oncologi e patologi su una piattaforma unificata, concentrandosi su un approccio di medicina personalizzata fondato su un’analisi approfondita dei fattori di rischio individuali, è fondamentale nel plasmare il futuro delle strategie di gestione e prevenzione.
Questo approccio garantisce una prospettiva terapeutica dettagliata e facilita interventi precoci, coniugando vigilanza e cooperazione interdisciplinare, proteggendosi così da diagnosi tardive e offrendo ai pazienti un solido scudo nella loro battaglia contro le malattie renali.

Parole chiave: cancro del rene, danno renale acuto, malattia renale acuta, malattia renale cronica, nefrectomia, nefrectomia parziale, chemioterapia, antitumorali

Introduzione

Il tumore del rene rappresenta a livello globale rispettivamente la nona e la quattordicesima causa principale di cancro tra gli uomini e le donne [1]. Le stime relative all’Italia indicano che sono stati diagnosticati 12.900 nuovi casi, con una predominanza significativa nel sesso maschile, mantenendo un rapporto di circa 2:1 rispetto al sesso femminile [2]. Analogamente, il numero di decessi registrati nel 2016 mantiene questa disparità di genere, attestandosi a 3.717. L’analisi dei tassi di sopravvivenza evidenzia che il 71% dei pazienti sopravvive oltre 5 anni dalla diagnosi, una percentuale che si riduce leggermente, al 66%, quando si considera un arco temporale di 10 anni [2, 3]. Questi dati, seppur indicativi di una situazione non facile, mostrano anche segni di speranza e di efficacia nelle strategie di trattamento adottate.

Appare incoraggiante l’aumento nel numero di sopravvissuti al cancro renale, passando da 129.200 nel 2018 a circa 144.400 [3]. Questo incremento, seppur positivo poiché indica un miglioramento nella gestione e nel trattamento della malattia, porta con sé anche la necessità di un focus aumentato sul follow-up a lungo termine e sulla gestione delle complicazioni post-trattamento e delle comorbilità.

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un marcato incremento delle diagnosi di neoplasie in vari organi, un trend che ha colpito specialmente i paesi sviluppati. Questo aumento può essere attribuito a diversi fattori, tra cui l’innovazione tecnologica nel campo diagnostico, una maggiore consapevolezza dei problemi legati alla salute e un accesso facilitato alle cure mediche. Parallelamente a questo, si è osservato il fenomeno della “stage migration” che si riferisce al cambiamento nel profilo dello stadio di diagnosi dovuto, ad esempio, all’introduzione di tecniche diagnostiche più avanzate che consentono la rilevazione di tumori in una fase più precoce e spesso meno avanzata spesso prima dell’insorgenza dei sintomi [4, 5]. Questa evoluzione verso una diagnosi precoce, benché permetta interventi terapeutici tempestivi e spesso meno invasivi, pone anche una serie di sfide, tra cui la gestione di tumori a basso potenziale maligno, che in passato sarebbero potuti rimanere non diagnosticati per tutta la vita del paziente. Il fenomeno della “stage migration” pertanto, se da una parte rappresenta un’opportunità, aprendo la porta a trattamenti potenzialmente meno aggressivi e a un più alto tasso di successo terapeutico, dall’altra pone interrogativi significativi sulla necessità di trattamento in determinate circostanze, alimentando il dibattito sull’opportunità della “vigilanza attiva” come approccio alternativo in casi selezionati [5].

In questo scenario, diventa pertanto fondamentale procedere con un’analisi attenta e ponderata, capace di distinguere tra i casi in cui un intervento precoce può effettivamente fare la differenza in termini di outcome e quelli in cui una strategia più conservativa potrebbe essere più appropriata. Appare inoltre fondamentale considerare che la possibilità di trattare, spesso in maniera risolutiva i pazienti affetti da eteroplasie renali, pone il clinico nella condizione di dover gestire le complicanze a breve e lungo termine del paziente nefrectomizzato.

 

Relazione tra malattia renale cronica e carcinoma renale

Esiste una correlazione bidirezionale tra la Malattia Renale Cronica (CKD) e il Carcinoma a Cellule Renali (RCC). Dati recenti indicano che il 26% dei pazienti affetti da cancro al rene aveva già sviluppato CKD prima dell’intervento di nefrectomia [6].

Alcuni fattori di rischio, quali ipertensione, diabete, fumo e obesità, si presentano come elementi indipendenti predisponenti sia allo sviluppo della CKD che del RCC [6, 7], delineando un quadro di reciproca incidenza e influenza tra le due condizioni patologiche.

Dopo interventi chirurgici, come la nefrectomia, si è registrato che il 39% dei pazienti presentava un tasso di filtrazione glomerulare (GFR) stimato inferiore a 60 ml/min [7], un dato che sottolinea una diretta correlazione tra la procedura chirurgica e una diminuzione della funzione renale. Inoltre, studi recenti hanno evidenziato come, in casi di CKD avanzata, il rischio di cancro sembra essere specifico per determinati siti [8]. Da una ricerca retrospettiva su una vasta coorte di individui adulti negli USA, è emerso che un eGFR ridotto (inferiore a 30 ml/min) era associato a un incremento del rischio di cancro renale e dell’urotelio, mentre non venivano riscontrate associazioni significative tra eGFR e cancro alla prostata, al seno, al polmone, al colon-retto, o altre forme di cancro in generale [9]. Questa osservazione apre la strada a ulteriori indagini, poiché emerge che il rischio di sviluppare un cancro al rene aumenta con la diminuzione della funzione renale, delineando un ciclo in cui CKD e RCC si influenzano reciprocamente in una spirale di deterioramento della salute del paziente.

Nel contesto della CKD, il diabete di tipo 2 emerge come un fattore di rischio significativo, essendo associato ad una maggiore incidenza di tumori in diversi organi, compreso il rene. Questa correlazione potrebbe essere influenzata da una serie di meccanismi, inclusa l’iperinsulinemia, che funge da fattore di crescita, la resistenza all’insulina e le citochine infiammatorie correlate all’obesità [10].

Comprendere in modo approfondito i meccanismi biologici sottostanti non solo potrebbe gettare nuova luce sulle intricate dinamiche che legano CKD e RCC, ma potrebbe aprire nuove strade per il trattamento e persino la prevenzione del carcinoma renale. La medicina personalizzata, basata sull’analisi approfondita dei fattori di rischio individuali, potrebbe rappresentare il futuro nella gestione delle malattie renali croniche e nella prevenzione del carcinoma a cellule renali.

 

La gestione pre-operatoria

Prima di procedere con interventi chirurgici o terapie ablative, è fondamentale identificare i pazienti ad alto rischio di sviluppare CKD e eventi cardiovascolari. Uno screening attento può essere effettuato stimando il tasso di GFR e misurando l’albuminuria, seguendo le indicazioni previste dagli standard globali per la classificazione della CKD.

L’attenzione del clinico in questa fase è focalizzata all’ottimizzazione preoperatoria del controllo glicemico e della pressione sanguigna, soprattutto per i pazienti già affetti da CKD, al fine di limitare il declino della funzione renale dopo la riduzione del parenchima a seguito dell’intervento. Una strategia efficace di prevenzione comprende inoltre l’evitare l’esposizione a nefrotossici e condizioni di ipoperfusione renale, fattori che potrebbero aumentare il rischio di perdita di GFR dopo l’intervento.

Un’attenta misurazione della funzione renale differenziale, comunemente effettuata attraverso scintigrafie nucleari, può aiutare a prevedere un possibile declino del GFR in seguito a una nefrectomia, sebbene tenda a sottovalutare il GFR nel rene preservato pre-nefrectomia. Dopo l’intervento, il GFR differenziale post-operatorio tende a riflettere più accuratamente i danni renali intraoperatori legati all’ischemia e alle dimensioni del tumore asportato.

Il quadro epidemiologico attuale evidenzia una prevalenza elevata di CKD tra i pazienti affetti da small renal masses (SRMs), variabile tra il 10% e il 52% [11]. Tale dato potrebbe essere spiegato dalla presenza di fattori di rischio comuni, quali età avanzata, sesso maschile, l’abitudine al fumo, diabete mellito e ipertensione. Non a caso, si è notata una presenza significativamente maggiore di diabete e ipertensione non solo in pazienti con pregressa CKD, ma anche in quelli con RCC, rispetto a controlli appaiati senza cancro.

A seguito della resezione chirurgica, la prevalenza di CKD aumenta, variando da un minimo del 10-24% a un massimo del 16-52% [12-14]. I fattori di rischio post-operatori per una nuova diagnosi o una progressione della CKD includono, oltre a quelli già citati, anche l’obesità [15], una riduzione del GFR [16], una maggiore dimensione del tumore e una corrispondente riduzione del volume renale [16], ipoalbuminemia [17] e danno renale acuto (AKI) post-operatorio [18].

Inoltre, l’albuminuria è associata alla presenza di tumori, e può rappresentare un fenomeno paraneoplastico, preludio di una prognosi sfavorevole, specialmente in presenza di tumori di grado o stadio avanzato [17].

Pertanto, i pazienti con RCC e fattori di rischio sottostanti per lo sviluppo di CKD post-operatoria dovrebbero beneficiare di un consulto nefrologico prima della nefrectomia, al fine di prevenire possibili complicanze e garantire un approccio terapeutico mirato e individualizzato.

 

La stima della perdita della funzione renale

Allo stato attuale, è fondamentale affrontare la crescente necessità di modelli predittivi efficaci che possano informare le decisioni riguardanti il trattamento dei pazienti con masse renali localizzate, in particolare nel contesto della scelta tra nefrectomia radicale (RN) e nefrectomia parziale (PN).

Studi recenti hanno sottolineato l’importanza di identificare i pazienti ad alto rischio di sviluppare CKD e AKI post-operatorie. In uno studio condotto dal nostro gruppo su 144 pazienti sottoposti a RN è stata riscontrata una significativa incidenza di AKI, pari al 64%. Le analisi hanno evidenziato che un più alto valore di eGFR basale e una minore presenza di restringimenti arteriosi pre-operatori erano associati a un maggiore rischio di AKI e a un declino dell’eGFR al follow-up di un anno [19].

Un altro studio ha cercato di sviluppare un modello predittivo per quantificare il rischio di declino dell’eGFR a ≤45 mL/min/1,73 m² dopo RN. Tra i 668 pazienti soddisfacenti i criteri di inclusione, 183 hanno sperimentato un tale declino. Il modello predittivo risultante, basato su variabili come età, sesso e livello di creatinina preoperatorio, ha dimostrato un significativo beneficio clinico nella facilitazione della decisione tra RN e PN, suggerendo che i pazienti con un rischio maggiore di riduzione dell’eGFR post-operatorio potrebbero beneficiare maggiormente della preservazione del nefrone [20].

Entrambi gli studi condividono una focalizzazione su misure pre-operatorie dettagliate, inclusa l’analisi istologica del tessuto renale sano e l’estimazione dell’eGFR, per informare le decisioni di trattamento. L’integrazione di questi dati in uno strumento quantitativo per identificare i pazienti a rischio di declino dell’eGFR post-operatorio potrebbe facilitare decisioni più informate nel contesto clinico.

Quindi, la combinazione di un’analisi istologica dettagliata e l’uso di un nomogramma predittivo che integra diversi fattori di rischio potrebbero rappresentare passi significativi verso un approccio più personalizzato e mirato nel trattamento dei tumori renali.

Al fine di mitigare i rischi e preservare la funzione renale, è essenziale considerare non solo gli obiettivi oncologici, ma anche le implicazioni a lungo termine di tali interventi sulla funzione renale dei pazienti.

 

La scelta della tecnica operatoria: nefrectomia parziale o nefrectomia radicale

La letteratura scientifica che indaga la funzione renale dopo l’intervento di nefrectomia è molto estesa e vanta oltre 300 studi pubblicati negli ultimi 2 decenni, principalmente focalizzati sulle conseguenze della nefrectomia sulla funzione renale a breve e lungo termine [21]. Nonostante ciò, una percentuale minima di questi ha condotto un monitoraggio dei pazienti per un periodo significativamente lungo; infatti, meno del 5% ha superato la media di cinque anni, e meno del 2% quella di 7,5 anni [21]. Un tema dominante in questi lavori è il confronto tra i benefici derivati dalla PN rispetto alla RN, sia per quanto riguarda la funzione renale post-operatoria che la sopravvivenza complessiva [22].

Se da una parte è riconosciuto che la PN permette una migliore conservazione della massa nefronica, risultando in una più alta funzione renale post-operatoria in media, dall’altra permangono dubbi riguardanti i benefici effettivi in termini di sopravvivenza. Nonostante diversi studi osservazionali ben strutturati abbiano evidenziato vantaggi in termini di sopravvivenza derivanti dalla PN rispetto a RN [21], altri, compreso lo studio clinico randomizzato condotto dall’European Organisation for Research and Treatment of Cancer Genito-Urinary Group (EORTC-GU), non hanno confermato questa affermazione [23]. Questa discrepanza ha alimentato un dibattito continuo sulla reale rilevanza clinica della riduzione della funzione renale indotta dalla nefrectomia derivante da cause mediche. L’analisi recente sullo sviluppo del CKD in seguito a nefrectomia evidenzia quindi un panorama clinico complesso e sfaccettato. A fronte della riduzione chirurgica della massa nefronica, anche individui in buona salute manifestano un rischio accresciuto di CKD progressiva, ESKD e una mortalità generale e cardiovascolare più alta. Le linee guida attuali, che identificano gli stadi del CKD sulla base di un eGFR <60 mL/min per 1,73 m², potrebbero non riflettere pienamente la gamma di rischi clinici presenti in questa popolazione. Nonostante non tutti gli individui con un eGFR inferiore a 60 sviluppino un CKD progressivo post-nefrectomia, emerge chiaramente una correlazione con un rischio maggiore di mortalità, paragonabile a quello dei pazienti con CKD di qualsiasi altra eziologia [24]. La fluttuazione degli indici di eGFR, a volte in modo altalenante o con remissioni, rende la diagnosi e il monitoraggio una sfida ancora maggiore.

È essenziale, dunque, che in ambiente clinico si mantenga un elevato grado di vigilanza: il paziente con un eGFR che oscilla intorno al valore soglia dovrebbe essere sottoposto a controlli periodici, che comprendano non solo la misurazione dell’eGFR, ma anche del rapporto albumina-creatinina urinario. In questo modo, eventuali deterioramenti possono essere prontamente identificati e affrontati, evitando ritardi nel riferimento a un nefrologo. Un approccio simile potrebbe non solo garantire un monitoraggio più attento, ma anche fornire una base più solida per affrontare il dibattito in corso sulla rilevanza clinica del CKD post-nefrectomia rispetto ad altre cause di CKD.

 

L’analisi del parenchima non neoplastico

L’attenzione nella valutazione patologica delle nefrectomie tumorali è stata storicamente centrata sulla massa renale. Tuttavia, ricerche recenti hanno messo in luce l’elevata incidenza di malattie renali non neoplastiche presenti nei reni affetti. Tra queste, la nefropatia diabetica è la più frequente, seguita da altre condizioni come la glomerulosclerosi focale segmentaria (FSGS) e la nefroangiosclerosi ipertensiva, oltre a una vasta gamma di altre nefropatie [25]. Nonostante l’importanza di queste scoperte, nel 60% dei casi queste importanti informazioni sono state trascurate nella prima lettura della biopsia [26], un aspetto che sottolinea l’urgenza di un approccio più oculato e dettagliato nella valutazione dei campioni bioptici.

Attualmente, negli Stati Uniti, vi sono più di 300.000 sopravvissuti al cancro del rene, e si stima che il 15% di questi, pari a circa 45.000 pazienti, abbia delle malattie renali mediche sottostanti, diagnosticabili solo tramite un’accurata analisi patologica [27].

In risposta a questo, dal 2010, il College of American Pathologists ha richiesto l’esame del parenchima renale non neoplastico nella relazione sinottica del cancro del rene [25]. Tuttavia, il cammino verso la piena adesione a questa normativa è ancora lungo, con una percentuale significativa di patologi che non seguono ancora tale indicazione, come evidenziato da recenti studi e sondaggi condotti in Europa.

La necessità di un intervento correttivo è ancora più accentuata considerando che una diagnosi accurata del parenchima non neoplastico non solo potrebbe portare all’identificazione di pazienti affetti da malattie glomerulari, tubulo-interstiziali o vascolari che richiedono una gestione medica addizionale, ma potrebbe anche evitare complicanze future, facilitando l’adozione di strategie terapeutiche più efficaci.

In questo quadro, è di fondamentale importanza che urologi e nefrologi collaborino attivamente con i patologi, insistendo per una revisione specifica e approfondita del parenchima non neoplastico, specialmente in presenza di pazienti con RCC che presentano diabete, ipertensione o proteinuria.

Lo sviluppo di una sinergia tra i diversi specialisti rappresenta non soltanto un argine nel limitare le diagnosi incomplete, ma anche un sostegno concreto per i pazienti, fornendo loro un quadro clinico più dettagliato e una prospettiva terapeutica più affidabile, riducendo inoltre il rischio di diagnosi tardive di patologie renali post-operatorie, data la frequenza non trascurabile di malattie renali sottostanti non diagnosticate.

 

Possibile sequenza di interventi nella gestione del paziente nefrectomizzato

Da quanto descritto nei paragrafi precedenti emerge la presenza di un gran numero di specialisti, coinvolti nel processo di cura del paziente nefrectomizzato. Tale processo, sintetizzato nella Figura 1, consta di una parte pre-operatoria che inizia al momento della diagnosi di una massa renale potenzialmente trattabile chirurgicamente. Il ruolo del nefrologo in questo contesto è finalizzato ad effettuare una prima valutazione della funzione renale al fine di ottimizzare l’impatto dei fattori di rischio clinici e terapeutici che possono contribuire alla progressione del danno e ipotizzare il decadimento della funzione renale a seguito dell’intervento. Per ottenere questo secondo obiettivo è importante l’interfaccia con i colleghi urologi che eseguiranno l’intervento e i medici nucleari grazie ai quali è possibile avere delle informazioni più precise in merito al contributo del singolo rene al raggiungimento della funzione renale complessiva. A seguito di questa collegialità sarà possibile pianificare la migliore strategia di intervento in un paziente adeguatamente preparato affinché possa risentire il meno possibile la perdita del parenchima.

Nell’immediato post-operatorio, la presenza di uno specialista nefrologo con competenza nella gestione dell’AKI o della malattia renale acuta (AKD) offre sicuramente un valore aggiunto per effettuare una diagnosi precoce di eventuali riduzioni del filtrato non dipendenti dalla riduzione del parenchima e per mettere in atto una adeguata terapia di supporto in questo contesto clinico. L’anatomopatologo è un altro specialista coinvolto in questo contesto clinico: la valutazione del parenchima renale non neoplastico appare fondamentale per pianificare il proseguo del percorso di cura, indipendentemente dalla severità della patologia oncologica di base. Con l’allontanamento progressivo dal momento dell’intervento chirurgico, assumerà un ruolo sempre maggiore il nefrologo, anche per valutare le conseguenze post intervento a lungo termine e integrare queste conoscenze in un eventuale percorso di cura oncologico.

Figura 1. Rappresentazione grafica dell’intervento multidisciplinare nella gestione pre-, intra- e post-operatoria del paziente nefrectomizzato per neoplasia.
Figura 1. Rappresentazione grafica dell’intervento multidisciplinare nella gestione pre-, intra- e post-operatoria del paziente nefrectomizzato per neoplasia.

 

Conclusioni

Il cancro al rene rimane una patologia non adeguatamente riconosciuta e studiata all’interno della comunità nefrologica. Nonostante sia una malattia frequentemente riscontrata nella pratica nefrologica generale e che la sua incidenza sia in aumento, è fondamentale che i nefrologi in attività possiedano una conoscenza approfondita della sua biologia e dei relativi trattamenti.

Nel corso di questa rassegna, abbiamo cercato di focalizzarci sulla gestione multidisciplinare di questa condizione sempre più frequente. L’evidente correlazione tra RCC e altre malattie renali, specialmente considerando le nefropatie frequentemente associate, sottolinea la necessità di un’attenzione focalizzata sul parenchima non neoplastico durante le valutazioni patologiche.

Guardando al futuro, auspichiamo pertanto una collaborazione più stretta e coordinata tra nefrologi, urologi, medici nucleari, patologi e oncologi, assicurando così una gestione più olistica e centrata sul paziente, dove il focus non sia soltanto sul tumore, ma anche sulle potenziali malattie renali coesistenti, aprendo la strada ad un approccio clinico più completo e arricchente per il benessere del paziente.

 

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Malattia renale cronica e neoplasia: scelte etiche

Abstract

La prevalenza delle neoplasie e della malattia renale cronica aumentano entrambe con l’età. Di conseguenza i clinici si interfacciano sempre più di frequente con persone anziane con neoplasia che necessitano di dialisi, o con pazienti in terapia sostitutiva a cui viene diagnosticata una neoplasia. Di conseguenza il processo decisionale in questo contesto risulta particolarmente complesso ed articolato. Una scelta informata riguardo alla dialisi richiede un piano di cura personalizzato che consideri la prognosi e le opzioni terapeutiche per ogni condizione rispettando al contempo le preferenze dei pazienti. Il concetto di prognosi dovrebbe includere delle considerazioni sulla qualità di vita, sul functional status e sull’impatto delle cure. Una stretta collaborazione fra oncologi, nefrologi, geriatri e palliativisti è cruciale per le scelte ottimali di trattamento, e vi sono diversi strumenti disponibili per stimare la prognosi della neoplasia, la prognosi della Malattia renale e la prognosi età-correlata generale. La decisione riguardo all’avvio o all’interruzione del trattamento dialitico nei pazienti con neoplasia avanzata ha anche delle implicazioni etiche. Questo ultimo punto in particolare viene approfondito in questo articolo, abbiamo studiato le problematiche etiche con l’intento di fornire una guida per i nefrologi per gestire i pazienti con ESRD con neoplasia.

Parole chiave: Malattia renale cronica, neoplasia, dialisi, etica, onconefrologia

Neoplasia e malattia renale

Al giorno d’oggi, a livello mondiale, le neoplasie rappresentano una delle principali cause di morte, così come la malattia renale cronica in stadio terminale (ESRD) interessa percentuali sempre più ampie di popolazione [1, 2].

A partire dagli anni ’70 la dialisi è diventata il trattamento salvavita per pazienti con insufficienza renale acuta o cronica in stadio terminale e negli ultimi decenni nei Paesi occidentali il numero di dializzati cresce del 5% annuo. Fra le principali cause vanno ricordate l’invecchiamento della popolazione generale e l’incidenza sempre più crescente di diabete mellito di tipo II, condizione frequentemente associata a deterioramento della funzione renale [2]. La terapia sostitutiva della malattia renale cronica permette una maggior sopravvivenza rispetto al paziente con malattia renale cronica terminale ma non dializzato, maggior sopravvivenza che può favorire la comparsa di neoplasie [3]. Nonostante siano stati riportati in letteratura risultati contrastanti tra i vari studi negli anni ’90 del secolo scorso, più recentemente sono stati pubblicati studi che hanno dimostrato una maggiore incidenza per alcuni tipi di tumore nei pazienti in dialisi [4, 5].

In uno studio di coorte retrospettivo del 2018, che ha utilizzato i dati del Taiwan National Health Insurance che copre circa il 99% della popolazione della nazione, è stato dimostrato come nei pazienti in dialisi si osserva un aumentato rischio di comparsa per alcuni tipi di neoplasia. Il rischio risulta aumentato indistintamente nei pazienti in dialisi peritoneale o in dialisi extracorporea versus l’incidenza nella popolazione generale che non presenta malattia renale. Tra le neoplasie riscontrate le più frequenti erano quelle a carico delle vie urinarie extrarenali, vescicali e renali, del fegato e della tiroide [6].

Uchida e collaboratori hanno valutato la sopravvivenza media a 3 anni dall’inizio del trattamento sostitutivo in 454 pazienti in emodialisi e in 120 pazienti in trattamento con dialisi peritoneale. Nella popolazione in dialisi extracorporea è stato riportato un tasso di sopravvivenza del 65% al termine dei 3 anni di follow-up. Le cause di morte erano le malattie cardiovascolari nel 52% dei decessi, infettive nel 25% dei decessi e per neoplasia nel 12% dei decessi [6]. Nei pazienti in dialisi peritoneale si è osservata una sopravvivenza a 3 anni dell’81%, mentre le cause di morte erano infettive nel 36% dei casi, cardiovascolari nel 24% e oncologiche nel 6% dei casi (p = NS per morte da neoplasie fra emodialisi e dialisi peritoneale). Va infine sottolineato come in letteratura sia riportato un tasso di sopravvivenza nei pazienti con ESRD e neoplasia inferiore a quello dei pazienti con malattia renale cronica terminale senza neoplasia [6] e un tasso di mortalità elevato anche nei pazienti oncologici con danno renale acuto [7, 8]. 

Il meccanismo attraverso cui la malattia cronica renale end-stage possa influenzare lo sviluppo del cancro non è ancora ben compreso e si ipotizza una eziologia multifattoriale: il danno ossidativo aumentato nei pazienti uremici che danneggia il DNA predispone a mutazioni genetiche [8] e altera la riparazione del DNA [9, 10], l’accumulo di agenti cancerogeni dovuto a ridotta escrezione renale quali ad esempio i prodotti finali della glicosilazione o l’omocisteina. Oltre a questi sono riportati fra i fattori favorenti la comparsa di neoplasia lo stato infiammatorio cronico determinato dall’utilizzo di sostanze bioincompatibili e gli stress meccanici [11], lo stato immunitario maggiormente compromesso nei pazienti con CKD e ancor più nei pazienti in dialisi che espone i pazienti a maggiore probabilità di infezioni croniche come HBV, HCV, EBV [12]. Non bisogna infine dimenticare che alcuni farmaci utilizzati per il trattamento delle glomerulonefriti o delle vasculiti, quali l’azatioprina o la ciclofosfamide, sono riconosciuti come sostanze potenzialmente cancerogene e associate a maggior rischio di sviluppo rispettivamente del cancro della cute, di linfomi e del cancro della vescica [13, 14].

 

ESRD e trattamenti antineoplastici

Come nefrologi ci troveremo sempre più spesso a trattare pazienti con ESRD o già in dialisi che sviluppano un tumore (degno di nota è che spesso la diagnosi di cancro viene fatta grazie ai programmi di screening per inserimento in lista trapianto) così come gli oncologi dovranno gestire pazienti oncologici con ESRD o in dialisi. Le prescrizioni dovranno essere adattate in termini di adeguamento del dosaggio e del tempo di somministrazione al fine di prevenire effetti collaterali renali e non, dovuti alla modifica della farmacocinetica dei farmaci antitumorali in pazienti con alterata funzione renale. La corretta conoscenza della farmacocinetica dei farmaci antineoplastici permetterà così di evitare gli effetti tossici dovuti ad accumulo del farmaco per la minore escrezione renale, così come l’inefficacia terapeutica dovuta alla somministrazione di una dose non adeguata e ridotta arbitrariamente a scopo precauzionale.

Si sa ancora poco sulla gestione dei farmaci citotossici in pazienti con ESRD e ancor meno sulla tempistica ottimale e sugli aggiustamenti di dosaggio necessari a seconda delle sessioni di dialisi.  La mancanza di conoscenza e dati riguardanti l’uso sistemico di questi farmaci può portare ad un uso improprio dei chemioterapici e ad effetti tossici fatali in questi pazienti. Pertanto, è importante monitorare attentamente anche tutti gli effetti extra-renali correlati alla dose durante l’uso di tali farmaci. In questi anni si è avuto un significativo progresso nella gestione delle patologie oncologiche nei pazienti con malattia renale; quindi, i pazienti con ESRD devono avere le stesse probabilità di trattamento che hanno i soggetti senza malattia renale cronica. Infatti, alcuni studi hanno riportato che la sopravvivenza mediana dei pazienti con insufficienza renale con mieloma multiplo era inferiore nei pazienti non trattati con chemioterapia rispetto ai pazienti trattati con vincristina, adriamicina e desametasone (2 mesi vs 10 mesi) e melfalan (2 mesi vs 12 mesi) [15, 16].

Sembra tuttavia che i medici siano riluttanti ad utilizzare farmaci antitumorali nei pazienti in trattamento dialitico cronico con diagnosi di neoplasia. I pazienti in dialisi richiedono un’attenzione specifica soprattutto per la gestione dei farmaci antineoplastici poiché, nonostante gli effetti renali non siano più un problema nel paziente dializzato, è altrettanto vero che sono più esposti agli altri effetti collaterali extrarenali correlati alla dose. Questo dipende dal fatto che la maggior parte dei farmaci citotossici sono escreti prevalentemente a livello renale in forma immodificata o come metabolita attivo e dunque tossici. Nello studio multicentrico CANDY (CANcer and DialYsis, 2012), i ricercatori francesi hanno analizzato le dosi/intervalli di farmaci antitumorali somministrati in 178 pazienti in dialisi cronica che avevano sviluppato un tumore, aggiustandone il dosaggio per la funzione renale/sessione di dialisi al fine di evitare l’eliminazione prematura del farmaco durante le sessioni di dialisi [17], dimostrando che con il dosaggio appropriato del farmaco antineoplastico i pazienti oncologici con malattia renale in trattamento sostitutivo possono essere trattati come i pazienti non dializzati. Pertanto, è fondamentale utilizzare i dati disponibili per regolare la dose di farmaci antitumorali per questi pazienti e programmarne la somministrazione in base alle sessioni di dialisi. Ad esempio, nei pazienti in emodialisi che ricevono i sali di cisplatino, le dosi iniziali di cisplatino devono essere ridotte del 50% per evitare sovradosaggio e problemi di tolleranza, che possono mettere a rischio la possibilità di proseguire il trattamento chemioterapico. Questo perché il cisplatino è irreversibilmente legato alle proteine plasmatiche mentre la dose di farmaco libera è dializzabile e per questo deve essere somministrato dopo le sessioni di dialisi o nei giorni di non dialisi. Per altri farmaci non rimossi dal trattamento dialitico, come la doxorubicina, il rituximab, la vinblastina o la vincristina, la somministrazione può essere effettuata in qualsiasi momento e non necessita di aggiustamenti di dose [17]. Dunque, l’ESRD non è da considerare una controindicazione assoluta alla somministrazione di farmaci antitumorali, ma questi richiedono una gestione specifica in termini di dosaggio e tempo di somministrazione rispetto alla seduta di dialisi.

 

Approccio multidisciplinare alle cure

È dunque necessario un approccio multidisciplinare che includa oncologi, nefrologi e farmacologi per gestire correttamente i pazienti oncologici che presentano ESRD e proporre quindi una strategia farmacologica antitumorale adattata a questi pazienti che sviluppano tumori piuttosto che controindicarla sistematicamente, utilizzando le scarse raccomandazioni che derivano prevalentemente da report basati su singoli casi clinici e non da studi con una significativa numerosità di pazienti dializzati (che pur essendo scarse sono le uniche disponibili) e raccogliere correttamente i dati osservati nei pazienti trattati per avere ulteriori strumenti a disposizione per il trattamento delle neoplasie nei pazienti con ESRD o in dialisi [18, 19].

Pertanto si rende sempre più necessario, alla luce anche della continua introduzione nella pratica clinica di nuovi farmaci antitumorali, poter disporre di algoritmi terapeutici basati sullo stato fisico del soggetto, sulla mortalità prevista per malattia renale, sul tempo di dialisi, sul tipo e stadio della neoplasia, sull’impatto che il trattamento potrà avere sul grado di autonomia del paziente e il risultato ottenuto dall’algoritmo potrà quindi essere di supporto al clinico nella scelta terapeutica  (sì terapia vs no terapia).

 

Scelte etiche

Alla luce dell’età media di inizio trattamento dialitico sempre più avanzata (nel mondo occidentale è attorno ai 69 anni), della possibile comparsa di neoplasia nel corso del trattamento  dialitico, delle attese dei pazienti e familiari in un epoca sempre più connessa e con informazioni non sempre attendibili,  è lecito che la comunità dei professionisti si chieda: “è giusto trattare i pazienti dializzati con riscontro di neoplasia quando anche in condizioni di “no neoplasia” hanno una minor sopravvivenza rispetto alla popolazione generale? Tratto tutti indistintamente, non tratto nessuno, quali strumenti posso utilizzare per supportarmi nella decisione?”.

La scelta decisionale in questo caso richiede, a nostro giudizio, il supporto della bioetica, branca della filosofia che nasce con lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie biomediche (la scoperta della struttura a doppia elica del DNA e la conseguente ingegneria genetica, la preparazione della pillola per la contraccezione ormonale, lo sviluppo del trapianto d’organo, il sostegno artificiale delle funzioni vitali, il concepimento in vitro, la clonazione come esempi di innovazioni che hanno generato grandi discussioni fra i clinici) e che si occupa dell’analisi razionale dei problemi morali emergenti nel campo delle scienze biomediche, proponendosi di definire criteri e limiti di liceità alla pratica medica e alla ricerca scientifica, affinché il progresso avvenga nel rispetto di ogni persona umana e della sua dignità.

Il termine bioetica, coniato agli inizi del ’900, fu utilizzato nella sua accezione comune dall’oncologo statunitense Van Rensselaer Potter che, nel 1970, lo inserì nel titolo del suo testo “Bioetica: la scienza della sopravvivenza” spiegando il termine bioetica come “la scienza che consente all’uomo di sopravvivere utilizzando i suoi valori morali di fronte all’evolversi dell’ecosistema” [19].

La bioetica nasce quindi dall’esigenza di integrare tra loro nuove conoscenze e nuovi saperi con l’obiettivo di definire in maniera forte e razionale i criteri di regolamentazione della prassi biomedica e garantire la libertà di ricerca scientifica nel rispetto dei diritti umani fondamentali. Si può quindi dire che questo nuovo approccio alle grandi questioni mediche nasce dal dialogo e dal confronto tra biologia, medicina, filosofia, teologia, sociologia, antropologia, economia, diritto, politica, bioingegneria e, in questi tempi anche dalla discussione sull’information technology. Partendo dalla descrizione del dato scientifico, biologico o medico, la bioetica esamina la legittimità dell’intervento dell’uomo sull’uomo, avendo come orizzonte di riferimento la persona in tutte le sue dimensioni: fisiche, psichiche e spirituali.

Il fine del giudizio bioetico non è solo quello di dire ‘come’ si deve agire, ma ‘perché’ si deve agire in quel modo.

Da notare che la bioetica è cosa ben diversa dall’etica poiché quest’ultima è una branca della filosofia che si occupa del comportamento umano, studia i fondamenti che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status normativo, ovvero distinguerli in buoni, giusti, leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti ingiusti, illeciti, sconvenienti o cattivi secondo un ideale modello comportamentale. Come disciplina affronta questioni inerenti alla moralità umana definendo concetti come il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, la virtù e il vizio, la giustizia e il crimine.

Mentre per Deontologia Professionale intendiamo l’insieme delle regole morali che disciplinano l’esercizio di una determinata Professione (regole che la stessa professione, attraverso un proprio codice, si è data).

Da qui l’importanza di comprendere che la Deontologia Professionale (concetto che nella medicina trova forma scritta nella sua carta fondamentale – il Codice Deontologico) risulta essere l’insieme di quelle connotazioni prescrittive vincolanti per ciascun medico, pena la censura o radiazione, che la categoria professionale si è data per meglio esercitare la professione (contro morale = immorali).  Va pertanto ribadito che il “Codice Deontologico” non è stato elaborato partendo da precetti etici, e infatti nel codice sono contenute alcune regole che possono contrastare con il giudizio etico di alcuni suoi membri (ad esempio le norme che disciplinano l’interruzione della gravidanza).

Queste regole hanno la finalità di rappresentare i binari entro i quali la Professione debba essere esercitata, ed allo stesso tempo cosa il cittadino può “aspettarsi” dal professionista. Ecco perché il Codice è soggetto a revisione periodica, essendo considerato un “patto” è come tale soggetto a revisione tra le parti.

Tornando ai concetti di bioetica, per quanto riguarda la sua applicazione in ambito medico, si sono individuati 4 principi, riconosciuti come finalità implicite di questa pratica, cui fare riferimento in senso regolativo. Essi sono:

  • Il principio di autonomia, con il quale si riconosce e si afferma il dovere di rispettare l’individuo nella sua autodeterminazione, il suo diritto ad avere opinioni, a compiere delle scelte e ad agire in base a valori e convinzioni personali, nonché il dovere di promuovere l’autonomia dei diversi soggetti coinvolti nel processo di cura;
  • Il principio di non maleficenza, con il quale si riprende il tradizionale principio ippocratico del primum non nocere e si afferma il dovere di non provocare intenzionalmente un danno;
  • Il principio di beneficienza, che possiamo vedere come versione positiva del principio di non-maleficenza, inteso alla prevenzione o rimozione di un danno e alla promozione del bene del paziente;
  • Il principio di giustizia, che sottolinea l’esigenza di equità e giustizia della pratica medica e sanitaria e introduce la dimensione socioeconomica e politica tra i fattori determinanti questo settore [20].

 

Percorso decisionale nei pazienti con ESRD e neoplasia

Ed ecco che alla luce di tali premesse, dinanzi ad un paziente oncologico con ESRD o in dialisi il medico dovrebbe proporre un piano di assistenza personalizzato che consideri la prognosi e le opzioni terapeutiche per ogni condizione, rispettando anche le preferenze del paziente. Il concetto di prognosi dovrebbe includere considerazioni sulla qualità della vita, lo stato funzionale e l’onere dell’assistenza.

La stretta collaborazione tra oncologi, nefrologi, palliativisti e geriatri è fondamentale per prendere decisioni terapeutiche ottimali e sono disponibili diversi strumenti per definire la prognosi della neoplasia, la prognosi della malattia renale e la prognosi generale correlata all’età. Prove emergenti mostrano che questi strumenti di valutazione geriatrica, che misurano i gradi di fragilità, sono utili nei pazienti con malattia renale cronica. Nella review pubblicata su Lancet nel 2021, si cerca di fornire strumenti ai medici per guidare il processo decisionale in merito all’inizio e alla fine della dialisi nei pazienti con cancro avanzato [21]. Lo scenario che possiamo avere di fronte è duplice: il primo scenario è che i pazienti con neoplasia nota possono sviluppare ESRD e richiedere la necessità di iniziare un trattamento sostitutivo; il secondo scenario è che i pazienti con ESRD in dialisi sviluppino una neoplasia che potrebbe richiedere di non continuare la terapia dialitica. Il problema di trattare o non trattare queste condizioni cliniche spesso si pone nei pazienti più anziani con ESRD associata ad altre comorbilità, una popolazione che inoltre in una percentuale sostanziale mostra una significativa compromissione funzionale e cognitiva [22, 23] oppure perde l’indipendenza personale entro i primi mesi o anni di dialisi [24]. 

Bisogna tener presente, tuttavia, che non vi è una sostanziale eterogeneità nel processo di invecchiamento, e ciò comporta importanti variazioni nei modelli di trattamento e nei risultati nei pazienti più anziani. Inoltre, ci sono poche prove su cui basare le decisioni terapeutiche per i pazienti anziani con tumore e malattia renale, perché questo gruppo è notevolmente sottorappresentato negli studi clinici [25, 26].

Poiché l’età cronologica da sola non è un buon indice descrittivo dell’eterogeneità nel processo di invecchiamento, è necessario un modo sistematico e basato sull’evidenza per valutare la salute e la resilienza di un individuo e per guidare le decisioni terapeutiche oncologiche. Per colmare questa lacuna è stato proposto come approccio la valutazione geriatrica completa (CGA) [27].

La CGA è definita come un processo diagnostico multidimensionale e interdisciplinare fornendo una solida base per un processo decisionale condiviso perché raccoglie informazioni sulle capacità e sui limiti funzionali e psicosociali che sono legati alla discussione di ciò che conta di più nella vita quotidiana del singolo paziente. Con queste informazioni raccolte obiettivamente, il team medico è in grado di sviluppare un piano coordinato e integrato per il trattamento e il follow-up a lungo termine [28, 29].

Dato il contesto complesso dovuto sia alla neoplasia che alla malattia renale (e della possibile fragilità), in questa popolazione è fortemente raccomandato di non utilizzare la sola valutazione geriatrica ma di utilizzare l’intero processo CGA per fornire la migliore assistenza e includere assistenti e infermieri del servizio dialisi nel team interdisciplinare CGA. I punteggi Performance Status e Karnofsky Performance Status dell’Eastern Cooperative Oncology Group (ECOG) sono rapidi e semplici da accertare, ma non hanno una sensibilità sufficiente per rilevare la fragilità in modo efficiente. Inoltre, queste misurazioni non danno informazioni dettagliate sull’esatta gravità dei problemi geriatrici nei diversi domini. In uno studio di Hurria e colleghi, il Karnofsky Performance Status non è stato in grado di prevedere la tossicità della chemioterapia, mentre i componenti della valutazione geriatrica hanno aggiunto un valore sostanziale nel predirla [30].

Diversi studi hanno dimostrato che la maggior parte dei componenti del CGA ha un valore prognostico indipendente per la sopravvivenza (es., stato funzionale [31, 32], stato nutrizionale [33-36] e salute mentale [31, 32]), con la nutrizione costantemente tra i più forti predittori di esito. Tuttavia, un CGA completo richiede tempo, quindi per selezionare i pazienti che trarrebbero i maggiori benefici dalla valutazione geriatrica, sono stati sviluppati numerosi strumenti di screening geriatrico (ad esempio, Geriatric 8 noto anche come G8 [37], l’indagine sugli anziani vulnerabili [38], e la versione fiamminga del Triage Risk Screening Tool [39]. 

Inoltre, nei pazienti con malattia renale avanzata, ci sono rapporti secondo i quali la valutazione geriatrica è utile per informare il processo decisionale condiviso in merito alla scelta della modalità e per massimizzare le opportunità di riabilitazione e mantenimento dell’indipendenza [40, 41]. È stato suggerito che la CGA dovrebbe essere eseguita, e dovrebbe essere applicata per la pianificazione avanzata dell’assistenza, al momento dell’inizio della dialisi e poi riveduta quando si verifica un cambiamento importante nella salute o nello stato funzionale di un paziente, come nel caso di un ricovero in ospedale [40].

Il trattamento dialitico è da considerarsi come “terapia salvavita”, ma in alcune situazioni può essere visto anche come un prolungamento sproporzionato della vita e che può peggiorare la qualità della vita del paziente attraverso l’aumento del carico di cure. Compito del clinico, pertanto, è di “dare vita agli anni, non anni alla vita”. Molti pazienti con ESRD sono fragili e hanno molteplici comorbilità e la loro sopravvivenza globale in dialisi cronica rimane bassa, con un tasso di sopravvivenza a 5 anni inferiore al 50%; tuttavia, vi è un’elevata variazione interindividuale a seconda dell’età, dello stato funzionale e della presenza di comorbilità specifiche al momento dell’inizio della terapia renale sostitutiva [42, 43]. Oltre alle complicazioni mediche, è ben noto che l’inizio della terapia renale sostitutiva è associato ad un improvviso declino funzionale e ad una diminuzione della qualità della vita [44, 45]. Lo stato funzionale è un risultato importante per i pazienti più anziani, la maggior parte dei quali dà priorità allo stato funzionale rispetto al prolungamento della vita [46]. Inoltre, vi è una maggiore probabilità per i pazienti in dialisi di morire in ospedale o in hospice e la maggior parte dei pazienti in dialisi riceve negli ultimi anni di vita un trattamento sproporzionato rispetto ai bisogni del soggetto [47]. 

Nella popolazione anziana, attraverso l’uso di questionari anonimi, si rileva un’alta percentuale di persone che prova rimpianto per aver iniziato il trattamento sostitutivo. Ad esempio, Saeed e colleghi hanno rilevato che il rimpianto decisionale si è verificato in 82 (21%) dei 397 pazienti sottoposti a dialisi cronica [48]. L’invecchiamento della popolazione, l’evoluzione dei pazienti anziani avviati al trattamento dialitico, l’aumento delle ospedalizzazioni legate al trattamento hanno nel tempo favorito il dibattito sull’utilizzo della gestione conservativa come alternativa al trattamento dialitico almeno nella gestione dei pazienti anziani e grandi anziani [47, 49]. Questo sviluppo è stato ben illustrato da Verberne e colleghi che hanno confrontato retrospettivamente i risultati della cura conservativa rispetto alla terapia renale sostitutiva in 311 pazienti olandesi di età pari o superiore a 70 anni [50, 51]. Sebbene questo studio abbia rilevato che questi pazienti di età pari o superiore a 70 anni sottoposti a terapia renale sostitutiva avevano una sopravvivenza significativamente più lunga rispetto a quelli che avevano scelto un trattamento conservativo (tempo medio di sopravvivenza dalla data della decisione sulla cura 3,1 anni vs 1,5 anni rispettivamente; log-rank p<0,001), non è stata osservata alcuna differenza significativa nel sottogruppo di pazienti di età pari o superiore a 80 anni (2,1 anni vs 1,4 anni rispettivamente, log-rank p=0,08). Inoltre, mentre i pazienti di età pari o superiore a 70 anni con comorbidità grave (ossia, punteggio di comorbidità di Davies ≥3) che hanno scelto la terapia sostitutiva renale hanno comunque vissuto significativamente più a lungo rispetto a quelli che hanno scelto la cura conservativa, la differenza di sopravvivenza è stata inferiore rispetto a quelli con meno comorbidità (1,8 anni mediani di sopravvivenza dalla scelta della decisione terapeutica vs 1,0, log-rank p=0.02) [50]. 

Non iniziare la dialisi, o interromperla, è quindi una valida opzione terapeutica anche nelle persone anziane con neoplasia, in particolare se la prognosi della neoplasia o la prognosi generale correlata all’età è sfavorevole. L’équipe medica ha l’obbligo etico nei confronti del paziente di delineare la diagnosi e di evidenziare l’opzione della dialisi senza omettere informazioni sul rapporto rischio-beneficio. Il paziente può anche decidere di provare la dialisi a tempo limitato, prendendosi il tempo necessario per prendere la decisione definitiva di interrompere o proseguire la dialisi. Allo stesso modo, dovrebbe essere descritta la possibilità alternativa di un approccio conservativo con cure palliative. I pazienti hanno il diritto di rinunciare a qualsiasi trattamento, ma non possono richiedere la somministrazione di una terapia che l’équipe medica ritiene futile [21]. 

Come precedentemente ricordato nella pratica clinica si possono prevedere diversi scenari: pazienti con neoplasia nota che sviluppano ESRD e pazienti con ESRD in dialisi che sviluppano una neoplasia. Nel primo scenario sarà importante per il paziente e per l’oncologo comprendere l’effetto dell’ESRD e elaborare un’ipotesi di prognosi con e senza dialisi, in modo che si possa prendere una decisione informata sull’inizio della dialisi. Nel secondo caso diventano rilevanti altre domande: quali sono le opzioni diagnostiche e terapeutiche e qual è la (probabile) prognosi della neoplasia? Qual è la prognosi del paziente, data la sua attuale fragilità, lo stato di salute generale e le comorbilità? In che modo questo è influenzato dalla neoplasia, con e senza trattamento? Quali saranno gli effetti delle possibili opzioni terapeutiche oncologiche per questo specifico paziente, dato il suo stato di fragilità? Cosa significa questo per la scelta del trattamento oncologico? Qual è la prognosi per la malattia renale allo stadio terminale, con e senza dialisi? Qual è l’effetto atteso del proseguo o della sospensione della dialisi in questo particolare paziente, dato il suo stato di fragilità? Cosa significa questo per la decisione terapeutica? Quanto dell’attuale stato di fragilità del paziente è determinato dai sintomi legati alla neoplasia o alla malattia renale e che potrebbero essere alleviati iniziando il trattamento? Cosa succede se il paziente non prosegue il trattamento dialitico oppure non inizia la terapia antitumorale?

Per guidare la discussione con il paziente, sono pertanto necessarie molte informazioni sulla futura evoluzione della malattia e, in particolare, informazioni da tre diversi punti di vista: quello oncologico, quello geriatrico e quello renale. Dal punto di vista oncologico, gli oncologi devono informare il paziente sullo sviluppo previsto della malattia, con e senza iniziare o continuare la terapia antitumorale. Dal punto di vista geriatrico, i geriatri sono nella posizione migliore per informare i pazienti sui possibili effetti sull’indipendenza, sulla funzionalità e sulla qualità della vita in generale per una persona della loro età e grado di fragilità. Dal punto di vista renale, la prognosi renale è un preambolo importante nelle discussioni con il paziente ed è determinata dalla funzione renale residua e dalla gravità della patologia renale sottostante. Anche se difficilmente esatta, il nefrologo può stimare l’evoluzione di una malattia (mesi/anni prima di necessità della terapia sostitutiva). Strumenti prognostici convalidati possono aiutare in questo contesto, ad esempio, l’Equazione del rischio di insufficienza renale [52,53]. Alla luce del declino cognitivo che può manifestarsi nel periodo successivo all’inizio della terapia sostitutiva, è pertanto importante iniziare le discussioni sull’inizio o la fine della dialisi il prima possibile nel decorso clinico del paziente, per consentire un processo decisionale informato e condiviso (équipe-paziente-familiari).

Fornire informazioni è essenziale ed i pazienti che decidono se iniziare o interrompere la dialisi devono essere informati della loro prognosi e del possibile carico di sintomi che si presenteranno alla sospensione del trattamento o al non avvio della terapia sostitutiva. L’alternativa al non avvio della terapia dialitica rimane la massima gestione conservativa, un approccio che comprende il trattamento di supporto per alleviare il carico dei sintomi nei pazienti con ESRD, oltre a misure per preservare la funzione renale residua [54]. Fra queste ultime ricordiamo la prevenzione di episodi di ipotensione prolungata (controllo idratazione, uso ragionato della terapia ipotensiva, presenza di vomito o diarrea), il non utilizzo di farmaci nefrotossici (quali ad esempio i farmaci antinfiammatori non steroidei o gli aminoglicosidici) e il corretto utilizzo delle procedure che richiedono l’uso del mezzo di contrasto per via endovenosa. Gli strumenti di valutazione dei sintomi sono importanti per guidare e valutare il trattamento scelto e attualmente sono disponibili per questo scopo una moltitudine di strumenti [55, 56]. Uno studio di Van der Willik e colleghi [55] ha esaminato 121 questionari per la valutazione dei sintomi e ha identificato l’indice dei sintomi della dialisi (DSI, Dialysis Symptom Index) come il migliore della sua classe [55]. 

Il delicato equilibrio tra il trattamento e la palliazione nel paziente nefropatico con neoplasia (sia nel paziente già in trattamento che in quello che deve iniziare trattamento dialitico) ha portato in questi ultimi anni all’individuazione di una nuova specializzazione in rapida evoluzione quale è l’onconefrologia, che centralizza le competenze oncologiche, nefrologiche e geriatriche per permettere la definizione del percorso di cura del paziente anziano e nefropatico con neoplasia [57].  Le decisioni terapeutiche vanno quindi condivise attraverso un confronto tempestivo tra pazienti, familiari o caregiver e professionisti, sui delicati argomenti della prognosi e delle preferenze del paziente. La pianificazione anticipata dell’assistenza delinea i confini della perseveranza terapeutica in base alle preferenze dei pazienti [57] e mira a preparare i pazienti e i loro caregiver al processo decisionale di fine vita, nel tentativo di migliorare la qualità della vita, senza necessariamente estenderla [58]. Al termine del percorso di confronto, che può richiedere anche momenti di interruzione per permettere una adeguata elaborazione delle informazioni ricevute al paziente e ai familiari, si definisce in maniera dettagliata la pianificazione dell’assistenza (escalation terapeutica, sospensione trattamento dialitico, palliazione). Condivisione, informazione corretta, tempo per l’elaborazione delle decisioni, supporto al paziente e ai familiari nel percorso decisionale sono step fondamentali perché il percorso di cura sia basato sulle conoscenze del clinico e sulle volontà del paziente e dei caregiver. 

Nei pazienti con malattia renale cronica, di solito c’è una relazione terapeutica di lunga data tra il nefrologo e il paziente, e questa relazione favorisce le discussioni congiunte. Nel caso di riscontro di neoplasia in un soggetto dializzato cronico deve essere valutato il peso del trattamento dialitico (sia in termini assistenziali che di impatto sulla vita del paziente) e il vantaggio di sopravvivenza che il trattamento dialitico può dare, valutazione che si rende particolarmente necessaria nei pazienti anziani fragili. Le informazioni predittive sulla sopravvivenza attesa con o senza un trattamento antineoplastico specifico sono importanti per i pazienti nel processo decisionale.  La complessità di questo contesto è che la prognosi globale (cioè il corso anticipato della convivenza con una malattia), è determinata da almeno tre fattori, in parte indipendenti: la prognosi della neoplasia, la prognosi associata alla fragilità (che include altre comorbilità, lo stato funzionale e le sindromi geriatriche) e la prognosi basata sulla malattia renale. Tuttavia, la prognosi è più della sola aspettativa di vita; una definizione più ampia è quella di considerare la prognosi come la visione anticipata della convivenza con una malattia [59].

Nel campo dell’oncologia, ci sono molti dati sui fattori prognostici di sopravvivenza in diversi tipi di tumore. L’età è spesso tra questi fattori prognostici, ma i fattori correlati al tumore (es., le caratteristiche del tumore, l’estensione della malattia) sono generalmente più importanti e la fragilità è raramente inclusa perché non è stata spesso misurata in studi precedenti. Successivi studi oncologici hanno iniziato a integrare i parametri di fragilità (misurati dalla valutazione geriatrica) quando si guarda alla prognosi e alla tolleranza al trattamento. La valutazione geriatrica nei pazienti anziani con neoplasia è in grado di rilevare problemi e rischi non identificati a cui possono essere applicati interventi mirati, prevedere esiti avversi (es., tossicità, declino funzionale o cognitivo, complicanze postoperatorie) [60]. Infine, per il paziente in terapia conservativa o in trattamento dialitico con la neoplasia in cura attiva è necessaria la presa in carico “continuativa e transmuraria (territorio-ospedale-territorio)”, sul modello delle cure simultanee, in questo caso “onco-nefro-palliative”.

Inoltre, il concetto di prognosi deve includere considerazioni sulla qualità della vita, lo stato funzionale, l’onere dell’assistenza e delle cure, le speranze e le preoccupazioni dei pazienti e la possibilità di eventi imprevedibili. Sulla base di tutte queste considerazioni, il medico può aiutare il paziente a prendere decisioni che abbiano senso per il paziente nella propria vita [61]. 

Ovviamente vanno garantiti alla persona con prognosi infausta il non abbandono (ageismo) garantendo un supporto base al paziente, il sollievo delle sofferenze attraverso l’attivazione delle cure palliative, il rispetto di tutti i diritti della persona (dignità) e il diritto alla verità/speranza attraverso un’informazione veritiera. 

Per alcuni pazienti la prognosi potrebbe essere principalmente determinata dalla fragilità, per altri dalla progressione della neoplasia e per altri dal problema renale. La CGA è un processo diagnostico multidisciplinare e multidimensionale in cui vengono valutate le capacità mediche, nutrizionali, funzionali e psicosociali. Questo modello di valutazione geriatrica può aiutare a rilevare problemi geriatrici non riconosciuti, consentire un intervento precoce e portare a strategie di trattamento sempre più individualizzate [62].

 

Documenti società scientifiche

Per aiutare nella decisione delle cure sempre più individualizzate sono stati elaborati diversi documenti condivisi sia a livello nazionale che internazionale. Fra i vari documenti, segnaliamo quelli elaborati a livello nazionale, che oltre alle basi scientifiche derivate dalla letteratura, riflettono anche il pensiero elaborato su queste problematiche in numerosi convegni fra nefrologi, giuristi, palliativisti, geriatri, medici legali. Il documento Grandi insufficienze d’organo end-stage: cure intensive o cure palliative?” è stato promosso dal Gruppo di Studio di Bioetica della Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) [63]. Il testo è stato elaborato dopo un intenso lavoro di circa due anni da esperti di varie specialità e professionalità impegnati nella gestione dei malati affetti da patologie cronico-degenerative in fase end-stage. L’obiettivo è quello di fornire strumenti di valutazione e un percorso decisionale per definire con maggiore appropriatezza etico-clinica il trattamento di tali malati che giungono nei dipartimenti di emergenza o che sono ricoverati nei reparti ospedalieri per acuti. In data 22 Aprile 2012 il presente documento è stato approvato ad unanimità dal Consiglio Direttivo della SIAARTI ed il 24 Maggio 2013 dal Consiglio Direttivo Nazionale Società Italiana Medicina Emergenza Urgenza (SIMEU).

Altro documento utile per la definizione condivisa del processo delle cure è il “Documento condiviso SICP-SIN” frutto del tavolo di lavoro intersocietario fra la Società Italiana Cure Palliative e la Società Italiana di Nefrologia, approvato da entrambi i consigli Direttivi al termine di un percorso di elaborazione durato tutto il 2015. Nel documento si possono trovare gli strumenti utili per l’identificazione precoce nel paziente con malattia renale cronica avanzata del bisogno di cure palliative, gli aspetti di natura etico-giuridica e le possibili opzioni terapeutiche.

Due documenti che pongono quindi le basi per una corretta e fattiva collaborazione fra i diversi professionisti, e che per quanto ci compete da un supporto particolare a noi nefrologi e ai palliativisti, aiutandoci nelle decisioni di cura che hanno, sempre più, aspetti etici oltre che clinici [64, 65].

 

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Ambulatorio nefrologico nutrizionale: una organizzazione traversale in nefrologia e flowchart di accesso

Abstract

L’aspetto nutrizionale ha rilevanza critica nel percorso educazionale e di cura del paziente nefropatico. La sinergia tra nefrologia e dietologia nelle aziende ospedaliere è condizionata da vari fattori, fra cui la difficoltà delle unità di dietologia ad erogare follow-up capillari e personalizzati ai nefropatici.

Da qui nasce l’esperienza di un ambulatorio nefrologico trasversale di II livello dedicato agli aspetti nutrizionali del nefropatico in tutto il suo percorso, dalle fasi più precoci della malattia renale fino al trattamento sostitutivo. La flowchart di accesso prevede una prima indicazione nefrologica: da ambulatori di malattia renale cronica (MRC), calcolosi, immunopatologia, emodialisi, dialisi peritoneale e trapianto, o dalla degenza ospedaliera i pazienti vengono selezionati per la valutazione nutrizionale. L’ambulatorio è condotto da un nefrologo esperto e da dietisti formati ed è articolato in diverse prestazioni: incontri educazionali a piccoli gruppi (pazienti e caregiver); visite dietistiche simultanee all’ambulatorio MRC IV e V stadio; visite nefrologiche nutrizionali su problematiche specifiche: dallo screening metabolico della calcolosi urinaria, alla cura del microbiota intestinale in immunopatologia, all’uso della dieta chetogenica in obesità, sindrome metabolica, diabete ed iniziale nefropatia, alla terapia dietetico-nutrizionale in onconefrologia. L’invio a valutazioni dietologiche rimane limitato a casi critici e selezionati.

Il modello sinergico tra nefrologia e dietologia offre vantaggi clinici e organizzativi: garantisce un follow-up capillare dei pazienti riducendo il numero degli accessi in ospedale, potenziando così la compliance ed i risultati clinici, nel contempo ottimizzando le risorse a disposizione e superando le criticità di un ospedale complesso a vantaggio della sempre proficua multidisciplinarietà.

Parole chiave: terapia dietetico-nutrizionale, nefrologia, malattia renale cronica

La terapia dietetico-nutrizionale nella malattia renale cronica (MRC)

L’aspetto nutrizionale ha rilevanza critica nel percorso educazionale e di cura del paziente nefropatico tanto che anche le linee guida nazionali ed internazionali [16] confermano la Terapia Dietetico-Nutrizionale (TDN) come parte integrante del trattamento da offrire ai nostri pazienti cronici. Il suo obiettivo non è solo di preservare la funzione renale residua, rallentando la progressione della malattia renale verso l’uremia, ma anche e soprattutto di meglio controllare i sintomi uremici e di mantenere uno stato nutrizionale adeguato [1, 2, 7]. In questo modo i pazienti stanno meglio e giungono al trattamento sostitutivo più tardi e in condizioni cliniche e nutrizionali migliori, con vantaggi anche economici di risparmio sulla spesa sanitaria [1, 2].

Negli anni l’approccio nutrizionale è maturato: la dieta ipoproteica originaria [8] è evoluta a terapia dietetico-nutrizionale [913] ponendo una particolare attenzione all’adeguatezza dell’apporto energetico e rivendicando il ruolo di vera e propria terapia e, come tale, da gestire con indicazioni, controindicazioni, posologia, follow-up e controllo della compliance [1, 2]. Si è inoltre arricchita delle opzioni di dieta vegetariana, più recentemente rivalutate ed estese anche ai pazienti dializzati [14, 15], anche alla luce delle conoscenze sul microbiota intestinale [1521], delle disponibilità di nuovi chelanti del potassio, oltre che dell’emergenza climatica globale [2225].

Da segnalare è anche il concetto di TDN di precisione, maturato per ritagliare ad hoc sulle caratteristiche del paziente il miglior approccio nutrizionale possibile [1, 2, 2631].

Il concetto di aderenza è un punto cruciale per il successo della TDN: l’impegno educazionale che si profonde nel prescrivere la TDN è proporzionale ai risultati che si conseguono e non a caso, storicamente, i centri nefrologici che più si impegnano nella istruzione dei pazienti e delle famiglie in ogni ambito nefrologico, da sempre sono anche quelli che più “credono” nella dieta. Le esperienze italiane a questo proposito sono maestre [1, 2, 3247].

Tuttavia la crescente sensibilità, anche a livello di popolazione, all’aspetto nutrizionale e allo stile di vita “sano”, le evidenze epidemiologiche sempre più rilevanti sul ruolo di obesità, sindrome metabolica, diabete e malattie cardiovascolari e neoplastiche [4856] da un lato e dall’altro i numerosi studi su microbiota intestinale e sul suo ruolo nella patogenesi di molte malattie croniche,  impongono al nefrologo di allargare il proprio orizzonte di pensiero e di azione anche in termini nutrizionali. Come ribadito nel Core curriculum del 2022 [57], la terapia dietico-nutrizionale diventa un continuum che accompagna il paziente dalle fasi precoci di prevenzione secondaria – e prima ancora primaria – della malattia renale, fino al suo sviluppo ed evoluzione, sino alla terapia sostitutiva. In questa accezione la terapia nutrizionale può intervenire molto presto, fin dalle fasi di prevenzione primaria: ipertensione arteriosa, sovrappeso, obesità, sindrome metabolica,  diabete tipo II, calcolosi renale, nefropatie immunologiche sono tutti campi in cui l’intervento nutrizionale precoce contribuisce alla prevenzione primaria e secondaria dello sviluppo di nefropatia cronica [4957]; fra gli approcci meno convenzionali, ma con ormai una solida letteratura alle spalle, vanno  anche considerati il rinnovo del microbiota intestinale e la dieta chetogenica very-low-carbohydrate ketogenic diet (VLKD) con i suoi effetti pleiotropici [5866].

Abbiamo detto come l’aderenza alla terapia dietetico nutrizionale ne condizioni inesorabilmente il successo: entrambe dipendono molto da quanto le Unità Operative di Nefrologia riescono a dedicarvi, facendo i conti con le risorse, non solo numeriche, ma anche culturali ed organizzative, che ciascuna realtà ha a disposizione.

La sinergia tra Nefrologia e Dietologia in un presidio ospedaliero è condizionata da vari fattori. Maggiori sono la dimensione, la complessità del presidio e la numerosità dell’utenza tanto più è difficile per la Dietologia sopperire alle esigenze delle diverse unità operative e per la Nefrologia ottenere un follow-up personalizzato e capillare. Ci sono poi realtà dove non è neanche presente una Dietologia a cui riferirsi e la collaborazione con dietisti in varia forma (borse di studio, contratti a tempo sempre più breve) è l’unica opzione disponibile, gestita direttamente dalle Nefrologie stesse [1, 2, 67].

Proprio da queste considerazioni nasce l’idea del nostro ambulatorio nefrologico nutrizionale trasversale.

Si riporta qui l’esperienza della nascita e sviluppo di un ambulatorio nefrologico di II livello focalizzato sugli aspetti nutrizionali del paziente nefropatico in tutto il suo percorso. La novità del progetto sta nel fatto che l’Ambulatorio Nefrologico Nutrizionale non è un’entità fisica e temporale ben definita, ma una presenza fluida, che si inserisce trasversalmente nei vari settori dell’attività nefrologica realizzando concretamente il concetto di continuum della terapia dietico-nutrizionale lungo il percorso assistenziale e di cura del paziente nefropatico [57].

 

Il modello organizzativo nefrologo-dietista

L’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano copre un vasto bacino di utenza nell’area ovest e sud di Milano.

La Struttura Complessa (SC) di Nefrologia del Presidio Ospedaliero San Carlo Borromeo di Milano comprende un reparto di degenza nefrologica di 22 posti letto (600 ricoveri/anno), un ambulatorio di Dialisi Ospedaliera con 30 000 trattamenti/anno, 200 pz cronici in carico; un CAL Centro ad assistenza limitata intraospedaliero (25 pazienti), un ambulatorio di Dialisi Peritoneale (26 pazienti), un ambulatorio trapianti (75 pazienti in carico, 203 visite/anno);  un ambulatorio nefrologico (2500 visite/anno), che include: ambulatorio nefrologico generale (564/anno), ambulatorio immunologico (348/anno), ambulatorio malattia renale cronica stadio 4 (489/anno), ambulatorio Malattia Renale Avanzata (MaReA) (622/anno).

La nostra realtà poi da alcuni anni prevede un’unica SC di Nefrologia e Dialisi nell’ambito della ASST, ponendoci come obiettivo quello di uniformare al massimo il nostro operato, estendendo anche al PO San Paolo quanto avviato al PO San Carlo.

Di contro il Servizio di Dietologia, attivo sui due presidi ospedalieri, eroga 8000 prestazioni anno al PO San Carlo e 4000 al San Paolo.

Prima del nostro intervento, i pazienti con Malattia Renale Cronica (MRC) afferivano all’ambulatorio generale gestito dal Centro Unico di Prenotazione e non differenziato per i diversi stadi di insufficienza renale e non esisteva un’uniformità di indicazione nefrologica all’approccio dietetico-nutrizionale. Il primo step organizzativo è stato riprogettare l’ambulatorio della Malattia Renale Avanzata al fine di censire adeguatamente i pazienti, di ottimizzare il percorso di cura in previsione della dialisi e di programmare meglio l’inizio del trattamento sostitutivo. A partire dal mese di gennaio 2020 è stata pertanto effettuata una revisione organizzativa strutturando l’ambulatorio MaReA con 10 visite cliniche settimanali e 5 colloqui educazionali. I pazienti afferenti a questo ambulatorio presentano una MRC di stadio IV/V con filtrato glomerulare minore di 20 ml/min, non ancora in trattamento dialitico. Successivamente, a partire dal mese di settembre 2021, a causa dell’elevato numero di pazienti afferenti, si è pensato di restringere ulteriormente il criterio di inclusione a un valore di VFG 15 ml/min, creando un ambulatorio parallelo dedicato ai pazienti con MRC di IV stadio (VFG tra 16-20 ml/min). Il primo accesso del paziente in ambulatorio prevede una prima visita nefrologica della durata di un’ora circa in cui, insieme alla visita clinica, viene presentato l’obiettivo di presa in carico clinico-educazionale globale dell’ambulatorio MaReA. Gli appuntamenti di controllo vengono gestiti internamente grazie ad un’agenda dedicata e vengono generalmente programmati a distanza di un minimo di un mese a un massimo di tre mesi, a seconda della situazione clinica e della gravità del paziente. Accanto al follow-up clinico ogni paziente effettua, in presenza di eventuali famigliari, un percorso educazionale articolato in 3-4 incontri di un’ora sui seguenti argomenti: la malattia renale cronica, la fisiopatologia, la terapia, la dieta e gli aspetti educazionali; l’emodialisi; la dialisi peritoneale; il trapianto renale. Al termine del percorso educazionale, il paziente e la famiglia, supportati dal nefrologo e dalle figure sanitarie gravitanti nell’ambulatorio MaReA, esprimono una decisione in merito al tipo di trattamento sostitutivo più idoneo. Inoltre, se necessario, è previsto un supporto psicologico.

A partire dal mese di gennaio 2021, grazie ad una rinsaldata collaborazione tra il Servizio Dietetico e di Nutrizione Clinica e l’Unità operativa di Nefrologia e Dialisi, nasce l’ambulatorio nutrizionale parallelo e contestuale all’ambulatorio MaReA. La peculiarità di questo ambulatorio è che si svolge nella stessa sede e negli stessi orari dell’ambulatorio MaReA; la valutazione nefrologica in questo contesto è sempre seguita dalla valutazione dietistica in modo da affrontare immediatamente criticità cliniche che di volta in volta si evidenziano (controllo di fosforo e potassio non ottimali, rischio di malnutrizione, inadeguata aderenza alla dieta in eccesso o in difetto, dubbi o quesiti particolari). In casi di criticità maggiori il paziente viene indirizzato a valutazione dietologica.

Dal gennaio 2021 prendono anche il via:

–  incontri educazionali a piccoli gruppi (4 incontri al mese ciascuno con 8 pazienti/caregiver):  durante l’incontro di 1 ora un nefrologo e una dietista formati spiegano con l’aiuto di diapositive la malattia renale cronica con cenni di fisiopatologia, segni e sintomi, farmaci ed alimentazione con consegna di libretto da noi redatto; l’esiguità numerica dei gruppi, dettata dalle esigenze di pandemia Covid19, consente al termine una sessione sempre vivace dedicata alle numerose domande dei presenti. Tale incontro è dedicato a tutti i pazienti afferenti al nostro ambulatorio fin dallo stadio III di IRC. Sono in fase di organizzazione incontri dedicati a pazienti di area dialitica e trapianto.

– visite nefrologiche individuali (12/mese) con presa in carico di problematiche specifiche: dallo screening metabolico della calcolosi urinaria, al lavoro sul microbiota intestinale nei soggetti con malattie immunologiche, alla indicazione e monitoraggio di dieta chetogenica medicalizzata finalizzata al calo ponderale in pazienti con obesità, sindrome metabolica, diabete ed iniziale danno renale.

Riportiamo di seguito la flowchart che riassume l’attività dell’ambulatorio nefrologico nutrizionale di II livello (Fig. 1): l’invio prevede una indicazione nefrologica alla presa in carico: da ambulatori di MRC, calcolosi, immunologia, emodialisi, dialisi peritoneale e trapianto o in dimissione da reparto nefrologico i pazienti vengono inviati a valutazione presso il nostro ambulatorio di secondo livello. L’ambulatorio si articola in diversi setting, di cui vi abbiamo raccontato la nascita:

  • Visite nefrologiche e dietistiche contestuali ad ambulatorio MaReA
  • Visite nefologiche e dietistiche contestuali ad ambulatorio MRC IV
  • Incontri educazionali di gruppo
  • Produzione di materiale educazionale stampato distribuito negli ambulatori e negli incontri
  • Visite nefrologiche nutrizionali dedicate a problematiche specifiche

Solo in caso di criticità particolari questi pazienti vengono indirizzati a rivalutazione dietologica, altrimenti proseguono l’iter nutrizionale negli ambulatori nefrologici congiunti.

Il progetto è stato sviluppato a pari risorse: un nefrologo esperto e formato specificamente, una giovane dietista formata, due dietiste renali di consolidata esperienza, tutti già operativi all’interno del PO San Carlo, ma accomunati dall’entusiasmo per un progetto comune, semplice, ma innovativo al tempo stesso.

Figura 1: Flowchart di accesso all’ambulatorio nefrologico nutrizionale di II livello.
Figura 1: Flowchart di accesso all’ambulatorio nefrologico nutrizionale di II livello.

 

Volumi e risultati dell’ambulatorio nefrologico-nutrizionale

Dal punto di vista numerico nel 2022 sono state effettuate circa 500 visite dietistiche contestuali ad ambulatorio MaReA ed MRC IV; 144 prime visite dietologiche per MRC e 366 controlli.

L’ambulatorio nutrizionale dedicato ha effettuato 101 prime visite. I pazienti afferiti ad incontri educazionali sono stati 90 (con altrettanti famigliari).

La sinergia tra Nefrologia e Dietologia ha portato numerosi risultati. Essa ha consentito innanzitutto di ottimizzare le risorse e la gestione dei controlli ambulatoriali, riducendo il numero dei “doppi controlli” dietologico e dietistico, aumentando così la disponibilità, per numero e riduzione tempi di attesa, di sedute ambulatoriali per prima visita dietologica da dedicare a presa in carico di nuovi pazienti affetti da MRC, inclusi i pazienti in trattamento sostitutivo.

Si sono ridotti anche, per singolo paziente, il numero di prelievi ematici e di accessi in ospedale, dovuti in passato alla mancata sincronizzazione tra le diverse visite e alla mancanza di comunicazione tra nefrologi e dietologi.

Tutto ciò ha portato a migliorare la compliance e l’aderenza al progetto terapeutico in particolare per i pazienti MaReA, con ricadute in termini clinici e di qualità di prestazione percepita.

Dal punto di vista clinico poi la tempestiva correzione di “errori dietetici” ha consentito di migliorare i risultati, di controllare meglio i sintomi uremici, di prevenire lo sviluppo di eventuale malnutrizione e di individuare precocemente una deplezione energetico-proteica.

Gli incontri di gruppo hanno inciso notevolmente nell’aumento della aderenza al progetto terapeutico globale, sensibilizzando i pazienti e le famiglie, riducendo i drop-out e aumentando notevolmente la qualità percepita di servizio prestato.

Le valutazioni nefrologiche individuali mirate alla nutrizione hanno invece consentito di offrire un approccio educazionale e nutrizionale fin dalle fasi più precoci dell’insufficienza renale (con particolare sensibilizzazione all’intervento precoce sul controllo degli introiti di fosforo e di sale), ma anche un approccio innovativo alla gestione dell’obesità, della sindrome metabolica e del diabete con la dieta chetogenica medicalizzata, e delle malattie autoimmuni con la cura del microbiota intestinale.

Il progetto ha anche avuto una grande ricaduta formativa nell’ambito delle due équipe coinvolte, nefrologica e dietologica. Sono state redatte una tesi di laurea triennale in dietistica e una tesi magistrale in alimentazione e nutrizione umana, e sono in fase di organizzazione eventi formativi interni per il personale di area nefrologica, dialitica e dietologica. Il nostro obiettivo è di proseguire con la sua applicazione validandolo e quantificandone i risultati dal punto di vista clinico, di qualità percepita e di impatto economico sulla spesa.

Il maggiore impatto ora quantificabile è sicuramente quello sulla qualità percepita dal paziente e sulla organizzazione. Si riportano i risulati dei questionari di gradimento somministrati ai pazienti al termine dei colloqui educazionali di Gruppo (Tab. 1).

Domande Risposte
Quanto ha gradito da 1 a 10 l’incontro? Da 1 a 10: media 9,55
Ritiene utile conoscere meglio la malattia renale? Da 1 a 10: media 9,44
Desidera partecipare a ulteriori incontri sull’argomento? SI   76,5%
Vorrebbe avere una consulenza dietistica personalizzata? SI    72%
I contenuti della lezione sono stati chiari? Da 1 a 10: media 9,36
Gradirebbe effettuare visita nefrologica e dietistica contemporaneamente? Da 1 a 10: media 9,16
Quanto ritiene importante il ruolo della corretta alimentazione nella MRC? Da 1 a 10: media 9, 67
Tabella 1: Risultati dei questionari di gradimento somministrati ai 90 pazienti in occasione degli incontri di gruppo.

 

Considerazioni finali

Il modello sinergico tra nefrologia e dietologia offre vantaggi clinici e organizzativi: garantisce un follow-up capillare dei pazienti riducendo il numero degli accessi in ospedale, potenziando così la compliance e i risultati clinici, nel contempo ottimizzando le risorse a disposizione e superando le criticità di un ospedale complesso, a vantaggio della sempre proficua multidisciplinarietà.

Quello da noi proposto e sperimentato è un modello organizzativo fluido, che ben si adatta alle realtà nefrologiche di medie-grandi dimensioni dove la numerosità dell’utenza e delle attività cliniche spesso non consente un follow-up personalizzato e globale.

La terapia dietetico-nutrizionale concepita trasversalmente alla attività delle UO nefrologiche e ai vari ambiti del percorso del paziente nefropatico deve integrarsi sempre più saldamente con le risorse di cura del paziente nefropatico in un approccio moderno e flessibile, di precisione per ogni singola esigenza.

In particolare, il passaggio da fase conservativa a trattamento sostitutivo appare critico: in questo ambito la TDN non deve essere dimenticata, anzi il suo uso sapiente è cruciale per poter percorrere anche la strategia della dialisi incrementale, con vantaggi clinici e risparmio di spesa, e comunque per il mantenimento del benessere clinico del paziente [6872].

Un’amministrazione lungimirante e saggia dovrebbe, a nostro avviso, investire nella terapia dietico-nutrizionale come strumento di cura per migliorare l’outcome del paziente, ridurre le comorbidità e diminuire anche i costi del trattamento sostitutivo dilazionandolo e riducendone la dose [73-76]. In ultimo, in tempi di green nephrology, va ricordato anche il beneficio che procrastinare la dialisi o ridurne la dose può comportare sull’impatto ambientale [2326].

 

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Studio trombofilico nei pazienti dializzati

Abstract

La malattia renale cronica è un fenotipo complesso che risulta dall’associazione di malattie renali sottostanti e di fattori ambientali e genetici. In aggiunta ai tradizionali fattori di rischio, nell’eziologia della malattia renale sono coinvolti fattori genetici tra cui i polimorfismi dei singoli nucleotidi che potrebbero giustificare l’aumentata mortalità per patologia cardiovascolare dei nostri pazienti emodializzati. I geni che influenzano lo sviluppo e la velocità di progressione della malattia renale meritano di essere definiti meglio. Noi abbiamo valutato le alterazioni dei geni della trombofilia nei pazienti emodializzati e nei soggetti donatori di sangue e abbiamo messo a confronto i risultati ottenuti. L’obiettivo del presente studio è quello di identificare dei biomarker di morbidità e di mortalità, che ci consentano di individuare i pazienti con malattia renale cronica ad alto rischio, grazie ai quali è possibile mettere in atto delle accurate strategie terapeutiche e delle strategie preventive che abbiano l’obiettivo di intensificare i controlli in questi pazienti.

Parole chiave: Polimorfismi dei singoli nucleotidi, pannel trombofilico, biomarker di mortalità, scienze omiche, malattia renale cronica, emodialisi

Introduzione

La malattia renale cronica è definita come una progressiva ed irreversibile perdita della funzione renale, evidenziata con un GFR stimato al di sotto di 60 ml/min/1,73 m2, con la persistente presenza di manifestazioni che sono suggestive di danno renale (proteinuria, sedimento urinario attivo, danni istologici, anormalità strutturali o storia di trapianto renale) o con entrambi, presenti da più di tre mesi [1].

La malattia renale cronica è da sempre considerata un problema di salute pubblica mondiale che richiede un’importante assistenza e significativi oneri economici. È noto che ad una riduzione del GFR fa seguito un incremento degli eventi cardiovascolari, delle ospedalizzazioni e complessivamente della mortalità [2]. La prevalenza della malattia renale cronica varia a seconda delle aree geografiche e per lo più varia tra il 10% e il 20 %, percentuale che aumenta gradualmente soprattutto nei paesi sviluppati [3, 4]. Questo trend potrebbe essere attribuito all’aumentato invecchiamento della popolazione a livello globale [5], oltre che all’incremento di patologie come il diabete mellito, l’ipertensione e l’obesità [6].

Nonostante i miglioramenti tecnologici in ambito dialitico, il tasso di mortalità dei pazienti in emodialisi è molto alto, soprattutto a causa delle patologie cardiovascolari, ma non solo [7]. Recenti studi dimostrano che i fattori genetici come i polimorfismi dei singoli nucleotidi influenzano significativamente la risposta immune, i livelli dei markers infiammatori, così come la prevalenza dell’aterosclerosi in questo gruppo di pazienti [8].

 

Ruolo dei polimorfismi dei singoli nucleotidi

Come accade in altre patologie multifattoriali, anche i fattori genetici sono coinvolti nella patogenesi della malattia renale. In questo contesto sono stati individuati, nei soggetti in emodialisi, diversi polimorfismi di singoli nucleotidi (SNPs), caratterizzati dalla variazione di una singola coppia di basi nella sequenza del DNA e alcuni studi hanno dimostrato l’influenza di questi SNPs sul rischio cardiovascolare nei pazienti in emodialisi [9].

Le scienze omiche, negli anni, stanno cominciando a dare grandi risultati. Queste sono discipline che permettono di indagare le diverse classi di componenti biologiche e comprendono la genomica, ovvero lo studio dell’intero set di geni, la trascrittomica o lo studio dei livelli di mRNA, la proteomica, ovvero lo studio della traduzione proteica e la metabolomica o lo studio dell’insieme dei metaboliti [10]. La genomica e lo studio dei polimorfismi dei singoli nucleotidi sono utili nella diagnosi di condizioni predisponenti a fatali eventi tromboembolici e nel determinismo di varianti genetiche correlate alla morte improvvisa come ad esempio la sindrome correlata all’allungamento congenito del tratto QT [11, 12]. I polimorfismi dei singoli nucleotidi possono interessare le regioni non codificanti che alterano la regione del promoter, introni o la sequenza trailer che si trova a valle della sequenza codificante, oppure possono interessare le regioni codificanti ed in questo caso alterano la sequenza degli esoni.

 

Materiali e metodi

Sono stati arruolati 31 pazienti in trattamento emodialitico (di cui 21 di sesso maschile e 10 di sesso femminile) e 31 soggetti donatori di sangue (di cui 22 soggetti di sesso maschile e 9 di sesso femminile). Nei nostri pazienti dializzati abbiamo riscontrato un aumento dei valori di omocisteina nel 75 % dei casi (23 pazienti su 31); questo dato lo abbiamo messo in relazione alla tipologia di filtro utilizzato e alla metodica dialitica usata. Altresì abbiamo riscontrato un aumento dei valori medi della mioglobina a prescindere dal filtro e dalla metodica utilizzati e valori di catene k/λ quasi sempre nel range di normalità (Tabella 1). Considerando che l’iperomocisteinemia spesso è associata a mutazioni del gene MTHFR abbiamo analizzato in questi pazienti i geni del pattern trombofilico riscontrando delle anomalie rispetto ai soggetti donatori.

  AN 69 ST1,6/1,6

AFBK

n. pz 6

Helixone

Plus/1,8

HDF online

n. pz 8

Poliariletersulfone

400/1,7

HD

n. pz 2

Helixone plus/2,2

HDF online

n. pz 3

Polynephron

19 H/1,9

HDF online

n. pz 6

Polynephron 17 H/1,7

HDF online

n. pz 3

Polynephron 21 H/2,1

HDF online

  n. 1 pz

AN 69

ST 2,2/2,2

AFBK

n. 2 pz

OMOCISTEINA

(vn 15-30)

(min-max)

34,6

 

(9-58)

53,8

 

(22-96)

29,5

 

(22-37)

34,3

 

(19-53)

56

 

(26-100)

52

 

(39-76)

15 34,5

 

(9-60)

MIOGLOBINA

(vn 25-72)

(min-max)

149,2

 

(86,7-306)

216,2

 

(142-385)

272

 

(173-371)

120,3

 

(115-126)

280,1

 

(203-363)

112

 

(85-137)

136 220,5

 

(143-298)

Catene kappa/lamda

(vn<1350/723)

Catene K (min-max)

Catene λ (min-max)

847,5/594

 

(630-1570)

(363-1070)

1052/534

 

(545-1720)

(257-785)

1181/571

 

(832-1530)

(400-742)

828/512,3

 

(792-889)

(443-637)

750,6/434,6

 

(458-1080)

(251-734)

667/362,3

 

(375-960)

(160-481)

1080/911 813,5/358,5

 

(743-884)

(252-465)

Tabella 1: Valori medi di omocisteina, mioglobina e catene k/λ nei pazienti dializzati.

 

Risultati dello studio

Abbiamo esaminato le principali mutazioni e polimorfismi interessanti i geni dei fattori della coagulazione (Fattore V, Fattore II e Fattore XIII) (Grafico 1), della metilentetraidrofolato reduttasi (MTHFR) (Grafico 2) e della cistationina beta-sintetasi (CBS) di cui non si è registrata nessuna mutazione, della Glicoproteina IIIa piastrinica (GP IIIa) dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE) e dell’apolipoproteina E per i quali emergono dati sovrapponibili tra i due gruppi di pazienti, dell’inibitore dell’attivazione del plasminogeno (PAI-1) dell’angiotensinogeno (AGT) del recettore dell’angiotensina II (ATR-1) e del Beta Fibrinogeno (FGB) (Grafico 3), in 31 pazienti emodializzati e i risultati sono stati messi a confronto con 31 soggetti donatori.

La tecnica utilizzata è stata quella dell’amplificazione delle sequenze bersaglio, dopo l’isolamento del DNA, con successiva ibridazione inversa su striscia e rivelazione colorimetrica, ed il kit impiegato è stato il CVD 14.

Grafico 1: Mutazioni dei fattori della coagulazione. 
Grafico 1: Mutazioni dei fattori della coagulazione.

Grafico 2: Mutazioni del gene MTHFR.

Grafico 2: Mutazioni del gene MTHFR.
Grafico 2: Mutazioni del gene MTHFR.

 

Grafico 3: Mutazioni del gene ATR-1, AGT, FGB-455 e PAI 1.
Grafico 3: Mutazioni del gene ATR-1, AGT, FGB-455 e PAI 1.

 

Discussione

Analizzando i dati raccolti è emerso nei dializzati un aumento della variante T del gene AGT. Molti studi hanno dimostrato che mutazioni dei geni RAAS e i loro polimorfismi causano l’insorgenza di una maggiore suscettibilità a svariate malattie come l’ipertensione, il diabete mellito tipo 2, la malattia renale cronica allo stadio terminale [13]. Il gene AGT è considerato uno dei geni componenti di RAAS che include oltre ad AGT anche ACE, ACE2, AGTR1 (recettore tipo 1 dell’angiotensina II), AGTR2 (recettore tipo 2 dell’angiotensina II) e la renina (REN) [14]. Questo gene consiste di 4 introni e cinque esoni che sono localizzati sul braccio lungo del cromosoma 1. Come parte di RAAS codifica per 485 aminoacidi. Sono stati studiati due missense SNP del gene AGT (SNPs; l’rs699, Met268Thr ovvero M268T e l’rs4762, Thr207Met ovvero T207M) [15]. L’rs699 (M268T) precedentemente noto come M235T è un missense polimorfismo sull’esone 2 che codifica per la variante treonina (l’aminoacido metionina è sostituito dall’aminoacido treonina nella posizione 235) che è associata ad aumentati livelli di angiotensinogeno.

Recentemente è stata indagata, per dimostrarne il coinvolgimento nell’ESRD, la relazione tra il polimorfismo dei geni RAAS (determinante un’aumentata concentrazione dell’angiotensinogeno) e l’insufficienza renale cronica allo stadio terminale [16]. A causa dell’aumentata attività di RAAS, dopo l’induzione dell’angiotensina II iniziano la vasocostrizione e la sintesi dell’aldosterone che portano all’espansione del volume plasmatico e all’ipertensione. Il RAAS è sempre stato fortemente implicato nella patogenesi dell’ipertensione essenziale, delle patologie cardiovascolari e dell’insufficienza renale progressiva. RAAS gioca un ruolo centrale nella regolazione della pressione arteriosa, del metabolismo del sodio e dell’emodinamica renale, con le sue azioni mediate principalmente dall’angiotensina II [17]. L’angiotensina II può influenzare anche il metabolismo del glucosio attraverso dei meccanismi a cascata che interessano l’attivazione del segnale insulinico, l’adipogenesi, la circolazione sanguigna e lo stress ossidativo [18]. L’angiotensina II svolge un importante ruolo nei processi di rimodellamento tissutale, promuovendo la sintesi e la deposizione delle proteine della matrice extracellulare in diversi organi come il cuore, i vasi ed il rene, favorendo la fibrosi a sua volta responsabile del danno d’organo cardiovascolare e renale [19, 20].

Recenti studi hanno dimostrato la correlazione tra la presenza della variante rs699 del gene AGT con la cardiopatia ischemica [21] e l’arteriopatia periferica [22]. Alcuni studi suggeriscono che il polimorfismo M235T (genotipo TT) potrebbe essere un bio-marcatore utile per lo screening degli individui suscettibili all’infarto del miocardio, almeno per quanto riguarda la popolazione asiatica [23]. Studi effettuati su popolazione giapponese [24], cinese [25], italiana [26] e spagnola [27] rivelano una significativa associazione tra M235T e l’infarto del miocardio. Altri studi non hanno osservato tale associazione [28] e ciò potrebbe essere dovuto alle varianti geografiche e all’etnia, oppure perché i gruppi di pazienti selezionati non erano appropriati per gli studi genetici. Il polimorfismo del gene ATR1 (recettore tipo 1 dell’angiotensina II) è stato anch’esso analizzato per spiegare l’associazione con il tasso di progressione della malattia renale. Nei nostri pazienti è stato dimostrato un aumento del polimorfismo dell’ATR1 in eterozigosi A/C.

In letteratura sono presenti alcuni studi che indicano che la presenza dell’allele C polimorfico dell’ATR1 (genotipo AC/CC) potrebbe essere associata a più rapido peggioramento della funzione renale [29]. Altro polimorfismo da noi studiato è quello del gene PAI-1. PAI-1 è una serina proteasi con feedback negativo sulla fibrinolisi grazie al legame con l’attivatore del plasminogeno tissutale (tPA) di cui ne inibisce l’attivazione. Elevati livello di questo inibitore sono stati associati ad un maggior rischio trombotico sia di tipo arterioso (infarto miocardico e malattia coronarica) che venoso (tromboembolismo) specie nei soggetti fumatori ed ipertesi [30]. Il polimorfismo PAI-1 4G/5G è significativamente associato ad alti livelli di omocisteina soprattutto nei giovani pazienti con trombosi del seno venoso cerebrale [31]. Nei nostri pazienti dializzati è stato riscontrato un aumento dei casi del polimorfismo del gene PAI 4G/5G. I pazienti con trombosi hanno principalmente uno squilibrio tra i sistemi di coagulazione e di fibrinolisi e questo squilibrio è spesso attribuito ad alti livelli di espressione e di attività del gene PAI-1 [32]. Il polimorfismo del gene PAI-1 4G/5G è associato ad alti livelli di PAI-1 nel plasma. Diversi studi hanno valutato la relazione tra il polimorfismo PAI-1 4G/5G ed il rischio di trombosi venosa [33]. È stato dimostrato altresì che il polimorfismo 4G/5G del gene PAI-1 potrebbe essere considerato come un fattore che possa portare ad una maggiore suscettibilità al tromboembolismo venoso soprattutto nei pazienti con altri disordini genetici del pattern trombofilico [34].

Il tromboembolismo venoso è la terza maggiore causa di malattie cardiovascolari e di morte e rappresenta un problema sociale e medico rilevante per la sua alta frequenza. Il tromboembolismo venoso può essere prevenuto e trattato; per tale motivo la ricerca dei fattori di rischio è un obiettivo importante [35]. Varianti di geni che determinano un effetto pro-coagulante giocano un ruolo importante in condizioni di ipercoagulabilità. Oltre alle note varianti dei geni con attività protrombotica (fattore V di Leiden, MTHFR C677T) vi sono altre varianti che giocano un ruolo in alcune forme di trombosi venosa che includono il Fattore V H1299R, MTHFR A1298C, Fattore XIII e l’FGB 455 G>A [36].

Nei nostri pazienti dializzati è stato riscontrato anche un aumento del polimorfismo FGB-455 G/A in eterozigosi. Diversi studi hanno dimostrato che tale fattore potrebbe essere un predittore suscettibile di ictus ischemico [37]. Nei nostri pazienti emodializzati è stato riscontrato un aumento anche delle mutazioni a carico del gene MTHFR e la più comune è la mutazione C677T che potrebbe essere responsabile dell’iperomocisteinemia [38]. Vi è una chiara evidenza di iperomocisteinemia e mortalità cardiovascolare ed eventi aterotrombotici in pazienti in emodialisi [39, 40]. La malattia renale cronica rappresenta un fattore di rischio accertato per tromboembolismo (TE) arterioso e venoso. Mentre il rischio di TE risulta essere di 2,5 volte più alto nei pazienti con IRC moderata, non in dialisi, rispetto alla popolazione normale, il rischio aumenta di 5,5 volte nei pazienti con severa insufficienza renale [41]. Le complicanze trombotiche sono descritte in più del 25% dei pazienti che si sottopongono a dialisi [42] e sono a carico soprattutto dell’accesso vascolare che rappresenta l’ancora di salvezza nei pazienti in dialisi ed il suo malfunzionamento è associato ad una incrementata morbidità, mortalità e ad elevati costi. Numerosi studi sono stati pubblicati sull’associazione tra trombofilia acquisita/congenita e complicanze dell’accesso vascolare e i risultati sono stati contrastanti, ovvero alcuni studi hanno suggerito la loro significativa associazione [43], mentre in altri questa associazione non è stata documentata [44, 45]. Nel 2005 Knoll e i suoi collaboratori hanno dimostrato in uno studio prospettico canadese che 107 dei 419 pazienti in emodialisi arruolati hanno sviluppato una trombosi dell’accesso vascolare e la percentuale di trombosi aumentava nei pazienti che avevano di base una condizione di trombofilia [46]. I dati di questo studio sono in linea con i risultati ottenuti da Klamroth in Germania e con quelli documentati su pazienti svedesi [47, 48]. Le discrepanze sono principalmente dovute alla tipologia di studi differenti (retrospettivi versus prospettici), al fatto che questi studi sono stati eseguiti su piccoli campioni di pazienti, all’assenza di gruppi di controllo e al fatto che sono stati condotti su differenti fattori di rischio trombofilici. Sono sicuramente necessari studi di coorte prospettici, multicentrici, ampi, per dimostrare il ruolo della trombofilia nella trombosi dell’accesso vascolare.

Per quanto riguarda lo stato di ipercoagulabilità presente prima del trapianto renale, questa condizione può essere considerata uno dei maggiori fattori di rischio per sviluppare eventi immediati trombotici post-trapianto. Il trapianto renale può correggere con successo uno stato di ipercoagulabilità acquisita nei pazienti in emodialisi. Screening pre-trapianto per i fattori correlati all’ipercoagulabilità sono necessari per prevenire eventi protrombotici post-trapianto e sono raccomandati nei pazienti che hanno in prospettiva la possibilità di essere sottoposti a un trapianto renale [49]. Per concludere, la trombofilia congenita non è da considerare un fattore di rischio per lo sviluppo di trombosi nei pazienti con sindrome nefrosica [50], ma anche a tal riguardo sarebbero necessari ulteriori studi.

 

Conclusioni

Nonostante gli sviluppi e i miglioramenti delle tecniche dialitiche, i pazienti con malattia renale cronica allo stadio terminale continuano ad avere un aumento marcato della morbidità e mortalità cardiovascolare. Recentemente molto interesse è stato focalizzato sul ruolo dei fattori di rischio cardiovascolari non tradizionali come l’infiammazione, le calcificazioni vascolari e lo stress ossidativo. Recenti studi dimostrano che i fattori genetici, come i polimorfismi, possono influenzare significativamente la risposta immune, come anche la prevalenza dell’aterosclerosi in questi pazienti.

Sembra ipotizzabile che nel prossimo futuro test di DNA prognostici o predittivi possano fornire, alla comunità nefrologica, un più preciso approccio terapeutico e possano aiutarci nel mettere in atto delle adeguate strategie preventive. In definitiva, servono dei biomarker di morbidità e mortalità per identificare tempestivamente i pazienti ad alto rischio, perché l’aumentato rischio cardiovascolare dei nostri pazienti dializzati potrebbe essere messo in relazione, in definitiva, ad un insieme di mutazioni genetiche.

 

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Possibile forma sfumata di trombocitopenia trombotica immune indotta da vaccino in un paziente con diabete e malattia renale cronica o associazione casuale?

Abstract

Presentiamo il caso di un uomo di 75 anni, che a 12 ore dalla somministrazione della prima dose di vaccino ChAdOx1 nCov-19 ha sviluppato un infarto acuto del miocardio. Tale evento è associato alla comparsa di riduzione della conta piastrinica transitoria e al riscontro, a circa 45 giorni dall’evento, di positività degli anticorpi anti-PF4.
La trombocitopenia trombotica indotta da vaccino (VITT) è caratterizzata dalla comparsa di trombosi venose o arteriose in stretta relazione temporale alla somministrazione di vaccini anti-Sars-Cov-2 a vettore virale (ChAdOx1 nCov-19 e Ad26.COV2.S), sviluppo di trombocitopenia e produzione di anticorpi anti-PF4. Essa si presenta spesso in giovane età, con un’età mediana tuttavia di 54 anni, spesso con trombosi in sedi atipiche, come il seno cerebrale.
Il caso da noi riportato non presenta tutti i criteri diagnostici di VITT. Tuttavia, la stretta relazione temporale tra somministrazione del vaccino ChAdOx1 nCov-19, trombosi e la concomitante positività degli anticorpi anti-PF4 rende suggestivo il caso come possibile forma sfumata di VITT.

Parole chiave: Sars-CoV-2, malattia renale cronica, vaccino, ChAdOx1 nCov-19, trombocitopenia trombotica immune indotta dal vaccino, VITT

Introduzione

Il virus Sars-CoV-2 è responsabile di una pandemia senza precedenti a livello mondiale, che ha causato quasi 300 milioni di infezioni, più 5 milioni di decessi [1] e gravi ripercussioni dal punto di vista sociale ed economico. Grazie a uno sforzo senza precedenti, solo dopo nove mesi dall’inizio della pandemia, sono stati resi disponibili diversi vaccini contro il virus Sars-CoV-2. In particolare, due di questi (Pfizer mRNABNT162b2 e Moderna mRNA-1273) utilizzano una tecnologia innovativa, basata su molecole di RNA messaggero che contengono le istruzioni per produrre temporaneamente la proteina “spike” del Sars-CoV-2.

Al contrario, altri due vaccini disponibili in Italia, ChAdOx1 nCov-19 (Astazeneca) e Ad26.COV2.S (Johnson & Johnson) sono basati su una tecnologia più tradizionale, che utilizza un vettore virale ad adenovirus per introdurre la proteina “spike” del Sars-CoV-2 nell’organismo e indurre la risposta anticorpale.

Nel febbraio 2021, dopo alcuni mesi dall’inizio della campagna vaccinale, sono stati segnalati i primi casi di trombosi atipiche, in particolare a livello del seno venoso cerebrale, insorte dopo 5-30 giorni dalla somministrazione di vaccini anti-Sars-CoV-2 a vettore virale [24]. I casi di trombosi si associavano alla comparsa di trombocitopenia e presenza di anticorpi anti-fattore 4 delle piastrine (anti-PF4); la nuova sindrome è stata denominata trombocitopenia trombotica immune indotta da vaccino (VITT) [2]. 

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Metodologie per il calcolo del numero di nefroni da ecografie e biopsie renali ad uso dei nefrologi

Abstract

L’interesse nella determinazione del numero di nefroni del rene risale agli anni ’60, quando è stato messo a punto dal gruppo di Neal Bricker un importante metodo di laboratorio per la stima ex vivo del numero totale di nefroni nei reni. Con gli anni sono stati elaborati vari metodi per stimare nel modo più preciso possibile il numero di nefroni anche nel vivente. Tali metodi moderni si servono di dati quali la densità glomerulare, la percentuale di glomeruli in sclerosi calcolate da campioni bioptici e il volume renale. Questo ultimo può essere misurato mediante risonanza magnetica o TAC o mediante particolari metodologie ecografiche. Dal momento che la riduzione del numero di nefroni funzionanti è strettamente connessa con un aumento del rischio di progressione di malattia renale (soprattutto nei pazienti con proteinuria [20]) e di ipertensione, la sua introduzione nella pratica clinica potrebbe permettere una più precisa stratificazione del rischio evolutivo nei pazienti con malattia renale e una migliore comprensione dei meccanismi che contribuiscono alla perdita di nefroni funzionanti.

Parole chiave: numero di nefroni, biopsia renale, malattia renale cronica

Introduzione

L’interesse nella determinazione del numero di nefroni del rene risale agli anni ’60, quando Damadian, Shawayri e Bricker misero a punto il primo metodo di laboratorio per la determinazione del numero di nefroni nei reni [1]. L’unità funzionale del rene, il nefrone, varia in numerosità fra varie specie, con caratteristiche che sono determinate da un adeguato sviluppo fetale [2]. Nell’uomo il numero complessivo di nefroni varia a seconda della stima: da 850.000 nefroni [3] a 1.429.000 [4], con variazioni in base all’etnia [5]. L’effetto del genere (maschile/femminile) sul numero di nefroni è meno evidente: in alcuni modelli murini (topi B6) le femmine hanno più nefroni dei maschi, mentre in altri ceppi (C3H) non vi sono differenze fra i due sessi [6]. Inoltre, variazioni nel numero di nefroni sono state associate a diverse condizioni cliniche come l’ipertensione: gli adulti ipertesi hanno infatti una media di 702.000 nefroni, inferiore a quella di soggetti normotesi con una media di 1.429.000 [4].

In corso di malattia renale cronica si verifica una perdita della funzione renale dovuta al danno di singoli nefroni e una ipertrofia ed iperfiltrazione dei nefroni residui. Quest’ultimo fenomeno può causare danno ai nefroni superstiti. Un possibile meccanismo dovuto all’iperfiltrazione consiste in un maggior fabbisogno energetico dei nefroni superstiti, una inadeguatezza dell’apporto vascolare con ipossia, ischemia, acidosi [7] (Figura 1).

malattia renale cronica
Figura 1: Nella malattia renale cronica, l’insufficienza continua dei singoli nefroni porta alla progressiva perdita della funzione renale. Questo processo risulta in parte da una risposta cellulare e molecolare alla lesione che rappresenta un tentativo di mantenere l’omeostasi ma avvia invece un programma che danneggia il nefrone. Man mano che i nefroni vengono persi, la compensazione da parte dei nefroni rimanenti esacerba la fisiopatologia glomerulare. Il fabbisogno energetico dei nefroni iperfunzionanti supera il substrato metabolico a disposizione del tubulo renale e l’inadeguatezza dell’apporto vascolare locale promuove l’ipossia/ischemia e la conseguente acidosi. In questo modo, i meccanismi attivati per mantenere l’equilibrio biologico portano alla fine alla scomparsa del nefrone.

Conoscere il numero di nefroni di un soggetto è rilevante alla luce della correlazione tra basso numero di nefroni alla nascita e un aumentato rischio di malattia renale cronica e ipertensione [7, 8], aggravato da uno stile di vita sedentario [9]. Inoltre, l’obesità, insieme ad altre condizioni alla base di lesioni renali acute o croniche, provoca una riduzione del numero di nefroni funzionanti e di conseguenza progressione della malattia renale [10]. Anche il diabete determina un deterioramento progressivo della massa nefronica [11].

Con l’età il numero di nefroni diminuisce e questo è uno dei meccanismi che determina la diminuzione della funzione renale età-dipendente [12]. Sulla base di una serie di autopsie, il tasso di perdita di nefroni per rene è stato stimato a circa 6.800 nefroni per rene all’anno [13]. Da un ulteriore studio effettuato su donatori viventi di rene, il tasso di perdita di nefroni risulta essere di circa 6.200 nefroni per rene all’anno con una velocità di perdita che aumenta con l’età [14].

Numerose condizioni, oltre all’obesità, portano ad un ridotto numero di nefroni. Forme congenite di basso numero di nefroni sono causate da basso peso alla nascita, sesso femminile (anche se, come discusso, questo dato non è replicato in modelli animali), bassa statura da adulti, reni ipoplasici, nascita pretermine, ridotta crescita intrauterina [15, 16]. Tutte le forme di malattia renale cronica (inclusa quella diabetica) si associano a una perdita di nefroni. Altri aspetti, invece, come l’ipertensione hanno una relazione causa-effetto meno chiara, poiché se l’ipertensione causa danno glomerulare, è anche noto che un ridotto numero di nefroni può causare ipertensione.

Numerosi sono stati i progressi, fino ad oggi, sulla determinazione del numero di nefroni. La micro-TAC con mezzo di contrasto permette, ad esempio, di visualizzare i singoli glomeruli (e quindi contare i nefroni) [17]. Tuttavia, è possibile avere un’adeguata stima del numero di nefroni conoscendo la densità di glomeruli da biopsie renali e il volume della corticale renale. Questa ultima è conoscibile tramite risonanza magnetica [18], ecografia e tomografia computerizzata [19].

Con la risonanza magnetica, il volume renale viene calcolato misurando i tre assi del rene, la cui forma viene approssimata a quella di un ellissoide; per impostazione predefinita vengono misurati i diametri longitudinale e trasversale del rene, e il volume renale è calcolato applicando la formula di approssimazione: volume = lunghezza × larghezza × profondità media × 0,5 [18]. Per quanto riguarda le tecniche ecografiche di calcolo del volume renale, una delle formule utilizzate è l’equazione dell’ellissoide (lunghezza × larghezza × spessore × π/6) e un’equazione aggiustata (lunghezza × larghezza × spessore × 0,674). Tale calcolo è stato validato dal confronto con tecniche di misurazione del volume renale che si servono della tomografia assiale computerizzata (TC) tramite il conteggio dei voxel, che è considerato il criterio standard [19].

Partendo dal volume renale che quindi può essere calcolato anche semplicemente tramite l’ecografia renale, si può facilmente ricavare il numero di nefroni, integrando i dati acquisiti con parametri bioptici quali la densità glomerulare e la percentuale di glomeruli sclerotici [20]. Il nostro scopo, infatti, è quello di chiarire l’importanza della determinazione di questo parametro e di proporne l’introduzione nella pratica clinica con il fine di avere un determinante in più, oltre al filtrato renale (eGFR) e ai marcatori di danno renale (proteinuria), per una più precisa stratificazione del rischio di pazienti affetti da malattia renale.

 

Storia del calcolo del numero di nefroni

Uno dei più antichi metodi per la conta dei nefroni fu messo a punto nel 1965 da Damadian, Shawayri e Bricker tramite un esperimento condotto su cani, allo scopo di quantificare i nefroni con glomeruli perfusi che non contribuiscono con il loro filtrato all’urina finale. Questi sfruttarono una tecnica a doppio marcatore per il rilevamento simultaneo in vivo della perfusione glomerulare e della filtrazione glomerulare. Come marcatore di perfusione è stato utilizzato l’inchiostro di china mentre l’emoglobina è stata usata come marcatore di filtrazione. I risultati con il metodo dell’inchiostro di china in vivo su reni normali sono stati confrontati strettamente con i valori ottenuti nei reni controlaterali con la tecnica standard di perfusione di ferrocianuro in vitro [1]. Nel 1972, Jean-Piere Bonvalet, Monique Champion, Frida Wanstok e Gu Berjal ripresero il metodo di Damadian: ratti sottoposti a un dosaggio letale di anestetico venivano nefrectomizzati, i reni venivano privati della capsula e successivamente macerati in una soluzione di acido cloridrico (HCl) al 50% a 37˚ C per 105 minuti, poi mantenuti in 250 ml di acqua distillata a 4˚ C per un giorno, prima di effettuare la conta. Il giorno seguente, ogni rene veniva posto in una fiala che veniva leggermente agitata a mano per ottenere una sospensione omogenea di glomeruli e frammenti di vasi e tubuli. Aliquote da 1 ml della sospensione venivano poi riposte in celle di plexiglas, e infine i glomeruli venivano contati con un microscopio a un ingrandimento di 40x.

Tale metodo è stato utilizzato con lo scopo di valutare se l’aumento del numero di nefroni fosse responsabile dell’ipertrofia compensatoria che si verificava in ratti nefrectomizzati. I risultati mostrano che l’aumento del numero di nefroni si verificava solo nei ratti nefrectomizzati nei primi 50 giorni di vita, suggerendo che la nefrogenesi sia conservata nei ratti più giovani ma non risulta più presente nei topi di maggiore età [21].

Il metodo di Damadian [1] per la conta del numero di nefroni è stato rivisitato con un protocollo sperimentale proposto da un gruppo dell’Università del Mississippi [22]. Entrambi i metodi si basano sulla tecnica di macerazione in acidi del tessuto renale. In breve, il rene viene sminuzzato e degradato mediante una soluzione di acido cloridrico. Questo porterà all’isolamento dei glomeruli che possono così essere diluiti in un volume noto, contati in un microscopio capovolto, così da poterne stimare infine il numero totale [22].

Con gli anni sono stati elaborati vari metodi per stimare nel modo più preciso possibile il numero di nefroni anche nei viventi [20]. Tali metodi moderni si servono di dati quali la densità glomerulare e la percentuale di glomeruli in sclerosi, calcolate da campioni bioptici [23], e del volume renale che può essere stimato a partire dalla risonanza magnetica con la formula dell’ellissoide che si serve delle misure dei tre assi dell’organo. Si tratta solo di una delle metodiche effettuate per calcolare il volume renale e tale formula, anche se molto utilizzata, tende a sottostimare sistematicamente il volume renale [18]. Un’altra formula che si usa per calcolare il volume renale partendo da risonanza magnetica è l’ellissoide KV-3, messa a punto da Higashihara nel 2015 con l’intento di avere una precisa stima del volume di reni policistici: ellissoide-KV3 = 84 + 1,01 x π/24 × Lunghezza × (somma di due misurazioni di larghezza) [24]. Tale calcolo è stato validato dal confronto con tecniche di misurazione del volume renale che si servono della tomografia assiale computerizzata (TC) ed il principio di Cavalieri. In pratica, conoscendo la distanza (d) fra le scansioni assiali, si calcola su ciascuna scansione (i) l’area del rene (Ai), ed il volume viene stimato tramite la seguente formula (principio di Cavalieri):

V = d * Σi Ai

Si sommano quindi le aree nelle varie scansioni e si moltiplica il tutto per la distanza fra una sezione e la successiva [19]. La limitazione di questa metodologia è che richiede l’uso di raggi X, è più costosa, e richiede tempo per l’analisi perché è necessario delimitare manualmente il profilo del rene su ogni immagine. Normalmente almeno dieci immagini sono necessarie per avere una stima valida del volume renale usando questa tecnica. Inoltre è possibile stimare il volume del rene con l’ecografia [25], anche se si tratta di una metodica operatore-dipendente e quindi più difficilmente riproducibile, ma sicuramente meno dispendiosa per il paziente.

 

Calcolo del numero di nefroni

L’interesse per il calcolo del numero di nefroni deriva principalmente dall’ evidenza che esistono diverse condizioni patologiche renali, come la sindrome nefrosica, nell’ambito delle quali il decadimento della funzione renale è spiegato in larga parte dalla riduzione del numero di nefroni funzionanti [20].

Per effettuare tale calcolo bisogna conoscere il volume della corticale renale (VRC). È possibile calcolare questo parametro partendo dal volume renale totale (VRT) misurato tramite ecografia usando la formula dell’ellissoide KV-3 proposta da Higashihara nel 2015: ellissoide-KV3 = 84 + 1,01 x π/24 × Lunghezza × (somma di due misurazioni di larghezza) [25]. Oltre al VRC è necessario ricavare dalle biopsie prima il volume dei glomeruli non sclerotici (Vnsg), quindi la densità del volume di glomeruli non sclerotici (DglomNSG) servendosi del modello stereologico proposto da Weibel-Gomez nel 1962 [26]. In questo modo è possibile avere una stima di informazioni tridimensionali partendo dalle immagini istologiche in due dimensioni. Una volta che si è in possesso del VRC e della DglomNSG, è possibile calcolare il numero totale di nefroni (TNN) con la formula seguente:

TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81 (Figura 2)

dove il denominatore 1.81 rappresenta un fattore di correzione del restringimento subito dal tessuto istologico per la perdita della perfusione sanguigna [20].

calcolo del numero di nefroni
Figura 2: Per effettuare il calcolo del numero di nefroni bisogna conoscere il volume della corticale renale (VRC), calcolato con l’ecografia renale. Oltre al VRC è necessario ricavare dalle biopsie prima il volume dei glomeruli non sclerotici (Vnsg), quindi la densità del volume di glomeruli non sclerotici (DglomNSG) con il modello stereologico proposto da Weibel-Gomez nel 1962 che permette di stimare informazioni tridimensionali partendo dalle immagini delle biopsie in due dimensioni. Una volta che si è in possesso del VRC e della DglomNSG, è possibile calcolare il numero totale di nefroni (TNN) con la formula seguente: TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81.

 

Numero di nefroni in differenti patologie del glomerulo

La formula descritta è stata utilizzata in una ricerca svolta dal nostro team e pubblicata [20] per stimare il numero di nefroni in diverse glomerulopatie mediante uno studio pilota trasversale retrospettivo su un campione di 107 pazienti che hanno effettuato una biopsia renale. I criteri di inclusione erano: (i) diagnosi istologica di glomerulosclerosi focale e segmentale (GSFS), nefropatia membranosa (MN), nefropatia diabetica (DN), nefropatia a lesioni minime (MCD), nefropatia da IgM (IgMN), nefropatia da IgA (IgAN), nefrite lupica; (ii) età compresa tra 20 e 60 anni. Tramite esame ecografico dei reni è stato calcolato il VRC sfruttando la formula ellissoide KV-3 e, successivamente, applicando la formula per il calcolo del numero totale di nefroni riportata di seguito: TNN = DglomNSG (n/mm3) x VRC (mm3) /1.81. Dalle biopsie renali sono stati calcolati il Vnsg e la DglomNSG con la formula di Weibel-Gomez. I risultati mostrano che (i) il numero totale di nefroni è inversamente correlato alla pressione sistolica, (ii) nelle malattie caratterizzate da proteinuria, come la GSFS, MN e la DN, la variazione dell’eGFR è direttamente correlata al numero totale di glomeruli non sclerotici (NSG); (iii) di contro, nella sindrome nefritica, non abbiamo osservato una correlazione significativa tra il numero di nefroni e la diminuzione dell’eGFR. Ciò lascia quindi ipotizzare che le alterazioni dell’eGFR che si verificano nelle sindromi nefritiche come la nefropatia da IgA (IgAN) non possono essere spiegate sulla base del numero di NSG.

Probabilmente, la velocità di filtrazione glomerulare non è modificata in maniera significativa dal processo di fusione dei pedicelli dei podociti che si verifica tipicamente nelle malattie con proteinuria: quindi, nella sindrome nefrosica la variazione dell’eGFR dipende principalmente dal numero di nefroni funzionanti. D’altra parte, la riduzione della funzione renale che si verifica nelle sindromi nefritiche non può essere spiegata semplicemente sulla base del numero di NSG e probabilmente dipende soprattutto dal coinvolgimento dell’asse mesangiale.

 

Conclusioni

La riduzione del numero di nefroni funzionanti, che può essere connessa ad una nefrogenesi incompleta o a fattori ambientali, è strettamente connessa con un aumento del rischio di progressione di malattia renale (soprattutto nei pazienti con sindrome nefrosica) e di ipertensione [27]. Generalmente, quando i nefroni vanno incontro a perdita di funzione, i glomeruli dei nefroni residui subiscono una serie di modifiche disadattative diventando ipertrofici, un processo che può portare a un transitorio aumento dell’eGFR ma che, con il tempo, aumenta il rischio di progressione della malattia renale [8]. Il basso numero di nefroni alla nascita rappresenta quindi un chiaro fattore di rischio cardiovascolare nella vita adulta, e soprattutto di ipertensione. Tra i fattori che, durante la vita intrauterina, influenzano la nefrogenesi, ritroviamo fattori genetici e fattori ambientali, tra cui anche la dieta materna svolgerebbe un ruolo importante [28]. Anche la denutrizione materna, l’ipossia fetale e il basso peso alla nascita svolgono un ruolo importante nel determinare una nefrogenesi insufficiente e quindi basso numero di nefroni con aumentato rischio di sviluppare malattia renale cronica in età adulta [29].

Dal momento in cui il calcolo del numero di nefroni risulta essere poco dispendioso nei pazienti che vengono sottoposti a una biopsia renale e a un’ecografia renale, suggeriamo di introdurre nella pratica clinica il calcolo sistematico in questa popolazione con il fine di avere una più precisa stima del rischio di progressione della malattia renale in questi pazienti ed eventualmente mettere in atto strategie terapeutiche e/o preventive con tempistiche più adatte in modo di rallentare la progressione della malattia renale. Una strategia efficace potrebbe essere l’ottimizzazione della dieta e la riduzione al minimo dei fattori di stress ipossico/tossico nelle donne in gravidanza e nei bambini all’inizio dello sviluppo postnatale [29].

Le evidenze sulla popolazione adulta affetta da malattia renale cronica e/o ipertensione risultano, invece, ancora scarse. Sono necessari ulteriori studi per confermare l’efficacia del numero di nefroni come parametro utile per stratificare il rischio evolutivo in queste popolazioni e per elaborare scelte terapeutiche adeguate. Infine, sarebbe utile confermare con ulteriori trial clinici che la riduzione del numero di nefroni è un evento correlato soprattutto al danno podocitario, mentre sembra meno in relazione con le patologie renali non caratterizzate da sindrome nefrosica, come dimostrato da dati preliminari sull’argomento [20].

 

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Controversia sulla stima del tasso di filtrazione glomerulare attraverso le equazioni tradizionali nelle persone transgender: discussione attraverso un caso clinico

Abstract

Introduzione: La malattia renale cronica (MRC) e il numero di persone transgender sono in aumento. La terapia ormonale sostitutiva può essere associata allo sviluppo di effetti avversi, inclusa la malattia renale.
Obiettivi: Lo scopo di questo articolo è di riportare il caso di un paziente transgender in terapia ormonale che ha sviluppato la MRC.
Caso clinico: Un paziente maschio transgender, di 28 anni, assumeva testosterone cypionate ogni 15 giorni, senza alcuna comorbidità. Evoluto con picchi ipertensivi di 160-150/110 mmHg e perdita della funzione renale (Ur 102 mg/dl, Cr 3,5 mg/dl, tasso presunto di filtrazione glomerulare (eGFR) di 22 ml/min/1,73 m2, se posto come variabile nell’equazione per il calcolo il sesso maschile, e 16,6 ml/min/1,73 m2, ponendo quello femminile). L’ecografia addominale ha mostrato nefropatia parenchimale cronica. A causa della significativa riduzione dell’eGFR, il paziente è stato inviato a trapianto di rene, ma non è stato incluso nell’elenco perché aveva una clearance della creatinina di 23 ml/min/1,73 m2, considerando il sesso maschile, e 21,5 ml/min/1,73 m2, considerando quello femminile negli esami più recenti. La sostituzione ormonale può aver contribuito all’aumento della pressione sanguigna del paziente e, di conseguenza, allo sviluppo dell’insufficienza renale cronica. Non esiste ancora un consenso consolidato sul modo migliore per stimare il GFR nelle persone transgender, e sembra più opportuno considerare il genere in cui la persona si identifica o effettuare il calcolo per entrambi i sessi, ottenendo una stima dell’intervallo in cui viene identificato il GFR del paziente.

Parole chiave: persone transgender, malattia renale cronica, ipertensione, terapia ormonale sostitutiva.

Introduzione

La malattia renale cronica (MRC) è un grave problema di salute pubblica in tutto il mondo, che colpisce tra il 9,1% e il 15% degli adulti [1, 2]. In Brasile, l’insufficienza renale cronica ha mostrato un numero crescente negli ultimi decenni, con oltre 144 000 pazienti attualmente in dialisi [3]. Parallelamente, c’è un numero crescente di persone transgender, con una stima di oltre 1 milione negli Stati Uniti e 150 000 in Canada [46]. In un recente studio epidemiologico, è stato stimato che in Brasile l’1,9% della popolazione si identifica come non binaria e lo 0,69% come transgender [7], che corrisponderebbe a circa 1,4 milioni di transgender. 

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