Luglio Agosto 2017 - Editoriali

La privacy sulla donazione di organi causa inutile dolore alle famiglie?

Poche settimane fa ho ricevuto un’e-mail da una famiglia in Inghilterra che non conoscevo, nella quale mi scrivevano: “Nostro figlio di 21 anni, Jack, è stato investito e ucciso mentre attraversava una strada in Sicilia nel 2009”. Nonostante la disperazione per la morte violenta di un figlio, i genitori David e Debbie Marteau, hanno deciso di donare i suoi organi. Il cuore di Jack è stato trasportato a Roma, mentre i suoi reni e il fegato donati a tre persone in Sicilia.

E dopo otto anni durante i quali si sono chiesti cosa sia potuto accadere, questo è tutto ciò che sanno. Non conoscono i riceventi degli organi: se siano giovani o vecchi, uomini o donne, se siano tutti in vita oppure no.

La loro angoscia e frustrazione sono palpabili. “Abbiamo sempre avuto il desiderio di avere qualche contatto con loro o almeno di sapere come stanno“, ha aggiunto David. Lui e sua moglie hanno scritto ai due ospedali che hanno eseguito i trapianti ma non hanno ottenuto alcuna risposta. Hanno chiesto a me di provare ad avere notizie, per quello che mi è possibile, cercare un qualsiasi indizio: “Abbiamo finito le idee“, mi hanno scritto rassegnati.

Mi hanno contattato perché mia moglie Maggie ed io, che viviamo in California, abbiamo donato gli organi di nostro figlio di sette anni, Nicholas, dopo che fu colpito da un proiettile in un tentativo di rapina in auto, durante una vacanza in Italia nel 1994.

Nel nostro caso, tuttavia, si trattò di un evento che catalizzò l’attenzione dell’Italia, per cui l’identità dei sette riceventi fu conosciuta quasi immediatamente.

Quattro mesi dopo il trapianto, tornammo in Italia per incontrare tutti i riceventi, in un evento organizzato dalla Fondazione culturale Bonino-Pulejo, avente sede a Messina, in Sicilia, dove Nicholas è morto. Solo il ricevente del cuore non era presente, perché stava ancora ristabilendosi da una condizione che prima del trapianto era talmente grave da non permettergli di camminare fino alla porta della sua abitazione.

Osservati da un centinaio di persone accorse in sala e da milioni di telespettatori collegati in mondovisione, i pazienti trapiantati entrarono nella sala insieme alle loro famiglie: un piccolo esercito di persone, alcune sorridenti, altre con gli occhi lucidi, qualcuno intimidito dalla situazione, qualcun altro sprizzante di gioia, ma tutti apparivano forti e in salute.

Quattro mesi prima erano come fantasmi. Pensavo tra me e me: “Un corpicino è riuscito a fare tutto questo?” Da allora li abbiamo incontrati di nuovo una o due volte, e una di loro in altre occasioni.

Ventitré anni dopo, cinque dei sette riceventi sono ancora in vita e quelli che all’epoca erano adolescenti si stanno avvicinando alla mezza età. In quel periodo le percentuali di donazione di organi in Italia triplicarono, un aumento a cui nessun altro paese è andato vicino. Sebbene in ogni crescita di tale ampiezza le ragioni siano molteplici, il fenomeno è stato definito “L’Effetto Nicholas” e quelle storie da prima pagina e le interviste televisive, che ci mostravano assieme ai vigorosi pazienti trapiantati, sono state una parte cruciale del fenomeno.

Nel 1999, cinque anni dopo l’uccisione di Nicholas, in Italia fu promulgata una nuova legge con lo scopo di proteggere la privacy dei pazienti; con cui si è vietato al personale sanitario di divulgare informazioni su donatori e riceventi. In circostanze normali quindi le due parti non sanno nulla l’una dell’altra. . Sono in vigore restrizioni diverse nei vari paesi del mondo (1).

Chiaramente, ci sono motivazioni ponderate sul perché le due parti non debbano avere contatti fra loro, come ad esempio il timore che una potrebbe avanzare delle richieste emotive irragionevoli all’altra, o preoccupazioni sull’effetto che potrebbe avere sulla famiglia del donatore se la donazione dovesse fallire e addirittura la possibilità di richieste in denaro da parte della famiglia del donatore.

Quanto siano reali questi rischi nella pratica clinica non so dirlo. L’esperienza americana, dove le regole sono diverse, suggerisce siano altamente ingigantiti. Ma contro questi rischi ci sono i loro opposti: che il non conoscere nulla dell’altro può causare un dolore incalcolabile. Conosco quel tipo di dolore che è reale – o, nella sua forma più mite, un senso di qualcosa di incompiuto – perché sia le famiglie di donatori sia i riceventi in ogni parte del mondo me l’hanno confermato. Poiché la donazione degli organi è la scelta più altruistica di tutte quelle in tema di salute e che tutte le famiglie donatrici compiono un percorso travagliato per riadattarsi ad una vita che ha perso un ingrediente fondamentale, non conoscere il ricevente sembra davvero ingiusto.

Gli incontri che abbiamo avuto con i nostri riceventi sono stati terapeutici per entrambe le parti. Per quanto ci riguarda, abbiamo la prova vivente ed eclatante che una semplice decisione ha riportato cinque persone dall’ombra della morte ad una vita più o meno normale, e a due ha ridato la vista. Non abbiamo mai pensato che Nicholas vivesse in loro in qualche maniera significativa: “Questi sono i loro organi ora, non più i suoi”, ricordo Maggie dire ad un giornalista della carta stampata subito dopo il trapianto.

Ma parlare con loro, venire a sapere come stanno o leggere le loro e-mail, è un promemoria che la vita del nostro bambino, che tutti pensavamo avrebbe fatto qualcosa di importante, non è andata sprecata. Potete immaginare quale consolazione possa essere.

Anche per i riceventi conoscerci è stato tonificante. Hanno visto con i loro occhi che non gli portiamo rancore per una felicità che hanno guadagnato solo perché Nicholas è morto. Meglio ancora, sanno che non possano farci miglior regalo del rimanere in salute e felici. Così è stato possibile eliminare quel vago senso di colpa che attanaglia tanti riceventi di trapianto.

Quando ero in Italia qualche mese fa per un’intervista televisiva con la ricevente del fegato di Nicholas, Maria Pia Pedala, ho deciso di chiederle qualcosa da cui mi sono sempre tenuto alla larga: “Ti sei mai sentita sconvolta per il trapianto?” ho borbottato, temendo di muovermi su un terreno pericoloso. La sua risposta è stata diretta e forte: “In un primo momento mi sentivo sconvolta poiché ero viva perché un bambino era morto”. Era una risposta classica.  “Ma poi Maggie mi disse: «Se il suo fegato non fosse andato a te, sarebbe andato a qualcun altro»”. Questo le ha alleggerito il fardello. E adesso pensa a Nicholas come ad un angelo che protegge la sua famiglia, compreso il figlio nato quattro anni dopo il trapianto e che ha chiamato – sì – Nicholas.

A differenza nostra, la famiglia Marteau è intrappolata in una rete di protezione della privacy dalle buone intenzioni, anche se le circostanze delle nostre donazioni sono abbastanza simili. Ci potrebbe essere un modo per trovare le informazioni che cercano, ma se così fosse nessuno ha spiegato loro come fare e finora tutti i tentativi che hanno effettuato sono falliti.

Le condizioni differiscono notevolmente tra i diversi paesi e quello che va bene per uno Stato può non esserlo in altri. Tuttavia, negli Stati Uniti la regola generale è che le due parti si possono incontrare se entrambe lo desiderano e le organizzazioni sanitarie che si occupano del caso non avranno alcuna obiezione. Il sistema sembra funzionare bene per tutte le parti. Non ci sono statistiche nazionali ma esistono prove evidenti. Qualsiasi lettore che desidera saperne di più può contattare l’Associazione delle Organizzazioni della Gestione degli Organi (www.aopo.org).

Rob Linderer, a capo della Rete di Trapianto del Midwest, un organo governativo designato alla supervisione delle donazioni di organi nello stato del Kansas e in parte del Missouri, racconta che in 38 anni ricorda soltanto due interazioni tra ricevente e famiglia del donatore nella sua zona in cui ci sono stati problemi. Una, più di trenta anni fa, fu tra la madre di un donatore di cuore che divenne ossessionata dal ricevente e alla quale fu detto in maniera gentile, ma ferma, di interrompere qualsiasi tipo di contatto.

Di fatto, per Linderer, la sfida più grande nei primi anni di lavoro è stata l’attesa di un anno che era una politica del MidWest: “Molte famiglie di donatori e riceventi trovavano quest’attesa un ostacolo irragionevole. Così rivedemmo la nostra politica e adesso non ci sono più tempi di attesa se entrambe le parti concordano a comunicare prima”.

OneLegacy, l’organizzazione per la donazione di organi tra le più grandi negli Stati Uniti, che gestisce il territorio di Los Angeles e gran parte della California meridionale, afferma che anche per la sua area sono rari i problemi, aggiungendo che “nella stragrande maggioranza dei casi i risultati sono molto positivi”.

Queste interazioni sono abbastanza numerose. Gift of Life Donor Program, un’altra organizzazione tra le più importanti per la donazione di organi, riceve tre o quattro lettere al giorno da chi desidera contattare l’altra parte. Per lo più sono riceventi che vogliono esprimere la propria gratitudine alla loro famiglia donatrice. Si sforzano di trovare il loro proprio modo per dire “Non ci sono parole giuste per ringraziarvi” ma l’impellente desiderio di trovare queste parole è chiaro in ognuno di loro. Molti aggiungono “Penso al mio donatore ogni giorno”. Tutto questo è un balsamo per le famiglie donatrici.

Tutti coloro che si occupano di questi rapporti hanno anche visto casi di “perdita secondaria”, che avvengono quando il ricevente dell’organo muore e le famiglie donatrici rivivono la propria perdita. È un rischio di cui chiunque voglia allacciare i contatti deve essere consapevole. L’alternativa, naturalmente, è una vita di dubbi, come accade oggi per la famiglia Marteau. Nel nostro caso posso dire che, quando due dei riceventi di organi di Nicholas sono morti, non abbiamo mai avuto la sensazione di perdere nuovamente nostro figlio, bensì siamo stati addolorati per aver perso due persone coraggiose con cui sentivamo un legame speciale.

Anche così, ascoltando dalle famiglie le storie di ciò che i loro cari sono riusciti a fare dopo il trapianto, è una consolazione che non ha prezzo. Quando Andrea, il ricevente del cuore di Nicholas, è morto qualche mese fa a 23 anni dal trapianto, una delle sue cugine ha suggerito che ci incontrassimo la volta successiva che fossi venuto in visita in Italia. Lì, in una conversazione che era una gioia e un conforto per entrambi, mi ha raccontato come Andrea aveva chiamato il suo nuovo cuore “Ferrari”, rispetto al vecchio catorcio rattoppato che aveva prima. È una storia che mi farà sorridere fino all’ultimo giorno della mia vita.

Quando questi contatti portano ad incontri de visu i rischi sono maggiori – anche se entrambe le parti sono state sottoposte a lunghi screening dai sanitari prima che abbiano luogo. Ma anche la ricompensa può raggiungere livelli molto più alti. Recentemente un incontro del genere si è svolto in pubblico a Los Angeles. E’ stato elettrizzante. La storia risale al 1997, quando Inger Jessen, allora 55enne, ha ricevuto un nuovo cuore. Ha fatto quello che fanno i trapiantati premurosi: ha scritto una lettera per ringraziare l’anonima famiglia donatrice e l’ha inviata all’organizzazione per la donazione di organi, OneLegacy. Senza rivelare il nome di Inger, l’organizzazione ha recapitato la sua lettera ai genitori della donatrice, la 18enne Nicole Mason, che era stata investita da un furgoncino mentre percorreva una strada adiacente la sua abitazione.

Non ottenne risposta. “Capivo il loro stato d’animo”, ha dichiarato Inger, “Mio figlio è morto per un attacco di cuore quando aveva 30 anni”.

Eppure, era turbata. Prima del trapianto, non poteva camminare verso la sua macchina senza aiuto e avrebbe voluto visualizzare le persone che le avevano salvato la vita. Non conosceva la loro età, né quello che facessero per vivere, né tantomeno perché avevano deciso di donare.

Quindi, quando due anni più tardi ha vinto due medaglie d’oro nel nuoto ai Campionati Mondiali per Trapiantati – una sorta di Giochi Olimpici per riceventi – ha inviato una lettera a OneLegacy, da trasmettere in forma anonima alla famiglia donatrice di cui non sapeva ancora nulla, nella speranza che avrebbe dato loro un po’ di conforto essere a conoscenza dell’enorme cambiamento che il loro dono aveva portato alla sua vita. Di nuovo, non ebbe risposta.

Nel frattempo Dan e Shirley Mason della cittadina di Big Bear Lake, in California, erano ancora sconvolti dalla perdita della loro allegra e adorabile figlia. Dan ricorda: “Non provavo nessuna emozione per nulla. Avevo una nipotina di quattro anni e non riuscivo neanche a giocare con lei”. “Qualche volta mentre guidavo dovevo accostare al lato della strada perché avevo bisogno di piangere.”

Sono passati vent’anni fino a quando Inger, ora 75enne, ha ricevuto dal nulla una chiamata da OneLegacy. La famiglia Mason voleva incontrarla! Per un attimo ha pensato ci fosse un errore, una chiamata destinata magari a qualcun altro e che era andata persa. Per giorni ha sognato ad occhi aperti.

“Eravamo pronti alla fine”, spiega Dan. “Abbiamo capito quanto di buono potremmo fare parlandone. Sembrava così egoista non farlo.” Il loro dolore è ancora evidente in tutto ciò che fanno. “Non voglio dimenticare niente di Nikki”, dice.

Ma avendo deciso di incontrare Inger, hanno voluto ottenere il maggior impatto possibile per la donazione degli organi e così il 15 maggio 2017, nel giorno dei 20 anni dalla morte della figlia, la famiglia donatrice ha accettato di incontrarla di fronte a una fila di telecamere.

“Abbiamo trascorso una notte agitata prima dell’incontro”, racconta Dan. Lo stesso è valso per Inger, che nel frattempo aveva avuto più della sua dose di disavventure: ha ancora tre figli ma il marito è deceduto e ha subito l’amputazione di una gamba a causa del diabete.

Quando Inger e la famiglia Mason si sono incontrati, si sono stretti in un forte abbraccio. “Erano così amorevoli”, ha detto Inger. “Era così premurosa”, ha raccontato Dan.

È stata un’occasione particolare per tutti, con il momento culminante quando la famiglia Mason ha ascoltato con lo stetoscopio il battito forte e regolare del cuore della propria figlia, che aveva lavorato perfettamente fin dall’inizio (2) (fig 1).

Ma attraverso le lacrime è fluita la gioia. Dan ha ricordato con timore: “Non riuscivo a credere che stavo ascoltando il cuore di Nikki. Penso a lei ogni giorno. Sembra così lontana. Ma eccola di nuovo con me”.

Anche per Inger l’incontro ha avuto un effetto profondo.  “Da allora – ha dichiarato – ho sentito una pace che per anni non ho conosciuto”.

 

POSTFAZIONE:

Ho scritto questo documento con l’incoraggiamento del professore Natale De Santo, nefrologo e docente emerito presso l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” per stimolare la discussione sul modo in cui la legge del 1999 funziona nella pratica. Come straniero, sono profondamente consapevole che non ho basi per trarre delle conclusioni. Ho semplicemente esposto la mia esperienza in modo che altri possano valutare.

Referenze

  1. Legge 1° aprile 1999, n. 91 “Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti”, accesso online il 12/07/2017 http://www.parlamento.it/parlam/leggi/99091l.htm
  2. OneLegacy ha diffuso un video di tre minuti sull’incontro tra la famiglia Mason e Inger Jessen, il link è https://www.youtube.com/watch?v=DgCLEkjS7sk