Tripla stenosi su fistola arterovenosa brachio-basilica: utilità dell’angioplastica, case report e review della letteratura

Abstract

La principale complicanza della fistola artero-venosa (FAV) è rappresentata dalla patologia stenotica. Tale condizione è caratterizzata da una riduzione del calibro del vaso arterioso o venoso che costituiscono la FAV. Più frequentemente si riscontra in corrispondenza della regione iuxta-anastomotica del segmento venoso.

Ci sono molti meccanismi responsabili della formazione della stenosi; alcuni correlati allo shear stress nella parete del tratto venoso, altri associati alle ripetute venipunture durante il trattamento dialitico.

È raccomandabile che ogni centro dialisi attivi un programma di monitoraggio della FAV in grado di identificare e trattare le stenosi.

Descriviamo il caso clinico di una giovane donna con una malattia da stenosi multipla di una FAV brachio-basilica trasposta.

Parole chiave: FAV, emodialisi, stenosi, angioplastica, angioplastica ecoguidata

Introduzione

Tra le complicanze della fistola arterovenosa (FAV) per emodialisi (Tabella I), vanno annoverate le stenosi; trattasi di una complicanza strutturale a cui è esposta la FAV. Le stenosi delle FAV native possono interessare sia il versante venoso che quello arterioso. L’incidenza di stenosi coinvolgenti il sistema venoso della FAV risulta essere di gran lunga maggiore rispetto a quello arterioso [15]. Le stenosi sono senza dubbio la causa più frequente di failure della fistola arterovenosa; la caduta di portata di cui sono responsabili riduce l’efficienza dialitica con calo del Kt/V, inoltre sono causa di un incremento della pressione negativa nel circuito, ostacolano il ritorno venoso, favoriscono il ricircolo [6, 7].

COMPLICANZE STRUTTURALI COMPLICANZE EMODINAMICHE
Ridotto/assente inflow (stenosi vaso afferente) Ridotta portata della FAV per perdita dell’inflow
Ridotto/assente outflow (stenosi del vaso efferente) Sindrome da furto (Steal syndrome)
Stenosi della porzione centrale del vaso efferente Presenza di collaterali venose che riducono la portata
Ematoma Scompenso cardiaco congestizio
Aneurisma Edema del braccio
Pseudoaneurisma
Calcificazioni
Tabella I: complicanze della FAV (Meola M: Ecografia clinica in nefrologia. Fistola arterovenosa, p 1308. Meola M. Eureka editore 2015).

Alcuni autori hanno classificato le stenosi del versante venoso della FAV in iuxta-anastomotiche o distali, a seconda che la sede della stenosi sia rispettivamente entro o oltre i 2 cm dall’anastomosi; anche se per Tessitore [8] vanno considerate tali anche le stenosi entro i 5 cm dall’anastomosi; questo sottotipo è responsabile dell’80 % delle stenosi.

Altra possibile classificazione riguardante la sede delle stenosi prevede la distinzione di stenosi centrali, iuxta-anastomotiche e stenosi riguardanti il tratto di vena compreso tra queste due regioni. Infine, da un punto di vista emodinamico, possiamo classificarle in stenosi dell’inflow e stenosi dell’outflow. Le prime determinano, da un punto di vista emodinamico, una riduzione della portata della fistola e riguardano le stenosi arteriose e le stenosi venose iuxta-anastomotiche; le seconde, invece, sono le stenosi venose distali che determinano un ostacolo al deflusso venoso anche in presenza di una valida portata [9].

La sede più frequente di stenosi è la porzione iuxta-anastomotica [1013], ma sono frequenti anche le stenosi della porzione centrale della vena efferente sede di venopuntura. Possiamo definire critica una stenosi quando la riduzione del diametro del lume vasale è superiore al 50 % rispetto a quello misurato nella porzione prestenotica. Ma tale definizione non può prescindere dalle alterazioni emodinamiche causate dalla stenosi: una riduzione della portata, l’aumento degli indici di resistenza, l’incremento della velocità di picco sistolico in corrispondenza della stenosi e, non ultima, l’inadeguata efficienza dialitica che accompagnano la stenosi [14].

La FAV è un “bene prezioso” per il paziente emodializzato; il patrimonio vascolare non è illimitato e il ricorso al catetere venoso centrale dovrebbe essere una seconda scelta. La stenosi deve essere considerata come l’iniziale processo di chiusura della FAV: se precocemente riconosciuta e trattata può evitare la chiusura definitiva dell’accesso vascolare.

 

Case report

Descriviamo il caso di una paziente di 54 anni, ipertesa, uremica in trattamento emodialitico da 3 anni, affetta da sindrome Nail-Patella. All’avvio al trattamento veniva confezionata una FAV radio-cefalica distale all’avambraccio sinistro previo mapping preoperatorio dell’arto che evidenziava una vena cefalica di 2 mm che incrementava il suo diametro a più del 50% dopo posizionamento del laccio emostatico; arteria radiale di 2,2 mm con portata di 15 ml/m e un test dell’iperemia reattiva che mostrava una caduta delle resistenze e incremento della portata.

Dopo 6 mesi la FAV andava incontro a failure, per cui veniva posizionato un catetere venoso centrale definitivo in vena giugulare destra. Allestita una nuova FAV distale radio-cefalica a carico dell’avambraccio di destra, quest’ultima andava incontro ad early failure nonostante il mapping preoperatorio mostrasse vasi aggredibili con buona compliance vascolare. Veniva quindi allestita una FAV prossimale brachio-basilica a carico del braccio sinistro con trasposizione della basilica. La portata della fistola, calcolata sull’arteria brachiale, dopo 7 giorni dall’allestimento era pari a 765 ml/m e incrementava a 1130 ml/m dopo 30 giorni.

Durante i trattamenti emodialitici si riscontravano pressioni venose elevate nell’accesso vascolare e pressioni arteriose eccessivamente negative. Veniva intrapreso quindi un follow-up ecografico e veniva posticipata la rimozione del CVC definitivo. Un controllo a distanza di 8 mesi mostrava una caduta della portata a 880 ml/m. L’accesso vascolare, monitorato nei mesi successivi, mostrava una progressiva riduzione di portata: 760 ml/m dopo 10 mesi dall’allestimento; 600 ml/m dopo 13 mesi. Giunge alla nostra osservazione a marzo 2022. L’esame doppler metteva in evidenza una portata pari a 465 ml/min. IR pari a 0,5 e l’evidenza di 3 stenosi lungo il decorso della vena basilica trasposta. Di queste, una si presentava in regione iuxta-anastomotica, con velocità di picco sistolico (PSV) calcolata in corrispondenza della stenosi pari a 350 cm/sec e le due restanti in regione distale con PSV rispettivamente di 617 cm/sec e 387 cm/sec. Si concludeva dunque per FAV malfunzionante con patologia stenotica multipla, con impatto emodinamico significativo. Per difficoltà operativa nel reperire un accesso unico che consentisse di trattare tutte e tre le stenosi contemporaneamente, veniva pianificato un trattamento di PTA in due tempi:

  1. PTA delle due stenosi distali con approccio anterogrado.
  2. PTA della stenosi iuxta-anastomotica con approccio retrogrado.

Veniva eseguita una prima procedura di PTA ecoguidata con balloon non compliante ad alta pressione delle dimensioni di 6 x 30 mm gonfiato fino a 24 atmosfere con completa distensione delle due lesioni stenotiche. Immediatamente dopo la procedura la portata dell’accesso vascolare risultava essere di 1100 ml/min con IR pari a 0,42 (Figure 1-5).

Figura 1: B-Mode. Scansione longitudinale su vena basilica efferente la FAV. Si nota esteso tratto stenotico.
Figura 1: B-Mode. Scansione longitudinale su vena basilica efferente la FAV. Si nota esteso tratto stenotico.
Figura 2: Color-doppler. Portata calcolata su arteria brachiale: 465ml/min; IR 0.5.
Figura 2: Color-doppler. Portata calcolata su arteria brachiale: 465ml/min; IR 0.5.
B-Mode. Gonfiaggio del pallone per angioplastica nel lume
Figura 3: B-Mode. Gonfiaggio del pallone per angioplastica nel lume venoso in corrispondenza del tratto stenotico. Si notano due incisure disegnate sul profilo del pallone, sede di maggiore resistenza della stenosi, che verranno completamente sfiancate al raggiungimento di 24 atmosfere.
B-Mode. Risultato finale della procedura. Assenza di recoil della stenosi, omogeneo il lume vascolare.
Figura 4: B-Mode. Risultato finale della procedura. Assenza di recoil della stenosi, omogeneo il lume vascolare.
Color-doppler. Portata calcolata su arteria brachiale successivamente alla procedura.
Figura 5: Color-doppler. Portata calcolata su arteria brachiale successivamente alla procedura. Si nota un incremento della portata a 1094 ml/min con riduzione indici di resistenza a 0,41.

A distanza di 15 giorni veniva eseguita seconda proceduta di PTA ecoguidata su stenosi iuxta-anastomotica. Veniva utilizzato balloon non compliante ad alta pressione delle dimensioni di 6 x 30 mm gonfiato fino a 24 atmosfere con completa risoluzione della stenosi (Figure 6-10).

Scansione longitudinale su vena basilica efferente la FAV in corrispondenza della regione iuxta-anastomotica stenotica.
Figura 6: B-Mode. Scansione longitudinale su vena basilica efferente la FAV in corrispondenza della regione iuxta-anastomotica stenotica.
Figura 7: Color-doppler. Portata calcolata su arteria brachiale: 920 ml/min con IR 0.49.
Figura 7: Color-doppler. Portata calcolata su arteria brachiale: 920 ml/min con IR 0.49.
Gonfiaggio del pallone per angioplastica nel lume venoso in corrispondenza del tratto stenotico.
Figura 8: B-Mode. Gonfiaggio del pallone per angioplastica nel lume venoso in corrispondenza del tratto stenotico. Pallone completamente disteso, gonfiato a 24 atmosfere.
Figura 9: B-Mode. Risultato finale della procedura. Assenza di recoil della stenosi, omogeneo il lume vascolare.
Figura 9: B-Mode. Risultato finale della procedura. Assenza di recoil della stenosi, omogeneo il lume vascolare.
Portata calcolata su arteria brachiale successivamente alla procedura
Figura 10: Color-doppler. Portata calcolata su arteria brachiale successivamente alla procedura. Si nota un incremento della portata a 1756 ml/min con riduzione indici di resistenza a 0,37.

La portata dell’accesso al termine della procedura risultava pari a 1600 ml/min con IR pari a 0,37. Contestualmente nella stessa seduta operatoria veniva rimosso CVC giugulare definitivo destro. In Figura 11 è riportato l’andamento della portata della FAV dal suo allestimento fino all’espletamento dell’ultima procedura descritta.

Figura 11: Il grafico, portata/tempo, mostra l’andamento del flusso prima e dopo le due procedure di angioplastica.
Figura 11: Il grafico, portata/tempo, mostra l’andamento del flusso prima e dopo le due procedure di angioplastica.

 

Discussione

Il primum movens del processo di stenosi è rappresentato dall’iperplasia neointimale, a sua volta legata ad un incremento dello shear-stress di parete per l’imponente incremento di flusso cui è sottoposto il vaso dopo la creazione dell’anastomosi. Concorrono, al processo di stenosi, anche lo stato pro infiammatorio proprio della malattia renale cronica, le venipunture ripetute, lo stress chirurgico, fattori genetici. Tutti questi elementi sono responsabili del rimodellamento della parete vascolare e di una anomala proliferazione [15] e migrazione delle cellule muscolari lisce mediata da una serie di fattori: citochine, chemochine, ossido di azoto, endotelina, osteopontina, apolipoproteina [10, 16-21].

È inoltre dimostrata una migrazione di fibroblasti dall’avventizia all’intima e la loro trasformazione in miofibroblati che contribuisce in maniera significativa alla riduzione del lume vascolare [2228]. Alcuni studi hanno incentrato l’attenzione sulla natura delle cellule che costituiscono la neointima: la loro identificazione pone infatti le basi per azioni terapeutiche volte a inibire il processo di proliferazione neointimale. In particolare la recente evidenza di fibroblasti migrati dall’avventizia all’intima e trasformati in miofibroblasti ha sottolineato il ruolo fondamentale di queste cellule nella produzione di matrice extracellulare della neointima. Tutto questo rimarca l’importanza dell’avventizia come attore in prima linea nel processo di iperplasia neointimale e la pone al centro dell’attenzione di interventi terapeutici che mirino al controllo di tutti questi elementi cellulari (fibroblasti, miofibroblasti, cellule muscolari lisce). Da ciò la proposta di alcuni autori di utilizzare farmaci antiproliferativi ad azione perivascolare [29-31]. Non ultima la necessità di una corretta manipolazione chirurgica intraoperatoria finalizzata a preservare l’avventizia e i vasa vasorum [29]; è dimostrato infatti che il ridotto traumatismo della parete vasale riduce in maniera significativa l’iperplasia neointimale [32].

Il malfunzionamento dell’accesso vascolare è una temuta complicanza del paziente in trattamento emodialitico: la sorveglianza clinica e il monitoraggio strumentale della FAV tendono a scongiurare questo pericolo. Negli anni si sono sviluppati programmi di sorveglianza clinico/strumentale spesso dissociati in quanto il nefrologo non sempre è il fulcro di questa sorveglianza, demandando al chirurgo vascolare o al radiologo la parte tecnico/strumentale. Nel nostro centro da tempo è stata posta l’attenzione a questo tipo di problematica e un team dedicato, oltre ad effettuare una sorveglianza clinica (esame ispettivo della FAV, Kt/V, ricircolo dell’accesso, monitoraggio delle pressioni venose ed arteriose intradialitiche), provvede al monitoraggio ecografico delle FAV a rischio di chiusura. L’ecocolordoppler infatti va ritenuto l’unica indagine capace di fornire informazioni strutturali e funzionali sull’accesso vascolare [33-36]; la metodica, infatti, oltre ad identificare deficit funzionali, mediante la valutazione della portata [3547], è in grado di individuare stenosi e trombosi da correggere mediante interventi di angioplastica, anch’essi ecoguidati, con i quali lo stesso nefrologo può cimentarsi.

Va comunque precisato che i programmi di sorveglianza degli accessi vascolari a tutt’oggi sono oggetto di discussione, in quanto lì dove studi osservazionali indicano che la correzione preventiva delle stenosi riduca la percentuale di fallimento dell’accesso vascolare [47] e le stesse linee guida NKF-K-DOQI [48] consigliano di sottoporre gli emodializzati portatori di FAV ad un programma di sorveglianza dell’accesso vascolare, ci sono pareri discordanti che attribuiscono una scarsa efficacia a detti programmi [4951].

I dati presenti in letteratura mostrano come vi sia una tendenza alla recidiva della stenosi dopo trattamento mediante PTA.

Le varie casistiche identificano una pervietà della FAV tra il 50-60% ad un anno dal trattamento. L’ipotesi eziopatogenetica è identificata nella iperplasia reattiva dei miociti della parete del vaso sottoposto a stretching durante la procedura con conseguente reazione sclerotico-cicatriziale e riformazione della stenosi [52]. A tal ragione vengono usati con maggiore frequenza balloon medicati (DCB), ricoperti da farmaci antiproliferativi come il Placitaxel, che rilasciati nella parete vascolare durante la dilatazione della stenosi vanno ad inibire la proliferazione reattiva. Grazie all’utilizzo di tali dispositivi si è ottenuta una pervietà primaria maggiore rispetto ai ballon convenzionali: fino all’80% a 6 mesi [53].

 

Conclusioni

La FAV va considerata l’accesso vascolare di prima scelta, la sua sopravvivenza deve essere garantita con l’utilizzo di tutti i mezzi a nostra disposizione: osservazione clinica e strumentale, monitoraggio intradialitico, accuratezza nella venopuntura. Le stenosi rappresentano la causa più frequente di malfunzionamento della FAV, se precocemente riconosciute e trattate l’accesso vascolare “sopravvive”. È nostra esperienza che la restenosi di una FAV, sottoposta ad angioplastica, è una evenienza possibile, ma proprio la sorveglianza di queste FAV a rischio ci consente di reintervenire concedendo all’accesso vascolare un ulteriore periodo di utilizzo.

 

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Potrebbe l’emodialisi incrementale essere un nuovo standard di cura? Un suggerimento da uno studio osservazionale a lungo termine

Abstract

Introduzione: Il termine emodialisi (HD) incrementale significa che sia la dose di dialisi che la frequenza possono essere piccole all’inizio del trattamento dialitico e dovrebbero essere aumentate progressivamente per compensare una successiva riduzione della funzione renale residua. Politica del Centro Dialisi di Matera è tentare un inizio incrementale del trattamento dialitico senza una rigorosa dieta ipoproteica in tutti i pazienti che scelgono l’HD e con diuresis quotidiana (UO) >500 ml/die. Questo studio ha lo scopo di analizzare i risultati di questa politica negli ultimi 20 anni.
Materiali e metodi: Sono stati valutati i dati dei pazienti che hanno iniziato il trattamento dialitico nel periodo compreso tra il 01-01-2000 e il 31-12-2019. Criteri di esclusione dallo studio furono: diuresi giornaliera <500 ml/die o follow-up <3 mesi dopo l’inizio del trattamento dialitico.
Risultati: I pazienti valutati furono 266; 64 furono esclusi dallo studio. I restanti 202 pazienti furono arruolati nello studio e suddivisi in 3 gruppi (G1, G2 e G3) in base alla frequenza del trattamento all’inizio della dialisi: 117 pazienti (57.9%) cominciarono con ritmo monosettimanale (1HD/wk) (G1); 46 (22.8%) con ritmo bisettimanale (2HD/wk) (G2); 39 (19.3%) con ritmo trisettimanale (3HD/wk) (G3). I pazienti di G1 rimasero in 1HD/wk 11.9 ±14.8 mesi e furono successivamente trasferiti in 2HD/wk per ulteriori 13.0 ±20.3 mesi. I pazienti di G2 rimasero in 2HD/wk 16.7 ±23.2 mesi. Complessivamente, 25943 sessioni furono effettuate durante i periodi di dialisi meno frequente invece di 47988, che sarebbero state effettuate se i pazienti fossero state trattati con 3HD/wk, risparmiando così 22045 sedute (45.9%). La mortalità dell’intero gruppo fu 12.6%, sovrapponibile a quella della mortalità media della popolazione dialitica italiana (16.2%). La sopravvivenza a 1 e 5 anni, non differente in maniera significativa tra i 3 gruppi, fu: 94% e 61% (G1); 83% e 39% (G2); 84% e 46% (G3).
Conclusioni: Il nostro studio osservazionale a lungo termine suggerisce che l’HD incrementale è una valida opzione nei pazienti incidenti, essendo possibile nella gran parte di loro (80.7%) per circa 1-2 anni, con evidenti benefici socio-economici e percentuali di sopravvivenza comparabili a quelli della popolazione dialitica italiana. Tuttavia, mancano studi randomizzati controllati e quindi necessari urgentemente. Se questi confermeranno i dati osservazionali, l’HD incrementale sarà un nuovo standard di cura.

Parole chiave: emodialisi, emodialisi incrementale, clearance renale dell’urea, modello cinetico dell’urea, Diuresi

Ci spiace, ma questo articolo è disponibile soltanto in inglese.

Introduction

There is growing interest in an incremental approach to haemodialysis (HD) for incident end-stage kidney disease (ESKD) patients, starting with one (1HD/wk) or two sessions per week (2HD/wk) [14]. Such an approach not only seems to preserve residual kidney function (RKF) and improve health-related quality of life with similar or higher survival rates than those observed in patients receiving the standard thrice weekly HD (3HD/wk) regimen, but also allows saving economic resources [57]. The term “incremental HD” means that, in the presence of substantial RKF, both dialysis dose and frequency can be low at dialysis inception but should be progressively increased, to compensate for any subsequent reduction in RKF [8, 9].

RKF in dialysis patients plays important roles in fluid and salt removal, effective phosphorus excretion, middle molecule clearance, and endogenous vitamin D and erythropoietin production [1, 2]. There is increasing evidence to suggest that clearance of some uraemic solutes, particularly middle molecules such as β2-microglobulin, is highly dependent on RKF. This extends even to very low levels of RKF: patients with kidney urea clearance (KRU) <0.5 ml/min have significantly higher serum β2-microglobulin levels than those with values between 0.5 and 1 ml/min [10]. Furthermore, residual renal tubular function may represent important removal pathways for these and other compounds, such as hippurate, phenylacetylglutamine, indoxyl sulfate, and p-cresol sulfate [11, 12].

Loss of RKF is linked to decreased survival [13, 14], likely from poorer uraemic solute clearance [13], volume and blood pressure control [15, 16], higher erythropoietin requirements [17], more inflammation [13] and higher left ventricular mass [18]. The benefits of preserving KRU appear to be greater that one would expect from simply enhanced small solute clearance: a multivariate survival analysis of patients on incremental HD suggested that 1 ml/min of KRU resulted in greater survival benefit compared to 1 ml/min of dialysis urea clearance, possibly due to greater removal of middle molecules by native kidneys and improved volume control [15]. Finally, the available literature suggests greater preservation of RKF with infrequent dialysis [5, 7, 19].

The Matera Dialysis Center has adopted over the last 20 years the policy of attempting to start HD always incrementally in all ESKD patients in relatively stable conditions and with preserved diuresis. Over the years, a lot of data has accumulated on patients who received incremental HD in our Center. The present study aims to compare the long-term results of such a policy.

 

Subjects and methods

Policy of the Matera Dialysis Center

As mentioned above, the policy of our Center over the last 20 years has been to try to initiate HD incrementally in almost all patients with advanced chronic kidney disease (CKD-5D), in relatively stable conditions and with preserved diuresis. All patients treated in our Center give their written informed consent to the choice of HD as first mode of renal replacement therapy (RRT); furthermore, they give written informed consent to starting with the incremental regimen. They also receive the information that a less frequent treatment can be harmful, especially in the presence of insufficient RKF. Two important corollaries complete this information:

  1. the need of collecting periodically the 24-hour urine output (UO) to quantify RKF;
  2. the need of promptly increasing dialysis frequency if RKF falls below established levels, even in the absence of clear symptoms and signs of clinical worsening.

In brief, the dialysis treatment is started with 1 or 2 sessions per week and can be empirically increased to 2 or 3, based on the trend of clinical and biochemical data, with particular regard to the state of nutrition, the values of KRU, dialysis dose (Kt/V) and normalized protein catabolic rate (PCRn), which are assessed monthly.

Inclusion/exclusion criteria

For decades, all the main clinical, biochemical and epidemiological data of patients treated at the Hospital of Matera’s Division of Nephrology, have been managed and archived with the GEPADIAL® software (La Traccia, Matera, Italy). This allowed us to retrieve the dataset of all patients who had started HD in the Matera Dialysis Center from January 1st, 2000 to December 31st, 2019 (with a prolongation of the follow-up until June 30th, 2021). In particular, for each patient, the duration of the follow-up was calculated from the difference (in months) between the date of the first and last dialysis session in our Center.

Patients who had a follow-up <3 months after the start of the dialysis treatment were excluded from the study to avoid enrolling patients affected by acute kidney injury, or severely sick, or transiently treated in our Center. Patients with a follow-up >3 months but with UO <500 ml/day at the start of treatment were also excluded from the study.

Patients were divided into three groups (G), which were determined exclusively by the weekly regimen at the start of dialysis treatment: G1: once-a-week (1HD/wk); G2: twice-a-week (2HD/wk); G3: thrice-a-week (3HD/wk), and regardless of subsequent rhythm variations, if any, thus creating a kind of intervention arm of an “intention to treat” study, taking into account the policy of our Center, i.e., that of trying to initiate HD incrementally in almost all patients.

Measurement of the main parameters of UKM

The measurement of the main parameters of urea kinetic modeling (UKM) (Kt/V, PCRn and KRU if UO >200 ml/day) was performed on a monthly basis in all patients, using the specific software GEPADIAL®, based on the so-called modified algorithm of UKM [20]. The software automatically calculates also the “equivalent renal urea clearance” (EKR) corrected for a urea distribution volume of 40 l (EKRc) [21]. The latter has been converted into the new version of EKR, which is corrected for a urea distribution volume of 35 l with the following formula: EKR35 = EKRc x 35/40 [22]. The calculation of the post-rebound equilibrated Kt/V (eKt/V) and of the most recent version of the standardized Kt/V (stdKt/V) has been utilized in the present study using the formulas recommended by the KDOQI Clinical Practice Guideline for Hemodialysis Adequacy 2015 [9]. Furthermore, the latter proposed the following criteria of adequacy of stdKt/V: a target value of 2.3 and a minimum value of 2.1 volumes/week (v/wk) for non-thrice-a-week dialysis rhythms [9]. Similarly, Casino and Basile have proposed the following criteria of adequacy of EKR35: a target and a minimum value, as described by the following equations:

  1. target EKR35 = 12 – KRUN (EKRT12) [22, 23]
  2. minimum EKR35 = 10 – 1.5 x KRUN (EKRT10) [23, 24]

where KRUN = KRU (ml/min)/V (l) x 35 (l) [23].

Two sets of kinetic data were obtained for each patient, at two different time points of the treatment. The first one (T3), corresponding to approximately 3 months of dialysis, coincides with the third measurement of the main parameters of UKM, and should reflect the initial, but already fairly stabilized, stage of treatment; the second one (T_end) changes from one patient to another: it corresponds to the time point at which a last value of UO >200 ml/day was available during the study, or just before the exit of the patient from the study because of death, kidney transplant, transfer to another center or end of the study (June 30th, 2021), the patient being alive.

Statistics

Means and standard deviations (SD) were obtained using Excel®; χ2 test, graphics, Student’s t-test, ONE-WAY ANOVA and survival analyses (Kaplan-Meier) were performed with the statistical package R of CRAN project [2527].

 

Results

Data related to 266 patients were retrieved from the local electronic database, representing the set of all patients who started maintenance HD at the Matera Dialysis Center in the study period considered: of them, 45 (17%) were excluded because their follow-up after the start of the dialysis treatment was <3 months; 12 (4%) were excluded because they had started the dialysis treatment in the setting of continuous renal replacement therapy; lastly, 7 (3%) were excluded because their baseline UO was either <500 ml/day or had not been reported. All in all, 202 patients were enrolled into the study. The main demographic, clinical and laboratory data of the 202 patients enrolled into the study are reported in Table I.

They were subdivided into 3 groups (G), according to their weekly regimen at the start of dialysis treatment: 117 were on a once-a-week (G1), 46 on a twice-a-week (G2), and 39 on a thrice-a-week schedule (G3).

Age (years) 66 ±15 Serum albumin (g/l) 29.7±11.7
Gender (male/female) 120/82 Diabetic nephropathy 42 (20.8 %)
Body weight (kg) 63.2 ±13.3 Glomerulonephritis 40 (19.8%)
Body mass index (kg/m2) 24.6 ±4.4 Hypertensive nephropathy 52 (25.7%)
Body surface area (m2) 1.65 ±0.197 Interstitial nephropathy 29 (14.4%)
Blood urea nitrogen (mg/dl) 99 ±33 Polycystic kidney disease 9 (4.5%)
Serum creatinine (mg/dl) 8.0 ±3.1 Other/Unknown 30 (14.9%)
KRU (ml/min/1.73 m2) 4.5 ±1.6 Charlson comorbidity index 6.9 ±2.6
ClCr (ml/min/1.73 m2) 8.0 ±2.9 Late referral (<3 months) 33 (16.3%)
GFRm (ml/min/1.73 m2) 6.2 ±2.1 Group 1 (G1): start on 1HD/wk 117 (57.9%)
Urine Output (ml/day) 1800 ±700 Group 2 (G2): start on 2HD/wk 46 (22.8%)
Proteinuria (g/day) 3.0 ±3.0 Group 3 (G3): start on 3HD/wk 39 (19.3%)
Table I: It reports the main demographic, clinical and laboratory data of the 202 patients enrolled into the study. Means ±SD; KRU = residual kidney urea clearance; ClCr = creatinine clearance; GFRm = mean of KRU and ClCr.

Table II shows the comparison of the main demographic, clinical and laboratory data between the groups of patients starting HD incrementally (G1+G2) and the group of patients starting dialysis on a thrice-a-week schedule (G3). KRU and UO were significantly lower in G3; this group had a percentage of women and late referral to the nephrology team (follow-up <3 months before the start of the dialysis treatment) much larger than G1+G2 (61.5% vs. 35.6%, P = 0.003; 38.5% vs. 11.0%, P = 0.001, respectively).

  G1+G2 (N = 163) G3 (N = 39) t P
Gender (M/F) (%) 105/58 (F=35.6%) 15/24 (F=61.5%) 8.79* 0.003
Age (years) 66.91 ±14.63 62.15 ±16.96 1.769 0.078
Body weight (kg) 63.43 ±13.37 62.09 ±12.96 0.568 0.571
Body mass index (kg/m2) 24.7 ±4.47 24.38 ±4.15 0.400 0.689
Diabetic nephropathy 32 10
Glomerulonephritis 31 9
Hypertensive nephropathy 46 6 4.48* 0.482
Interstitial nephropathy 25 4
Polycystic kidney disease 7 2
Other/Unknown 22 8
Blood urea nitrogen (mg/dl) 98.30 ±29.96 100.38 ±43.66 -0.354 0.724
Serum creatinine (mg/dl) 7.87 ±2.65 8.70 ±4.61 -1.482 0.14
Serum albumin (g/l) 30.22 ±11.90 27.36 ±10.51 1.377 0.170
Urine Output (ml/day) 1875 ±659 1357 ±816 4.195 <0.001
Proteinuria (g/day) 2.95 ±2.90 3.35 ±3.57 -0.746 0.456
KRU (ml/min/1.73 m2) 4.63 ±1.42 3.76 ±1.94 3.195 0.002
ClCr (ml/min/1.73 m2) 8.10 ±2.42 7.60 ±4.52 0.951 0.343
GFRm (ml/min/1.73 m2) 6.36 ±1.79 5.68 ±3.05 1.836 0.068
Late referral (<3 months) (%) 18/163 (11.0%) 15/39 (38.5%) 17.3* 0.001
Charlson comorbidity index 6.99 ±2.64 6.51 ±2.63 1.011 0.313
Table II: Comparison of the main demographic, clinical and laboratory data between the groups of patients starting HD incrementally (G1+G2) and the group of patients starting dialysis on a thrice-a-week schedule (G3). Means ±SD; KRU = residual kidney urea clearance; ClCr = creatinine clearance; GFRm = mean of KRU and ClCr. All the variables of the 2 groups were compared with the Student’s t-test, except gender, classes of nephropathies and late referral, which were compared with the c2 test (*).

Figure 1 shows the numbers of patients on 1HD/wk, 2HD/wk and 3HD/wk at different time points: at the start (T0) and 3 (T3), 12 (T12), 24 (T24) and 60 (T60) months after the start of dialysis treatment: 94 patients (46.5%) and 52 patients (25.7%) were on incremental HD after 1 and 2 years, respectively.

Figure 1: It shows the numbers of patients on 1HD/wk, 2HD/wk
Figure 1: It shows the numbers of patients on 1HD/wk, 2HD/wk and 3HD/wk at different time points: at the start (T0), and 3 (T3), 12 (T12), 24 (T24) and 60 (T60) months after the start of dialysis treatment: 94 patients (46.5%) and 52 patients (25.7%) were on incremental HD after 1 and 2 years, respectively.

Table III shows the main clinical data including kinetic studies of the entire population under study and of the 3 groups of patients at the third month of dialysis treatment (T3). Notably, UO and KRU were significantly higher in G1 and G2 than in G3, whereas PCRn, EKR35 and stdKt/V were significantly lower in G1 and progressively increased in G2 and G3.

Table IV shows the main clinical data including kinetic studies of the entire population under study and of the 3 groups of patients at T_end. It occurred 27.9 ±27.6 months after the start of dialysis treatment. The main significant differences among the three groups were the number of dialysis sessions per week, UO, weekly UF, EKR35 and stdKt/V.

Table V shows the differences among the values of the main clinical data including kinetic studies at T3 and T_end (data of the entire population under study and of the 3 groups of patients). The main differences were: a net reduction in KRU and UO, an increase in the number of weekly sessions, weekly ultrafiltration, EKR35 and stdKt/V.

Groups of patients (N) Total (202) G1 (117) G2 (46) G3 (39) p*
BUN-pre (mg/dl) 79.3 ±24.4 84.5 ±23.7 73.9 ±22.1 70.0 ±25.4 0.002
BUN-post (mg/dl) 25.1 ±13.4 27.0 ±14.6 23.7 ±11.4 20.9 ±10.8 0.021
Session length (min) 228 ±21.7 228 ±21.4 230 ±20.8 225 ±223.8 0.708
Sessions per week (n/wk) 1.88 ±0.79 1.41 ±0.60 2.13 ±0.34 3.00
Body weight-pre (kg) 64.8 ±13.5 63.9 ±12.6 67.5 ±15.9 64.2 ±13.0 0.392
Body weight-post (kg) 63.1 ±13.3 62.5 ±12.4 65.5 ±15.6 62.3 ±12.8 0.466
Ultrafiltration (l/session) 1.68 ±0.99 1.47 ±0.95 1.99 ±1.13 1.96 ±0.77 0.002
Weekly ultrafiltration (l/week) 3.24 ±2.37 2.24 ±1.90 4.63 ±2.65 4.58 ±1.79 0.001
Urine Output (ml/day) 1380 ±690 1547 ±660 1374 ±724 900 ±493 0.001
KRU (ml/min/1.73 m2) 3.34 ±1.79 3.54 ±1.74 3.50 ±1.89 2.53 ±1.63 0.005
Single pool Kt/V 1.40 ±0.40 1.38 ±0.41 1.41 ±0.37 1.47 ±0.36 0.427
Equilibrated Kt/V 1.24 ±0.35 1.22 ±0.37 1.24 ±0.33 1.29 ±0.32 0.452
PCRn (g/kg/day) 1.05 ±0.30 0.99 ±0.25 1.13 ±0.30 1.15 ±0.39 0.006
EKR35 (ml/min/35 l) 10.8 ±3.62 9.2 ±3.1 11.9 ±2.7 14.4 ±2.8 0.001
Standard Kt/V (v/wk) 2.45 ±0.74 2.14 ±0.65 2.67 ±0.60 3.12 ±0.62 0.001
Table III: Main clinical data including kinetic studies of the entire population under study and of the 3 groups of patients at the third month (T3). Means ±SD; *ONE-WAY ANOVA; BUN = Blood urea nitrogen; KRU = residual kidney urea clearance; PCRn = normalized protein catabolic rate; EKR35 = Equivalent renal urea clearance (EKR) corrected for urea distribution volume of 35 l.
Groups of patients (N) Total (202) G1 (117) G2 (46) G3 (39) p*
BUN-pre (mg/dl) 76.2 ±22.2 78.2 ±22.5 80.2 ±22.4 65.8 ±18.3 0.001
BUN-post (mg/dl) 21.0 ±8.9 21.4 ±8.8 23.2 ±9.6 17.2 ±16.8 0.002
Session length (min) 231 ±19.0 230 ±19.9 234 ±13.5 230.±21.9 0.353
Sessions per week (n/wk) 1.97 ±0.79 2.17 ±0.89 2.60 ±0.55 2.90 ±0.36 <0.001
Body weight-pre (kg) 63.7 ±13.6 62.6 ±12.6 66.4 ±15.8 63.9 ±13.6 0.353
Body weight-post (kg) 61.7 ±13.2 60.7 ±12.3 64.1 ±15.3 61.7 ±13.4 0.398
Ultrafiltration (l/session) 2.07 ±1.03 1.95 ±1.06 2.3 ±1.07 2.2 ±0.84 0.036
Weekly ultrafiltration (l/week) 4.67 ±2.51 4.3 ±2.6 5.2 ±2.5 5.1 ±2.0 0.039
Urine Output (ml/day) 650 ±440 688 ±476 646 ±479 538 ±242 0.036
KRU (ml/min/1.73 m2) 1.45 ±1.11 1.41 ±1.06 1.49 ±1.33 1.50 ±1.07 0.878
Single pool Kt/V 1.53 ±0.35 1.53 ±0.36 1.49 ±0.36 1.59 ±0.31 0.383
Equilibrated Kt/V 1.35 ±0.31 1.35 ±0.32 1.31 ±0.32 1.40 ±0.28 0.410
PCRn (g/kg/day) 1.06 ±0.32 1.01 ±0.27 1.14 ±0.31 1.09 ±0.43 0.109
EKR35 (ml/min/35 l) 11.8 ±3.27 11.1 ±3.5 11.9 ±2.5 13.5 ±2.8 0.001
Standard Kt/V (v/wk) 2.46 ±0.59 2.32 ±0.63 2.48 ±0.49 2.85 ±0.40  0.001
Table IV: Main clinical data including kinetic studies at T_end. Data of the entire population under study and of the 3 groups of patients are shown. Means ±SD; *ONE-WAY ANOVA; KRU = residual kidney urea clearance; BUN = Blood urea nitrogen; PCRn = normalized protein catabolic rate; EKR35 = Equivalent renal urea clearance (EKR) corrected for urea distribution volume of 35 l.
Groups of patients (N) Total (202) G1 (117) G2 (46) G3 (39) p*
BUN-pre (mg/dl) -3.05 ±27.2 -6.36 ±28.9 6.33 ±25.5 -4.2 ±21.1 0.024
BUN-post (mg/dl) -4.10 ±13.6 -5.63 ±15.4 -0.5 ±10.6 -3.71 ±10.2 0.057
Session length (min) 2.98 ±23.3 2.0 ±24.7 4.0 ±20.0 4.8 ±23.1 0.756
Sessions per week (n/wk) 0.63 ±0.83 0.94 ±0.86 0.52 ±0.55 0.02 ±0.16 0.001
Body weight-pre (kg) -1.07 ±4.96 -1.30 ±4.97 -1.15 ±3.31 -0.28 ±6.41 0.666
Body weight-post (kg) -1.46 ±4.91 -1.78 ±4.97 -1.42 ±3.23 -0.53 ±6.22 0.510
Ultrafiltration (l/session) 0.39 ±1.30 0.48 ±1.36 0.28 ±1.43 0.24 ±0.92 0.430
Weekly ultrafiltration (l/week) 1.43 ±3.05 2.05 ±3.05 0.61 ±3.36 0.56 ±2.15 0.002
Urine Output (ml/day) -0.73 ±0.75 -0.86 ±0.74 -0.73 ±0.78 -0.36 ±0.59 0.001
KRU (ml/min/1.73 m2) -1.9 ±1.9 -2.1 ±1.8 -2.0 ±2.0 -1.0 ±1.6 0.002
Single pool Kt/V 0.12 ±0.40 0.15 ±0.43 0.08 ±0.35 011 ±0.37 0.595
Equilibrated Kt/V 0.11 ±0.36 0.13 ±0.39 0.07 ±0.31 0.10 ±0.33 0.624
PCRn (g/kg/day) 0.01 ±0.35 0.02 ±0.31 0.02 ±0.41 -0.06±0.38 0.468
EKR35 (ml/min/35 l) 0.98 ±3.55 1.99 ±3.66 -0.02 ±2.63 -0.91 ±3.11 0.001
Standard Kt/V (v/wk) 0.01 ±0.67 0.18 ±0.71 0.52 ±0.55 -0.27 ±0.53 0.001
Table V: Differences among the values of the main clinical data including kinetic studies at T3 and T_U200. Data of the entire population under study and of the 3 groups of patients are shown. Means ±SD; *ONE-WAY ANOVA; BUN = Blood urea nitrogen; PCRn = normalized protein catabolic rate; EKR35 = Equivalent renal urea clearance (EKR) corrected for urea distribution volume of 35 l.

Figure 2 shows that 50 out of 76 (66%) patients on 1HD/wk would have been considered receiving inadequate total weekly clearances at T3, by applying the minimum value of stdKt/V [9]. Figure 3 shows that only 15 out of 76 (19.7%) patients on 1HD/wk would have been considered receiving inadequate total weekly clearances at T3, by applying the minimum value of EKR35 [23, 24].

Figure 4 shows the curves of survival (Kaplan-Meier analysis) of RKF, expressed as time to event referred to the first observation of UO <200 ml/day, in the three groups of patients. The median estimates (months) were: G1 40.3; G2 23.2; G3 26.5. The differences were statistically significant when comparing G1 with G2, and G1 with G3, but not when comparing G2 with G3.

Figure 2: It shows that 50 out of 76
Figure 2: It shows that 50 out of 76 (66%) patients on 1HD/wk would have been considered receiving inadequate total weekly clearances at T3, by applying the minimum value of stdKt/V [9].
Figure 3: It shows that only 15 out of 76 (19.7%)
Figure 3: It shows that only 15 out of 76 (19.7%) patients on 1HD/wk would have been considered receiving inadequate total weekly clearances at T3, by applying the minimum value of EKR35 [23].
Figure 4: It shows the curves of survival (Kaplan-Meier analysis)
Figure 4: It shows the curves of survival (Kaplan-Meier analysis) of RKF, expressed as time to event referred to the first observation of UO <200 ml/day, in the three groups of patients. The median estimates (months) were: G1 40.3; G2 23.2; G3 26.5. The differences were statistically significant when comparing G1 with G2, and G1 with G3, but not when comparing G2 with G3.
  G1 (N=117) G2 (N=46) G3 (N=39) P
Months on 1HD/wk 11.9 ±14.8 0 0
Months on 2HD/wk 13.0 ±20.3 16.7 ±23.2 0 0.315*
Months on 3HD/wk 37.4 ±46.5 34.7 ±38.6 56.3 ±55.3 0.113**
Months of follow-up 62.6 ±48.8 51.4 ±40.8 56.3 ±55.3 0.327**
Table VI: Duration of dialysis treatments in the three groups of patients. Means ±SD; *Student’s t-test; **ONE WAY ANOVA.

The duration (means ±SD) of once-a-week, twice-a-week and thrice-a-week treatments performed in the 3 groups of patients is summarized in Table VI: patients of G1 received 1HD/wk for 11.9 ±14.8 months, and subsequently 2HD/wk for further 13.0 ±20.3 months; patients of G2 received 2HD/wk for 16.7 ±23.2 months.

Patients on incremental HD (G2+G2) were administered 25943 dialysis sessions, of which 6066 on 1HD/wk and 19877 on 2HD/wk. We estimated that a total of 47988 dialysis sessions would have been administered to them if they had been on a thrice-a-week schedule for exactly the same period of time, thus saving 22045 sessions, equal to 45.9%. Just taking into account the reimbursement cost of one session of standard bicarbonate dialysis (service code 39.95.4 of the Italian Health Service, rate = 165€), approximately 3.64 million € would have been saved.

Figure 5 shows the survival curve of the entire group of 202 patients estimated by means of the Kaplan-Meier analysis: the median estimate was 66 months with 95% confidence interval comprised between 54 and 84 months.

Figure 6 shows the survival curves of the three groups of patients estimated by means of the Kaplan-Meier analysis at 12, 36 and 60 months of dialysis treatments: the trend was better in patients of G1 than in patients of G2 and G3; however, the difference was not statistically significant.

It shows the survival curve of the entire group of 202 patients
Figure 5: It shows the survival curve of the entire group of 202 patients estimated by means of the Kaplan-Meier analysis: the median estimate was 66 months with 95% confidence interval comprised between 54 and 84 months.
It shows the survival curves of the three groups
Figure 6: It shows the survival curves of the three groups of patients estimated by means of the Kaplan-Meier analysis at 12, 36 and 60 months of dialysis treatments: the trend was better in patients of G1 than in patients of G2 and G3; however, the difference was not statistically significant.

 

Discussion

Our study suggests that incremental HD is a valuable option in incident patients, and is viable in most of them (80.7%) for about 1-2 years, with obvious socio-economic benefits. A key question arises: are these benefits achieved at the expense of hard outcomes, such as patient survival? The answer is given by Figure 5: the median survival of the entire group of 202 patients was 5.5 years corresponding to an annual mortality rate of 12.6%. This rate is probably lower, but almost certainly not higher than that estimated in the period 2011-2013 for the Italian dialysis population, which was equal to 16.2 per 100 patient-years [28]. Figure 6 provides interesting information on the three groups of patients: it clearly shows the superiority of starting with 1HD/wk (G1) compared to starting with 2HD/wk or 3HD/wk, even if the intersection between the curves of G2 and G3 makes the difference among the three groups not statistically significant. The first obvious explanation is that the patients enrolled into the three groups may differ as far as phenotype and/or co-existence of underlying comorbid conditions are concerned. It is evident that this is the Achille’s heel of any observational study design, in which an obvious selection bias (assignment of patients to different treatments) occurs. However, we think that the striking difference between G1+G2 and G3 in the late referral to our nephrology team, as shown in Table II (11.0% vs. 38.5%, P = 0.001), may be another important explanation. Therefore, we think that the synergistic interplay of the above factors, i.e., a different phenotype of the patients (for instance, as shown in Table II, there was a much larger percentage of women in G3 than in G1+G2: 61.5% vs. 35.6%, P = 0.003), co-existing underlying co-morbid conditions and a late referral, may constitute an ominous prognostic sign in G3.

In conclusion, our study seems to suggest that adequate educational, nutritional and pharmacological interventions in the pre-dialysis stage may allow a relatively good RKF and, therefore, the start of incremental dialysis in most of the incident patients. As far as the prescription of a low-protein diet is concerned, policy of our team is not to prescribe a very rigorous low-protein diet even when on once-a-week dialysis schedule, at variance with the advice given by some studies [2932]. Only 4 patients enrolled into the study were prescribed keto-analogues in their pre-dialysis diet, which were continued when on dialysis, but only for some months and not for all the days of the week. All the other patients were prescribed a mild protein restriction when on dialysis, as shown by the PCRn values reported in Table III: at T3 PCRn in G1 on average was about 1 g/kg/day, while that in G2 was 1.13, almost comparable to 1.15 g/kg/day observed in G3. Furthermore, Tables IV and V show that PCRn values remained relatively constant over time. In conclusion, this study suggests that, in the presence of sufficiently elevated RKF (for instance, KRU in the range of 3-5 ml/min/1.73 m2) a strict low-protein diet is useful but not essential, provided that the clinical status of the patient and his/her values of KRU, UO and PCRn are frequently monitored.  This allows to considerably enlarge the number of patients eligible to start dialysis with one session a week, which in our study approached 60% (117/202 = 0.579) of all patients. This group of patients had a baseline GFR of 6.2 ±2.1 ml/min/1.73 m2 and a baseline KRU of 4.5 ±1.6 ml/min/1.73 m2. Furthermore, taking into account the patients who started with a twice-a-week dialysis schedule, the percentage of patients starting dialysis not on a thrice-a-week schedule exceeded 80% (163/202 = 0.807).

The analysis of Tables III, IV and V shows other interesting data, such as the relative constancy both of the duration of the session and of the dialysis dose, expressed by spKt/V and eKt/V. Therefore, the reduction of KRU was substantially compensated in G1 and G2 by increasing the frequency of the treatment. Here, it must be underlined that the prescription of the dialysis dose has been prevalently empirical worldwide, in the absence of shared criteria of dialysis adequacy of the incremental treatment, which have only recently been proposed [9, 22, 24]. Here, we have to acknowledge that we did not prescribe well-defined targets of the weekly dialysis dose to be achieved by the patients, at least in the early years of the present study: thus, our prescription too was prevalently empirical, targeting urea clearance metrics of spKt/V ≥1.20, and increasing the frequency of treatment in the following situations: marked reduction in KRU (below 2-3 ml/min) and/or in UO (<500 ml/day); marked increase in inter-dialysis body weight, not controllable by increasing the dose of diuretics; need of ultrafiltration rate >13 ml/kg/h; symptoms or signs, such as nausea or malnutrition, that could not be controlled with medical therapy. More recently, we have suggested the criteria for the prescription of incremental dialysis on a quantitative basis associated with UKM [22, 24, 33, 34].

We have to acknowledge that our study has limitations, such as being a single-center retrospective observational study, but we have to underline its strengths, such as its long-term follow-up, and the availability of a large number of KRU and UO values measured in all patients with UO >200 ml/day. Despite increasing evidence derived from observational studies, such as ours, to support the use of incremental HD, randomized controlled trials (RCTs) are lacking and urgently needed. A multicenter feasibility RCT to assess the impact of incremental vs. conventional initiation of HD on RKF was recently conducted in the UK: serious adverse events were less frequent in the incremental arm; hospitalisation rate was higher in the control arm; in addition, median costs of the 12-month trial were higher in the standard care arm than in the incremental arm that benefited from reduced transport, session and adverse event costs [35].

At the present time no RCT testing incremental HD has yet been published. Of note, several ongoing RCTs are using thresholds of residual KRU to establish clinical effectiveness of less frequent HD in the form of once-a-week or twice-a-week HD vs. thrice-a-week HD [33, 34, 36, 37].

 

Conclusions

The optimal regimen for incident patients is not known. Incremental HD seems to be a valuable option, whereas it is plausible that the routine practice of fixed-dose 3HD/wk in incident patients with substantial RKF may be harmful, even contributing to an accelerated loss of RKF. Our long-term observational study suggests that incremental HD is a valuable option in incident patients and is possible in most cases (80.7%) for about 1-2 years, with obvious socio-economic benefits, and with survival rates comparable to that of the Italian dialysis population. If the potential benefits will be confirmed by RCTs, then incremental HD will become a new standard of care.

 

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Ultrasonografia vascolare nell’allestimento e nella sorveglianza della fistola artero-venosa: esperienza monocentrica

Abstract

L’incremento dell’età media dei pazienti che iniziano il trattamento emodialitico cronico e la maggiore prevalenza tra gli stessi di patologie ad elevato impatto sul sistema cardio-vascolare, determinano maggiori difficoltà nell’allestire una fistola artero-venosa (FAV).

La scelta dei vasi da utilizzare per il confezionamento dell’accesso vascolare per dialisi è avvenuta in passato essenzialmente attraverso l’esame obiettivo degli arti superiori. Le linee guida internazionali attualmente suggeriscono l’esecuzione di un ecocolordoppler (ECD) a completamento dell’esame fisico in tutti i pazienti candidati al confezionamento di una FAV. L’esame ultrasonografico vascolare costituisce altresì in fase post-operatoria un momento fondamentale per un’adeguata sorveglianza dell’accesso.

Nel nostro Centro abbiamo condotto un’analisi retrospettiva finalizzata ad analizzare, se e in quali termini, l’utilizzo dell’ECD nella pratica clinica abbia avuto delle ripercussioni sulla sopravvivenza degli accessi vascolari.

Sono stati a tal proposito individuati tre periodi storici, in relazione alla modalità di esecuzione della valutazione vascolare pre-intervento e della sorveglianza della FAV che ha visto, nelle tre fasi osservate, la progressiva integrazione dei parametri clinici con quelli ultrasonografici.

L’analisi dei dati ha evidenziato una migliore sopravvivenza statisticamente significativa per tutti gli accessi vascolari valutati cumulativamente e per le FAV distali nella terza fase rispetto alle precedenti, nonostante una percentuale di pazienti over 75 maggiore in quest’ultimo periodo (48% versus 28%).

In conclusione, riteniamo che l’approccio integrato, clinico ed ultrasonografico, sia indispensabile per identificare il sito più idoneo per il confezionamento di un accesso vascolare e per garantirne una buona funzionalità nel tempo.

Parole chiave: emodialisi, fistola arterovenosa, ecocolordoppler, monitoraggio, accesso vascolare

Introduzione

Un trattamento emodialitico adeguato necessita di un accesso vascolare ben funzionante nel tempo.

I pazienti affetti da insufficienza renale cronica (CKD) al IV° stadio (eGFR <30 ml/min), devono pertanto essere accuratamente studiati al fine di poter avviare il trattamento sostitutivo con un accesso vascolare idoneo [1].

I dati della letteratura e le linee guida internazionali in merito indicano la fistola artero-venosa (FAV), allestita con vasi nativi, quale accesso di prima scelta per un minore rischio d’infezione e trombosi, una migliore sopravvivenza, minori costi correlati alla necessità di ospedalizzazione se paragonati alla FAV protesica o al catetere venoso centrale tunnellizato (CVCt) [2].

Nei pazienti affetti da CKD il corretto utilizzo del patrimonio vascolare degli arti superiori costituisce un momento fondamentale ai fini del futuro confezionamento di una FAV. L’attuale incremento dell’età media dei pazienti a inizio trattamento emodialitico cronico e la maggiore prevalenza negli stessi di patologie ad elevato impatto sul sistema cardio-vascolare (diabete mellito, angiosclerosi, arteriopatia obliterante polidistrettuale), determinano maggiori difficoltà nell’allestire una FAV che garantisca buona efficienza dialitica e sufficiente durata nel tempo [3].

Tra le FAV native, il gold standard è rappresentato dalla FAV radio-cefalica distale con anastomosi a livello del polso: essa è associata ad un minor rischio sindrome di steal [4] e, al contrario di una FAV prossimale (omero-cefalica; omero-basilica), raramente sviluppa una elevata portata, causa non trascurabile di scompenso cardiaco nei pazienti uremici.

Basile et al. in uno studio prospettico hanno analizzato il rapporto tra Qa FAV ed output cardiaco e concludevano che una portata uguale o maggiore a 2000 ml/min rappresenta il giusto cut-off nel predire il rischio di scompenso cardiaco cronico ad alta gittata [5].

La FAV distale non è sempre proponibile e può andare incontro a scarsa maturazione e a conseguente fallimento, tuttavia la sua realizzazione, ove possibile, permette un più corretto utilizzo del patrimonio vascolare del singolo paziente e la possibilità per il medesimo di poter usufruire dell’eventuale confezionamento nel tempo di ulteriori accessi che richiedano l’utilizzo di vasi posti in sede più prossimale.

Altra tipologia di accesso vascolare che può essere considerato prima del confezionamento di una FAV prossimale è quella mid-arm, con l’utilizzo del tratto prossimale dell’arteria radiale. Essa è caratterizzata da una portata inferiore rispetto alla prima, ed in genere è ben tollerata anche nei pazienti anziani, diabetici o con vasculopatia periferica [6].

La scelta dei vasi da utilizzare per il confezionamento dell’accesso vascolare per dialisi è avvenuta in passato essenzialmente attraverso l’esame obiettivo degli arti superiori: un attento esame fisico ed anamnestico permette di raccogliere alcune importanti informazioni sul circolo venoso superficiale e sul circolo arterioso:

  • palpabilità delle vene superficiali, valutazione del loro calibro e decorso
  • palpabilità dei polsi arteriosi
  • presenza di cicatrici chirurgiche o aree di distrofia cutanea
  • presenza di pace-maker (PM)
  • pregressi traumi/fratture o interventi chirurgici a carico degli arti superiori o precedenti accessi vascolari
  • storia di pregressi posizionamenti di CVC
  • segni di pregressa reiterata venipuntura, segni di tromboflebite in atto o pregressa
  • presenza di comorbidità rilevanti (scompenso cardiaco, grave valvulopatia, cardiopatia ischemica, patologie della coagulazione).

Le linee guida internazionali attualmente suggeriscono l’esecuzione di un ecocolordoppler (ECD), a completamento dell’esame fisico, in tutti i pazienti candidati al confezionamento di una FAV. Esso consente, in fase preoperatoria, la scelta dei vasi più idonei all’intervento e, in fase post-operatoria, rappresenta un momento fondamentale per un’adeguata sorveglianza dell’accesso e la diagnosi precoce di eventuali cause di malfunzionamento suscettibili di correzione [7].

L’ECD fornisce, infatti, numerose e dettagliate informazioni sul circolo venoso superficiale e profondo e sul circolo arterioso dell’intero arto superiore, consente altresì valutazioni emodinamiche e morfologiche permettendo di identificare eventuali varianti anatomiche.

Lo studio vascolare pre-intervento effettuato di routine ha permesso di incrementare negli anni la percentuale di FAV confezionate con vasi nativi a scapito della FAV protesiche, nonché di migliorare la sopravvivenza nel tempo, attraverso una più adeguata sorveglianza e la identificazione precoce delle complicanze [89].

Il mapping artero-venoso pre intervento fa riferimento ai parametri di seguito riportati:

  1. Parametri arteriosi (Fig.1):
  • diametro dell’arteria radiale: un diametro minimo di 2 mm è stato correlato ad una elevata percentuale di pervietà primaria ad un anno (83%) [10]
  • spessore e qualità intima-media: l’incremento dello stesso correla con un peggior outcome della FAV [11]
  • flusso/compliance vascolare nel test dell’iperemia reattiva: un valore dell’indice di resistenza (IR) >0,7 in fase di iperemia reattiva è correlato ad un fallimento precoce dell’accesso vascolare [12]
  • presenza di calcificazioni vascolari
  • presenza di lesioni steno-ostruttive
Figura 1: Parametri arteriosi
Figura 1: Parametri arteriosi
  1. Parametri venosi (Fig.2):
  • pervietà del vaso e struttura di parete: lume anecogeno, comprimibilità del vaso, parete sottile
  • diametro e distensibilità della vena cefalica: 2 mm senza elastocompressione, 2,5 mm con elastocompressione [13]
  • profondità: <6 mm rispetto al piano cutaneo, al fine di consentire un’agevole venipuntura
  • decorso: deve essere sufficientemente rettilineo
  • presenza di circoli collaterali a meno di 5 cm dall’anastomosi [14].
Figura 2: Parametri venosi
Figura 2: Parametri venosi

Una FAV si definisce matura quando il diametro venoso permette la venipuntura con aghi di grosso calibro e la portata raggiunge i 600 ml/min, il diametro del vaso 6 mm, con un decorso del vaso a non più di 6 mm di profondità rispetto al piano cutaneo.

Appare auspicabile che i pazienti in emodialisi siano sottoposti ad una regolare sorveglianza dell’accesso vascolare, finalizzata alla diagnosi precoce delle cause di malfunzionamento dell’accesso. In particolare, l’identificazione di stenosi emodinamicamente significative (riduzione maggiore del 50% del lume vasale) e la valutazione del trend della portata dell’accesso, incrementano in modo significativo il tasso di pervietà riducendo di conseguenza l’incidenza di trombosi della FAV [15].

In merito alla sorveglianza degli accessi vascolari, i metodi di screening per la ricerca di stenosi significative sono stati suddivisi in quelli di I e II generazione [16]:

  1. Metodi di I generazione:
  • il monitoraggio fisico
  • vigilanza della pressione FAV (valutazione di pressione venosa dinamica, intra accesso e statica)
  • test del ricircolo
  • riduzione dell’efficienza dialitica (riduzione kt/v ed URR).
  1. Metodi di II generazione, permettono di calcolare la portata dell’accesso:
  • screening diluzionale
  • ECD.

La misurazione della portata a livello dell’arteria brachiale al di sopra del gomito tramite ECD rappresenta il miglior modo per sorvegliare una FAV; una portata <500 ml/min o una sua riduzione progressiva nel tempo sono altamente predittive di stenosi [1].

La trombosi, di fatto, rappresenta quasi sempre una causa di fallimento tardivo, con innumerevoli conseguenze cliniche negative, che determinano un incremento della frequenza di ospedalizzazione e della spesa sanitaria, nonché della morbidità e mortalità dei pazienti in emodialisi cronica [17].

 

Materiali e metodi

Nel nostro Centro abbiamo condotto un’analisi retrospettiva finalizzata ad analizzare se ed in quali termini l’utilizzo dell’ECD nella pratica clinica in ambito nefrologico abbia avuto delle ripercussioni sulla sopravvivenza degli accessi vascolari.

Sono stati a tal proposito individuati tre periodi storici (Tab. I), in relazione alla modalità di esecuzione nel Centro di:

  • valutazione vascolare pre-intervento
  • sorveglianza della FAV.
Pre-intervento Sorveglianza
2000-2004:
  • esame fisico
  • eventuale flebografia
  • monitoraggio clinico
  • test del ricircolo, scadimento efficienza dialitica
  • ECD (se presente indicazione clinica, ma non in ambito nefrologico)
2005-2009:
  • esame fisico
  • avvio mapping vascolare in ambito nefrologico
  • monitoraggio clinico
  • test del ricircolo, scadimento efficienza dialitica
  • inizio uso ECD per ricerca stenosi e misurazione portata:
    • ogni 90 giorni per le FAV protesiche
    • su indicazione clinica per le FAV native
    • ad un mese da procedure interventistiche e successivamente ogni 6 mesi
2010-2015:
  • esame fisico
  • mapping vascolare di routine in ambito nefrologico
  •  monitoraggio clinico
  • test del ricircolo, scadimento efficienza dialitica
  • ECD per ricerca stenosi e misurazione portata:
    • ogni 90 giorni per le FAV protesiche
    • su indicazione clinica per le FAV native
    • ad un mese da procedure interventistiche e successivamente ogni 6 mesi
Tabella I: Tre fasi storiche in relazione alla modalità di esecuzione di valutazione vascolare pre-intervento e di sorveglianza della FAV

Sono stati altresì definiti i parametri cui fare riferimento tanto per la fase di studio pre-operatoria, quanto per quella di sorveglianza (Tab. II).

Riferimenti nella fase di pre-intervento: Riferimenti nella fase di sorveglianza:
Esame fisico:

Presenza e consistenza dei polsi arteriosi (brachiale, radiale, ulnare)

Valutazione del reticolo venoso superficiale con elastocompressione: palpabilità, e decorso dei vasi

Monitoraggio clinico:

Presenza e trasmissione del thrill, prolungato sanguinamento a fine dialisi, difficoltà al posizionamento degli aghi

Flebografia:

Valutazione pervietà e calibro dei vasi venosi scarsamente palpabili

Parametri dialitici:

Test ricircolo urea >10%, scadimento trend della efficienza dialitica (riduzione dello 0.2 Kt/v)

Mapping Vascolare:

–        Arteria: calibro della a. radiale uguale o maggiore di 2 mm, profilo velocimetrico trifasico, test iperemia reattiva IR uguale e inferiore a 0.7

–        Vena: pervietà del vaso ed integrità di parete, calibro maggiore o uguale a 2.5 mm con elastocompressione (avambraccio), calibro uguale o maggiore di 4 mm per protesi

Parametri ultrasonografici:

Portata inferiore a 500 ml/min, trend con riduzione maggiore del 25%

Riscontro di aree di stenosi superiori al 50% (PSV > 400 cm/s o PSV ratio >2)

Tabella II: Parametri di riferimento

Tecnica chirurgica

Le FAV con vasi nativi sono state tutte confezionate in anestesia locale (ropivacaina 7.5%) con anastomosi latero-terminale per le FAV distali e prossimali, e latero-laterale o latero-terminale per le FAV mid-arm, con lunghezza del tratto anastomotico 5-7 mm.

Le FAV protesiche tutte in politetrafluoroetilene (PTFE), coniche 4-7 mm (gore-tex STRETCH), sono state confezionate in anestesia plessica (levobupivacaina 2%, ropivacaina 5%) con conformazione a loop fra arteria omerale e vena basilica, o conformazione retta fra arteria omerale e vena omerale o ascellare.

Dopo il primo anno di collaborazione con il chirurgo, tutti gli accessi sono stati eseguiti da equipe nefrologica.

Tecnica ultrasonografica

Al fine di decidere l’arto da utilizzare ed il tipo di accesso da confezionare, il nefrologo ha eseguito ECD usando sonda lineare L4-15 mHz eseguendo scansioni longitudinali e trasversali dei vasi esaminati con utilizzo del doppler pulsato per le valutazioni velocimetriche, facendo riferimento ai parametri specificati nella Tab. II.

Il numero dei pazienti prevalenti, compresi i pazienti incidenti, nei tre periodi considerati è stato di 130 ±6 pazienti, con una percentuale di CVCt che è gradualmente aumentata: 13% nel primo periodo, 18% nel a secondo periodo 22% nel a terzo periodo.

Al fine di prevenire il fallimento precoce dell’accesso, tutti i pazienti sottoposti ad intervento di confezionamento di FAV hanno avviato terapia antiaggregante (acido acetilsalicilico 100 mg) salvo quelli che eseguivano terapia con anticoagulante orali per altre motivazioni cliniche [18].

Metodo statistico

Per l’analisi statistica sono state utilizzate le curve di sopravvivenza secondo Kaplan-Meier al fine di valutare le differenze nei tre periodi osservati. Il livello di significatività definito come p <0.05.

 

Risultati

La sopravvivenza cumulativa degli accessi vascolari nei tre periodi osservati è apparsa migliore nel terzo periodo di osservazione in modo statisticamente significativo (P <0.05) rispetto ai precedenti (Fig. 3).

Figura 3: FAV totali
Figura 3: FAV totali

È stata successivamente condotta una analisi statistica specifica mirata alla valutazione della sopravvivenza di ciascuna tipologia di accesso realizzato nei tre periodi. L’analisi dei dati ha evidenziato per la FAV distale una migliore sopravvivenza, statisticamente significativa (p< 0.05), nella 3° coorte rispetto alle prime due (Fig. 4).

Figura 4: FAV distale
Figura 4: FAV distale

Per la FAV mid-arm, confezionata in due dei tre periodi osservati, si è evidenziata una migliore sopravvivenza nel terzo rispetto al secondo periodo, ma senza significatività statistica (Fig. 5).

Figura 5: FAV mid-arm
Figura 5: FAV mid-arm

Per la FAV prossimale si è osservato un trend di miglior sopravvivenza nella 3° coorte rispetto alle prime due, ma anche in questo caso senza significatività statistica (Fig.6).

Figura 6: FAV prossimale
Figura 6: FAV prossimale

Per la FAV protesica sono state osservate minime differenze nei tre periodi osservati prive di rilevanza statisticamente significativa (Fig.7).

Figura 7: FAV protesica
Figura 7: FAV protesica

È stata inoltre effettuata una analisi per valutare le caratteristiche anagrafiche della popolazione inclusa nei tre periodi osservati. A dispetto della migliore sopravvivenza degli accessi nella terza coorte dei pazienti, essa ha evidenziato un progressivo incremento percentuale delle FAV confezionate nei soggetti over 75 dal primo periodo (28,3%) al terzo periodo (47,9%) (Fig. 8).

Figura 8: Numero di pazienti e numero di accessi in pazienti over 75
Figura 8: Numero di pazienti e numero di accessi in pazienti over 75

A completare l’analisi dei dati, è stata effettuata una valutazione sull’incidenza dei fallimenti precoci, considerata a 30 giorni dal confezionamento dell’accesso, che ha evidenziato un tasso di incidenza con trend in riduzione, dal 12,8% del primo periodo al 5,5% e 6,7% rispettivamente del secondo e terzo periodo.

 

Discussione

Pur con i limiti dello studio retrospettivo, l’analisi dei risultati evidenzia un miglioramento degli outcomes clinici in termini di pervietà globale dopo l’introduzione in ambito nefrologico della tecnica ultrasonografica in fase di progettazione e sorveglianza dell’accesso vascolare, e la sua integrazione con il monitoraggio clinico, dato peraltro ampiamente confermato in letteratura [19-20].

Nei tre periodi considerati la percentuale di pazienti diabetici (25-30%) ed obesi (8-10%) era sovrapponibile, pertanto i risultati non appaiono influenzati in modo significativo da tali variabili.

È al contrario evidente che il supporto ultrasonografico risulta fondamentale al fine incrementare il numero di FAV confezionate nel paziente anziano, essendo il dato percentuale delle FAV realizzate nel paziente over 75 incrementato dal 28% del primo periodo, al 48% del terzo periodo. Aspetto quest’ultimo non trascurabile se si considera che l’utilizzo del CVCt quale accesso definitivo per emodialisi è correlato ad un maggiore morbilità e mortalità del paziente uremico [17].

Di fatto, la sola età anagrafica non può costituire un limite al confezionamento di una FAV nel paziente anziano da avviare alla terapia dialitica [21].

L’analisi eseguita in relazione alla singola tipologia di FAV ha posto in evidenza un risultato chiaramente significativo in termini di sopravvivenza a favore delle fistole confezionate con vasi nativi. Nella fattispecie, il dato è apparso statisticamente significativo per le fistole radio-cefaliche, ma ha mostrato un trend in miglioramento anche per le fistole mid-arm e prossimali.

È altrettanto vero che nei tre periodi considerati, si è registrata una riduzione percentuale delle FAV radio-cefaliche rispetto al totale delle FAV realizzate, dal 57% della prima coorte, al 44% della seconda fino al 37% della terza. Tale aspetto è tuttavia essenzialmente da riferire alla realizzazione nel secondo e nel terzo periodo delle FAV mid-arm, tipologia di accesso in precedenza non confezionato, che ha determinato una riduzione percentuale anche della FAV prossimali. Il dato è sostanzialmente da riferire al metodico studio preoperatorio ed alla scelta del sito reputato più idoneo per il confezionamento dell’accesso che, in una popolazione con elevata percentuale di anziani, ha favorito l’utilizzo di vasi in sede più prossimale rispetto al polso ma ha anche permesso di utilizzare in modo adeguato ed efficace il tratto intermedio del braccio, prima di optare per il confezionamento di una FAV prossimale [22].

Non vi è stata alcuna variazione significativa, nei tre periodi considerati, della sopravvivenza delle FAV di tipo protesico, la cui percentuale nei tre intervalli ha registrato leggero progressivo incremento come numero assoluto. Tuttavia per tale tipologia di accesso è possibile evidenziare un miglioramento della sopravvivenza nella seconda e terza coorte rispetto alla prima a 12 e 24 mesi, ma peggiore a 36 mesi.

Il dato non appare di semplice interpretazione, pur con i limiti dovuti alla modesta numerosità del campione esaminato, un adeguato mapping vascolare preoperatorio è sembrato importante al fine di ridurre il tasso di insuccessi precoci, come per altro dimostrato in letteratura [16]. La sopravvivenza peggiorativa a distanza sembra invece ridimensionare il valore del controllo strumentale della FAV protesica, nei confronti della quale, nel nostro pool di pazienti, è stato effettuato un metodico controllo ECD con cadenza trimestrale, avvalorando in modo indiretto il concetto del ruolo di primo piano del monitoraggio clinico nell’ambito della sorveglianza dell’accesso vascolare per emodialisi [23].

Il numero di procedure interventistiche è progressivamente aumentato: dalle 31 eseguite nel primo periodo alle 36 nel secondo periodo fino a raggiungere le 52 nel terzo periodo. L’incremento di tali procedure, che tuttavia è apparsa contenuta in termini assoluti, conduce a nostro parere a due riflessioni: da una parte l’innegabile ruolo dell’ECD nell’identificazione precoce di lesioni stenotiche correggibili per via endovascolare, dall’altra, la necessità di ottimizzare il programma di sorveglianza strumentale, senza tuttavia eccedere nell’indicazione allo studio angiografico.

Appare evidente che un’azione integrata, clinica ed ultrasonografica, sia indispensabile al fine di perseguire due fondamentali obiettivi: identificare il sito più idoneo per il confezionamento di un accesso vascolare e garantire una corretta sorveglianza finalizzata al mantenimento di una buona funzionalità della fistola nel tempo [924].

Alla luce di tali considerazioni e dell’esperienza da noi condotta, crediamo che un approccio multidisciplinare alla complessa problematica dell’accesso vascolare per emodialisi sia di fondamentale importanza: in tal senso in ambito nefrologico appare indispensabile la realizzazione di un settore specifico finalizzato alla valutazione ultrasonografica preoperatoria del paziente da indirizzare ad un programma di emodialisi, nonché alla sorveglianza dei pazienti medesimi nel tempo [25].

Il nefrologo dovrebbe costituire il riferimento clinico del team multidisciplinare, che vede coinvolti anche chirurghi vascolari, angioradiologi ed infermieri di dialisi ed in tal senso interagire con le figure menzionate e con esse decidere in merito alla creazione dell’accesso vascolare, alla gestione del medesimo ed alla risoluzione di eventuali problemi connessi al suo utilizzo.

Tale team multidisciplinare dovrebbe avere il compito fondamentate di definire il life-plan individuale del paziente con uremia terminale, nello specifico definire la sede e il timing di confezionamento dell’accesso vascolare nonché garantire l’adeguata sorveglianza nel tempo. Ogni scelta andrebbe effettuata in maniera prospettica tenendo presente che il paziente uremico nell’arco della sua storia dialitica potrebbe avere la necessità di confezionare più accessi [26].

Risulta a nostro parere importante acquisire e mantenere in ambito nefrologico le risorse umane e le competenze adeguate per poter garantire con continuità la realizzazione della FAV in tempi corretti e nel sito più idoneo, realizzando di fatto un primo livello clinico assistenziale sul tema specifico. Appare altresì fondamentale che tale attività sia coordinata con un secondo livello clinico assistenziale che vede attive le altre figure professionali coinvolte.

Chirurghi vascolari ed angioradiologi appaiono indispensabili per la risoluzione delle complicanze connesse all’utilizzo degli accessi vascolari nonché per la realizzazione di accessi complessi, ma estremamente importante è mantenere una costante attività di sorveglianza e collaborazione con infermieri della sala di dialisi che spesso costituisce la prima sede in cui è possibile verificare l’adeguato funzionamento dell’accesso vascolare o la eventuale presenza degli iniziali segni di malfunzionamento.

 

Conclusioni

In conclusione, crediamo di poter affermare che programmi formativi volti a consolidare le competenze di carattere ultrasonografico vascolare in ambito nefrologico possano essere rilevanti al fine di migliorare gli outcomes clinici della fistola artero-venosa per emodialisi.

Riteniamo anche che l’ausilio dell’ECD non possa in nessuna fase di cura sostituire l’importanza dell’esame fisico e della sorveglianza clinica che rimangono fondamentali per garantire una migliore sopravvivenza e qualità di vita dei pazienti uremici.

È auspicabile altresì che ogni unità operativa di Nefrologia e Dialisi effettui un monitoraggio continuativo dei propri dati e che valuti nel tempo la sopravvivenza delle FAV e l’incidenza di complicanze ad esse correlate, al fine di poter al meglio modulare la strategia operativa, sempre nel rispetto delle linee guida di riferimento in merito.

  

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Le competenze specialistiche dell’infermiere in emodialisi: report di una indagine esplorativa. Una sfida per il riconoscimento professionale

Abstract

Le competenze infermieristiche esprimono una complessa integrazione di conoscenze che includono giudizio clinico professionale, valori e attitudini. L’European Federation of Nurses Association (EFN) ha confrontato la direttiva 2013/55/EU con il Competency Framework, un importante documento sulle linee guida scritto da un gruppo di esperti sul riconoscimento dei requisiti di istruzione degli infermieri, con l’obiettivo di delineare il percorso futuro dell’infermiere specialista.

Il proposito di questa ricerca è identificare le abilità specialistiche richieste agli infermieri in emodialisi attraverso lo sviluppo di un nuovo modello di competenze che confronta l’indagine esplorativa con linee guida EFN e la direttiva 2013/55/EU. Sono stati reclutati 18 centri dialisi toscani e, attraverso focus group, dibattiti e riflessioni, sono state individuate 28 competenze di esclusiva pertinenza dell’infermiere in emodialisi.

Questo studio preliminare vuole dimostrare la necessità di definire delle competenze specialistiche in emodialisi per assicurare una leadership infermieristica efficace ed integrata nella gestione della malattia.

 

 

Parole chiave: emodialisi, competenze, specializzazione, infermiere

Introduzione

L’assistenza infermieristica è caratterizzata da una complessa acquisizione di conoscenze, abilità e valori che portano alle migliori pratiche infermieristiche e al più alto livello possibile di prestazioni lavorative [4] per acquisire queste competenze, gli infermieri devono possedere l’esperienza e i tratti personali necessari per svolgere efficacemente i loro compiti.

Takase and Teoreka [13] hanno definito ‘competenza infermieristica’ la capacità degli infermieri di dimostrare efficacemente una serie di attributi personali, attitudini professionali, valori etici, conoscenze e abilità e di adempiere alla propria responsabilità professionale attraverso la pratica. Un infermiere competente non solo deve possedere queste caratteristiche, ma deve anche avere la motivazione e la capacità di utilizzarle in modo adeguato a garantire un’assistenza infermieristica efficace. Fornire un’assistenza basata su competenze professionali significa includere la collaborazione con altri operatori sanitari, sviluppare relazioni interpersonali, educare e istruire.

 

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La riorganizzazione dell’emodialisi durante l’emergenza COVID-19: report dai Centri Dialisi della provincia di Parma

Abstract

L’ondata epidemica che ha travolto l’Italia a partire dal 21 febbraio 2020, giorno in cui l’Istituto Superiore di Sanità ha confermato il primo caso di positività per COVID-19, ha costretto i Centri Dialisi ad una rapida ed efficace riprogrammazione, sia organizzativa che strutturale, delle attività, per contenere la diffusione del virus.

In questo articolo viene riassunta l’esperienza del Centro Dialisi Cronici della UO Nefrologia dell’Azienda Ospedaliera-Universitaria di Parma e dei CAL periferici dell’Azienda Sanitaria della provincia di Parma, nel periodo che va dal 1° marzo al 15 giugno 2020.

Il numero dei pazienti dializzati positivi al SARS‑CoV‑2 è stato di 37 su 283 (13%), 9 dei quali (24,3%) sono deceduti per cause direttamente ascrivibili al virus. In 23 pazienti si è reso necessario il ricovero, mentre i restanti sono stati gestiti al domicilio.

Le misure fondamentali applicate per ridurre il contagio sono state: il potenziamento dell’utilizzo dei dispositivi di protezione personale, l’identificazione precoce di soggetti infetti attraverso lo screening a tappeto del personale e dei pazienti tramite l’esecuzione di tamponi oro-rinofaringei, l’istituzione di un protocollo di triage all’ingresso in Sala di Emodialisi ed, infine, la suddivisione della sala in sezioni fisicamente distinte, gestite da équipes dedicate, per separare i pazienti infetti dai soggetti sani e per consentire la gestione dei pazienti “grigi”.

Dalla nostra esperienza è emersa l’importanza delle misure sopra descritte per contenere l’epidemia ed è stata confermata una più elevata letalità per COVID-19 nei pazienti dializzati rispetto alla popolazione generale.

Parole chiave: Covid-19, emodialisi, Parma, Emilia-Romagna

Introduzione

L’11 marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato l’infezione da virus SARS‑CoV‑2 pandemica [1].

Il primo caso accertato in Italia si è registrato il 21 febbraio 2020 a Codogno (in provincia di Lodi), con un successivo rapido incremento di nuovi casi soprattutto in Lombardia ed in Veneto. L’Emilia-Romagna è stata una delle regioni maggiormente colpite e, al momento della stesura di questo articolo (15 giugno), si registrano 28221 casi totali, di cui 3628 a Parma [2].

I pazienti affetti da insufficienza renale cronica in trattamento emodialitico intermittente sono associati ad un elevato rischio di sviluppare l’infezione COVID-19 per l’età media più avanzata, la presenza di multiple comorbilità (diabete mellito, ipertensione arteriosa, malattie cardiovascolari e polmonari croniche, neoplasie etc.) e la minore efficienza del sistema immunitario. Inoltre, la necessità di frequenti accessi ai Centri di Dialisi, utilizzando sistemi di trasporto spesso condivisi con altri pazienti, così come la permanenza all’interno di ambienti chiusi ed affollati per tutta la durata del trattamento, possono incrementare ulteriormente il rischio di contagio [36].

I pochi dati disponibili dalla letteratura mettono inoltre in evidenza che nei pazienti dializzati la risposta infiammatoria risulta essere meno aggressiva, con lo sviluppo di un quadro clinico meno severo, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia, determinando a volte ritardo diagnostico ed un aumentato rischio di propagazione dell’infezione nei Centri dialitici [3,4,7].

Alla luce di tali considerazioni è stato indispensabile mettere a punto delle adeguate strategie volte alla prevenzione e alla riduzione della trasmissione del virus [7,8].

Questo articolo intende riassumere l’esperienza del Centro Dialisi Cronici dell’Azienda Ospedaliera-Universitaria (AOU) di Parma (86 pazienti dializzati in un unico Centro all’interno dell’Ospedale Maggiore di Parma) e dei Centri Dialisi ad Assistenza Limitata (CAL) periferici dello stesso ambito provinciale (complessivamente 197 pazienti dializzati in 9 CAL), durante l’ondata epidemica che ha interessato la provincia di Parma a partire dagli inizi di marzo.

 

Pazienti

Sono stati raccolti i dati di tutti i pazienti emodializzati nel periodo dal 1° marzo al 15 giugno 2020, presso i Centri Dialisi di Parma e provincia. In totale sono stati inclusi nello studio 283 pazienti, 86 seguiti presso il Centro Dialisi Cronici della UO Nefrologia della AOU di Parma e 197 presso i Centri della provincia (Tabella I). I dati raccolti riguardano le caratteristiche epidemiologiche dei pazienti dializzati infetti dell’AOU di Parma e dei CAL periferici ed inoltre i dati clinici, laboratoristici e di outcome dei pazienti emodializzati COVID positivi gestiti in ambito ambulatoriale (sia nell’AOU Parma che nei CAL periferici) e quelli invece ricoverati nei Reparti COVID (prevalentemente dell’AOU Parma).

La diagnosi di COVID-19 è stata fatta esclusivamente sulla base della positività della PCR al SARS‑CoV‑2, eseguita su tampone oro-rinofaringeo.

 

Pazienti emodializzati totali Pazienti emodializzati COVID + (% sul totale)
Totale 283 37 (13,1)
AOU Parma 86 12 (14)
CAL periferici: 197 25 (12,7)
Via Pintor 65 7 (10,8)
Sala Baganza 14 1 (7,1)
Langhirano 7 3 (42, 9)
Colorno 16 0
Fidenza 37 3 (8,1)
San Secondo 14 1 (7,1)
Borgotaro 16 5 (31,3)
Fornovo 17 3 (17,6)
Traversetolo 11 2 (18,2)
Tabella I: Pazienti emodializzati suddivisi per Centro Dialisi e rispettivi casi positivi

Provvedimenti e protocolli di prevenzione

A. CENTRO DIALISI DELL’AZIENDA OSPEDALIERA-UNIVERSITARIA DI PARMA

Fin dai primi giorni di marzo, in considerazione dell’incremento dei casi di positività per il virus SARS‑CoV‑2 in Emilia-Romagna, sono state potenziate le procedure di prevenzione della diffusione del virus attraverso l’utilizzo costante di dispositivi di protezione individuale, sia per il personale sanitario che per i pazienti. Nello specifico, tutti gli operatori (medici, infermieri ed operatori socio‑sanitari) hanno indossato la mascherina chirurgica, occhiali protettivi e/o visiere, copricamici e guanti, assicurando un’adeguata igiene delle mani attraverso un assiduo utilizzo di soluzioni idro‑alcoliche. I pazienti, allo stesso modo, hanno indossato la mascherina chirurgica prima dell’ingresso in sala e per tutta la durata della seduta emodialitica.

Inizialmente è stato predisposto l’utilizzo della Sezione Contumaciale, comprendente tre postazioni dialitiche per turno, per i pazienti COVID positivi, spostando ad altro centro i pazienti HbsAg positivi.

Dopo il riscontro di un primo caso di positività tra i membri del personale (04/03/2020), è stato avviato un programma di screening attraverso l’esecuzione di tamponi a tappeto, sia per il personale sanitario che per i pazienti. Questi ultimi sono stati suddivisi in scaglioni, dando la priorità a coloro che avevano sintomi suggestivi (febbricola, tosse, diarrea) e ai soggetti più fragili quali immunodepressi, ex-trapiantati e pazienti oncologici.

Inoltre, i pazienti sono stati adeguatamente istruiti circa le più frequenti manifestazioni cliniche dell’infezione e sono stati invitati ad avvisare tempestivamente in caso di insorgenza di febbre e/o sintomi sospetti, in maniera tale da riorganizzare la seduta dialitica in condizioni di sicurezza.

Da una prima indagine eseguita nel periodo dal 13/03 al 24/03/2020 è emerso che 1/86 (1,2%) pazienti e 2/22 (9,1%) infermieri erano risultati positivi al tampone, tutti asintomatici. Data l’assenza di sintomi, sia il paziente che gli infermieri sono stati posti in isolamento domiciliare e non hanno assunto alcuna terapia. Il paziente ha eseguito le successive sedute dialitiche in isolamento nella Sezione Contumaciale.

È stato inoltre attivato in parallelo un protocollo di triage per la valutazione del paziente prima dell’ingresso nella Sala di Emodialisi (Figura 1). Al momento dell’arrivo, ogni paziente è stato valutato attraverso la misurazione della temperatura corporea, la presenza o meno di sintomi sospetti e/o di contatto con persone positive.

 

Figura 1: Triage per la valutazione del paziente prima dell’ingresso nella Sala di Emodialisi

Tutti i pazienti apiretici, asintomatici e senza contatti a rischio hanno eseguito regolare seduta emodialitica nella Sezione non-COVID. I pazienti con TC >37,5°C al termometro timpanico (confermata da rilevazione con termometro ascellare), presenza di sintomi suggestivi (tosse, dispnea, diarrea, artromialgie) e/o contatto a rischio hanno eseguito la seduta emodialitica in una sezione isolata con infermiere dedicato. A questi ultimi sono stati ripetuti i tamponi oro-rinofaringei ed esami ematochimici specifici (emocromo con formula leucocitaria, PCR, AST, ALT, CPK e LDH).
È da considerare che i pazienti positivi ma asintomatici o con sintomi lievi sono stati mantenuti in isolamento domiciliare, non hanno intrapreso alcuna terapia ed hanno eseguito le sedute dialitiche in regime ambulatoriale, grazie alla presenza di mezzi di trasporti dedicati; al contrario, i pazienti con sintomatologia più grave e peggioramento degli scambi respiratori sono stati ricoverati nei reparti COVID, dopo aver eseguito TC torace, e sottoposti al regime terapeutico indicato dai protocolli regionali.

Tutti i pazienti positivi hanno eseguito le sedute emodialitiche nella Sezione COVID fino alla guarigione, intesa come negatività a due tamponi consecutivi eseguiti a 24 ore di distanza, di cui il primo eseguito ad almeno 15 giorni dalla scomparsa dei sintomi o dalla prima positività (se asintomatici).

Dalla seconda metà di marzo in poi, tuttavia, si è assistito ad un importante aumento dei ricoveri di pazienti dializzati affetti da COVID-19. È stato quindi necessario modificare la programmazione delle sedute dialitiche e riorganizzare la struttura stessa della Sala di Emodialisi, per consentire l’aumento del numero di postazioni per i pazienti infetti. Il 26 marzo è stato realizzato così un muro separatore, che ha consentito di dividere tutta la sala in due sezioni distinte: la Sezione COVID, con un totale di 10 postazioni dialitiche, e la Sezione non-COVID con 13 postazioni (Figura 2). In questo modo si è riusciti ad assicurare ad entrambi i gruppi di pazienti (infetti e sani) un adeguato trattamento, con la possibilità anche di eseguire turni contemporanei, grazie alla presenza di due ingressi del tutto autonomi (nel caso della Sezione COVID ingresso ed uscita direttamente all’esterno) e di due differenti équipes (medici, infermieri ed OSS).

 

Figura 2: A sinistra, Sala di Emodialisi prima dell’emergenza COVID-19; a destra, Sala di Emodialisi dal 26/03/2020 al 10/05/2020

In questo periodo i pazienti dializzati COVID-19 positivi che presentavano emodinamica instabile con necessità di monitoraggio continuo dei parametri vitali, oltre a necessità di ventilazione non invasiva (NIV), sono stati trattati presso la Sezione Acuti dell’UO di Nefrologia dell’AOU di Parma, trasformata in Reparto COVID nel periodo compreso tra la fine di marzo e la fine di aprile. Nel mese di maggio, in considerazione della progressiva riduzione dei casi di COVID-19 tra i pazienti dializzati (con il conseguente aumento di pazienti non infetti) ed in seguito alla chiusura della Sezione Acuti COVID, la struttura della Sala di Emodialisi Cronici è stata nuovamente riorganizzata.

Come si evince dalla Figura 3, la Sala COVID istituita il 26/03 è stata ulteriormente suddivisa in tre sezioni comunicanti tra loro, ma con la possibilità di essere isolate a seconda delle necessità.

Figura 3: Suddivisione attuale della Sala di Emodialisi (dal 10/05/2020)

Attualmente, la sezione comunicante con l’esterno della Struttura ospedaliera (con ingresso ed uscita autonomi) è riservata ai pazienti COVID positivi; delle quattro postazioni dialitiche, tre sono riservate ai pazienti infetti cronici ed una a disposizione per la dialisi di pazienti infetti acuti (postazione arancione), gestita dall’équipe della Sezione Acuti.

La prima sala, invece, che comunica con l’interno della Struttura ospedaliera (anche in questo caso con ingresso ed uscita separati), presenta due postazioni dialitiche riservate ai pazienti considerati “grigi”, cioè pazienti dei quali non si conosce lo stato relativo all’infezione da virus SARS‑CoV‑2 (ad esempio pazienti dializzati che si recano in Pronto Soccorso, per i quali non è ancora disponibile l’esito del tampone rino-orofaringeo, ma necessitano di fare dialisi in urgenza). Questi pazienti vengono trattati come potenzialmente infetti ma, data l’incertezza della loro positività, non possono essere dializzati nella sezione COVID. In questa sezione, una postazione è riservata a pazienti acuti ed una ai pazienti cronici.

Le quattro postazioni centrali, al momento, sono riservate a pazienti negativi, data la loro comunicazione con la Sala Dialisi Cronici principale, di cui sfrutta l’ingresso e l’uscita.

Questa riorganizzazione strutturale è stata progettata per la sua flessibilità, dal momento che in questo modo sarà possibile ampliare il numero di postazioni dialitiche dedicate ai pazienti COVID positivi, qualora in futuro dovesse ripresentarsi un nuovo incremento di casi.

B. CAL PERIFERICI DELLA PROVINCIA DI PARMA

Dopo il riscontro delle prime positività tra i dializzati nella provincia di Parma, anche nei CAL periferici è stato attuato un protocollo di prevenzione e sicurezza analogo a quello seguito all’Ospedale Maggiore, anche se in alcuni Centri con ritardo e maggiori difficoltà.

Dalla seconda metà di marzo tutti i pazienti dializzati della provincia sono stati sottoposti a triage prima dell’ingresso in sala ed a tampone oro-rinofaringeo di screening. I casi sospetti hanno eseguito la seduta emodialitica in isolamento; i casi confermati sono stati, in base al quadro clinico, all’età e alle comorbilità, o gestiti a domicilio assicurando le sedute emodialitiche presso la Sala Contumaciale del Centro di appartenenza (qualora questo ne fosse sprovvisto nel Centro più vicino), oppure ricoverati presso i Reparti COVID dell’Ospedale Maggiore (alcuni presso l’Ospedale Vaio di Fidenza), effettuando il trattamento dialitico presso la Sezione COVID dell’AOU Parma.

 

Risultati

Come si evince dalla Figura 4, il primo caso di positività tra pazienti dializzati è stato registrato il 07/03/2020 presso un CAL periferico (Traversetolo), mentre il primo caso dell’AOU è stato registrato il 14/03/2020. Il picco di casi positivi nei centri della provincia è stato osservato tra il 25/03 ed il 28/03/2020 (12 casi su 25), mentre nell’Ospedale Maggiore tra il 17/03 ed il 25/03/2020 (6 casi su 12).

 

Figura 4: Andamento giornaliero dei nuovi casi dell’AOU Parma e dei CAL della provincia dal 01/03 al 15/06/2020

La Tabella II mostra le caratteristiche epidemiologiche dei pazienti positivi, mentre la Tabella III ne mostra le caratteristiche cliniche e laboratoristiche.

  1. AOU Parma: 12 pazienti su 86 totali (13,8%) sono risultati positivi al tampone, di cui 10M e 2F, di età media di 72,9 ± 12,7 anni (range 51-89 anni), tutti di razza caucasica. Di questi soltanto 2 sono stati asintomatici (16,7%) e 2 sono stati paucisintomatici (16,7%), per cui sono stati mantenuti al domicilio. I restanti 8 pazienti sono stati ricoverati per lo sviluppo di polmonite interstiziale con alterazione degli scambi gassosi e/o peggioramento del quadro clinico generale. I pazienti deceduti sono 3/12 (25%) ed i guariti 9 (75%).
    Il 16,7% del personale sanitario (6/36) è risultato essere COVID positivo, in particolare 2/5 medici (entrambi paucisintomatici) e 4/22 infermieri (di cui 2 asintomatici).
  2. CAL periferici della provincia: 25 pazienti su 197 (12,7%) sono risultati positivi al tampone, di cui 20M e 5F, di età media 70,9 ± 16 (range 33-97), di cui 2 di razza africana, 1 asiatica ed i restanti di razza caucasica. Di questi 7/25 erano asintomatici e 18 sintomatici; 15 hanno richiesto ricovero ospedaliero e 10 sono stati gestiti al domicilio. I pazienti deceduti sono stati 6 (24%) ed i guariti 19 (76%).

 

  Totale Parma AOU Parma CAL periferici
Pazienti COVID + 37/283 12/86 25/197
M (%) 30 (81,1) 10 (83,3) 20 (80)
F (%) 7 (18,9) 2 (16,7) 5 (20)
Età media (range) 71,57 (33-97) 72,92 (51-89) 70,92 (33-97)
Ricovero (%) 23 (62,1) 8 (66,7) 15 (60)
Domicilio (%) 14 (37,9) 4 (33,3) 10 (40)
Guariti (%) 28 (75,7) 9 (75) 19 (76)
Deceduti (%) 9 (24,3) 3 (25) 6 (24)
Tabella II: Caratteristiche epidemiologiche dei pazienti COVID-19 positivi

 

  Pz COVID + totali Pz COVID + ricoverati Pz COVID + a domicilio
Pazienti COVID + (%): 37 23 (62,2) 14 (37,8)
M (%) 30 (81,1) 20 (87) 10 (71,4)
F (%) 7 (18,9) 3 (13) 4 (28,6)
Età media (range) 71,57 (33-97) 71 (33-90) 72,4 (46-97)
 
Peso secco (range) 71,8 (39,5-106) 74,9 (39,5-106) 66,6 (46-97)
Età dialitica media (range) 36,4 (0-143) 31 (0-138) 45,3 (1-143)
Ritmo dialitico 3/sett (%) 20 (54) 10 (43,5) 10 (71,4)
Ritmo dialitico 2/sett (%) 11 (29,7) 7 (30,4) 4 (28,6)
Ritmo dialitico 1/sett (%) 6 (16,2) 6 (26,1) 0
 
Comorbilità (%):
Diabete 16 (43,2) 9 (39,1) 7 (50)
Patologie cardiovascolari 21 (56,8) 12 (52,2) 9 (64,3)
Neoplasie 11 (29,7) 7 (30,4) 4 (28,6)
Ipertensione arteriosa 24 (64,9) 14 (60,9) 10 (71,4)
Obesità 8 (21,6) 6 (26,1) 2 (25)
BPCO 6 (16,2) 3 (13) 3 (50)
>3 comorbilità 15 (40,5) 8 (34,8) 7 (50)
 
Clinica (%):
Febbre 22 (59,5) 19 (82,6) 3 (21,4)
Dispnea 16 (43,2) 15 (65,2) 1 (7,1)
Polmonite 15 (40,5) 15 (65,2) 0
Diarrea 5 (13,5) 4 (17,4) 1 (7,1)
Asintomatici 9 (24,3) 1 (4,3) 8 (57,1)
 
Esami di laboratorio (%) *: 32 21 11
Leucopenia (<3500/uL) 7 (21,9) 5 (23,8) 2 (18,2)
Leucocitosi (>9500/uL) 2 (6,2) 1 (4,8) 1 (9,1)
Linfocitopenia (<1000/uL) 26 (81,2) 16 (76,2) 10 (91)
PCR>10 mg/L 24 (71,9) 19 (90,4) 5 (45,5)
 
Outcome (%):
Guariti 28 (75,7) 15 (65,2) 13 (92,9)
Deceduti 9 (24,3) 8 (34,8) 1 (7,1)
*I dati di laboratorio riguardano 32 pazienti su 37, i restanti non hanno eseguito esami ematochimici.
Tabella III: Caratteristiche cliniche-laboratoristiche ed outcome dei pazienti affetti da COVID-19 a Parma e provincia

 

Pazienti gestiti a domicilio

Quattordici pazienti su 37 (37,8%) sono stati gestiti a domicilio, di cui 8 asintomatici e 6 paucisintomatici. L’età media era di 72,4 ± 15,1 (range 46-97), con età dialitica media di 66,6 mesi (range 1-143), la maggior parte era in ritmo trisettimanale.

Tra le comorbilità il 71,4% presentava in anamnesi ipertensione arteriosa ed il 64,3% patologie cardiovascolari. Agli esami ematochimici il 91% presentava linfocitopenia (linfociti <1000/uL) e solo il 45,5% aveva PCR >10 mg/L.

Per quanto riguarda il trattamento solo 2 pazienti su 14 sono stati sottoposti a terapia antibiotica e con idrossiclorochina; di questi soltanto uno ha assunto anche colchicina.

Un solo paziente è deceduto.

 

Pazienti ricoverati

Ventitré pazienti su 37 (62,2%) sono stati ricoverati nei Reparti COVID dell’Ospedale Maggiore dell’Azienda Ospedaliera-Universitaria di Parma e dell’Ospedale Vaio di Fidenza dall’ASL Parma.

L’età media era di 71 ± 15,1 (range 33-90), con età dialitica media di 31 mesi (range 0-138); la maggior parte era in ritmo trisettimanale.

Tra le comorbilità il 60,9% dei pazienti era affetto da ipertensione arteriosa ed il 52,2% da patologie cardiovascolari.

Da un punto di vista clinico solo un paziente era asintomatico ed è stato ricoverato per l’età avanzata e le comorbilità, mentre i restanti erano sintomatici, di solito con febbre (82,6%) e/o dispnea (65,2%); 15 pazienti su 23 (65,2%) presentavano alla TC un quadro compatibile con polmonite interstiziale (score visivo dal 10% al 60%).

Agli esami ematochimici, il 76,2% dei pazienti presentava linfocitopenia e il 90,4% PCR elevata.

Durante la degenza la maggior parte dei pazienti è stata sottoposta a terapia con antibiotici, antivirali (lopinavir/ritonavir o darunavir/cobicistat) ed idrossiclorochina. Otto pazienti sono stati arruolati in uno studio sperimentale sull’utilizzazione della colchicina.

Otto pazienti su 37 sono deceduti.

 

Mortalità e letalità

Durante il periodo che intercorre tra il 01/03 ed il 15/06/2020 sono stati registrati in tutta la provincia di Parma 9 decessi su 37 pazienti dializzati affetti da COVID-19, con letalità per COVID-19 pari al 24,3%.

Sono stati inoltre registrati 11 decessi non associati a COVID-19 (prevalentemente causati da patologie cerebro- e cardio-vascolari acute) sul totale di 283 pazienti dializzati (Tabella IV).

I decessi totali di Parma e provincia nel periodo suddetto sono, pertanto, 20 su 283, con una mortalità corrispondente al 7,1% della popolazione totale di soggetti dializzati, percentuale molto più elevata se confrontata con quella dello stesso periodo dell’anno precedente (8 decessi su 279 pazienti – ossia il 2,8% – tra il 01/03 e il 15/06/2019).

 

  Decessi associati a COVID-19 Decessi NON associati

a COVID-19

Totale (%) 9/283 (3,2) 11/283 (3,9)
 
AOU Parma 3/86 5/86
Via Pintor 0 2/65
Sala Baganza 0 1/14
Langhirano 0 1/7
Colorno 0 0
Fidenza 3/37 2/37
San Secondo 1/14 0
Borgotaro 1/16 0
Fornovo 0 0
Traversetolo 1/11 0
Tabella IV: Decessi associati a COVID-19 e decessi non associati a COVID-19 (dal 01/03 al 15/06)

 

Conclusioni

Il presente report descrive la riorganizzazione dei Centri di Emodialisi della provincia di Parma in seguito alla recente pandemia COVID-19.

Rispetto ai Centri Dialisi della Lombardia e della vicina Piacenza, i centri della nostra provincia hanno avuto il vantaggio di un ritardo di circa 10 giorni nel picco di incidenza di soggetti affetti da COVID-19, per cui è stata relativamente più agevole la preparazione nei confronti dell’ondata epidemica.

I protocolli di prevenzione attuati nei nostri Centri hanno permesso di individuare precocemente i soggetti infetti, spesso del tutto asintomatici, dal momento che le campagne di screening sono state rivolte a tutta la popolazione dei soggetti dializzati e tutti gli operatori sanitari, non soltanto quelli sintomatici o dopo contatto a rischio. La riorganizzazione delle sedute emodialitiche, ed in modo particolare la separazione fisica attuata precocemente, hanno consentito di assicurare il massimo isolamento dei pazienti infetti dai soggetti non positivi. Ciò ha probabilmente consentito di limitare un contagio su più vasta scala, in particolare nel Centro Dialisi dell’AOU Parma che ha rappresentato il centro di riferimento a livello provinciale, soprattutto per i casi più gravi, tutelando in questo modo sia i pazienti e le loro famiglie che gli operatori sanitari.

La percentuale di pazienti emodializzati contagiati nella provincia di Parma risulta essere complessivamente del 13%, in linea quindi con i dati cinesi del Renmin Hospital of Wuhan University (16%) e del Wuhan No. 1 Hospital (10,5%) e quelli italiani di Brescia (15%), Piacenza (16%) e Valle D’Aosta (17%) [913].

La letalità per COVID-19 nella nostra popolazione di pazienti emodializzati è stata del 24,3%, quindi inferiore ai dati iniziali pubblicati sia da alcuni Centri dialitici limitrofi (Piacenza 41%, Brescia 29%, Valle D’Aosta 28,6%) che da Centri Americani come quello della Columbia University Irving Medical Center (31%) [1114]. Al contrario, nei Centri dialitici cinesi di Wuhan sopra descritti è stata registrata una letalità inferiore (16,2% al Renmin Hospital of Wuhan University e 13,3% al Wuhan No. 1 Hospital), probabilmente associata anche ad un’età media più bassa (66 anni) [9,10].

È da considerare, infine, che i pazienti affetti da IRC in trattamento dialitico intermittente, pur sviluppando mediamente un quadro clinico meno severo, sono caratterizzati da un tasso di letalità nettamente superiore a quello della popolazione generale (in Italia del 13,9% – aggiornato al 16/06/2020 – con 33209 decessi su 238082 pazienti colpiti) a testimonianza della maggiore fragilità di questa categoria di pazienti [2].

Dalla nostra esperienza è emersa, in conclusione, l’importanza delle misure di contenimento attuate precocemente, oltre alla separazione fisica dei pazienti positivi e dei sospetti in sezioni dedicate gestite da équipes separate, in parallelo ad una politica di tamponi oro-rinofaringei fin da subito estesa sia a i pazienti che al personale sanitario.

 

 

Bibliografia

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Emergenza Coronavirus al picco in soggetti emodializzati: esperienza del Centro Dialisi di Crema

Abstract

La Lombardia è stata investita violentemente dal Covid-19 tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2020. Al 09.05.2020 si registravano in questa regione 81225 casi totali Covid-19+ (8051 / milione di abitanti), con 14924 decessi (1479 decessi / milione di abitanti). La provincia di Cremona ha presentato un numero di casi Covid-19+ e relativa mortalità ancora più alti della già alta media regionale.

I soggetti in trattamento emodialitico regolare presentano un elevato rischio di infezione da Covid-19 per le co-patologie presenti, mentre gli Operatori sanitari possono rappresentare un rischio per sé stessi e per i pazienti, a causa dell’ambiente di trattamento e del contatto stretto con questi ultimi.

Sono stati valutati, indipendentemente dalla sintomatologia, tutti i pazienti e gli operatori sanitari del Centro Dialisi di Crema (tampone oro-faringeo per ricerca RNA virale, anticorpi qualitativi anti-Covid-19, anticorpi quantitativi IgG, co-patologie), in un arco temporale di 60 giorni.

Gli emodializzati presentano un rischio di infezione 12.7 volte quello della popolazione locale e gli Operatori sanitari superano per Covid-positività gli stessi soggetti emodializzati (30.3 % vs 21.6%). La letalità nei pazienti con infezione da Covid-19 è alta (31% dei soggetti Covid-19+), mentre è nulla negli operatori sanitari. La risposta anticorpale (qualitativa e quantitativa) nei pazienti Covid-19+ è adeguata, se raffrontata con quella degli Operatori Covid-19+.

La fase di massima criticità è durata circa 45 giorni ed i provvedimenti presi hanno consentito di rendere l’area di dialisi Covid-free, mantenendola tale dopo 128 giorni.

Parole chiave: Covid-19, Emodialisi, LIAISON SARS-CoV2 S1/S2, JusCheck 2019-nCoVIgG/IgM

Introduzione

Nota degli autori: Questo contributo presenta dati che si riferiscono al maggio 2020 ma riteniamo che risulti tuttora interessante per i lettori del GIN per due ragioni. Da un lato, l’epidemia Covid-19 ha colpito la provincia di Cremona con grande violenza, facendo registrare numeri ben più alti rispetto alle già altissime medie regionali; dall’altro, la rilevazione della risposta anticorpale (qualitativa e quantitativa) nei pazienti e negli operatori sanitari della nostra Unità Operativa permette di integrare i dati clinici e di meglio definire la risposta immunologica. Tanto più se si considera l’attuale seconda ondata che sta attraversando l’Europa e le preoccupazioni legate all’arrivo della stagione invernale. Grazie agli sforzi compiuti e ai provvedimenti presi nelle settimane di massima criticità che descriviamo qui, siamo fieri di riportare che la nostra Unità Operativa rimane Covid-free dopo 128 giorni.

Pandemia Covid-19 in Italia, Lombardia e ASST-Crema

È necessario premettere alcuni dati e considerazioni per un quadro d’insieme del problema Covid-19 nel bacino d’utenza dell’Ospedale di Crema (ASST-Crema), in provincia di Cremona.

Il Paese più colpito in Europa, con caratteristiche socio-economiche raffrontabili all’Italia, è la Spagna, di cui vengono riportati in Fig. 1 e 2 i casi ed i decessi per Covid-19, secondo i dati al 09.05.2020 (superando così l’Italia che deteneva precedentemente il primato) [12].

La Lombardia è la regione italiana a più alto sviluppo industriale e quella con il più alto numero di abitanti (10088484), con una densità di 422 abitanti/Km2. Essa è stata investita violentemente dal Covid-19 tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2020.

Al 09.05.2020 si registravano in questa regione 81225 casi totali Covid-19+ (8051 / milione di abitanti = 8.05 / 1000 abitanti), con 14924 decessi (18.3% di tutti i casi registrati, con 1479 decessi / milione di abitanti = 1.479 / 1000 abitanti) [3].

Alla stessa data, i soggetti contagiati nella Provincia di Cremona, alla quale ASST-Crema appartiene, sono 6242, su una popolazione provinciale di 360444 abitanti (= 17.3 casi/1000 abitanti), con 1044 decessi (= 289 decessi / 1000 abitanti; 16% di tutti i casi registrati) [3].

Il confronto con i dati della Regione Lombardia indica che questo territorio è stato investito dall’epidemia con una frequenza 2.14 volte più alta, registrando con una mortalità 1.95 volte più alta rispetto alle medie regionali (Fig. 1 e 2).

 

Figura 1: Casi Covid-19 per milione di abitanti

 

Figura 2: Mortalità Covid-19 per milione di abitanti

 

L’Ospedale di Crema (ASST-Crema) serve un bacino d’utenza di 160000 abitanti e l’Unità Operativa di Nefrologia e Dialisi soddisfa le richieste di terapia dialitica (emodialisi e dialisi peritoneale) per un numero totale di 90-100 pazienti. Il bacino d’utenza confina direttamente con la “zona rossa” (contente circa 50000 abitanti), identificata come l’origine del focolaio Covid-19 (Fig. 3).

 

Figura 3: Il punto di partenza di Covid-19 in Italia e la “zona rossa”

 

Questa situazione ha richiesto una serie di provvedimenti rapidi ed impegnativi da parte dell’Ospedale di Crema, che ha dovuto prendere in cura centinaia di pazienti Covid+ in poche settimane. Sul versante nefrologico, si è organizzata l’attività in modo da contenere la diffusione del virus, trattare i pazienti con nefropatia acuta da Covid-19 e infine garantire la continuità dialitica ai soggetti in trattamento dialitico regolare.

 

Dialisi e Covid-19

I trattamenti dialitici sono terapie salvavita per i pazienti con insufficienza renale acuta e cronica, ma rappresentano un fattore di rischio in termini di trasmissione del Covid-19, a causa di una serie di elementi tecnici e logistici, che investono i pazienti e gli operatori sanitari dedicati [412].

I rischi maggiori per i pazienti sono:

  • Periodo di stazionamento nelle sale di dialisi (in media 15 h/settimana);
  • Contiguità o stretto contatto tra i soggetti in corso di trattamento, tempi di attesa prima del trattamento in spazi chiusi, tempi di contatto nel corso di viaggi collettivi al/dal Centro dialisi;
  • Comorbidità elevata con immunodepressione secondaria alla condizione uremica, che comporta spesso uno stato di anergia, con conseguente paucisintomaticità.

I rischi per il personale sanitario sono:

  • Tempi prolungati di contatto con i pazienti in ambiente chiuso (36-48 h/settimana) e tra i componenti dell’equipe;
  • Contatti ravvicinati e fisici diretti (fasi di inizio e fine dialisi, manovre in corso di dialisi, puntura fistola artero-venosa, gestione cateteri endovascolari).

Il Centro Dialisi può considerarsi come un’unica popolazione, composta da pazienti ed operatori sanitari confinati in uno spazio “chiuso” (ad alto rischio di contatto interno) e nello stesso tempo “aperto”, con pazienti ed operatori che, ad intervalli regolari, si muovono dentro e fuori questo spazio (alto rischio di contatto esterno, rischio importato).

Al rischio clinico-epidemiologico si aggiunge quello delle risorse umane: gli operatori sanitari, in caso di infezione, devono essere sospesi dal servizio senza possibilità di sostituzione a causa della loro alta specializzazione (medici ed infermieri). Questo ha ripercussioni gravi sui carichi di lavoro dal momento che l’attività resta comunque invariata, se non addirittura aumentata (trattamenti in isolamento, manovre rallentate dalle precauzioni particolari, triage, ecc.) ed è di necessità distribuita su un numero inferiore di operatori.

Un’indagine in Lombardia rileva la situazione preoccupante per i centri dialisi di questa regione [6].

 

Materiale e metodi

Tra il 06.03.2020 ed il 15.03.2020, dopo la rilevazione di un soggetto emodializzato Covid+, sono stati sottoposti a tampone tutti i soggetti in emodialisi e tutti gli operatori dell’area di dialisi dell’Ospedale di Crema con l’obiettivo di:

  • Identificare i soggetti positivi e contagiosi, indipendentemente dalla sintomatologia. L’area di dialisi, infatti, è da considerarsi una zona ad alto rischio.
  • Separare i soggetti positivi, potenzialmente infettanti, dai negativi, in modo da ridurre la diffusione del virus in una popolazione ad altissimo rischio per co-patologie aggiunte alla condizione uremica ed elevata età media.
  • Definire, al tempo zero, la situazione di un Centro dialisi nelle fasi iniziali dell’epidemia, seguendo strettamente la situazione nel tempo, onde limitare la diffusione dell’infezione.

Pazienti ed operatori sanitari sono stati considerati soggetti potenzialmente infettati, infettanti, infettabili.

 

Soggetti in Dialisi peritoneale

Non sono stati sottoposti a tampone oro-faringeo i soggetti in dialisi peritoneale, in quanto già in una condizione di isolamento domiciliare e quindi senza i rischi aggiuntivi e specifici dei soggetti in emodialisi (spostamenti casa-ospedale). Nei due mesi di osservazione, uno solo dei 13 pazienti in dialisi peritoneale è risultato positivo al Tampone O-F in occasione del ricovero ospedaliero, non correlabile a sintomi Covid-19, a seguito dell’emodialisi. Il paziente non ha ricevuto terapia specifica per infezione Covid-19.

 

Provvedimenti per limitare la diffusione dell’infezione da Covid-19 [13]

  • Gli Operatori Covid+ sono stati sospesi dal servizio sulla base della sola positività, quindi indipendentemente dal quadro clinico;
  • Per tutti gli operatori sono stati adottati dispositivi individuali (DPI) ad alta protezione (mascherine chirurgiche, FFP2/FFP3, tute, camici idrorepellenti, occhiali, copriscarpe, guanti, copricapo) per l’assistenza di tutti i pazienti, indipendentemente dalla positività Covid-19 degli stessi. I pazienti Covid-19+ sono stati trattati in sale separate, ma non in un vero e proprio isolamento, in quanto il percorso Covid-free verso le sale dialisi è comune a quello riservato ai soggetti Covid-19+;
  • Per i Soggetti Covid-19+ necessitanti di ventilazione invasiva in UTI si sono impiegati gli attacchi per l’acqua già presenti. È stato predisposto un attacco aggiuntivo nella UO di Pneumologia, per l’emodialisi di soggetti in ventilazione non invasiva, o con indicazione ad osservazione intensiva respiratoria;
  • Triage di pazienti ed operatori prima dell’ingresso in Sala dialisi, con rilevazione della temperatura corporea (termometro digitale o ad infrarossi) e della sintomatologia;
  • Disinfezione delle mani dei pazienti prima dell’entrata in dialisi, come d’abitudine, mediante l’installazione di erogatori di disinfettante;
  • Divieto di accesso alla sala dialisi per gli accompagnatori;
  • Distribuzione di istruzioni scritte ad operatori e pazienti sulle misure da seguire a domicilio e durante i viaggi da/al Centro Dialisi, per la prevenzione della diffusione del Covid-19;
  • Nebulizzazione con perossido di idrogeno nelle sale-dialisi, oltre alla sanificazione e disinfezione particolari.

 

Rilevazione eseguite

  • Identificazione delle co-patologie

Sono state valutate nei pazienti e negli operatori le co-patologie indicate in letteratura come fattori di rischio per infezione da Coronavirus (neoplasia, diabete mellito, malattia cardiovascolare, ipertensione arteriosa, deficit immunitari, malattia respiratoria, obesità), in aggiunta alla malattia renale. È stata inserita come fattore generico di rischio anche la condizione di deficit cognitivo severo, considerando che tale condizione può rendere il soggetto meno attento alle raccomandazioni di prevenzione in senso lato. Per ognuna delle patologie elencate sopra è stato attribuito 1 punto (range del punteggio: min 1-max 9).

 

  • Tampone oro-naso-faringeo [1415]

Sono stati sottoposti a tampone oro-naso-faringeo, in un periodo di soli 10 giorni, tutti i 74 soggetti emodializzati e i 33 operatori sanitari (medici, infermieri, OTA/OSS) dell’area di dialisi, per un numero complessivo di 107 soggetti, che potremmo considerare la popolazione circoscritta di dialisi.

 

  • Determinazione qualitativa anticorpi IgM-IgG (JusCheck 2019-nCoV IgG/IgM) su pazienti Covid positivi e negativi [1617]

Al 15.04.2020, a distanza di circa 3-4 settimane (24 ± 5 giorni) dall’esecuzione del tampone oro-faringeo, sono stati testati gli anticorpi sierici con metodica qualitativa (JusCheck 2019-nCoV IgG/IgM Test rapido ACRO BIOTEC) su 68 pazienti (positivi e negativi, con l’esclusione dei deceduti e di un paziente positivo al tampone da qualche giorno) onde meglio identificare i soggetti che, pur negativi al tampone, presentassero una condizione di risposta immunologica al Covid-19 senza sintomatologia clinica.

Il test impiegato è un test immunocromatografico rapido per la rilevazione qualitativa degli anticorpi IgG ed IgM del virus 2019-nCov in campioni umani di sangue intero, siero, plasma. La scheda tecnica dichiara l’alta sensibilità e specificità del test. In particolare:

  • per le IgG, la sensibilità relativa è 100%, la specificità relativa 98% e l’accuratezza 98.6%;
  • per le IgM, la sensibilità relativa è 85%, la specificità relativa 96%, l’accuratezza 92.9%.

Il test non presenta reattività crociata con virus anti-influenza A e B, anti-RSV, anti-Adenovirus, HbsAg, anti-sifilide, anti-H. Pylori, anti-HIV, anti-HCV.

 

  • Determinazione quantitativa anticorpi sierici IgG (LIAISON SARS-CoV2 S1/S2) [1823]

La metodica è quantitativa per gli anticorpi specifici di classe IgG anti-S1 e anti-S2 in campioni di siero e plasma umano, fornendo un’indicazione della presenza di anticorpi IgG neutralizzanti diretti contro il SARS-CoV-2. Tali anticorpi non indicano che il paziente non sia contagioso e non si sa, al momento, per quanto tempo questi anticorpi rimangano rilevabili [2]. Sensibilità e specificità del test sono rispettivamente: 97.4% e 98.9%.

La glicoproteina spike (S) del coronavirus è una proteina di fusione virale di classe I presente sull’envelope esterno del virione e svolge un ruolo fondamentale nell’infezione virale, riconoscendo i recettori delle cellule ospiti e mediando la fusione delle membrane virali e cellulari. La proteina S comprende due subunità funzionali responsabili del legame con il recettore della cellula ospite (subunità S1) e della fusione della membrana che riveste il virus con quella della cellula ospite (subunità S2) [3]. La proteina spike ed il suo antigene sono il principale target antigenico per gli anticorpi neutralizzanti. I valori di riferimento espressi in AU/ml sono: Negativo <12.0; Dubbio 12.0-14.9; Positivo >=15.0.

Il tempo di conversione è un elemento chiave per stabilire la finestra di tempo appropriata per l’impiego del test sierologico. Pubblicazioni recenti indicano che la mediana per la conversione IgG è tra 9 e 14 giorni dall’inizio della malattia [4,5]. Tuttavia, dal momento che l’RNA virale può essere rilevato in pazienti dopo 20 o più giorni, la positività delle IgG non dovrebbe essere interpretata come la fine della contagiosità del soggetto. Per il momento, in mancanza di dati scientifici, non è possibile concludere se gli anticorpi neutralizzanti IgG contro SARS-CoV-2 assicurino una immunità di lungo termine verso il virus o se proteggano il soggetto da una reinfezione [6].

 

  • Determinazione quantitativa anticorpi sierici IgG (LIAISON SARS-CoV2 S1/S2) su operatori sanitari

A circa 6 settimane (41 ± 12 giorni) dall’esecuzione del tampone oro-faringeo, sono stati valutati gli anticorpi IgG sul siero di 30 Operatori, mediante il test LIAISON SARS-CoV2 S1/S2 (DiaSorin).

 

  • Determinazione quantitativa anticorpi sierici IgG (LIAISON SARS-CoV2 S1/S2) su pazienti Covid positivi e negativi

A 8-9 settimane dall’esecuzione del tampone naso-faringeo sono state determinate le IgG sul siero di 69 pazienti (59 Covid-19 negativi e 10 Covid-19 positivi).

 

Figura 4: Timeline dei controlli eseguiti su pazienti emodializzati ed operatori sanitari

 

Risultati e considerazioni

Tampone oro-naso-faringeo (TONF) per Covid-19

Le caratteristiche pazienti testati con tampone oro-faringeo erano: numero 74; età 66.28 ± 14 anni; maschi 52; femmine 22; età dialitica 3.5 ± 3 anni (dato molto disperso).

Le caratteristiche degli operatori testati con tampone oro-faringeo erano: numero 33; età 50.5 ± 10.3 anni; maschi 6; femmine 27.

Nelle Figure 6 e 7 sono indicati i dati di positività al tampone nella “popolazione del Centro Dialisi” (pazienti + infermieri + OTA/OSS + medici) in un periodo di osservazione di 61 giorni.

 

Figura 5: Tamponi oro-faringei nella “popolazione dialisi”

 

Figura 6: Risultati tampone oro-faringeo nella “popolazione dialisi”

 

Nei 107 soggetti della “popolazione dialisi”, la positività complessiva è pari al 24.2%, ben più alta della percentuale sulla popolazione generale.

Anche la percentuale di positività degli emodializzati (21.6%) è più alta della percentuale sulla popolazione generale (1.7%).

Nel sottogruppo degli operatori sanitari si arriva ad una positività del 30.3%, quindi ancora più alta di quella osservata nei pazienti emodializzati (Fig. 5 e 6). Questo dato colpisce in modo particolare, dal momento che questi soggetti non hanno co-patologie (a parte qualche iperteso) e sono notevolmente più giovani dei dializzati. Un elemento di rischio potrebbe essere rintracciato nel tempo di esposizione ambientale nelle aree di dialisi, dove un paziente staziona per 10-14 ore/settimana, gli operatori per ben 36-45 ore/settimana.

L’Ospedale di Crema, compresa l’UO di Nefrologia e Dialisi, è stato un ospedale Covid+ per quasi due mesi con l’eccezione di alcune Unità Operative (Ostetricia-ginecologia, Psichiatria).

Pur con le limitazioni metodologiche, i casi Covid-19+ nei soggetti emodializzati e negli operatori sanitari del nostro Centro risultano rispettivamente 12.7 e 17.9 volte superiori ai casi nella popolazione generale.

Dati provvisori regionali al 22.04.2020 mostravano che, dei 1401 Operatori sanitari dell’ASST-Crema, 695 (= 50%) sono stati sottoposti a tampone oro-naso-faringeo, di cui 179 (26%) sono risultati Covid+. Pertanto, la percentuale dei soggetti emodializzati Covid-19+ è anche inferiore a quella degli Operatori dell’intero ospedale (21% vs 26%).

Se il dato degli emodializzati può trovare “compatibilità” con l’età e le co-patologie, non si può dire lo stesso per quello degli Operatori sanitari dell’Area di Dialisi. Questi ultimi hanno pagato un prezzo elevato all’infezione, probabilmente per l’alto rischio costituito dai contatti stretti e estesi nel tempo, in un ambiente contemporaneamente “chiuso” ed “aperto”.

 

Ricovero ospedaliero e trattamento dei pazienti Covid+

Dei 16 pazienti Covid+, 11 sono stati ricoverati e 5 lasciati a domicilio, dopo aver fornito tutte le istruzioni relative alla prevenzione e lasciando invariati gli spostamenti tra Centro-Dialisi ed abitazione. Tra questi pazienti non ricoverati non vi è stato alcun decesso.

 

Figura 7: Outcome e terapia nei soggetti emodializzati Covid+

 

Degli 11 soggetti ricoverati, sui quali non sono state determinate le citochine infiammatorie, 10 sono stati trattati con terapia anti-retrovirale, idrossiclorochina, antibiotici ed eparina a basso peso molecolare. Di questi, 5 sono deceduti.

Non è possibile valutare l’impatto della terapia sull’outcome, a causa del piccolo campione. Si può però dire che i pazienti lasciati a domicilio hanno presentato un quadro clinico lieve e che sono guariti nel 100% dei casi senza terapia. Dei 10 pazienti ricoverati con quadro clinico di media gravità e trattati secondo le linee guida, il 50% ha superato la malattia ed il 50% è deceduto.

 

Graduazione delle co-patologie

Le co-patologie presenti nei pazienti sono mediamente in numero di 4.1 ± 1.2 mentre, negli operatori, la media è di 0.48 ± 0.66. Tra questi ultimi si rileva semplicemente qualche soggetto affetto da ipertensione arteriosa.

Il fattore co-patologie è quindi nettamente discrepante fra i due gruppi e sbilanciato a sfavore degli emodializzati, come prevedibile.

 

Determinazione anticorpi IgM-IgG (JusCheck) nei soggetti emodializzati

A distanza di circa 3-4 settimane (24 ± 5 giorni) sono stati testati gli anticorpi su tutti pazienti con metodica qualitativa JusCheck 2019-nCoV IgG/IgM Test rapido ACRO BIOTEC (si veda Fig. 8). Si è così evidenziato che tra i soggetti con tampone negativo (n. 58) solo due (3.4%) hanno presentato, a distanza di circa 4 settimane, la presenza di IgG. Pertanto, questi due soggetti dovrebbero essere considerati come casi totalmente asintomatici di infezione e con tampone “falso negativo”.

Tra i soggetti con tampone positivo (n. 9) che si sono negativizzati si sono riscontrate IgG positive nel 100% dei casi.

Le IgM sono risultate negative in tutti i pazienti con tampone negativo, mentre sono risultate positive in 4 dei 9 soggetti positivi (44.4%).

Le IgM sembrano ridursi, fino a non essere più determinabili, dopo circa tre settimane dall’inizio dell’infezione; pertanto, è anche possibile che al tempo delle determinazioni eseguite le IgM fossero già in gran parte non determinabili.

Comunque, la metodica impiegata risulta possedere una bassa specificità per l’identificazione delle IgM; tale dato non è stato ritenuto valido per altri tipi di considerazione e non sarebbe più clinicamente utile dopo la fase iniziale.

 

Figura 8: JusCheck in 67 soggetti emodializzati

 

Determinazione Ab IgG LIAISON SARS-CoV2 S1/S2 negli operatori sanitari

I soggetti con tampone positivo sviluppano IgG nell’89% dei casi; il contrario si osserva nei soggetti tampone-negativi che rivelano positività per IgG solo nel 10% dei casi e negatività nel 90%, restando quindi soggetti a rischio.

Solo due dei soggetti tampone-negativi risultano possedere IgG quindi, eventualmente, di non essere suscettibili all’infezione e non infettanti. Tali soggetti hanno probabilmente avuto contatto con il virus nel periodo “finestra” tra il tampone oro-faringeo e la determinazione delle IgG ed hanno sviluppato anticorpi, in assenza di sintomatologia; in alternativa, potrebbe trattarsi di due casi di falsi negativi al tampone O-F. Comunque, come sopra detto, non è escluso che un soggetto con IgG positive possa ancora essere infettante e ciò va chiarito ripetendo il tampone O-F. Inoltre, non è ancora stato stabilito per quanto tempo un paziente possa conservare gli anticorpi neutralizzanti e sia protetto da una reinfezione.

Complessivamente, comunque, c’è una buona corrispondenza tra tampone oro-faringeo e IgG, almeno nell’arco temporale considerato.

All’11.05.2020, la Regione Lombardia ha determinato le IgG (metodica Diasorin) su 25331 operatori sanitari, 3516 dei quali sono risultati positivi per IgG (13.9%). Tale dato conferma che l’insieme di tutti gli Operatori del nostro Centro Dialisi, con un tasso di infezione/contatto pari al 34.4% (10 positivi / 29), ha avuto un contatto/risposta all’infezione 2.5 volte superiore alla media regionale e 2.2 volte superiore a quello (15.9%) dell’intera ATS di appartenenza (ATS Valpadana).

 

Figura 9: IgG negli operatori sanitari in base al risultato del tampone

 

Determinazione Ab IgG LIAISON SARS-CoV2 S1/S2 nei soggetti emodializzati

Nei soggetti Covid-positivi, le IgG sono risultate positive (>=15 AU) nel 100% dei casi (9/9). Un solo paziente su 10 è risultato negativo, in quanto al momento del test anticorpale non aveva ancora contratto l’infezione e risultava negativo.

Nei soggetti Covid-negativi le IgG sono risultate negative (<15) nel 100% dei casi (58/58).

Anche nei pazienti si conferma la corrispondenza fra tampone O-F ed IgG.

 

Pazienti testati per IgG (n. 69) IgG pos IgG neg
Covid+ 9 0
Covid- 0 58
Tabella I

 

Confronto metodica JusCheck e Ab IgG LIAISON SARS-CoV2 S1/S2 nei soggetti emodializzati Covid+

Il siero di 9 dei 10 pazienti Covid+ è stato testato con le due metodiche, che sono risultate sovrapponibili al 100% (positività JusCheck: n. 9; positività Ab IgG LIAISON SARS-CoV2 S1/S2: n. 9).

 

Mortalità

Tra i pazienti, dei 16 soggetti positivi con malattia manifesta, 5 sono deceduti (4 maschi ed 1 femmina, 80% vs 20 %), e 11 sono guariti.

La mortalità complessiva su tutti gli emodializzati è stata5/74 = 6.7%(maschi 7.6% vs femmine 4.5%).

La mortalità tra i pazienti positivi a Covid-19 è stata 5/16 = 31% (13 maschi vs 3 femmine, 81 % vs 19%)

Non vi è stato nessun decesso tra gli operatori sanitari.

 

Andamento nel tempo dei casi di Centro

L’osservazione si è svolta sull’arco di 61 giorni, a partire dal riscontro del primo caso di positività vedi (Fig. 10).

Il valore massimo dei tamponi positivi si è raggiunto al 28° giorno, con riduzione rapida in circa 2 settimane fino all’azzeramento, in correlazione con la negativizzazione completa dei casi.

Il primo decesso si è verificato al 16° giorno. Tutti i decessi si sono conclusi nell’arco di circa 4 settimane dall’inizio dell’epidemia.

La mortalità complessiva nella popolazione degli emodializzati è alta (6.7%); ancora più alta tra i positivi (31.2%), con la concentrazione dei decessi nei primi 26 giorni.

Non si sono osservati nuovi casi Covid+ dopo il 28° giorno, rendendo il Centro Covid-free. È continuata comunque la sorveglianza clinica stretta (triage pazienti ed operatori), con le misure di massima protezione sopra indicate.

 

Figura 10: Pazienti con tampone O-F positivo e/o malattia: andamento cumulativo dei tamponi positivi (linea blu), delle conversioni negative (2 tamponi consecutivi negativi) (linea rossa) e dei soggetti deceduti (linea gialla)

 

Conclusioni

In un contesto geografico ad elevatissima prevalenza di Covid-19 (1.7/100 abitanti), gli emodializzati presentano un rischio di infezione 12.7 volte quello della popolazione locale, coerentemente con l’età dei soggetti e le co-patologie.

Gli operatori sanitari dell’Area di dialisi superano gli stessi soggetti emodializzati per positività al Covid (30.3% vs 21.6%), nonostante la minore età e la quasi assenza di co-patologie; ciò indica come l’esposizione, in termini di tempo e di contatto stretto, sia il principale fattore di rischio, rendendo stringenti le misure di prevenzione massima (DPI, disinfezione ambienti, triage pazienti ed operatori, ecc.).

L’alta letalità negli emodializzati è rappresentata dai 5 decessi (= 31% dei casi Covid-positivi) clinicamente attribuibili all’infezione, a conferma della fragilità biologica di questi soggetti; tuttavia, pur con le dovute riserve, l’effetto sulla mortalità della nostra popolazione dialitica potrà essere meglio definito su un più lungo periodo di tempo, confrontandola con la mortalità non-Covid. Ciò aiuterà a rispondere alla seguente domanda: quanti decessi sono stati accelerati dal “Covid wind”, che ha fatto contemporaneamente cadere molte foglie già destinate comunque a cadere in breve tempo?

La risposta anticorpale (qualitativa e quantitativa) nei pazienti Covid-19 positivi è adeguata, se raffrontata con quella degli operatori positivi.

La determinazione degli anticorpi integra i dati clinici e consente di meglio definire la risposta immunologica dei soggetti e la loro eventuale suscettibilità al virus; in particolare, i test quantitativi consentiranno di seguire il titolo anticorpale nel tempo, valutandone l’effetto protettivo e determinando eventuali scelte organizzative (raggruppamento di pazienti nel corso delle sedute emodialitiche, isolamento, ecc.).

Esiste una totale corrispondenza tra Tampone O-F, anticorpi qualitativi e quantitativi, ad indicare l’affidabilità di tali esami. La fase di massima criticità è durata circa 45 giorni. L’esecuzione precoce ed estesa di tamponi O-F e test immunologici ha probabilmente contribuito, dopo 128 giorni dall’individuazione del primo caso positivo, a rendere l’Area di dialisi Covid-free, senza necessità di emodialisi in isolamento.

Il rischio infettivo rimane per almeno il 78% dei pazienti (58/74) e per il 65.5% degli operatori sanitari (19/29). Per il momento non resta che continuare l’opera di contenimento dell’infezione, della diagnosi precoce e della migliore terapia.

 

 

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